Giustizia: nell’ordinamento italiano non verrà introdotto il reato di tortura, è il regime che avanza di Luigi De Magistris Il Manifesto, 15 giugno 2010 Le convenzioni internazionali e l’Onu pretendono dagli Stati l’introduzione del reato di tortura. Il governo Berlusconi, in perfetto stile autoritario, risponde con un niet: nell’ordinamento italiano non verrà introdotto. Che cos’è la tortura? È qualunque violenza o coercizione, fisica o psichica, esercitata su una persona per estorcerle una confessione o informazioni, per umiliarla, punirla o intimidirla. La tortura offende la dignità umana, produce sofferenza fisica e/o psicologica. La tortura è necessaria ai regimi, anche quelli contemporanei che evitano, fin quando possibile, l’olio di ricino, preferendo le forme di violenza morale e psicologica. La tortura è un arnese mai arrugginito che può tornare utile ad un governo che utilizza la criminalizzazione del dissenso come programma politico. La pratica della tortura appartiene a quelle forze reazionarie che stanno alla base dell’introduzione della colpa d’autore attraverso la punizione degli immigrati solo perché clandestini. La tortura può tornare utile in un momento storico in cui,non è difficile prevedere una ripresa del conflitto sociale, un ritorno alla disobbedienza civile di fronte all’abuso del diritto ed all’uso illegittimo della legge, alla nascita di una sana e pacifica ribellione sociale, ad un fermento del movimentismo di piazza. La partecipazione democratica può essere repressa anche con la tortura. Del resto, il regime considera il dissenso sovversione. La piazza è pericolosa ai padroni del pensiero unico. La devianza, invece, non è nella partecipazione democratica, ma nel governo che si pone, ormai, al di fuori dell’ordine costituzionale conducendo un disegno di annichilimento della democrazia. Al regime fa paura l’opposizione politica. Ed ecco che si riduce il Parlamento ad organo di mera ratifica dei decisioni prese in luoghi ristretti del potere. Al regime fanno paura le indagini della magistratura autonoma ed ecco che la si mette in condizioni di non nuocere per sottoporla, poi, al potere esecutivo. Come vuole la P2. Al regime fa paura la stampa indipendente perché racconta i fatti e stimola il pensiero libero; il pensiero critico fa paura al regime perché produce dissenso e questo produce mobilitazione civile. Ed ecco che si mette il bavaglio ai giornalisti. Controllato Parlamento e sottomessa magistratura ed informazione, al regime resta la paura della mobilitazione dal basso. Del popolo che si mette in movimento. Come il quarto stato. La tortura è già servita per stroncare recenti imponenti movimenti di popolo. Alla caserma Raniero di Napoli e a Bolzaneto il regime stroncò il movimento no-global con una barbarie di Stato. La violenza doveva essere esemplare perché quel movimento faceva paura. Non si temeva la parte, assolutamente minoritaria, dei manifestanti violenti; bensì quell’infinità di associazioni che partecipavano per costruire un mondo migliore, per una globalizzazione dei diritti. La violenza di stato di quei mesi fu messa in atto da un governo di centrodestra ed uno di centrosinistra. D popolo in movimento, l’alternativa politica, il protagonismo sociale, la cittadinanza attiva fa paura ai poteri. Ed i poteri forti non sono solo con Berlusconi. A Genova era presente durante la macelleria sociale anche quello che alcuni, oggi, definiscono il compagno Fini. La stessa persona che vota la fiducia alla legge bavaglio che favorisce le peggiori forme di criminalità. Quelli che vogliono il manganello per i ladri di galline e la piuma d’oca per i ladri di Stato. Genova e Napoli sono ferite ancora sanguinanti. Per tanti di noi. Soprattutto per chi ha lavorato al fianco delle forze dell’ordine, con quei veri servitori dello Stato, conoscendone le qualità professionali e la chiara sensibilità democratica. Gli appartenenti alle forze di polizia condannati per i gravissimi reati commessi a Napoli e Genova mortificano il sacrificio dei tantissimi poliziotti, carabinieri e finanzieri che, ogni giorno, servono lo Stato rischiando la vita per pochi soldi. Con il reato di tortura sarebbero stati condannati, alcuni di loro, anche per questo. Con la eventuale condanna definitiva devono essere immediatamente espulsi dai corpi di appartenenza. Molti di loro, nonostante già condannati in primo o secondo grado, continuano ad esercitare funzioni delicatissime per l’affermazione della legalità. Anche questo è il segno del regime che avanza. Giustizia: Casellati; contro i suicidi favorire vita affettiva detenuti, sindacati agenti contrari di Iaia Vantaggiato Il Manifesto, 15 giugno 2010 Si chiama Elisabetta Alberti Casellati, fa il sottosegretario alla giustizia con delega alle carceri (ma si può avere una “delega” alle carceri?) - però ai più è sconosciuta. Ciò non toglie che si conceda il lusso di liquidare con una battuta i trentuno suicidi consumatisi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane: il sovraffollamento non c’entra, nessuna equazione. Qual è allora il problema e soprattutto la soluzione? Creare delle confortevoli “celle del sesso” dove i detenuti possano avere rapporti sessuali con le proprie moglie o con le proprie fidanzate. Formazione cattolica, laurea conseguita presso la Pontificia Università Lateranense quindi prestatasi alle più laiche ragioni di Forza Italia, Casellati invece che guardare ai numeri si concentra com’è giusto sui sentimenti: “Poco si tiene conto dell’equilibrio affettivo dei detenuti, mentre io ritengo che quando uno entra in carcere debba mantenere quei legami con la famiglia, con le persone che possono aiutare ad affrontare situazioni personali di disagio”. Parole nobili contro cui però anche il Sappe insorge: “L’idea la Casellati già l’aveva avuta ma ripetuta oggi, quando i detenuti sono arrivati a quota 68mila (contro una capienza regolamentare di 43mila posti), è sufficiente a scatenare le nostre proteste”. Esternazioni estemporanei, dichiarazioni fatte senza neanche prendersi la briga di leggere gli studi fatti dall’Organizzazione mondiale della Sanità che tra suicidi e sovraffollamento - a differenza di Casellati - vede più d’una equazione. Ma non è solo l’Oms a occuparsi del caso. Solo per restare “in provincia”, l’emergenza suicidi è allo studio della Commissione di inchiesta della Camera sugli errori in campo sanitario e i disavanzi sanitari regionali. L’organismo presieduto da Leoluca Orlando (Idv) ha avviato un’inchiesta sui due ultimi casi verificatisi a Milano e Lecce, inoltrando una richiesta di relazione al capo del Dap, Franco Ionta. E per giovedì prossimo la stessa Commissione ha previsto un’audizione pubblica (Roma, 8,30, palazzo San Macuto, via del seminario 76) con i i rappresentanti del Forum nazionale del diritto alla salute delle persone private della libertà personale. Ma su Casellati - oltre al sindacato della polizia penitenziaria, all’Oms e alla Commissione guidata da Orlando - pesa anche l’imminente visita in Italia del “Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumane e degradanti”. Poche visite, quelle del Comitato che fa capo a Strasburgo, ma periodiche e mirate. Un vero gruppo di lavoro politico cui non sfugge che “la sensazione complessiva dei suicidi è riferibile sia al condizione che il sovraffollamento determina sia alla sensazione di inessenzialità che i detenuti hanno nel dibattito sulla giustizia e sulla politica”. Quello delle carceri è diventato un mondo dell’abbandono. Quanto a Casellati, provoca il Comitato, da un certo punto di vista ha anche ragione perché è vero che ci sono altri paesi europei in cui si sono registrati dati preoccupanti tanto quelli italiani. Paesi come la Francia per esempio, che hanno adottato politiche simili alle nostre: incremento dei numeri dei detenuti a fronte di una totale carenza di personale. Paesi che sulle politiche carcerarie hanno costruito un vero e proprio consenso elettorale. Ha ragione Casellati, il tasso dei suicidio dei detenuti nelle carceri europee è - secondo dati del 2007-8 - del 12,4% ogni diecimila persone. In Italia siamo all’11,1. Una favola. Che però non considera il fatto che il tasso di suicidio nelle carceri va visto anche in relazione al tasso di suicidio della popolazione che sta “fuori”. E in Italia questo tasso è particolarmente basso, 0,6 ogni diecimila persone. Sarà che “fuori” funzionano meglio le “stanze del sesso”. Sappe: sconcertati da dichiarazioni Casellati su sesso detenuti “Sono davvero sconcertato dalle esternazioni estemporanee di certi esponenti di questo Governo di centro-destra in materia penitenziaria, tanto più se Sottosegretari alla Giustizia, e mi chiedo se esse sintetizzano l’effettivo intendimento dell’esecutivo Berlusconi sull’argomento. Garantire il sesso in carcere ai detenuti dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri di chi ha responsabilità di governo della Giustizia, vista l’esplosiva situazione penitenziaria, con 68mila detenuti presenti in celle adatte per ospitarne regolarmente 43mila, con appartenenti alla Polizia penitenziaria impegnati nella prima linea delle sezioni detentive sempre più frequentemente aggrediti e feriti”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, alle dichiarazioni della Sottosegretaria alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati durante uno speciale di Rai Gr Parlamento dedicato al tema dei suicidi nei penitenziari italiani. La Sottosegretaria alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati - spiega - che con decreto del Ministro della Giustizia Alfano ha ricevuto per l’Amministrazione penitenziaria competenze ben definite relativamente alla Direzione generale delle risorse materiali dei beni e dei servizi e alla Direzione generale del bilancio e della contabilità e non quindi di indirizzo della politica penitenziaria del Paese o di gestione dei detenuti - fa notare Capece - dice che non vede equazione tra sovraffollamento e suicidi penitenziari. Si vede che ignora i pertinenti studi fatti dall’Organizzazione mondiale della Sanità proprio sui suicidi in carcere, studi che sottolineano come anche l’affollamento delle celle è un fattore che influenza i suicidi in carcere. Dovrebbe saperlo se non altro perché è stata Sottosegretaria alla Salute dal maggio 2005 al maggio 2006. Ma non solo. Il sindacalista aggiunge che la Casellati, non nuova a esternazioni del genere, ha invitato a valutare soluzioni già adottate in altri Paesi che riguardano la sfera sessuale dei detenuti. Che a fare queste dichiarazioni sia un Sottosegretario alla Giustizia che evidentemente ignora quali siano le reali priorità in materia carceraria in Italia (come ad esempio i gravi disagi connessi alla presenza oggi nelle 200 galere italiane di oltre 68mila a fronte di 43mila posti letto con una conseguente pesante assenza di posti letto nelle celle tale da costringere molti detenuti a dormire per terra) - rileva Capece - mi stupisce non poco e mi sento in dovere di tornare a chiedere al Ministro Guardasigilli Alfano se le dichiarazioni del sottosegretario rispecchiano la linea del Governo in materia carceraria. La Casellati, che va ben oltre quanto tentarono di fare, non riuscendovi, i governi e i ministri della Giustizia di centro-sinistra succedutisi negli anni passati - conclude il leader sindacale - pensa forse che si debba distogliere il già insufficiente personale di Polizia Penitenziaria dai compiti istituzionali di controllo e sicurezza in carcere per impiegarli e fare da “baby sitter” o “guardoni di Stato” al detenuto e ai suoi familiari mentre si scambiano effusioni in carcere? Crede forse, la Casellati, che il dettato costituzionale che sancisce come le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato passi anche attraverso il sesso in carcere?. Osapp: no a carceri come “case del sesso” “Siamo una categoria sfortunata noi poliziotti penitenziari, non solo perché costretti a subire una condizione come quella che si trovano a vivere ogni giorno 68 mila detenuti, ma soprattutto perché in balia di politici che come unica soluzione al problema dei suicidi ritengono siano opportune le cosiddette stanze del sesso”. Lo dice Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp che replica alle affermazioni, a suo dire “assurde”, del sottosegretario alla Giustizia Alberti Casellati, rese al Gr Parlamento sul problema dei suicidi. “Che l’affluenza dei reclusi provochi dei disastri legati alla condizione detentiva lo testimoniano i 31 morti dall’inizio di quest’anno, anche i muri lo hanno capito, che il cosiddetto Piano carceri adottato dal ministro Alfano, invece, sia non proprio sufficiente al problema del sovraffollamento lo conferma il fatto che i duemila nuovi posti fantasticati dal sottosegretario verranno rapidamente assorbiti nel giro di pochi mesi. Quelle soluzioni d’inserimento del detenuto tanto sbandierate da certi governanti si trovano altrove, e non certamente nella possibilità di trasformare i penitenziari in nuove case chiuse”. Giustizia: troppi detenuti suicidi; la Commissione Errori sanitari della Camera scrive al Dap Ansa, 15 giugno 2010 La commissione di inchiesta della Camera sugli errori in campo sanitario e i disavanzi sanitari regionali, ha avviato una inchiesta sugli ultimi due suicidi avvenuti sabato scorso nel carcere di Milano e di Lecce, inoltrando una richiesta di relazione al capo del Dap, Franco Ionta. Con questi ultimi due episodi, i suicidi in carcere salgono a 31 dall’inizio dell’anno. “Un numero talmente elevato - ha commentato il presidente della commissione Leoluca Orlando, che non può non destare preoccupazione. Per questo abbiamo avviato un filone di indagine specifico sul diritto alla salute dei detenuti, che ci ha portato in missione nel carcere di Sulmona e che ci porterà ad ispezionare altre case circondariali italiane per conoscere le diverse realtà e verificare se il diritto alla salute dei cittadini detenuti venga realmente rispettato, cos come prevede la Costituzione”. Nell’ambito di questo settore di inchiesta, giovedì prossimo è prevista, in Commissione, una specifica seduta con audizione dei rappresentanti del Forum nazionale del diritto alla salute delle persone private della libertà personale, una delle realtà associative che operano a tutela dei detenuti. L’audizione è pubblica e si terrà giovedì 17 giugno alle 8.30 a Palazzo San Macuto. Giustizia: Lega; detenuto suicida, se pedofili e mafiosi facessero la stessa cosa non sarebbe male Agi, 15 giugno 2010 “Oggi abbiamo avuto notizia che si è suicidato un mafioso, un ex 41 bis, detenuto del carcere di Catania. Certo che se altri pedofili e mafiosi facessero la stessa cosa non sarebbe affatto male. Anzi... fanno parte tutti della stessa risma”. La dichiarazione choc è di un parlamentare della maggioranza, il leghista Gianluca Buonanno, componente dell’Antimafia. Lo stesso deputato lumbard riconosce, che si tratta di “una dichiarazione forte, ma sono sicuro - aggiunge - che molti cittadini la pensano come me”. “Non più tardi di qualche giorno fa - osserva - è stato arrestato un boss mafioso che era indigente ma aveva villa con piscina etc. un patrimonio di 4 milioni di euro. Quindi può darsi che ci siano comuni che senza saperlo danno soldi a qualche indigente senza saperlo”. La riflessione passa alla proposta del Carroccio di revocare le pensioni ai condannati per mafia e terrorismo. “Si parla di crisi, di sacrifici, di tagli. Ma allora perchè - si domanda Buonanno - si erogano le pensioni ai boss mafiosi e gli si concede lo stesso trattamento di cittadini onesti, che hanno lavorato tanti anni e versato i contributi? È ora che il governo cominci a tagliare queste scandalose elargizioni, in contrasto con l’articolo 1 della nostra Costituzione, quando recita che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, quello vero, non quello con lupara, cemento o kalashnikov”. “La cosa ancora più vergognosa è che a molti mafiosi hanno sequestrato i beni e in alcuni casi - rileva - non vorrei che addirittura usufruissero dell’assegno sociale. Ci sono boss mafiosi che percepiscono la pensione sociale o comunque dell’Inps. Questi sono dei delinquenti che devono rimanere in galera, e lo Stato gli da anche dei soldi”. Giustizia: Lega; togliere pensioni ai condannati per terrorismo e criminalità e ai loro famigliari Ansa, 15 giugno 2010 Togliere il diritto al trattamento pensionistico per i condannati per atti di terrorismo e di criminalità organizzata. La proposta di legge è della Lega Nord che l’ha presentata oggi alla Camera definendola “una proposta politica forte che la Lega porterà avanti” e che potrebbe diventare un emendamento alla manovra finanziaria. La proposta di legge è composta di soli due articoli. L’art. 1 prevede la sospensione dell’erogazione di qualunque trattamento pensionistico per chi è sottoposto a misure restrittive della libertà personale per reati di terrorismo, strage o di criminalità organizzata fino alla conclusione dell’ultimo grado del processo e la perdita di ogni diritto al trattamento pensionistico per i condannati per gli stessi reati con sentenza passata in giudicato. Non solo. L’art. 2 estende la perdita del diritto a qualunque tipo di pensione anche per i familiari superstiti qualora fossero riconosciuti colpevoli di concorso negli stessi reati. “Noi come legislatori - spiega la vicepresidente della Lega alla Camera Carolina Lussana - abbiamo il dovere di intervenire per porre rimedio a questa stortura normativa, affinché le famiglie delle vittime non si sentano prese in giro e affinché i cittadini che vivono nella legalità possano continuare ad avere fiducia nelle istituzioni”. Secondo Lussana la proposta di legge introduce una “sanzione accessoria” per reati gravi ed è “completamente compatibile con il nostro ordinamento” che già prevede la limitazioni di diritti per indegnità. Secondo Massimiliano Fedriga si tratta di una proposta che in un momento difficile di crisi economica dà “un messaggio forte di giustizia sociale” ai cittadini ed è dunque una legge su cui “ci auguriamo che tutti i partiti possano convergere”. Pd: occorre una proposta ad hoc, no ad emendamenti nella manovra Niente propaganda come fa la Lega, è giusto revocare pensioni o assegni sociali soltanto a chi è stato condannato all’ergastolo per mafia o a chi è detenuto in regime di carcere duro e deve risarcire le vittime. Il Pd risponde così al Carroccio che ha proposto di cancellare pensioni o assegni sociali a tutti i condannati per terrorismo e criminalità organizzata e, se condannati per favoreggiamento o complicità, anche ai loro familiari. “E` un tema delicato quindi - affermano Laura Garavini e Giuseppe Lumia, parlamentari democratici in commissione Antimafia - non è accettabile un terreno di pura propaganda, come pare faccia la Lega. Noi stiamo già lavorato su questa materia e crediamo che sia giusto revocare pensioni o assegni sociali a detenuti ergastolani condannati per fatti di mafia o a coloro che pur non essendo condannati alla pena massima sono in regime di 41/bis e devono risarcire le vittime dei fatti per i quali sono stati giudicati. Queste proposte ci sembrano serie e fattibili, occorre lavorare in Parlamento - concludono - per definirle nei dettagli e farle diventare presto leggi”. Giustizia: due anni di annunci, ma per il piano carceri non ci sono soldi; esecutivo forse nel 2011 di Sandro Favi (Responsabile Carceri del Pd) Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2010 “Mentre si avvicina un’estate carica di tensioni e di sofferenza nelle carceri italiane, il Ministro Alfano vede naufragare le poche idee e la politica di coro respiro che ha messo in campo in questi due anni. Il programma di costruzione di “decine di nuovi istituti e di nuovi reparti carcerari”, annunciato nel 2008, autorizzato nel 2009, parzialmente finanziato nel 2010, sarà reso esecutivo, forse, come confessa il Sottosegretario Casellati, nel 2011. L’autofinanziamento imposto dal Ministro Tremonti per il reperimento delle risorse per la giustizia, compreso l’adeguamento degli organici della polizia penitenziaria, costringe il Ministro Alfano a tirare di qua e di là una coperta troppo corta, che resterà in tessitura per almeno un altro anno e mezzo o due. Anche la prudente apertura alle misure alternative è ormai superata dalla drammatica realtà dei fatti e il Governo non ha il coraggio di riconoscere che a costo zero non si va da nessuna parte. Di sovraffollamento forse non si muore, ma di abbandono, di incuria, di indifferenza, di disperazione si può morire in carcere in ogni momento e in ogni condizione. Allora il Ministro Alfano ed i suoi sottosegretari dicano parole di verità. Cosa sta succedendo e cosa vogliono fare in concreto? Le intenzioni ed i piani proposti fino a ieri non sono più credibili e spendibili né per il confronto politico, né per il sistema penitenziario che pensano di gestire”. Giustizia: gli imputati condotti in tribunale rigorosamente ammanettati, una inutile umiliazione di Miriam Mafai La Repubblica, 15 giugno 2010 Ma è davvero necessario che un imputato in attesa di giudizio venga condotto in Tribunale rigorosamente ammanettato? Questo imputato, che non è un mafioso non è un pazzo non è un paranoico assassino si chiama Fabio De Santis. È in carcere da alcune settimane, è stato provveditore alle opere pubbliche della Toscana, e, quali che siano i reati da lui commessi, è certo che non li può reiterare, ed è altrettanto certo che non tenterà di fuggire. Perché dunque esibire l’imputato in pubblico davanti alle telecamere, con i polsi in manette? C’è in questa esibizione qualcosa che turba anche noi, che non possiamo certo essere accusati di simpatia o di indulgenza verso gli uomini del “sistema” di cui anche il De Santis faceva parte. Abbiamo chiesto fin dal primo giorno e continueremo a chiedere fino alla conclusione di questa vergognosa vicenda il più rigoroso accertamento delle responsabilità. Coloro che ridevano, divertiti pensando ai futuri appalti, nelle stesse ore in cui il terremoto faceva crollare i monumenti, la Casa dello Studente, e le case dell’Aquila, coloro che ricavavano illeciti straordinari profitti da opere pubbliche facendone aumentare illecitamente il costo, coloro che hanno ingannato o tentato di ingannare fino all’ultimo la pubblica opinione gabbando per opere di massima urgenza e utilità lavori che servivano soltanto a rimpinguare il loro portafoglio, dovranno, una volta accertate le responsabilità, pagarne tutto intero il prezzo. Ma cosa c’entra tutto questo con la esibizione in pubblico delle manette ai polsi di un imputato che non aveva certo l’intenzione di fuggire? Il nostro Codice non prevede la gogna, uno strumento che andava molto di moda nel Medioevo quando i condannati o le condannate (anche le streghe, naturalmente) venivano portati al luogo del supplizio attraversando le strade delle città, fatti oggetto di lazzi e di insulti da parte del pubblico. Una usanza che durò a lungo, per lo meno fino agli anni della Rivoluzione e del Terrore nelle strade di Parigi. Qualcuno ci ha accusato, tuttavia, in queste settimane di aver fatto ricorso e di volere ancora fare ricorso ad una sorta di “gogna mediatica” a carico degli uomini del “ sistema” e dei loro sodali. La stessa critica viene rivolta a tutti i giornalisti (e sono ormai la stragrande maggioranza) che non intendono subire in silenzio il bavaglio rappresentato dalla legge sulle intercettazioni già approvata al Senato. Sarà bene, quindi, anche in questo caso essere chiari. Cercare la verità, venirne a conoscenza, e pubblicarla è da sempre non solo il compito ma l’obbligo dei giornalisti e dei giornali. A questo compito di informazione e di pubblicazione della notizia non intendiamo venire meno. Si tratti di appalti truccati, di case in tutto o in parte regalate, di viaggi o di escort offerti al potente di turno, di conti truccati, di protesi difettose vendute a un ospedale e così via. Ma cosa aggiunge alla figura ed alle possibili colpe di Fabio De Santis, già potente provveditore alle Opere Pubbliche della Toscana e quindi punto di snodo di molteplici affari e scambi di favori, cosa aggiunge alla sua figura il fatto di dover entrare in Tribunale in manette? Nulla, mi sembra. Mi chiedo anche chi abbia potuto prendere questa decisione. E perché. Un eccesso di zelo? Può darsi. Ma anche un eccesso di zelo può essere una colpa. Sappe: le polemiche scoppiano per i detenuti “eccellenti” “È regolare e legittimo che i detenuti, ancorché imputati, siano condotti con le manette durante le traduzioni. Lo prevede espressamente il regolamento: l’uso delle manette ai polsi è obbligatorio quando lo richiedono la pericolosità del soggetto o il pericolo di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione. Una valutazione di questo tipo, per altro frequentissima, giustifica l’uso delle manette, Solo in aula di udienza, il detenuto interviene libero nella persona salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze. Ci stupiscono le immancabili polemiche che accompagnano il vedere detenuti “presunti eccellenti” in manette e l’impatto mediatico di cui godono spesso queste polemiche. Tutti i giorni la stragrande maggioranza delle traduzioni di detenuti avvengono con le manette, e giustamente sottolineo, perché garantiscono ordine e sicurezza. Ma le polemiche scoppiano con gli “eccellenti”. Come se essere un qualsiasi sconosciuto, ancorché detenuto, giustificherebbe - comunque e a prescindere - l’uso delle manette”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, circa alcune polemiche odierne. Della Vedova (Pdl): scandalo sono manette non immagini “Non penso che si renda un servizio ai diritti di un indagato, impedendo di documentare il trattamento che ha subito. Nelle immagini di De Santis, lo scandalo mi pare stia nelle inutili manette ai polsi dell’indagato, non nelle riprese, come quelle trasmesse dal Tg2, che consentono di capire e di giudicare (per parte mia: molto severamente) questo spettacolo della giustizia”. Lo afferma in una nota Benedetto Della Vedova, deputato del PdL, rispondendo al Garante Privacy che aveva chiesto ai media di non mostrare in tv le immagini di persone in manette. “In caso contrario - aggiunge Della Vedova - ogni documentazione di un abuso umiliante ai danni di un indagato o di un detenuto rappresenterebbe un oltraggio ai suoi diritti. Ma se venissero proibite queste immagini, a perderci sarebbero appunto indagati e detenuti”. Giustizia: si riapre il caso del “killer delle vecchiette”, otto persone condannate ma forse innocenti di Antonio Giangrande (Associazione contro tutte le mafie) www.infooggi.it, 15 giugno 2010 Al contrario della Procura Generale di Potenza, la Procura Generale presso la Corte d’Appello di Bari ha espresso parere favorevole al giudizio di ammissione alla revisione del processo per il detenuto Vincenzo Faiuolo, condannato alla pena definitiva di 25 anni di reclusione (13 anni e 6 mesi già scontati) per l’omicidio di un’anziana della quale si è poi accusato il serial killer di anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Faiuolo, in carcere a Volterra per il delitto di Pasqua Ludovico, di 86 anni, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Egli è stato ritenuto esecutore materiale del delitto, per il quale fu processato anche il suo fratellastro, Francesco Orlandi. Questi si ritenne avesse avuto un ruolo secondario, motivo per il quale fu condannato per omicidio a 11 anni di reclusione, pena che ha interamente scontato. Entrambi hanno confessato il delitto ma tempo dopo hanno spiegato che la confessione era stata estorta con minacce e violenza degli investigatori, tesi questa che ha portato la magistratura barese ad affermare che il caso deve essere riaperto, sia alla luce delle “prove sopravvenute”, che sono ritenute “serie”, sia in virtù degli elementi di riscontro forniti da Sebai negli ultimi anni: il serial killer si è infatti accusato di aver ucciso 14 anziane tra il 1995 e il 1997, compresa Ludovico. Sebai ha così scagionato otto persone che erano state condannate negli anni per aver compiuto i diversi omicidi. I magistrati di Taranto, che finora hanno giudicato il serial killer non lo hanno ritenuto credibile, salvo per un omicidio di cui non vi era stato trovato un responsabile, perché - è il ragionamento - egli si è autoaccusato degli omicidi solo per scagionare gli otto veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. Uno di questi, Vincenzo Donvito, si è suicidato in cella a Teramo il 21 luglio 2005 dopo aver proclamato per sette anni la propria innocenza. La richiesta di revisione è stata presentata da Defilippi sulla base di una serie di elementi. Tra l’altro Faiuolo aveva confessato di aver ucciso la donna con un coltello (recuperato) che si è poi rivelato diverso da quello usato dall’assassino; ha poi spiegato di aver colpito la vittima con fendenti sferrati personalmente con la mano sinistra (perché è mancino), invece la donna è stata assassinata da un killer destrimano. Ancora: gli anelli che la donna possedeva sono stati trovati nella disponibilità di Sebai, così come un articolo di giornale che parlava del delitto. “La decisione dei giudici baresi è un successo importante perché riapre il caso Sebai. L’attenzione ora va agli otto innocenti, di cui uno si è suicidato in carcere, che sono stati condannati a complessivi 100 anni di carcere per delitti che non hanno compiuto. Il silenzio di questi otto innocenti oggi è finalmente finito”. Così l’avv. Claudio Defilippi commenta la decisione della Corte d’appello di Bari di ammettere la revisione del processo per il proprio assistito, Vincenzo Faiuolo, condannato a 25 anni di reclusione per aver ucciso un’anziana. Del delitto si è poi accusato il serial killer delle anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 46 anni. “Abbiamo trovato a Bari dei magistrati che hanno voluto vedere dentro le cose. Mi auguro - afferma Defilippi - che si possa al più presto verificare la responsabilità di un altro innocente, Giuseppe Tinelli, condannato all’ergastolo per gli omicidi di Celeste Commesatti (Palagiano, Taranto, 13 agosto 1995) e di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997), ma che da sempre si dice innocente”. “Tinelli - prosegue il legale - ha tentato di suicidarsi per due volte in carcere ingerendo candeggina. Spero che, dopo 15 anni di detenzione, possa ottenere la sospensione della pena per questi due delitti che non ha commesso”. Il legale sostiene inoltre che il giudizio di revisione per Faiuolo, per attrazione, riaprirà anche la posizione processuale dell’altro concorrente nel delitto, Francesco Orlandi, condannato a 11 anni, pena che ha interamente scontato a Trani (Bari) ed è ora libero. Delle otto persone innocenti, sei delle quali sono difese da Defilippi, le sole detenute sono Tinelli e Faiuolo. Dunque cosa è successo dal giorno in cui venne comunicato che la richiesta di revisione era stata accettata? “È successa una cosa molto grave - dice l’avvocato De Filippi. - Prima la Corte di Appello di Bari ha accettato la richiesta di revisione, ma poi mi è arrivato un provvedimento dalla Corte di Assise di Appello di Bari che non c’entra niente e che ha revocato tutto. Ora: cosa c’entra la Corte di Assise di Appello di Bari?! Questo si chiama provvedimento abnorme: cioè quando non c’entra niente! Praticamente un giudice che non c’entra niente ha fatto un provvedimento che revoca quello emesso dal giudice competente. La Corte di Assise di Appello di Bari non ha nessuna competenza in merito a questo processo”. Cioè lei sta dicendo che la Corte di Appello di Bari e la Corte di Assise di Appello di Bari sono due cose diverse e sganciate in merito a questo caso giudiziario? “Assolutamente si. È la Corte di Appello di Bari che ha la competenza del caso, non quella di Assise”. Ma allora come spiega questo provvedimento? Perché è stato fatto? “Io non lo so. Non so le ragioni per le quali sia avvenuto tutto questo. Io non so più cosa pensare perché sinceramente ogni mia mossa viene cancellata. Ogni mia mossa viene bloccata: non so cosa pensare”. Ma lei non ha nemmeno una vaga idea del perché si sia verificato questo ennesimo, improvviso intoppo al normale svolgimento del processo di Faiuolo? “Questo è il più grosso caso di errore giudiziario della storia d’Italia. Si immagini un pò se c’è gente che non lo vuole bloccare. Io non so chi sia e cosa faccia, so solo che tutte le cose che faccio mi vengono bloccate sistematicamente. Questo provvedimento qua è assolutamente abnorme, dato da un giudice non competente e che non doveva essere di competenza. Non si capisce perché questo giudice lo abbia fatto. Non si capisce niente!” Ma quindi ora che ne sarà del processo? È stato tutto “chiuso”? “Non è chiuso niente: io ho fatto ricorso in Cassazione contro questo provvedimento, perché è assolutamente abnorme. I provvedimenti abnormi sono tali per cui ci potrebbe essere una responsabilità disciplinare per il giudice che lo ha emesso. Non doveva venire fuori questo giudice, perché è assolutamente incompetente con il caso”. Come si può commentare tutto questo? “Dicendo che è una situazione paradossale, assolutamente strana. E il tutto nell’assoluta assenza di media, giornali e tv”. Quello di Vincenzo Faiuolo potrebbe essere, a tutti gli effetti, un grave caso di malagiustizia. La riapertura delle indagini e la revisione del processo, infatti, potrebbero testimoniare l’esistenza di plurimi errori giudiziari fatti dal foro competente (quello di Taranto) che all’epoca condannò Vincenzo Faiuolo ed altri con l’accusa di omicidio. Qualora tali ipotetici errori giudiziari venissero dimostrati, infatti, un gran numero di giudici e magistrati verrebbe a trovarsi in seria difficoltà poiché dovrebbe rispondere e giustificare il perché di tali errori. In più c’è da considerare che questo è un caso, complessivamente, da 100 anni di carcere: risarcire 100 anni di carcere costerebbe moltissimo allo Stato. Nonostante ciò, i Magistrati di Taranto hanno denunciato presso la Procura di Potenza il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr. Antonio Giangrande, il collegio difensivo del Sebai ed altri testimoni perché questi hanno espresso dubbi di legalità riguardo il Processo Sebai, ossia il “killer delle vecchiette”. Il reato contestato: calunnia nei confronti della difesa, per essersi permessi di contestare con atti di rito le sentenze avverse; false dichiarazioni rese a difensore nei confronti dei testimoni. In quest’ultimo caso la denuncia non è stata fatta dal difensore, ma dai magistrati. Catania: detenuto suicida col gas della bomboletta da camping, era da poco uscito dal regime di 41-bis Agi, 15 giugno 2010 Un ex detenuto al regime di 41bis, il cosiddetto carcere duro, Antonio Gaetano Di Marco, di 35 anni, si è suicidato ieri sera nell’istituto di massima sicurezza di Bicocca a Catania. L’uomo, ritenuto affiliato al clan Montagno Bozzone di Adrano, dopo avere visto la partita d’esordio dell’Italia ai campionati del mondo di calcio, è tornato in cella e si è tolto la vita soffocandosi con un busta di plastica in cui ha chiuso la testa dopo averla riempita di gas estratto dalla bomboletta che alimentava il suo fornellino da cucina. Per essere certo di non essere visto dal sistema televisivo che lo riprendeva 24 ore su 24 si è messo sotto le coperte fingendo di dormire. Di Marco, arrestato nel 2008 dai carabinieri nell’ambito di un’operazione antimafia per traffico di droga e estorsioni, era stato già condannato a 12 anni di reclusione ed era in attesa di giudizio in un processo per tentativo di omicidio. Da tempo sembra avesse dato segni di insofferenza, ma visitato da uno psichiatra non sarebbero emersi elementi di allarme. Di Marco, ex detenuto al 41 bis, da mesi era stato ammesso al circuito di alta sicurezza uno: era controllato a vista. Sul suicidio sono state avviate indagini della squadra mobile della Questura di Catania coordinate dalla locale Procura della Repubblica che ha disposto l’autopsia della vittima. Garante Sicilia: intervenire per fermare i suicidi Con quello del boss mafioso Antonio Di Marco scoperto stamattina nel carcere catanese di Bicocca salgono a 32 i suicidi negli istituti di pena italiana, “e, con l’approssimarsi della stagione estiva crescono le probabilità che si verifichino ulteriori episodi”. Lo dice il senatore del Pdl Salvo Fleres, garante per i diritti dei detenuti in Sicilia, secondo cui “occorre stabilire degli obiettivi, all’interno dell’emergenza carceri, da realizzare con immediatezza” e in particolare adeguare gli organici di polizia penitenziaria, personale medico e dell’area trattamentale, costruire nuove strutture e incrementare il ricorso alle misure alternative a quelle detentive. “Mi auguro - ha concluso Fleres - che il governo intervenga con immediatezza per frenare questo tragico elenco di decessi approvando queste misure”. Lecce: due detenuti morti in pochi giorni; struttura sovraffollata, carenze igieniche e assistenziali Corriere del Mezzogiorno, 15 giugno 2010 Quello scoperto sabato pomeriggio nella casa circondariale di Borgo San Nicola, alla periferia di Lecce, è il secondo suicidio avvenuto in pochi giorni nell’istituto di pena del capoluogo salentino. Il 29 maggio scorso, un detenuto extracomunitario di 30 anni si è impiccato con le lenzuola del suo letto, legandole alle sbarre della cella dov’era recluso per reati di droga. A dare l’allarme sono stati i suoi compagni di cella, ma quando gli agenti di polizia penitenziaria sono intervenuti, per l’uomo non c’era più nulla da fare. Sabato, a compiere questo ennesimo tragico gesto è stato invece Luigi Coluccello, che ha deciso di farla finita proprio nel giorno del suo compleanno. Erano trascorse da pochi minuti le 15 quando l’uomo, originario di Salve e che proprio sabato avrebbe compiuto 55 anni, dopo aver atteso il passaggio della ronda degli agenti penitenziari, si è legato intorno al collo una corda fatta di lacci di scarpe e si è impiccato nell’infermeria del penitenziario. Coluccello, che doveva ancora scontare circa tre anni di pena, è stato subito soccorso dai medici in servizio presso il carcere, ma all’arrivo dell’ambulanza, per lui non c’era ormai più nulla da fare. Due casi legati tra loro, non solo per una questione cronologica, ma anche perché sintomi inequivocabili di un profondo malessere che attraversa le carceri pugliesi, e in particolare quello di Lecce dove, a fronte di una capienza di 660 posti disponibili, si registra una presenza di quasi 1.400 detenuti. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, mancanza di supporto psicologico e la cronica insufficienza di personale, sono solo alcuni tra i mali che affliggono il penitenziario salentino. Nel 2008, i suicidi avvenuti nelle carceri pugliesi furono appena due, nel 2009 si registrarono tre decessi, e in questo primo scorcio del 2010 tale risultato è già stato raggiunto con il suicidio avvenuto sabato. “Il carcere di Lecce è ormai un gigante dai piedi di argilla che, pur essendo una struttura relativamente recente, è diventata un colabrodo - commenta Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) -. Appare inevitabile che, se a questa situazione esplosiva si aggiungono problematiche di carattere personale dei detenuti, il risultato non può che essere drammatico. Il Sappe ritiene che l’elenco delle vittime di un disagio non più controllabile si sia fermato a questi numeri proprio grazie al lavoro oscuro della polizia penitenziaria. In un momento così delicato appare necessario l’incremento di almeno 500 agenti, di cui 100 solo a Lecce. Altrimenti la situazione si aggraverà”. Napoli: tra i detenuti di Poggiorale, in nove in una cella; facciamo i turni anche per stare in piedi Ansa, 15 giugno 2010 Nel reparto Salerno, al carcere di Poggioreale, oggi la conta dei detenuti si è fermata a 423. Sono 68 le celle, in alcune delle quali ci vivono in nove. Tanto che Enzo si affaccia dalle grate e racconta: “Qui dobbiamo fare i turni per stare in piedi”. Oggi, nell’istituto penitenziario tra i più grandi d’Europa – 2.666 detenuti - si è recato in visita il consigliere regionale, Corrado Gabriele, e la garante dei detenuti Adriana Tocco. Hanno visitato due reparti, il Firenze e il Salerno, hanno parlato con il direttore, Cosimo Giordano. Soprattutto hanno incontrato alcuni detenuti. Il problema del sovraffollamento c’è e come. Nella cella è quasi tutto incastrato: ci sono i letti a castello, c’è qualche armadietto e sopra le conserve accatastate. E poi una piccola porta, un piccolo lavabo e lì, proprio lì, dentro quella sorta di cucina, dietro una tendina c’è il water. Niente docce, non in quel reparto. A Poggioreale, anche in estate la doccia si fa due volte alla settimana. Ma, intanto, fa caldo. “Di notte qui non si respira - racconta Enzo - Siamo nove in una cella, c’è una sola finestra e quando alle 21.30 chiudono la porta blindata qui si soffoca”. In nove in una cella, appunto: “Con un solo bagno e con uno scarico che spesso non funziona. Tutti in piedi non ci possiamo stare, stiamo stretti. Qui si fanno i turni anche per stare alzati”. Gabriele: a Poggioreale siamo a limite diritti umani “Una condizione al limite dei diritti umani”. È così che il consigliere regionale, Corrado Gabriele, descrive la sua visita, oggi, insieme al garante dei detenuti, Adriana Tocco, all’Istituto penitenziario di Poggioreale, a Napoli. “Condizioni disumane in particolar modo in alcuni padiglioni, nonostante la buona volontà e l’abnegazione delle guardie penitenziarie e di tutti i lavoratori del carcere e la grande esperienza del direttore Cosimo Giordano - riferisce Gabriele. La carenza di fondi per i servizi e per la manutenzione delle strutture e soprattutto il sovraffollamento, mettono a rischio la salute degli oltre 2.600 detenuti e rendono evidente la violazione dell’art. 27 della Costituzione in merito ai trattamenti contrari al senso di umanità e tendenti alla rieducazione del condannato”. “Nove e più detenuti in una sola cella con un piccolissimo spazio vitale e un bagno a volte non funzionante - sottolinea. Solo 2 ore negli spazi aperti per il passeggio, le altre 22 ore sono trascorse dai detenuti in una cella di 18 metri quadrati, poco più di due metri per persona, alcuni detenuti hanno gravi malattie altri sono in attesa di ricovero da molti mesi”. Gabriele, che nei prossimi mesi andrà anche nelle altre strutture carcerarie, in particolare è rimasto colpito dalla storia di Giuseppe, “un giovane che da sette mesi attende il ricovero all’ospedale Cardarelli per una semplice stenosi uretrale, costretto nei pochi metri quadrati con un catetere da quasi 200 giorni”. Da qui, il suo impegno: “Chiederò al presidente Caldoro di confermare tutte le azioni e delibere fatte in questi ultimi anni a favore dei detenuti e della struttura carceraria”. Rieti: Garante detenuti; il nuovo carcere utilizzato solo per un terzo, detenuti stipati in quattro per cella Asca, 15 giugno 2010 Un carcere all’avanguardia per oltre 300 detenuti, che potrebbe contribuire ad alleviare il problema del sovraffollamento nel Lazio, attualmente utilizzato a meno di 1/3 delle sue capacità con 78 posti attivati e già sovraffollati da oltre 100 detenuti. È questa la vicenda paradossale del nuovo carcere di Rieti che il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha denunciato al Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria Angelo Zaccagnino. La Casa circondariale di Rieti Nuovo Complesso, che si estende su un’area di 60.000 metri quadrati, ha tutte le carte in regola per essere un modello di istituto all’avanguardia visti gli spazi interni ed esterni destinati non solo ad accogliere 300 detenuti e detenute sia comuni che di alta sicurezza, ma anche idonei per attività di formazione scolastica, professionale e trattamentale. Dell’intera struttura, oggi è in funzione uno solo dei due padiglioni detentivi (la cui capienza è di circa 70 posti), che ospita oltre 100 detenuti in due sezioni di due piani; i reclusi sono stipati in celle singole o doppie che contengono quattro persone ognuna, comprese sei celle di isolamento. “In queste condizioni - ha scritto il Garante - le attività previste si svolgono nelle tre aule scelte per la didattica e in una stanza, in origine adibita ai colloqui con gli operatori, che attualmente funge anche da biblioteca visto che lo spazio per la biblioteca centrale è previsto, come altri spazi ricreativi, nel padiglione G, purtroppo inutilizzato”. Nel padiglione ancora chiuso ci sono tre reparti, ognuno dei quali ospita tre sezioni suddivise in tre piani. Il campo da calcio viene usato sporadicamente, per tornei organizzati. Il teatro è chiuso perché non in regola con le normative sulla sicurezza, e la palestra è sprovvista di attrezzature. Dal punto di vista sanitario, inoltre, gli spazi destinati agli ambulatori e alla degenza non sono mai stati aperti per carenze di organico e di strumentazioni mediche. “Questo - ha aggiunto Marroni - causa un continuo via vai di trasferimenti verso l’Ospedale di Rieti, causando destabilizzazioni tra il personale di Polizia Penitenziaria specializzato e quello addetto al normale controllo”. “La situazione del carcere di Rieti è l’emblema di come funzionano le cose nel campo della detenzione in Italia - ha detto il Garante Angiolo Marroni - Se solo funzionasse a pieno regime, le cose nel Lazio andrebbero un po’ meglio dal punto di vista del sovraffollamento e della qualità della vita in carcere. Invece, la carenza di agenti di polizia penitenziaria e di fondi fa si che una struttura modello debba funzionare ad un terzo delle sue potenzialità. Per questi motivi ho scritto al provveditore per valutare cosa si può fare per superarla positivamente questa situazione, visto anche il grado di affollamento degli istituti della regione”. Genova: Uil; detenuti protestano contro il sovrappopolamento e contro le deficienze organizzative Il Velino, 15 giugno 2010 “Una rumorosissima protesta, è stata messa in atto, ieri a tarda sera, dai detenuti ristretti nel penitenziario genovese di Marassi. Dalle 22 alle 23 in tutte le sezioni i detenuti hanno battuto stoviglie e pentolame alle grate e alle porte delle celle. La situazione è stata tenuta sotto controllo dal personale di Polizia Penitenziaria”. A darne comunicazione è il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, che sottolinea le particolari condizioni in cui versa Marassi. “I detenuti protestano contro il sovrappopolamento e contro le deficienze organizzative dell’istituto. Di certo la situazione di Marassi non può definirsi ottimale, nemmeno normale. Rispetto alla capienza regolamentare di 456 detenuti, sono ristretti circa 760 detenuti. In alcune celle sono stipate otto persone, quando al massimo potrebbero contenerne quattro. Con il caldo, poi, la tensione e l’intolleranza aumentano fino a sfociare in violenza. Il personale di Polizia Penitenziaria, infine, sconta una carenza organica di circa 150 unità dovuta anche ad una gestione cervellotica e disarticolata delle risorse umane”. Il segretario generale della Uil Pa Penitenziari presiederà il prossimo 1 luglio un’assemblea al carcere San Remo e si recherà in visita a Genova Marassi il 2 luglio. “ Credo che la situazione di Marassi rappresenti una delle criticità più manifeste e ritengo poter collocare il sistema penitenziario ligure tra i punti di caduta più evidenti del disastrato panorama nazionale. Voglio portare la mia personale vicinanza ai lavoratori di Marassi e della Liguria, ma anche approfondire alcuni aspetti di gestione del personale. Credo sia giusto approfondire le ragioni per le quali nonostante la dedizione e l’impegno dei poliziotti penitenziari della Liguria alcune Direzioni ritengano poter/dover penalizzare tale personale attraverso una revisione in peius dei giudizi annuali, che hanno dirette conseguenze sulle carriere. In questo momento così drammatico per l’intero universo penitenziario piuttosto che motivare il personale offrendo comprensione e disponibilità, persino con le classiche ‘pacche sulle spallè, si afferma un modello di gestione autoritario che deprime, offende e indigna. Questo modello di Amministrazione autoreferenziale, nemica e distante va contrastato con forza”. sulle recenti polemiche in relazione ai suicidi, all’uso delle manette ed all’affettività in carcere Sarno rende note le posizioni del sindacato. “ Ho già avuto modo di dire che la visione superficiale e minimalista del sottosegretario Casellati sui suicidi in carcere non aiuta alla comprensione del grave fenomeno. È lampante che l’aumento esponenziale delle autosoppressioni in cella è dovuto soprattutto all’ inciviltà e all’afflittività della detenzione, conseguenze dell’insostenibile sovrappopolamento. Per quanto concerne le manette, mi limito a ricordare che solo un espresso divieto delle Autorità Giudiziarie competenti può impedirne l’uso. Senza tale espresso divieto il personale ha l’obbligo di apporre la manette ai detenuti. Per quanto concerne l’affettività in carcere - conclude - ritengo che sia un aspetto da approfondire con cautela e competenza. Anche qui la Casellati sbaglia tempi e modi per porre la questione, alla stregua di un dilettante della comunicazione. Piuttosto che caratterizzarsi per una loquacità inconcludente, inviterei il sottosegretario Casellati ad un confronto con gli esperti in materia. Alcuni percorsi vanno verificati, progettati e, poi, annunciati”. Milano: mecoledì un seminario con gli operatori penitenziari e la magistratura di sorveglianza Asca, 15 giugno 2010 Per migliorare la qualità del trattamento nelle carceri è necessario incrementare la cultura e la pratica del lavoro di gruppo basato sull´integrazione delle diverse competenze. Non solo, è necessario pianificare gli interventi e condividerli con il detenuto. Da queste considerazioni, e sulla base di due precedenti progetti formativi (Pandora e Riprova-Uepe), è partito il percorso di ricercAzione e di formazione organizzato dalla Facoltà di sociologia dell’Università di Milano-Bicocca e dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione per la Lombardia e rivolto alle equipe di alcuni istituti penitenziari della Lombardia. Al percorso formativo, che si è interamente svolto presso l’Università di Milano-Bicocca, hanno partecipato circa 90 persone tra assistenti sociali, direttori, educatori, operatori di polizia penitenziaria e psicologi di nove istituiti lombardi. La ricercAzione è stata articolata in due fasi: la conoscenza delle prassi e dei metodi dell’èquipe d’osservazione e la correlazione dei prodotti dell’équipe con il procedimento di sorveglianza. Successivamente sono state elaborate delle ipotesi di perfezionamento dell’attività dell’èquipe, senza trascurare il miglioramento dei programmi di trattamento individuali. L’obiettivo del percorso formativo è stato anche quello di rafforzare la connessione dell´intervento tra l´èquipe e le deliberazioni dell´ufficio di Sorveglianza, cogliendo le sollecitazioni spesso espresse nel continuo confronto con gli operatori degli istituti. A conclusione del Percorso, l’Università di Milano-Bicocca e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione per la Lombardia, organizzano il seminario “L’attività di equipe di osservazione e trattamento” per presentare i risultati emersi a chiusura del percorso formativo. L’ingresso è libero e aperto a tutti gli interessati. Intervengono Alberto Giasanti Presidente Progest Università Milano-bicocca; Susanna Mantovani Prorettore Università degli studi di Milano-bicocca; Luigi Pagano Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria della Lombardia; Francesca Valenzi Uff. Detenuti e Trattamento; Milena Cassano Uff. Esecuzione Penale Esterna; Antonella Pagliarani Università Milano Bicocca; 10.30 Tavola rotonda: “Il miglioramento della relazione di sintesi quale risultato dell’incontro fra culture organizzative” Moderatore: Maria Cacioppo Università Milano-bicocca; Paolo Sanna Direttore C.c. Voghera; Maria Mongiello Capo Area Educativa C.c. Varese; Paola Fontana Ass. Soc. Uepe Pavia; Paola Rudilosso Psicologa C.c. Varese e Busto Arsizio; Antonello Ferrara Isp. Di Polizia Penitenziaria C.c. Cremona; 11.45 Tavola Rotonda: “Il Procedimento di sorveglianza e il trattamento individualizzato: incontri tra culture.” Moderatore: Alberto Giasanti. Partecipano: Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano; Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Brescia; Giacinto Siciliano Direttore della Casa di Reclusione di Milano-opera; Severina Panarello Direttore Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Brescia e Bergamo; 13:00 Dibattito: 14:00 Conclusioni a cura del Provveditore Regionale. “L’attività dell’equipe di osservazione e trattamento” Mercoledì 16 giugno 2010, ore 9.00 Università Bicocca Edificio U12, Auditorium - Via Vizzola 5, Milano. Stati Uniti: “detenuto modello” oggi sarà giustiziato, appello alla clemenza di Amnesty International Apcom, 15 giugno 2010 David Powell, 59 anni, sarà giustiziato oggi in Texas per un omicidio commesso 32 anni fa: un’attesa inusitatamente lunga per un condannato a morte e che incoraggia i tentativi di Amnesty International di ottenere clemenza per un uomo considerato un “prigioniero modello”. Arrestato nel 1978 quando aveva 27 anni per l’omicidio di un poliziotto, David Powell ha trascorso 32 anni nel braccio della morte dove, secondo un rapporto di Amnesty International, è divenuto “un prigioniero modello e un essere umano eccezionale”. Amnesty chiede che la sua condanna a morte venga commutata in ergastolo. Il documento cita numerose testimonianze di guardie carcerarie, di altri detenuti, di uno psicoterapeuta: tutti concordano sul fatto che Powell si sia trasformato nel pilastro del braccio della morte del carcere texano. “L’uomo che sarà giustiziato stanotte per l’omicidio di Ralph Ablanedo non è lo stesso che ha compiuto quell’assassinio”, ha scritto un poliziotto all’avvocato di David Powell. Ma intanto, l’associazione dei poliziotti di Austin, alla quale apparteneva la vittima, ha organizzato un pullman per andare ad assistere all’esecuzione di Powell nella prigione di Huntsville. David Powell potrebbe diventare il 28esimo prigioniero ad essere ucciso nelle carceri americane dall’inizio dell’anno, il 460esimo in Texas negli ultimi 30 anni. Burundi: il Governo ha concesso la grazia a 1.354 detenuti per reati “comuni” Agi, 15 giugno 2010 Il governo del Burundi ha concesso la grazia a 1.354 detenuti per reati “comuni”. Il provvedimento, ha detto il ministro della Giustizia, Andrè Ntahomvukiye, è stato adottato per migliorare le condizioni di vita della popolazione carceraria che in Burundi supera del doppio la capacità dei penitenziari. Potranno beneficiare del provvedimento i detenuti con più di 60 anni di età, coloro che soffrono di malattie incurabili (in fase avanzata), le donne in gravidanza o in fase di allattamento. Messico: sparatoria fra detenuti legati al narcotraffico ha causato la morte di almeno 29 carcerati Adnkronos, 15 giugno 2010 Una sparatoria fra detenuti legati al narcotraffico ha causato la morte di almeno 29 carcerati in una prigione a Mazatlan, nello stato orientale messicano di Sinaloa. Due poliziotti e una guardia sono rimasti feriti. I morti appartengono al cartello della droga dei Las Zetas, una gang fondata da ex poliziotti ed ex militari considerata particolarmente violenta e pericolosa. Per riportare l’ordine nel carcere è stato necesario l’intervento dell’esercito. In un primo tempo il bilancio delle vittime era di 17 morti, ma successivamente sono stati scoperti altri 11 cadaveri nel carcere e un detenuto è morto per le ferite riportate. Al termine degli scontri sono stati sequestrati due pistole e un fucile mitragliatore Ak 47. In un diverso episodio di violenza, sempre legato al narcotraffico, un gruppo di banditi di un cartello della droga ha assalito un convoglio della polizia, uccidendo 10 agenti, a Zitacuaro, nello stato di Michoacan, circa 170 chilometri a ovest di Città del Messico. Nello scontro sono morti anche narcotrafficanti, ma il loro numero non è stato reso noto.