Giustizia: sovraffollamento delle carceri scandalo mai risolto, l’estate e la paura delle rivolte di Irene Testa, Luigi Morsello e Roberto Ormanni Terra, 10 giugno 2010 Ogni estate si ripropone con particolare durezza l’emergenza nei nostri istituti penitenziari. Ecco una cronistoria che aiuta a capire mancanze ed errori e a conoscere tutti i danni provocati dall’ipocrisia della politica. Ogni estate esplode il fenomeno del sovraffollamento nelle carceri italiane e torna la paura delle rivolte. La memoria corre agli inizi degli anni 70, quando il terrorismo iniziò a flagellare l’Italia e i detenuti colsero l’occasione per richiamare l’attenzione, attraverso le sommosse, sulla necessità di nuovi diritti. Reclamavano la riforma del Regolamento carcerario del 1931 e, soprattutto, l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, pietra miliare dell’esecuzione penale nell’ordinamento giuridico italiano. Non comprendevano però (in quel periodo erano in molti a comprendere poco) che questi fenomeni in realtà aggravavano l’allarme e condizionavano il legislatore. L’ordinamento penitenziario varato nel 1975 fu così mutilato di un istituto giuridico, il più importante per riportare la calma nelle carceri: il permesso premiale. E come in una spirale, i disordini, causa della mutilazione, trovarono nuova linfa fino agli inizi degli anni 80, spegnendosi più o meno in concomitanza della sconfitta graduale del terrorismo. Nel 1986 la legge “Gozzini” richiamava in vita l’istituto del permesso premio. Da quel momento in poi le proteste dei detenuti tornarono nei limiti fisiologici e individuali. Inoltre, periodicamente venivano varate leggi di amnistia e indulto, al duplice evidente scopo di alleggerire il carico di lavoro della magistratura e dell’esecuzione penale. Appare però incomprensibile che il legislatore non sia mai intervenuto a eliminare le cause strutturali del sovraffollamento. L’amministrazione, dal canto suo, stava dando corso a un programma ventennale di costruzioni di nuovi istituti penitenziari, sulla base di progetti fotocopia, che sostituivano vecchie strutture. Questo programma fu rallentato da molti episodi di corruzione e da una gestione dei progetti che metteva in secondo piano i rilievi idrogeologici del territorio su cui i nuovi carceri venivano costruiti. In un caso, l’intero muro di cinta con garitte camminamento di ronda per la sorveglianza armata, è affondato totalmente nel terreno. Un ulteriore errore fu quello di avere abbandonato il sistema di celle ampie a più posti per privilegiare quello delle celle singole, in un malinteso rispetto delle regole minime dell’Organizzazione delle Nazioni unite del 1955, che però non stabilivano lo spazio vitale per ogni detenuto e utilizzavano ancora la parola dormitorio. Successivamente, il Comitato per la Prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) ha individuato in 7 metri quadrati per detenuto “la superficie minima auspicabile per una cella detentiva” (secondo Rapporto di attività del Cpt per il periodo dal primo gennaio al 31 dicembre 1991). I progetti di nuove carceri prevedevano 12 metri quadrati per cella singola, comprensivi dei servizi sanitari essenziali, più di quanto individuato dal Cpt. Il risultato è (dovrebbe essere) sotto gli occhi di tutti: oggi in 12 metri quadrati nelle celle vivono tre detenuti (siamo scesi ben al di sotto dei 7 metri quadri per detenuto “auspicati” nel 1991). E nei vecchi istituti penitenziari, dove i soffitti sono alti 3 metri e 20, si possono “incastellare” tre, talvolta quattro letti. Con il risultato di cadute notturne, fratture e, talvolta, morte del detenuto, come è accaduto di recente. La legge 241/2006 è stato l’ultimo provvedimento di indulto varato per far fronte al sovraffollamento. Ancora una volta le carceri si sono svuotate. Le recidive dei detenuti che beneficiarono dell’indulto, al solito, furono insignificanti, ma amplificate dal partito del “No” all’indulto, che però non proponeva nulla di significativo per eliminare le cause del sovraffollamento, salvo costruire nuove carceri. Ancora una volta però all’indulto non sono seguiti rimedi legislativi, strutturali e meditati. Leggi ce ne sono state ma hanno peggiorato la situazione. Come la Bossi-Fini, nella parte in cui ammette i respingimenti al Paese di origine in acque extraterritoriali, in base ad accordi bilaterali fra Italia e Paesi limitrofi, che impegnano le polizie a cooperare per la prevenzione dell’immigrazione clandestina. Le navi di clandestini non attraccano sul suolo italiano: l’identificazione degli aventi diritto all’asilo politico e a prestazioni di cure mediche e assistenza avviene in mare. Senza che nessuno abbia mai osservato che salire su imbarcazioni della marina militare equivale a trovarsi sul suolo italiano. Il problema delle tossicodipendenze. La legge prevede sempre la sanzione amministrativa per chi detiene sostanze stupefacenti per uso personale e ha abolito la distinzione tra “droghe leggere” e “pesanti” e ha reintrodotto limiti quantitativi per poter distinguere l’uso personale dall’uso finalizzato allo spaccio. La Cassazione però, con sentenza n. 39017 del 2008, ha chiarito che il nuovo testo della legge sugli stupefacenti non ha creato una presunzione di responsabilità penale diversa da quella “agganciata” alle tabelle del 1990. La differenza sta nel fatto che bisogna stabilire, in concreto e caso per caso, quando si tratta di detenzione personale e quando finalizzata allo spaccio. Un’analisi accurata impossibile. Come il tragico caso di Stefano Cucchi, ad esempio, dimostra in modo lampante. La situazione attuale di sovraffollamento si ricava anche dal sito del ministero della Giustizia: al 30 aprile 2010 i detenuti sono 67.444. La capienza normale è di 43.000 posti, quella massima raggiunge 63.000. La crescita è pari a circa 800 detenuti al mese in più. Nella casa circondariale di Pavia è in corso la realizzazione di un nuovo padiglione, di 350 posti, utilizzando la superficie del campo sportivo detenuti, che quindi sparisce. A questo proposito, basti pensare che già questo carcere ha una capienza di 400 posti (2 letti monoposto sovrapponibili per ogni cella); alla fine avrà una capienza di 750 posti, con la conseguenza che l’apparato tecnico-amministrativo del carcere non sarà in grado di far fronte alle necessità di 750 detenuti. Così sarà anche nelle altre carceri in cui sono in corso analoghe costruzioni: 47 per una spesa di 500 milioni di euro e la previsione di ultimazione entro la fine del 2010. È inoltre prevista la costruzione di 13 nuove carceri per una spesa di 1,1 miliardi di euro. Infine, l’assunzione di 2.000 agenti di polizia penitenziaria. Bene: nessuno osserva che al 2001 l’organico è di 44.406 unità, al 31 gennaio 2009 la forza presente è di 39.156. Dunque, le nuove assunzioni non coprono nemmeno il “turnover” naturale. La previsione è che con un tasso di incremento di ottocento detenuti al mese bel 2012 si sfiorerà la quota di 100.000 detenuti. La situazione dovrebbe far tremare le vene e i polsi al “commissario straordinario” Franco Ionta, al ministro della Giustizia e al presidente del Consiglio, che si presenterà alle elezioni politiche del 2013 con questo sfacelo. I rimedi. Della Bossi-Fini e del reato di clandestinità si è già detto. Si deve aggiungere che entrambi sono a nostro giudizio un gigantesco inganno, del tutto improduttivo di effetti, salvo quello di sovraffollare le carceri. Infatti, vi sono solo due accordi con paesi esterni all’Unione europea per il rimpatrio di detenuti stranieri, a fronte di 140 Paesi stranieri dai quali provengono. Dunque di che si sta parlando? Sarebbe piuttosto il caso di lavorare seriamente all’eliminazione dal codice penale dei circa 200 reati inutili che, pur non incidendo direttamente sull’affollamento delle carceri, rallentano il lavoro degli inquirenti e fanno crescere il numero dei detenuti in attesa di giudizio (si tratta di circa la metà del totale). Intanto, l’unico rimedio efficace e rapido è un nuovo provvedimento di indulto. È già tardi per rimediare, anche con un iter parlamentare accelerato, una corsia preferenziale e l’accordo governo-opposizione. Prima che l’indulto diventi legge dello Stato e vada a regime l’estate sarà bella che passata. Ma un conto è se i detenuti hanno la certezza del provvedimento di clemenza, un conto se tale certezza degrada al rango di semplice speranza. In tal caso, se anche quest’estate l’amministrazione penitenziaria e il governo la faranno franca, sarà un vero e proprio miracolo. Giustizia: tasso detenzione più basso della media europea, ma record della custodia cautelare di Stefano Anastasia Terra, 10 giugno 2010 Da qualche tempo, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, insiste sul fatto che ci si debba abituare all’idea che in Italia, in carcere, fisiologicamente, ci debbano stare 70.000 detenuti. Sarebbe così assicurato il rapporto di 110 detenuti ogni 100.000 abitanti, il tasso medio di detenzione nei Paesi del Consiglio d’Europa. Con questo “pragmatico” atteggiamento, a dispetto dei solenni annunci dello stesso Presidente del Consiglio, in Parlamento si discute di un provvedimento che potrebbe mandare in detenzione domiciliare sì e no 2.000 persone e il problema centrale torna a essere quello, irrisolvibile, della realizzazione di circa 30.000 posti detentivi nel bel mezzo di una crisi economica senza precedenti. Quanto siano “pragmaticamente” efficaci queste scelte lo lasciamo alle valutazioni di chi legge. Intanto, però, comparazione per comparazione, suggeriamo di prestare attenzione anche alla principale anomalia italiana nella composizione della popolazione detenuta: quasi la metà dei detenuti è in attesa di giudizio, con una percentuale doppia rispetto a quella della media europea. A dispetto dei sacri principi, che vorrebbero la custodia in carcere una misura cautelare estrema, ed estremamente limitata nel tempo, c’è chi aspetta in carcere il processo per motivi di sicurezza, chi sconta in questo modo una pena anticipata e chi viene trattenuto quel tanto che basta affinché collabori allo svolgimento delle indagini e ne risolva i buchi neri. Tra queste migliaia di persone, c’è anche Stefano Mazzitelli, ex amministratore delegato di Telecom Sparkle, detenuto da più di tre mesi nel carcere romano di Rebibbia dove, tra le altre cose, soffre di una patologia osteo-articolare non adeguatamente curata. Nonostante sia stato oggetto di un lavoro investigativo durato più di tre anni, nonostante non sia più in carica dal novembre scorso, nonostante sia fuori dall’azienda da febbraio, nonostante tre mesi di custodia in carcere, Mazzitelli - come i suoi colleghi di sventura Massimo Comito e Antonio Catanzariti - si è visto negare gli arresti domiciliari perché - sappiamo dalle cronache - dagli interrogatori resi ai pm non sarebbero emersi elementi utili per giustificare una interruzione o una attenuazione della misura cautelare. Utili a chi? Utili a cosa? Non tocca all’accusa motivare e rimotivare la sussistenza di ragioni cautelari così rilevanti da giustificare la carcerazione di un presunto innocente? Va bene che un certo “pragmatismo” istituzionale impedisce a noi “piccoli” italiani di scostarci dalle medie europee con qualche “best practice”, ma è proprio necessario coltivare e coccolare i peggiori vizi del nostro sistema giudiziario? Giustizia: Cascini (Anm); l’emergenza non si risolve con l’edilizia, ma cambiando leggi sbagliate di Susanna Marietti www.linkontro.info, 10 giugno 2010 Siamo primi in Europa per il sovraffollamento penitenziario: in poco più di 43.000 posti sono stipati 65.000 detenuti. Mai così tanti nella storia dell’Italia repubblicana. E mentre il ddl svuota-carceri viene a sua volta svuotato dal Governo ed il piano per la realizzazione di nuove galere non ha i finanziamenti per partire, con il caldo estivo cominciano le rivolte dietro le sbarre. Questa settimana a Genova e Novara, ma i nostri penitenziari sono recipienti sotto pressione pronti ad esplodere in tutta Italia. Abbiamo chiesto un parere sulle cause e sui possibili rimedi a Giuseppe Cascini, segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Come si esce dalla crisi penitenziaria? La situazione è molto complicata. Il trend di crescita della popolazione detenuta sembra ormai inarrestabile. Purtroppo è l’effetto di una legislazione securitaria, fatta per rassicurare rispetto ad una propaganda che ha creato un’immagine molto forte di insicurezza del nostro paese e, con essa, una distorsione del sistema penale. C’è un enorme numero di persone che entra in carcere inutilmente, che vi permane per un breve periodo per poi uscire, senza che sia possibile alcuna forma di trattamento, di rieducazione, di intervento su queste persone. Questo fenomeno ha costi altissimi sul piano umano, perché crea sofferenza, dolore, violazione della libertà personale, e nessun vantaggio dal punto di vista della sicurezza e della rieducazione delle persone. Occorre senz’altro un ripensamento complessivo su tutta la legislazione che dall’inizio degli anni ‘90 ad oggi ha fatto della sicurezza, e soprattutto di un’idea distorta della sicurezza, una linea politica che si è mantenuta costante negli ultimi 20 anni. Quali sono oggi le leggi che producono più carcere? La prima legge a cui si deve questo innalzamento del numero di detenuti è la legge del 1990 sugli stupefacenti, che ha portato ad un’esplosione del numero degli ingressi per reati di droga. Il secondo enorme scalino è quello delle leggi in materia di immigrazione comunque denominate, dalla Jervolino-Vassalli alla Bossi-Fini. Tutte hanno avuto l’elemento comune di trattare il fenomeno migratorio come un fenomeno criminale, con gli arresti, con il carcere e con la repressione penale. E poi sono arrivate, sul piano processuale, le leggi Cirielli sulla recidiva ed infine gli interventi del pacchetto sicurezza per limitare l’ accesso alle misure alternative anche per reati minori. Quindi noi oggi abbiamo questo paradosso: una persona condannata a tre anni per corruzione non va in carcere e può avere l’affidamento in prova al servizio sociale, invece una persona condannata a quindici giorni per un furto, solo perché recidiva, andrà direttamente in carcere a scontare questi quindici giorni. A cosa e a chi serve far scontare quindici giorni di pena a questa persona, non si capisce. In Italia abbiamo una percentuale di detenuti in custodia cautelare intorno al 50 per cento che ci pone fuori da qualsiasi parametro europeo, visto che la media nel vecchio continente si attesta intorno al 25. È un problema normativo o di prassi dei magistrati? Questo dato è legato in primo luogo alla eccessiva durata dei processi, perché è chiaro che tanto aumenta il ricorso alla carcerazione preventiva, quanto la sentenza definitiva tarda ad arrivare. Occorrerebbe fare una distinzione tra detenuti in attesa di giudizio di primo grado, circa il 21 per cento, e i detenuti che sono in custodia cautelare. Anche questo è frutto di una legislazione che vuole fare della sicurezza dichiarata un obiettivo politico e propagandistico, prevedendo l’arresto obbligatorio per una serie di reati minori e dando indicazioni non solo di carattere normativo ma anche culturale. Non dimentico che, quando qualcuno viene scarcerato o messo agli arresti domiciliari, i politici protestano contro la mancanza di certezza della pena, confondendo evidentemente il concetto di pena con il concetto di custodia cautelare. Allora è chiaro che si ha un’inversione di tendenza anche sul piano culturale. Tutti questi fattori insieme producono quell’eccesso di carcerazione preventiva che è uno dei danni gravissimi del nostro sistema penitenziario. Giustizia: ddl Alfano su detenzione domiciliare senza risorse, Commissione Camera in stallo Dire, 10 giugno 2010 Strada di nuovo in salita per il disegno di legge Alfano che concede i domiciliari a chi deve scontare un anno di pena. Il provvedimento, da settimane fermo in commissione Giustizia alla Camera per decidere se continuarne l’esame in sede legislativa (ossia, senza passaggio in aula), ha problemi di copertura. Si attendeva infatti il parere della Bilancio (arrivato) sugli emendamenti che hanno profondamente cambiato il testo originario dello svuota carceri, e che sono stati approvati dopo un’intesa tra il Guardasigilli e il ministro dell’Interno Maroni. Tra le nuove norme sponsorizzate dalla Lega, quelle che prevedono l’assunzione di 3 mila agenti di polizia e carabinieri per vigilare su chi sconterà la pena a casa. Ed è su questo che la Bilancio ha detto “no” (nel parere si chiede di sopprimere la norma). Preso atto dell’impasse sulla copertura, la commissione Giustizia oggi ha approvato all’unanimità la proposta, arrivata dal Pd, di rinviare il testo alla Bilancio affinché “riveda il parere negativo”. Insomma, si chiede un supplemento di approfondimento sulle risorse. Ma non è l’unica difficoltà per la commissione guidata da Giulia Bongiorno. Nella seduta di due giorni fa la presidente ha fatto presente che, nonostante tra i gruppi si sia registrato un ampio consenso sulla via legislativa (sono d’accordo oltre i quattro quinti dei membri in commissione), non è ancora pervenuto l’assenso del governo. L’esecutivo, tra l’altro, oggi non ha inviato nessun rappresentante per seguire i lavori del ddl. Bongiorno, come documentano i bollettini della commissione, ha dunque chiesto di verificare le intenzioni del governo e, se, alla luce del parere della Bilancio, sussistano ancora le condizioni per il trasferimento in legislativa del testo. La presidente della commissione Giustizia della Camera invita il governo a non perdere tempo (“la verifica va fatta celermente”, dice), parchè lo “svuota carceri” era stato espulso dal calendario d’aula il 17 maggio scorso, su sua richiesta (e dopo un accordo tra i gruppi in commissione), proprio in vista di un trasferimento del ddl alla sede legislativa. Bongiorno sottolinea la necessità di arrivare “quanto prima” all’approvazione del ddl Alfano sottolineando “la drammaticità nella quale versano le carceri italiane a causa di un sovraffollamento oramai intollerabile”. Quindi l’ultimatum al governo: l’ufficio di presidenza della Giustizia ha stabilito di fissare a giovedì prossimo (17 giugno) la data ultima entro cui verificare se ci sono ancora le condizioni per il trasferimento in legislativa. Bongiorno fa presente che, se quel giorno emergesse che queste condizioni non ci sono più, lei stessa chiederà al presidente della Camera, Gianfranco Fini, l’inserimento del provvedimento direttamente in aula nel calendario di giugno. Giustizia: Sappe; il caldo e il sovraffollamento porterà a rivolte negli istituti Ansa, 10 giugno 2010 “Lo avevamo detto ed oggi ne abbiamo avuto la conferma. Il caldo sta accelerando le proteste dei detenuti per la grave situazione di sovraffollamento delle carceri italiane. Poco fa è stata intercettata dal Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Genova Marassi una bottiglia, lanciata dall’esterno, che conteneva il seguente messaggio: ‘Torino, Roma, Milano, Napoli, Genova dalle 21.30 alle 23’. Ci sembrano vere e proprie “coordinate” per imminenti azioni di protesta nelle carceri di queste città”. La denuncia è di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che aggiunge che proteste già si registrano, da diversi giorni, in molti istituti di pena italiani. Una situazione, definita, “grave” e che può sfociare presto in “vere e proprie rivolte”. Secondo il sindacato degli agenti penitenziari “la situazione è ogni giorno sempre più critica a causa dell’inarrestabile sovraffollamento” quantificato in 68mila detenuti presenti per 43mila posti letto. Giustizia: Osapp; la politica ha abbandonato il carcere; siamo a un punto di non ritorno Il Velino, 10 giugno 2010 “La politica ha visibilmente abbandonato il carcere soprattutto nell’ultimo anno, sennò come polizia penitenziaria e come amministrazione non saremmo all’attuale punto di non ritorno”. Con queste parole il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci, commenta la notizia del plico minatorio contenente due proiettili indirizzato al vice capo dell’Amministrazione penitenziaria Emilio di Somma. “La solidarietà, la vicinanza e l’affetto che esprimiamo nei confronti dell’alto funzionario non ci impediscono di valutare, con rincrescimento, in quale contesto di irresponsabilità politica certi episodi si verificano. Emilio di Somma rappresenta, infatti, - prosegue il sindacalista - la continuità operativa e l’esperienza che hanno consentito di gestire e di rendere comunque funzionale l’istituzione penitenziaria, per anni, in assoluta penuria di mezzi, di risorse economiche e di personale, mentre la politica continuava a nominare a 400mila euro di indennità l’anno aggiuntive, oltre i lauti stipendi, capi del Dap che di carcere e di amministrazione pubblica non si erano mai occupati. Ma oggi - indica ancora il segretario dell’Osapp - stiamo assai peggio di sempre, non solo per il sovrappopolamento delle celle, ma anche perchè hanno tagliato risorse essenziali, quali quelle per i detenuti lavoranti, per le spese sanitarie, per i carburanti e per le indennità dei poliziotti penitenziari che, nel frattempo, diminuiscono di 800 unità l’anno senza ricambio generazionale. Per quanto ci riguarda, tra la minaccia pervenuta al vice capo del Dap, le proteste finanche legittime dei detenuti a Padova, a Genova e a Milano, i detenuti trasferiti dagli istituti della Capitale nel timore di esternazioni meno ortodosse o, ancora, i parenti dei detenuti che a Napoli-Secondigliano chiedono l’abolizione dell’ergastolo - conclude quindi Beneduci - esiste l’unico nesso di una sofferenza inarrestabile che per il carcere sconta da sempre, non chi ha la facoltà di scegliere e di legiferare nell’interesse comune e nulla fa, ma i più deboli e coloro che servono con fermezza lo Stato e le Istituzioni”. Giustizia: EveryOne; nelle carceri italiane 3mila stupri ogni anno, guardie sono conniventi Agi, 10 giugno 2010 Gli stupri e la schiavitù sessuale di cui sono vittime i detenuti più giovani è concausa almeno nel 40% dei casi di suicidio in carcere. È la denuncia di Roberto Malini, co-presidente per l’Italia di EveryOne, associazione che si occupa di diritti umani. “Lo abbiamo riscontrato attraverso le nostre consulenze psicologiche - ha spiegato Malini nel corso di KlausCondicio, il programma condotto da Klaus Davi su YouTube - che tra l’altro attestano che lo stupro colpisce la popolazione giovanile carceraria. Oltre allo stupro anale, il giovane viene costretto a praticare la fellatio e altre forme di sesso coatto. Queste ricerche attestano anche la forte tendenza all’autolesionismo, visto che molti ragazzi si tagliano braccia, gambe e petto pur di sottrarsi a tali pratiche”. EveryOne, consulente dell’Alta Corte dei Diritti Umani dell’Onu, ha denunciato lo Stato italiano per le condizioni inumane in cui versano i detenuti nelle carceri e per la condizione di schiavitù sessuale dei più giovani. “La denuncia ha sortito un primo effetto visto che - ha rivelato Malini nel corso dell’intervista a Klaus Davi - il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha rivolto il 9 febbraio scorso all’Italia ben 92 ‘raccomandazionì: si va dalla denuncia della tratta di esseri umani ai ritardi di Roma nel recepire il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura, passando per il “Pacchetto sicurezza” e la situazione delle carceri. Purtroppo il 4 giugno l’Italia ha detto no alle raccomandazioni riguardanti la tortura, mentre ha accettato quelle rivolte al sovraffollamento e alle condizioni di detenzione; tuttavia si tratta di raccomandazioni generiche che difficilmente condurranno a provvedimenti concreti”. “I casi di stupri e di schiavitù sessuale stimati nelle carceri italiane - spiega Malini - sono oltre tremila ogni anno, una cifra che corrisponde a ben il 40% di tutti gli stupri che vengono perpetrati in Italia anche grazie alla connivenza delle guardie carcerarie. I casi non vengono denunciati - continua - esiste una omertà che coinvolge tutti: guardie carcerarie e carcerati stessi, oltre che strutture mediche che non sono adibite al controllo dei sintomi come abrasioni anali o rettali. Non vengono fatte visite specifiche. I direttori, le guardie e gli educatori tollerano questo stato di cose, ritenendolo parte della pena da scontare, perché per molti di loro la prigione deve essere un inferno. Vi sono anche guardiani ed educatori - continua Malini - che provano eccitazione di fronte allo spietato sadomasochismo. Oltre a questo, esiste una omertà culturale tipicamente italiana per la quale lo stupro di una donna viene considerato gravissimo e quello di un uomo passa sotto silenzio”. “L’ultimo caso è avvenuto a San Vittore - denuncia Malini - un giovane rom di 19 anni, detenuto per un piccolo furto, è stato fin dall’inizio del soggiorno in carcere vittima di una serie di stupri, culminati con una violenza di gruppo. Per sottrarsi a questa situazione ha lottato con tutte le sue forze, fino a farsi una ventina di tagli sul corpo. Solo allora, completamente ricoperto di sangue, le guardie l’hanno spostato in un altro settore. Siamo in grado di documentare oltre 100 casi di stupro avvenuti nelle carceri italiane, che colpiscono soprattutto i giovani detenuti stranieri, molti dei quali sentiti nel corso della nostra indagine. I nostri riscontri sono stati evidenti, con nomi e cognomi. Grazie alla nostra denuncia, l’Alto Commissariato dell’Onu ha fatto alcune raccomandazioni all’Italia sullo stato di degrado delle carceri”. Cascini (Dap): contro stupri consentire a detenuti rapporti sessuali con famigliari “Gli stupri in carcere avvengono. I rischi di rapporti sessuali non volontari tra detenuti sono reali, come è alto il rischio di diffusione di gravi malattie infettive come l’Aids”. Lo ha detto il giudice Francesco Cascini, direttore dell’ufficio ispettivo presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, commentando a KlausCondicio, i dati diffusi dal Gruppo EveryOne sugli stupri in carcere Per Cascini distribuire preservativi nelle carceri “sarebbe sicuramente una cosa molto utile, prioritario però sarebbe assicurare i legami dei detenuti con i propri nuclei famigliari, consentendo loro di avere rapporti sessuali con i propri partner”, come avviene in altri Paesi. Giustizia: lettera di minacce con due proiettili indirizzata vice capo del Dap Emilio Di Somma Apcom, 10 giugno 2010 Una lettera minatoria con due proiettili indirizzata al vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Emilio Di Somma è stata intercettata dalla Digos di Roma. In due note distinte il coordinamento nazionale penitenziari della Uil-Pa e l’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria esprimono solidarietà e vicinanza a Di Somma. “Nel momento in cui l’universo penitenziario attraversa la fase più difficile della sua storia contemporanea, non saranno certo queste vigliacche intimidazioni a frenare chi è impegnato diuturnamente al superamento delle criticità - dice il segretario generale della Uil penitenziari Eugenio Sarno - In ogni caso non possiamo non auspicare che si mantenga alta la soglia dell’attenzione verso questi rigurgiti di violenza estremista che rischiano di inquinare il nostro sistema democratico”. Secondo il segretario Osapp Leo Beneduci “tra la minaccia pervenuta al vice capo del Dap, le proteste finanche legittime dei detenuti a Padova, a Genova e a Milano, i detenuti trasferiti dagli istituti della capitale nel timore di esternazioni meno ortodosse o, ancora, i parenti dei detenuti che a Napoli-Secondigliano chiedono l`abolizione dell`ergastolo esiste l`unico nesso di una sofferenza inarrestabile che per il carcere sconta da sempre, non chi ha la facoltà di scegliere e di legiferare nell`interesse comune e nulla fa, ma i più deboli e coloro che servono con fermezza lo Stato e le Istituzioni”. Sappe: affettuosa solidarietà e vicinanza per l’inquietante episodio di intimidazione La “affettuosa solidarietà e vicinanza per l’inquietante episodio di intimidazione” sono espresse dal sindacato di polizia penitenziaria Sappe al vicecapo del Dap Emilio Di Somma, destinatario di un plico contenente due proiettili e una lettera di minacce a firma degli anarchici del Fai-Coop. “L’auspicio mio personale e del sindacato che rappresento - afferma in una nota il segretario del Sappe, Donato Capece - è che presto siano identificati gli autori del vile gesto. Le rinnovo i sensi di stima e di vicinanza, nella consapevolezza che non sarà certo un deprecabile gesto, pur grave e intollerabile, ad intimidire la professionalità di un dirigente generale dello Stato serio e capace, che quotidianamente assolve ai proprio compiti con grande impegno e professionalità”. Garante Lazio: solidarietà a vicecapo Dap Di Somma Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha espresso la propria “solidarietà e vicinanza” al vicecapo del Dap Emilio Di Somma, cui è stata indirizzata una lettera di minacce con due all’interno proiettili. “L’intimidazione al vicecapo di una istituzione importante come il Dap è inquietante e ci preoccupa - ha detto Marroni -. Ormai da anni Di Somma svolge un prezioso lavoro, riconosciutogli da tutti, per rendere più umane e vivibili le carceri italiane. Indirizzare ad un servitore dello Stato un gesto tanto vile e odioso significa voler colpire chi ha sempre fatto il proprio lavoro all’insegna del dialogo, della solidarietà e del rispetto dei ruoli. Occorre mobilitarsi per evitare che gli estremismi possano tornare a dettare l’agenda delle priorità del nostro Paese”. Uilpa: minacce a Di Somma atto vile “Intendo esprimere in modo fermo e convinto, anche a nome dell’intero coordinamento, la nostra più sincera solidarietà e vicinanza al dottor Emilio Di Somma, vice capo del Dap, oggetto di un vile e inqualificabile atto di intimidazione da parte di ignoti”. Lo afferma il segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, commentando la notizia di una lettera minatoria indirizzata al vice capo del Dap, contenente proiettili. “Sono certo che questa intimidazione non scalfirà minimamente il determinato impegno del dottor Di Somma al servizio dell’istituzione penitenziaria. D’altro canto la sua pluridecennale storia - fa notare Sarno - che lo ha contraddistinto come attore protagonista nel processo di evoluzione democratica e civile del sistema carcere italiano, lo avrà temprato a ben più altre difficoltà”. Nel momento in cui l’universo penitenziario “attraversa la fase più difficile della sua storia contemporanea - conclude Sarno - non saranno certo queste vigliacche intimidazioni a frenare chi è impegnato diuturnamente al superamento delle criticità. In ogni caso non possiamo non auspicare che si mantenga alta la soglia dell’attenzione verso questi rigurgiti di violenza estremista che rischiano di inquinare il nostro sistema democratico”. Giustizia: tre donne che lottano per la verità; incontro tra Aldrovandi, Cucchi e Uva di Marco Imarisio Corriere della Sera, 10 giugno 2010 Nella foto che verrà scattata questa sera c’è già un dettaglio mancante. Presto, accanto a Patrizia, Ilaria, Lucia, ci sarà da fare spazio a Maddalena, che vive a Milano e aveva un fratello un pò disgraziato che stava scontando in Calabria una pena di 4 anni e 5 mesi di reclusione per il furto di uno zainetto. Giovanni Lorusso è morto in carcere, con una mano misteriosamente fracassata, forse suicida, forse costretto al suicidio da un trattamento che, parole del procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo, se non altro pone “enormi questioni morali”. Anche Maddalena ha scelto di dare una veste pubblica ai propri sentimenti. Ci ha messo la faccia, per dire che le modalità della morte “ristretta” di suo fratello non erano convincenti, che non voleva una verità, ma la verità, ne aveva diritto. Come ha fatto Patrizia, la mamma di Federico Aldrovandi, lo studente di Ferrara ucciso dalle botte di quattro poliziotti la notte del 25 marzo 2005. Come ha fatto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto con le ossa rotte nel reparto detentivo di un ospedale romano lo scorso 22 ottobre, come sta facendo anche Lucia Uva, convinta che le lesioni che hanno portato al decesso del fratello Pino in un ospedale di Varese non siano certo classificabili alla voce “atti di autolesionismo”. Oggi si troveranno insieme tutte e tre insieme a Varese, per la prima volta. In attesa di Maddalena e delle altre che ancora non conosciamo. Nella presentazione del convegno sui “diritti negati”, organizzato tra gli altri da Libera e Amnesty International, ci si chiede se la sicurezza è davvero un bene per tutti. La risposta, Patrizia, Ilaria e Lucia se la sono andata a prendere. Quando c’è stato da trasformarsi in Davide contro uno Stato-Golia che opponeva versioni di comodo, ambiguità e opacità alla morte di persone che aveva in custodia, sono sempre state le donne a farsi avanti, a mostrarsi per essere ascoltate. Il sociologo Luigi Manconi, che con il suo lavoro da sottosegretario alla Giustizia e poi da presidente dell’associazione “A Buon diritto” ha avuto una parte importante nel far emergere queste vicende, dice che è una tendenza partita da lontano. Pensare alle mamme del Leoncavallo, che alla fine degli anni Settanta chiedevano giustizia per Fausto e Iaio e più avanti a Daria Bonfietti, instancabile propellente del comitato per le vittime di Ustica. “Si tratta di donne che hanno rifiutato di farsi schiacciare nella dimensione privata. Sono state capaci di trovare forza nell’angolo più intimo della loro anima, dove si gestisce il dolore, e di trasformare quel dolore in una risorsa pubblica, sotto forma di conflitto contro una autorità che proponeva loro verità di comodo. Patrizia, Ilaria e Lucia sono donne che fanno politica, nel senso più alto del termine”. Manconi riconosce un momento fondante in queste nuove storie di donne alla ricerca della verità. Era il 2 gennaio 2006, quando Patrizia Aldrovandi pubblicò il primo post sul suo blog dedicato al figlio. “Non creda che sia esaltante, non creda che alleggerisca il macigno”. Oggi è una di quelle giornate così, che Patrizia è triste, una madre non può riempire il vuoto di un figlio che non c’è più con la giustizia avuta in tribunale. “Ci ho pensato anch’io a questa cose che siamo tutte donne” dice la mamma di Federico. “Forse è dovuto a un’esigenza imprescindibile, uterina, al modo che hanno le donne di essere legate alla vita e di non accettare la versione ufficiale sulla morte. Nessuna di noi cerca la solitudine. Io stessa mi affidai al blog per disperazione. Non so se adesso sta cambiando la percezione sui reati commessi dalle forze dell’ordine. Ma spero che la nostra sofferenza abbia aperto gli occhi a qualcuno”. Quando le chiesero di rendere pubbliche le foto del corpo e del volto martoriato di Stefano, Ilaria disse sì, a nome della famiglia. Anche se non le aveva mai viste, anche se era certa che suo fratello non avrebbe mai voluto apparire così. “Ma sarebbe stato il primo a volere giustizia per se stesso. E allora siamo andati avanti. Tra noi, parlo di Patrizia e di Lucia, ci sentiamo spesso. Abbiamo vissuto lo stesso dramma, ci diamo sostegno a vicenda. La chiami pure solidarietà femminile, se vuole”. Cattolica praticante, Ilaria Cucchi dice che la fede l’ha aiutata molto a gestire quella strana mescola di dolore e rabbia che sentiva dentro. “Non volevo che il male che stavo provando rimanesse fine a se stesso. Tutto ciò che ci accede ha un senso, anche per le cose brutte. E io cerco di fare in modo che la storia di Stefano possa servire ad altri”. Ilaria è convinta che non ce l’avrebbe fatta senza il precedente di Patrizia, Lucia Uva sostiene che senza Ilaria non starebbe combattendo questa battaglia per il suo Pino. È una donna semplice e consapevole. Primogenita di cinque figli, i genitori operai che da Trinitapoli, Foggia, sono emigrati sotto le Prealpi a lavorare sodo. L’ira per l’inerzia della Procura di Varese. “Ci trattano come se gli imputati fossimo noi” - si mischia alla consapevolezza di non essere più sola. “Ho seguito l’esempio di queste due amiche” dice. Il coraggio, si sa, è contagioso. Giustizia: Occhipinti; chiedo scusa a Bologna, il male che ho fatto pesa come un macigno nel cuore Il Resto del Carlino, 10 giugno 2010 Ha deciso di chiedere scusa alla città, a tutti coloro a cui ha causato dolore e sofferenza. Marino Occhipinti, 45 anni, l’ex poliziotto membro della banda della Uno bianca, condannato all’ergastolo per l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, si rivolge ai bolognesi con la sua richiesta di perdono. “Ogni tentativo, ogni gesto, ogni occasione per chiedere scusa per quel che ho fatto è linfa vitale per il mio stato d’animo - osserva - perché, anche se ora posso definirmi sereno, ci sono delle cose, dei fatti, delle tragedie che non si possono e non si devono in alcun modo cancellare”. Occhipinti è in carcere dal 1994. Avendo scontato 16 anni (cui ne vanno aggiunti 4 per buona condotta), potrebbe già chiedere la semilibertà (“ma non ne abbiamo mai neppure parlato”, ha detto alcune settimane fa il suo legale). Lavora, scrive sulla rivista interna e ha incontrato gli studenti delle scuole per raccontare il male che ha fatto. Versa un quinto dello stipendio ai familiari delle vittime. Non avrei mai pensato potesse accadere, qui, proprio nella nostra città. Due giorni fa al parco di via Larga, a due passi dal Pilastro, Nicola Boscoletto, direttore della Cooperativa Giotto che da più di 20 anni dà lavoro ai detenuti del carcere di Padova, dal palco della Festa di inizio Estate dice: “Sono molto emozionato. Quella di oggi per me è una giornata importante, storica, e mi assumo tutta la responsabilità di quello che dirò. Ci sono tanti detenuti con cui lavoriamo che arrivano da queste terre. È per il rapporto con loro, con le loro famiglie, con i loro figli e qualche famiglia delle vittime che ho deciso di venire qui. In particolare per due persone che lavorano con noi ormai da 9 anni: Alberto Savi, il più piccolo dei tre fratelli e Marino Occhipinti. Quelli della Uno bianca. So che tocco un nervo ancora scoperto ma non posso eluderlo, perché quello che è successo in questi ultimi 2 anni in carcere, mi ha permesso di andare al fondo del motivo per cui vivo”. Dalla platea si alza subito un muro di gelo, ma lui continua a raccontare di persone che vengono da più di 27 paesi del mondo: cristiani, musulmani, buddisti, persone con una domanda enorme sulla propria vita, sul senso, sul perché vale la pena stare al mondo, vivere, agire. Una domanda che mette insieme tutti, fuori e dentro il carcere. Mentre parlava avevo stampata in mente la faccia di Franco, un carcerato che lavora con lui e che ho incontrato, per caso, lo scorso anno. Condannato a 3 ergastoli, era uscito per la prima volta di prigione dopo 17 anni, per raccontare della sua vita a migliaia di ragazzi di gioventù studentesca: “fortunati voi che sguazzate nel bene, io, da quando avevo 14 anni, ho sempre navigato nel male. Se uno cresce nel bene fa fatica accorgersi del tesoro che ha. Ma se quel tesoro di bene lo trova a quarant’anni passati, come è successo a me, in prigione, anche se non ha niente di materiale, si trova ricco. Grazie agli amici della cooperativa il Signore mi ha aperto gli occhi. Capisci quanto male hai fatto e lì inizia la vera condanna, che mai vorresti finisse, perché mai potrai ripagare il male fatto. Lì capisci che sei a faccia a faccia con Cristo e cominci a chiedere perdono finché ti innamori di lui e ti basta lui per vivere, e trovi la serenità, il sorriso, il bene”. Ero rimasta profondamente colpita e per questo ero andata a trovarlo in carcere. È lì che ho avuto l’occasione di incontrare Marino: “Quando sono stato arrestato - mi ha scritto dopo la mia visita - per un paio di anni sono entrato nella cappella del carcere quasi tutti i giorni. Pregavo e chiedevo a Dio di aiutarmi. A un certo punto mi sono sentito talmente inadeguato, talmente sporco che non ci sono neanche più entrato. Adesso a Dio confido le mie debolezze, non mi vergogno più a chiedergli aiuto, solo che adesso, a differenza di prima, non lo faccio solo per me, ma quasi solo per chi, a causa mia, ancora soffre. A proposito di questo argomento, Elena, mi preme chiarirti per quale motivo venerdì ti ho chiesto scusa. Chiedendo scusa a te… faccio fatica a spiegarmi, ma… sì, con quel gesto avrei voluto, anche se in forma simbolica, che tu portassi le mie scuse alla città di Bologna, e quindi anche a chi ho fatto del male… Potrà sembrarti strano, ma ogni tentativo, ogni gesto, ogni occasione per chiedere scusa per quel che ho fatto è linfa vitale per il mio stato d’animo, perché, anche se ora posso definirmi sereno, ci sono delle cose, dei fatti, delle tragedie che non si possono e non si devono in alcun modo cancellare, minimizzare, attenuare e che, ad ogni respiro, pesano come macigni nel cuore. Se qualcuno dovesse chiedermi cos’è cambiato per me in quest’ultimo anno, risponderei che il Bene che mi hanno dimostrato Nicola e gli altri amici ha avuto il potere di sciogliere un nodo. Un nodo che impediva al mio cuore di aprirsi completamente alle persone ma soprattutto a Dio, l’Unico che può farci raggiungere la serenità”. Era di questo cambiamento di cui voleva parlarci Boscoletto. Lo ha fatto con le parole delle vittime che hanno subito violenza, le più credibili. Lo ha fatto citando la vedova Coletta che stringendosi in braccio la piccola Maria davanti alla notizia del marito ucciso a Nassirja, aveva subito detto: “se amate quelli che vi amano che merito avrete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Lo ha fatto citando la vedova Calabresi: “è come se Dio fosse venuto direttamente in mio aiuto, mi ha subito fatto fare due scelte, educare i miei figli alla voglia di vivere e non educarli mai all’odio e alla vendetta. L’odio, infatti, ti divora tutto e non ti permette di gioire di niente. Lasciare spazio a questo sentimento sarebbe stata una tragedia in più”. La natura della nostra esigenza di giustizia è senza confini, senza fondo. Niente è sufficiente a riparare il male fatto, solo un oltre, un infinito può rispondere in modo adeguato. Chiunque alzasse la mano e dicesse ‘io’ sono la risposta a questa domanda, mentirebbe. Vogliamo capire, di Pierluigi Masini Occhipinti non è un ergastolano qualunque. La Banda della Uno bianca non è stata una banda qualunque. Parliamo di poliziotti che hanno ucciso, per tanto tempo e con una violenza bestiale, spesso solo per il piacere di farlo. Parliamo di uomini dello Stato, com’era Occhipinti, che hanno tradito il loro giuramento che li poneva a nostra difesa. Hanno fatto davvero male a tanta gente e per questo devono pagare fino all’ultimo giorno di carcere, sapendo che non basterà a ripagare le vittime della loro lucida follia. Ci sono casi in cui è necessario dimenticare, buttare via la chiave e cancellare dalla memoria. Per sempre. La storia della Uno bianca è uno di quei casi. Cancellare, rimuovere. Perché non siamo pronti a ridiscuterne. Perché riteniamo un’offesa il solo fatto che qualcuno di loro, di quelli della Uno bianca, abbia l’ardire di ricucire un dialogo. Non siamo pronti ad accettare le scuse: può Bologna, può una città accettare le scuse? Tutto questo è vero ed è, senza troppi infingimenti né giri di parole, il sentire comune della gente rispetto a questa vicenda. Però è vero anche che, da cronisti e da uomini, non possiamo pensare che quella frase di Marino Occhipinti, scritta nella lettera a Elena Ugolini riportata qui accanto, sia una frase qualunque. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare: questo è un punto fermo. Ma dobbiamo prendere atto di questo messaggio. Perché se non lo considerassimo, non saremmo in grado di ribadire la distanza che passa tra noi e “quelli della Uno bianca”. La nostra diversità è nella capacità di guardare con occhi nuovi chi oggi si pone in modo diverso. Poi possiamo serenamente richiudere questa pagina di giornale e rimanere della nostra idea. Oppure cercare di capire meglio, chiedendo a Occhipinti di spiegare: visto che questo è il suo sentimento, lo scriva alla città tramite il Carlino, il giornale che la rappresenta. Lazio: Osapp; situazione esplosiva e insostenibile per gli operatori di polizia penitenziaria Ansa, 10 giugno 2010 Ancora una volta sono i sindacati a denunciare e a rivendicare interventi, ormai più che urgenti, da parte del governo. “Abbiamo speso tutte le parole possibili per lanciare l’allarme su cosa succederà negli istituti penitenziari. - ha dichiarato il segretario regionale Lazio dell’Osapp organismo rappresentativo del corpo di polizia penitenziaria - Giuseppe Proietti Consalvi - Adesso più che parlare bisognerà concentrarsi su come affrontare questa estate di proteste e rivolte nelle prigioni, nella consapevolezza di essere stati lasciati nel più completo abbandono a dover gestire, senza mezzi, uomini e risorse queste tensioni. Gli episodi violenti della settimana appena trascorsa non sono che l’avamposto dell’eruzione che ci attende”. Gli fa eco Leo Beneduci, segretario Generale dell’Osapp, che dice: “Lo sostenevamo da tempo che con l’arrivo del caldo la situazione sarebbe degenerata. Stiamo parlando di strutture dove il sovraffollamento è oltre la soglia di tollerabilità.” Quinti chiarisce che mensilmente fanno il loro ingresso negli istituti penitenziari circa 800 detenuti “Ma se anche fossero 500 servirebbero comunque misure deflattive. Aver voluto stralciare dal ddl Alfano la parte che conteneva “la messa alla prova”, è stato un errore molto grave.” Servono provvedimenti urgenti e per il sindacalista la priorità deve essere data “all’assunzione straordinaria di almeno duemila agenti di polizia penitenziaria.” Piemonte: il Provveditore alle carceri restituisce “assegno di solidarietà” raccolto dall’Osapp Apcom, 10 giugno 2010 Il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte e Valle d’Aosta, Aldo Fabozzi, ha restituito all’Osapp il primo assegno da 100 euro che il sindacato dei poliziotti ha raccolto dopo aver lanciato giorni fa un appello alla cittadinanza “per aiutare la polizia senza risorse né mezzi”. Motivo del rigetto, è che “l’assegno non è richiesto”. Il 7 giugno l’Osapp aveva inviato al dipartimento e al ministro della giustizia Alfano una lettera in cui denunciava “il totale sfascio e abbandono organizzativo e gestionale degli istituti del Piemonte e della Valle d’Aosta”. Allegando l’assegno, l’Osapp ringraziava l’associazione che lo aveva inviato, “Caino non tocchi mai più Abele” e Piero Rista, vicepresidente Confederazione nazionale artigiani, che aveva dichiarato di concedere a titolo gratuito una pre-revisione di tutti gli automezzi del parco auto di Torino. L’appello era stato rivolto, oltre che a cittadini comuni e artigiani, anche “a tutte le aziende municipalizzate del trasporto pubblico, le cooperative i taxi delle città per concorrere con i propri automezzi a dare manforte”. Firenze: protesta dei detenuti di Sollicciano contro le pessime condizioni di vita Ansa, 10 giugno 2010 Eleuterio Grieco, coordinatore provinciale della Uil Pa penitenziari, ha spiegato in una nota che “ieri fino a tarda notte i detenuti hanno battuto stoviglie e pentole contro le grate delle celle”. Protesta dei detenuti, ieri notte, nel carcere di Sollicciano: stoviglie contro le grate per denunciare le condizioni di vita nel carcere fiorentino, nel quale sono recluse circa 980 persone a fronte di un numero regolamentare che è di quasi la metà. Eleuterio Grieco, coordinatore provinciale della Uil Pa penitenziari, ha spiegato in una nota che “ieri fino a tarda notte i detenuti hanno battuto stoviglie e pentole contro le grate delle celle”. Oggi si è recato al carcere di Sollicciano Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, che ha affermato: “Ho parlato, separatamente, con il direttore del carcere Oreste Cacurri e con il comandante della polizia penitenziaria, Francesco Salemi: entrambi mi hanno detto che è stata una protesta di una ventina di minuti”. Per il Garante, tuttavia, “è il segnale anche della delusione dei detenuti: in un anno non c’è stato nessun provvedimento effettivo per migliorare le cose”. Poi, in merito alle condizioni di vita nel carcere, ha ribadito la volontà di “offrire una via ai detenuti” attraverso “un reclamo al magistrato di sorveglianza”. “Siamo al paradosso - ha infine aggiunto Corleone: Empoli, destinato ai trans, non apre e tra pochi giorni il carcere di Arezzo chiude per ristrutturazione: qui ci sono circa 100 detenuti, dove andranno? I lavori sono necessari, ma è il momento giusto per farli? Su questo, da parte dell’amministrazione penitenziaria, non c’è stato confronto”. Torino: agente aggredita da una detenuta, la solidarietà del Sappe Adnkronos, 10 giugno 2010 Il Sappe esprime solidarietà all’agente di polizia penitenziaria aggredita da una detenuta nel carcere di Torino. “Vogliamo per prima cosa - afferma Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe - esprimere la nostra solidarietà e la nostra vicinanza alla Sovrintendente di Polizia Penitenziaria di Torino aggredita da una detenuta italiana nella sezione femminile del Lo Russo - Cotugno. La collega, nonostante vittima di un’aggressione violenta e proditoria da parte di una detenuta non nuova ad analoghi gravi episodi, è riuscita a contenerla e ad impedire che la situazione degenerasse”. “Ma l’ennesima aggressione in un carcere del Piemonte ad appartenenti alla Polizia penitenziaria non può rimanere senza conseguenze. È davvero troppo. Dove sono le istituzioni penitenziarie regionali e nazionali? Cosa pensano di fare per tutelare gli agenti di Torino e del Piemonte? Di cos’altro hanno bisogno per intervenire?”. “Per ora - sottolinea in una nota il Sappe - ci sembra che le Autorità amministrative ma anche quelle politiche si fanno scudo della drammatica situazione penitenziaria attraverso il senso di responsabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria; ma queste sono condizioni di logoramento che perdurano da mesi e continueranno a pesare sulle 39 mila persone in divisa per molti mesi ancora se non la si smette di nascondere la testa sotto la sabbia. In Piemonte ci sono 13 penitenziari con oltre 5mila detenuti presenti, di cui oltre il 55% sono quelli stranieri - a fronte di circa 3.400 posti letto e ben 1.000 Agenti di Polizia in meno nei vari Reparti”. “I poliziotti penitenziari del Piemonte - conclude Capece - si sentono abbandonati da un’Amministrazione penitenziaria regionale sorda e indifferente ai nostri problemi. Non accettiamo più offese, insulti, aggressioni dai detenuti ma neppure l’indifferenza della politica ai nostri problemi. Ci viene riservato un trattamento indegno per degli appartenenti ad un Corpo di Polizia dello Stato chiamati a svolgere quotidianamente un duro e difficile lavoro, costantemente sotto organico!”. Piacenza: interrogazione bipartisan ad Alfano sulle condizione del carcere delle Novate Piacenza Sera, 10 giugno 2010 Carcere di Piacenza, i parlamentari piacentini interrogano il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Il testo sottoscritto nei giorni scorsi dagli onorevoli Paola De Micheli, Tommaso Foti, Massimo Polledri, Maurizio Migliavacca chiede se il governo sia a conoscenza della grave situazione manutentiva, organizzativa e igienica in cui versa la Casa Circondariale di Piacenza e se il Ministro intenda intervenire, e in quali tempi, per lo stanziamento risorse e personale tali da superare o, quantomeno, attenuare le numerose criticità presenti nella struttura. Nell’interrogazione si fanno presente al ministro alcuni dati emblematici della situazione di emergenza che sta vivendo il carcere delle Novate. Ad oggi, i detenuti presenti nella Casa Circondariale di Piacenza sono 420, a fronte di una capienza regolamentare di 178 detenuti e di una capienza “tollerabile” di 346 detenuti, come stabilito dalle tabelle predisposte dalla Sezione Statistica dell’Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Formativo Automatizzato (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). In molte celle - della grandezza media di circa 9 metri quadrati - sono presenti fino a 3 detenuti. L’organico degli agenti penitenziari è inoltre assolutamente sottodimensionato rispetto alle necessità: a fronte degli attuali 420 detenuti, infatti, gli agenti in pianta organica (datata 2001) sono 179; è stata di recente richiesta l’integrazione dell’organico con una trentina di nuovi agenti, anche se, per ammissione dello stesso Provveditore Regionale, nella Casa Circondariale di Piacenza, per il rispetto degli accordi contrattuali, servirebbero dagli 80 ai 90 nuovi agenti. Tale sottodimensionamento dell’organico rende impossibile ogni attività di socializzazione dei detenuti, per cui talune strutture, seppur presenti, restano completamente inutilizzate. Per ciò che riguarda la funzionalità dei locali, la Casa Circondariale di Piacenza presenta altresì carenze e compromissioni. Per queste ed altre ragioni i parlamentari sollecitano il Ministro a prendere misure urgenti. Viterbo: sulla situazione del carcere di Mammagialla l’on. Marini interroga il ministro Alfano www.tusciaweb.it, 10 giugno 2010 La situazione della casa Circondariale di Viterbo posta all’attenzione del Ministro della Giustizia Angelino Alfano da Giulio Marini con un’interrogazione a risposta scritta presentata in commissione. Una situazione in procinto di diventare drammatica a causa dei problemi di sovraffollamento e di altre inefficienze di gestione determinate dalle assegnazioni delle risorse verso la periferia. “L’istituto della casa Circondariale di Viterbo - ha ricordato Marini nella sua interrogazione - può essere considerato, per importanza, il terzo carcere laziale con una presenza di circa 700 detenuti tra i quali 50 in regime di 41 bis, 100 in Alta Sicurezza, 40 Protetti. La forza del locale Reparto di Polizia Penitenziaria - prosegue Marini - è attualmente di 360 unità a fronte delle 540 previste dalla pianta organica (non conteggiando le 33 unità necessarie all’apertura del Reparto di Medicina Protetta presso l’ospedale di “Belcolle” - Viterbo, avvenuta nel 2005, in tempo successivo alla previsione normativa per l’organico del D.M. 2002 e la prospettiva di 3 unità del ruolo dei Commissari avvenuta anch’essa post 200)”. Marini evidenzia quindi una “carenza del 30 % con ben 180 unità mancanti secondo quanto recriminato dalle sigle sindacali”. Una situazione critica, dunque, a fronte della quale “l’unico provvedimento preso ad oggi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - sottolinea Marini - per colmare la grave carenza di organico, come si apprende da fonti sindacali, è stato l’invio in missione di 12 unità di Polizia Penitenziaria per il solo periodo compreso tra il 12.05.10 e il 30.06.10 (data che coincide proprio con l’inizio del piano ferie). Da fonti sindacali si apprende che il monte ore per il lavoro straordinario assegnato all’Istituto è di 35.000 ore per l’anno 2010. È tutt’ora in atto uno stato di agitazione delle sigle sindacali locali che ha visto, tra l’altro, diverse manifestazioni di protesta poste in essere”. Un quadro, dunque, prossimo all’emergenza in riferimento al quale Marini ha posto al Ministro Alfano una serie di puntuali domande volte ad accertare gli elementi maggiormente critici della situazione. Nell’interrogzione Marini chiede infatti al Ministro se “risponda al vero che negli ultimi tre anni la Casa Circondariale di Viterbo abbia perso circa 50 unità di Polizia Penitenziaria per pensionamento o riforma totale a causa di patologie per servizio e le stesse non siano mai state reintegrate, se, come appreso da fonti sindacali, dopo un primo piano di mobilità previsto dal Dipartimento dell’Amm.ne Penitenziaria, che prevedeva l’assegnazione di 39 Agenti di Polizia Penitenziaria, ne abbia fatto seguito un secondo con la previsione di 15 unità, per poi lasciare il posto addirittura ad un terzo che ne prevede 12” chiedendo di conoscere “nel caso in cui tale decremento fosse accertato, le ragioni della diminuzione delle risorse umane destinate al carcere di Viterbo”. E le disfunzioni della carenza di organico potrebbero ulteriormente accentuarsi di fronte ad una eventuale ampliamento della struttura esistente. Nella stessa interrogazione Marini chiede al Ministro se “nonostante le gravi carenze di organico del Reparto di Polizia Penitenziaria di Viterbo, sia prevista a breve, l’apertura della sezione IV piano lato “D” (destinata ad ospitare 50 detenuti in Alta Sicurezza) e la riapertura delle officine di falegnameria e sartoria all’interno del Reparto delle lavorazioni, tutt’ora presidiato da un insufficiente nucleo di vigilanza”. E ancora “se risultino spesso disattivate, malgrado la presenza di detenuti 41 bis ed Alta Sicurezza, le postazioni di sentinella sul muro di cinta e se lo stesso sia sprovvisto di un idoneo impianto tecnologico anti-intrusione e video sorveglianza”. In caso affermativo Marini chiede “quali siano gli interventi strutturali per la dotazione di un sistema anti scavalcamento, idoneo a supportare le attività di vigilanza della Polizia Penitenziaria ed a tutelare la sicurezza della struttura e dell’intera cittadinanza”. L’elenco delle problematiche è ancora lungo. Marini chiede conferma di quanto lamentato dalle sigle sindacali per cui risulterebbe “una elevata concentrazione di detenuti trasferiti da altri penitenziari della regione e del territorio nazionale, per motivi di ordine e sicurezza, ovvero i soggetti che più di altri creano tensioni all’interno dei penitenziari (spesso detenuti dediti all’introduzione in carcere di sostanze stupefacenti o comunque protagonisti di aggressioni ad altri detenuti) e quindi necessitano di maggiori controlli ergo una maggiore presenza di personale di Polizia Penitenziaria ed Educatori”. L’interrogazione presentata da Marini punta ad approfondire ancora altri aspetti. In particolare il deputato del Pdl chiede se “risponda al vero che nonostante le continue richieste di sfollamento, il Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria non prenda iniziative finalizzate a riportare alla normalità, situazioni specifiche, che rischiano di diventare esplosive con il passare dei giorni, tanto da risultare, come si prende atto da lamentele sindacali, che sovente la sezione destinata ai Nuovi Giunti ed all’Isolamento sia piena con la conseguenza che, gli ultimi arrivati stiano per diverso tempo nella sezione, priva tra l’altro degli spazi trattamentali (si pensi all’importanza per un detenuto della sala per la socialità o il passeggio in comune), ed invece i detenuti sanzionati con l’esclusione delle attività in comune, a norma dell’Ordinamento Penitenziario, non possano scontare la sanzione per mancanza di celle singole rimanendo in sezione, in uno stato di impunità che può comportare gravi ricadute dal lato della sicurezza; se, come riferito dalle medesime fonti sindacali, siano in aumento a causa delle sproporzioni tra detenuti etero-aggressivi e personale di Polizia Penitenziaria, casi di aggressioni a danno degli stessi Agenti di Polizia Penitenziaria. Avendo acquisito dati che attestano una abnorme presenza, tra i detenuti ristretti nella Casa Circondariale, di soggetti affetti da gravi patologie (430/440 in varie terapie, 12 hiv positivi, 175 tossicodipendenti, 18 terapie metadoniche,80 HCV positivi, 21 terapie anti-retrovirale, 22 diabetici, 75 tra cardiopatici ed ipertesi e ben 230 terapie psichiatriche) - continua Marini - se siano previste da parte dell’ A.U.S.L. di Viterbo, misure organizzative idonee a fronteggiare in modo efficace i bisogni di diagnosi, cura ed assistenza in un quadro a dir poco allarmante; se risponda al vero, secondo quanto lamentato dalle sigle sindacali, il fatto che nella ripartizione del monte ore per il lavoro straordinario, vi sia stata una grave sottovalutazione del fabbisogno dell’Istituto viterbese in rapporto ad altre realtà della regione Lazio che, pur avendo meno detenuti e meno personale amministrato, hanno ottenuto in proporzione molte più ore da parte del Provveditorato; se sia vero che addirittura parte dell’esiguo monte ore assegnato venga assorbito, in misura pari al 10%, da servizi svolti dal Nucleo Traduzioni e Piantonamenti di Viterbo, per il piantonamento di detenuti ristretti in Istituti romani presso il Palazzo di Giustizia di Roma. Se per tutto ciò sia prevista un’integrazione del monte ore che tenga conto delle sperequazioni iniziali e sostenga la grave carenza di uomini che affligge il carcere viterbese; se, visto che nell’anno 2008 operavano nell’Istituto, nell’Area del Trattamento, un capo Area e cinque Educatori ed attualmente operano un Capoarea e tre operatori (rapporto di 1 a 170 detenuti), siano previste integrazioni di personale dell’Area del Trattamento idonee a sanare una situazione manifestamente inadeguata ove si tenga conto dell’ elevata concentrazione di detenuti tossicodipendenti e psichiatrici, con alto rischio di suicidio; quali iniziative adotti la Direzione dell’Istituto per fronteggiare le attuali criticità e migliorare il benessere del personale, stante anche la grave problematica del crescente numero di suicidi da parte di appartenenti del Corpo di Polizia Penitenziaria”. Livorno: le orate di Gorgona in vendita sui banchi pescheria dei supermercati Unicoop Il Tirreno, 10 giugno 2010 La scorsa estate si sono guadagnate servizi sulla stampa, reportage fotografici, tanta curiosità e ottime vendite. Sono le orate di Gorgona, allevate a mare aperto dai detenuti della colonia agricola penitenziaria dell’isola di fronte a Livorno. Un progetto unico nel suo genere, nato con la collaborazione del Comune di Livorno e del dipartimento di biologia marina, che nel corso dell’estate 2009 ha portato sui banchi pescheria dei supermercati Unicoop Tirreno pesci allevati, ma con tutte le caratteristiche del pescato da altura. Da questa settimana le orate saranno di nuovo disponibili presso dieci punti vendita Coop nelle province di Livorno e Grosseto. I supermercati dove si potranno acquistare i pesci della colonia penale sono quelli di Portoferraio, Livorno-La Rosa, Livorno-Ipercoop Fonti del Corallo, Piombino-Salivoli, Piombino-Via Gori, Venturina, Cecina, Rosignano, San Vincenzo, Follonica. Pesci ottimi, provenienti dalle acque incontaminate dell’Isola - che fa parte del Parco Arcipelago Toscano - nutriti con mangimi biologici (di origine non animale, no Ogm e privi di antibiotici) pescati dai detenuti che hanno così l’occasione di svolgere una mansione e imparare un mestiere. Le orate di Gorgona (disponibili fino al mese di settembre e comunque sempre in relazione alle condizioni meteo) saranno accompagnate da pannelli informativi che, attraverso foto e testi in italiano e in inglese, faranno il giro dei punti vendita coinvolti, raccontando ai clienti la nascita e l’evoluzione del progetto. Un progetto che coniuga una funzione sociale con la buona e sana alimentazione legata al nostro mare. Fossombrone (Pu): così lo sport in carcere aiuta a ridurre l’aggressività Il Resto del Carlino, 10 giugno 2010 È quanto emerge dal confronto tra detenuti e campioni dello sport che si sono incontrati in occasione della presentazione del libro “L’attività motoria nelle carceri italiane e l’esperienza di Fossombrone”. Fossombrone, 10 giugno 2010 - Se l’attività fisica in carcere aiuta a ridurre del 25% la tendenza a perdere il controllo e del 20% l’instabilità emotiva, l’istituzione di lezioni fisse di educazione motoria potrebbe contribuire a risolvere i problemi che si registrano oggi nelle strutture penitenziarie, dalle rivolte ai suicidi, diminuire la spesa sanitaria a carico dei cittadini e rappresentare un’occasione di lavoro per i giovani. È quanto emerso dall’incontro che a Fossombrone ha visto detenuti e dai campioni dello sport, da Mabel Bocchi ad Ario Costa, assieme per la presentazione del libro “L’attività motoria nelle carceri italiane e l’esperienza di Fossombrone”, scritto da Ario Federici, professore dell’Università feltresca, e Daniela Testa, insegnante di scienze motorie, svoltosi a Fossombrone. Un’occasione per fare il punto della situazione sul sistema carcerario marchigiano, dove solo la metà delle strutture è dotata di palestra, senza dimenticare gli ormai cronici problemi di sovraffollamento nelle case circondariali. “Ansia, stress e depressione portano a comportamenti deleteri - ha spiegato il professor Federici - ed è per questo che abbiamo puntato sullo sport per superare i problemi causati dall’ipocinesia”. “L’introduzione della figura dell’educatore fisico nelle carceri rappresenterebbe una soluzione - ha ricordato Daniela Testa, esperta di scienze motorie -, capace di migliorare la vita dei detenuti ma anche del personale penitenziario”. Ne è una dimostrazione la testimonianza di un ospite dell’istituto di pena di Fossombrone, il quale ha raccontato come l’attività motoria lo abbia aiutato nella sua battaglia contro il morbo di Parkinson, contribuendo a permettergli di essere autosufficiente. Secondo i risultati presentati, il progetto promosso nel carcere forsempronese ha portato a una sensibile riduzione sia delle malattie fisiche, dalla cervicalgia alla lombalgia, sia psicologiche. Sull’ansia, in particolare, le lezioni di educazione motoria effettuate a un gruppo di detenuti dagli studenti della facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Urbino hanno portato a ridurre del 25% la mancanza di controllo, e del 20% l’instabilità emotiva e lo stato di apprensione. I detenuti che non hanno effettuato l’attività hanno visto, invece, aumentare gli stessi parametri. Analoghi vantaggi sono stati registrati a livello di diminuzione delle patologie fisiche, e ciò potrebbe incidere sulla spesa sanitaria per le carceri, che vede oggi impiegare per ogni detenuto più di un cittadino libero (quasi 2.000 euro contro 1.800). L’incontro è stato organizzato dalla Facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Urbino con il patrocinio del Comune, dell’Ambito territoriale sociale 7 e del Comitato nazionale italiano fair play, e il sostegno di Panatta Sport, che ha fornito gratuitamente i macchinari per i detenuti, Bcc Metauro e Fondazione Monte di Pietà Fossombrone. Vi hanno preso parte, tra gli altri, il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, professor Stefano Pivato, e Giancarlo Sorbini, presidente della Scavolini Robur Volley campione d’Italia 2010, e Umberto Eusepi, presidente Bocciofila Fossombrone, tutti premiati assieme a Costa e alla Bocchi. Libri: “Il carcere spiegato ai ragazzi”, in gita dietro le sbarre con un tratto d’innocenza di Dina Galano Terra, 10 giugno 2010 Susanna Marietti si rivolge ai più giovani con “Il carcere spiegato ai ragazzi”. Per raccontare quello che dovrebbe essere “il luogo della giustizia e non della vendetta”, lontano da ogni logica individualista. Camosci e girachiavi. Scopini, spesini e secondini. Lo stipendio, poi, è rinominato “peculio” e le richieste di benefici diventano “domandine”. Anche il lessico, dietro il muro di cinta, cambia e segna l’identità carceraria differenziandola fortemente dal mondo esterno. “Il carcere è pieno di regole scritte e non scritte, molto spesso non intuibili tramite il solo buon senso”. Per addentrarsi nella sua realtà, Il carcere spiegato ai ragazzi di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti (edizione Manifestolibri, 2010, 144 pagine, 15 euro) è una guida sapiente per i non addetti, e - si vuole credere - per tutte le età. Un capitolo dopo l’altro, la descrizione dei tempi e delle modalità della detenzione abbrevia la distanza tra chi è dentro e chi resta fuori. Abbattendo molti dei pregiudizi, restituendo un’immagine il più veritiera. E qua e là sorridendo, grazie alle tante illustrazioni che accompagnano la lettura. Dottoressa Marietti, cosa vi ha spinto a voler spiegare il carcere a giovani e giovanissimi? Oggi è forte la solitudine degli individui di fronte ai problemi sociali, e nella solitudine si formano pensieri stereotipati ed egoistici. Un tempo c’erano i partiti, i sindacati, i movimenti, le scuole che contribuivano a costruire il pensiero delle nuove generazioni. Esistevano corpi intermedi che svolgevano una funzione pedagogica. Oggi pochi si fanno carico di un progetto formativo complesso. I giovani e i giovanissimi sono vittime della frammentazione umana che stiamo subendo. A loro, più che ad altri, va spiegato che il carcere è il luogo della giustizia e non quello della vendetta. A loro va spiegato che il carcere è il luogo per eccellenza dove sperimentare l’uguaglianza e l’universalità dei diritti. Il nostro libro intende solo offrire uno strumento conoscitivo critico in più a chi è assoggettato al paradigma individualista. L’esigenza di spiegare ai ragazzi, anche per mezzo di illustrazioni, la vera vita carceraria e la sua disumanità ci deriva in parte sicuramente dal non essere riusciti a spiegarlo con parole forbite agli adulti. Antigone spesso entra nei licei e nelle scuole, organizzando dibattiti e lezioni sul tema. Che conoscenza hanno i ragazzi degli istituti di pena? Quali sono le loro domande più frequenti? Nei licei abbiamo sentito espressioni che dovrebbero preoccupare chiunque, non solo noi di Antigone: “ripristiniamo la pena di morte così risparmiamo soldi”, “gli immigrati sono tutti delinquenti”, “in carcere si dovrebbe stare molto peggio di come non si stia”. Queste idee sono il frutto di una disinformazione ben architettata, che serve ad alimentare il bisogno di sicurezza e di nemici pubblici. Il tema del carcere crea interesse nei ragazzi. Con pazienza, esperienza, testimonianze e determinazione vanno decostruiti pregiudizi e falsità ben consolidate. La vicenda di Stefano Cucchi ha scosso molto, è stata uno spartiacque. Ha funzionato il principio dell’immedesimazione. C’è chi si è impaurito, chi si è commosso. Ora si tratta di costruire un pensiero critico attorno a un semplice sentimento. Nel libro ripetete che ricorre troppo spesso l’idea del carcere come “albergo a cinque stelle”. Sono molti i luoghi comuni che occorre sfatare? Ne elenco alcuni senza troppo ordine: i detenuti stanno bene visto che hanno perfino la televisione; dal carcere escono tutti quasi subito; in carcere non ci finisce nessuno; l’ergastolo esiste solo sulla carta; chi usufruisce di una misura alternativa commette subito un nuovo crimine; gli immigrati commettono reati gravi; le leggi italiane sono troppo blande; non c’è certezza della pena. Il paragone del carcere con l’hotel a cinque stelle fu del ministro Castelli nel 2002. Sono passati otto anni, e importanti occasioni di riforma sono state sprecate da allora. Molta responsabilità di una distorta interpretazione della realtà penitenziaria sembra vada attribuita ai media. Cosa sarebbe importante fare per rendere il carcere un luogo meno chiuso all’esterno? I media hanno una responsabilità indiretta: hanno contribuito a desertificare l’area del pensiero critico. Esiste però un’occasione di informazione diretta, che è la Rete. I ragazzi sono esperti nella ricerca online e sul web circola di tutto. Circola anche un’informazione puntuale e realistica sulle condizioni di vita nelle prigioni e sulla composizione sociale della popolazione reclusa. Ristretti.it, innocentievasioni.net, linkontro.info e il nostro associazioneantigone.it sono i luoghi virtuali dell’informazione penitenziaria. Sarebbe un gesto di apertura consentire oggi anche ai detenuti la navigazione libera nella rete. Non c’è motivo di impedirla a tutti coloro che nelle carceri, in considerazione della loro scarsa pericolosità sociale, non sono sottoposti a censura dall’autorità giudiziaria. Ogni capitolo scandisce i ritmi e le regole che vigono oltre le mura, prediligendo tuttavia un linguaggio semplice e immediato. Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato nel descriverlo? La difficoltà maggiore è stata quella di non dare nulla per scontato. Siamo abituati a parlare tra specialisti. Il linguaggio può essere uno strumento elitario ed escludente di comunicazione. Il dover spiegare ai ragazzi cos’è il carcere ci ha costretti a uno sforzo di semplificazione, dove questa non divenisse però sinonimo di rinuncia alla complessità dei contenuti. In ciò ci hanno molto aiutato le immagini. Penso ad esempio a Leo Ortolani, il creatore di Rat-Man, e al modo geniale e ironico con il quale ha raccontato come si possa essere puniti in carcere senza sapere o capire il perché. Immigrazione: la Corte Costituzionale dichiara illegittima l’aggravante di clandestinità Dire, 10 giugno 2010 Un “buon passo avanti” secondo Antonio Russo, responsabile immigrazione delle Acli. “Una decisione che ci soddisfa a metà, ma che dice al governo che questa non è la direzione giusta” Un “buon passo avanti” la decisione della Corte Costituzionale di considerare illegittima l’aggravante di clandestinità (pene aumentate di un terzo se a compiere un reato è un immigrato presente illegalmente in Italia) prevista dal primo “pacchetto sicurezza” del governo, diventato legge nel luglio 2008. È il commento di Antonio Russo responsabile immigrazione delle Acli. “Noi abbiamo chiesto fin dalla definizione del pacchetto di eliminare quell’articolo perché ci sembrava ingiusto che una persona, solo per il desiderio di venire a vivere nel nostro paese, anche per migliorarlo, potesse essere considerata un delinquente,a lla stregua di ogni altro delinquente”. Tuttavia dalla Corte sarebbe venuto un sostanziale via libera alla legittimità del reato di clandestinità (punito con l’ammenda da 5 mila a 10 mila euro) introdotto dal secondo “pacchetto sicurezza”, nel luglio 2009. “Una decisione che ci soddisfa a metà - prosegue Russo - ma che dice al governo che questa non è la direzione giusta”. Turco (Pd): bene la consulta, no all’aggravante di clandestinità “La decisione della Corte Costituzionale è una buona notizia”. Lo afferma Livia Turco, presidente del Forum Immigrazione del Pd, a proposito della Bocciatura che la Consulta avrebbe deciso nei confronti dell’aggravante di clandestinità decisa dal governo. “È una sentenza scontata - commenta Turco - che mette un punto su una questione di grossolana incostituzionalità, di una norma animata solo da furore ideologico che introduceva l’aggravante di clandestinità. Rimaniamo in attesa di leggere le motivazioni, certi che dimostreranno che avevamo ragione, a dire che è una legge ideologica che fa solo dei danni alle persone e che non governa in modo efficace l’immigrazione”. Asgi: ricaduta su ordini di carcerazione Il commento dell’avvocato Guido Savio, della sezione piemontese dell’associazione. Soddisfazione per il pronunciamento della Corte Costituzione, pur “restando la perplessità sul reato”. “Se una persona è in carcere per l’aggravante di clandestinità, si dovrà rivedere l’ordine di carcerazione”: una prima ricaduta in positivo della decisione di oggi della Corte Costituzionale di ritenere illegittima l’aggravante di clandestinità, potrebbe riguardare proprio il sovraffollamento carcerario. Ne è convito l’avvocato Guido Savio, della sezione piemontese dell’Asgi, che esprime un giudizio sostanzialmente positivo e si dice soddisfatto del pronunciamento, pur “restando la perplessità sul reato”. Lo Corte ha infatti contestualmente dato un sostanziale via libera alla legittimità del reato di clandestinità (punito con l’ammenda da 5mila a 10mila euro) introdotto dal secondo “pacchetto sicurezza”, nel luglio 2009. Necessario, sottolinea però, attendere di leggere le motivazioni della sentenza. Acli: “Soddisfatti a metà” Un “buon passo avanti” secondo Antonio Russo, responsabile immigrazione delle Acli. “Una decisione che ci soddisfa a metà, ma che dice al governo che questa non è la direzione giusta”. Un “buon passo avanti” la decisione della Corte Costituzionale di considerare illegittima l’aggravante di clandestinità (pene aumentate di un terzo se a compiere un reato è un immigrato presente illegalmente in Italia) prevista dal primo “pacchetto sicurezza” del governo, diventato legge nel luglio 2008. È il commento di Antonio Russo responsabile immigrazione delle Acli. “Noi abbiamo chiesto fin dalla definizione del pacchetto di eliminare quell’articolo perché ci sembrava ingiusto che una persona, solo per il desiderio di venire a vivere nel nostro paese, anche per migliorarlo, potesse essere considerata un delinquente, alla stregua di ogni altro delinquente”. Tuttavia dalla Corte sarebbe venuto un sostanziale via libera alla legittimità del reato di clandestinità (punito con l’ammenda da 5 mila a 10 mila euro) introdotto dal secondo “pacchetto sicurezza”, nel luglio 2009. “Una decisione che ci soddisfa a metà - prosegue Russo - ma che dice al governo che questa non è la direzione giusta”. Gasparri: la consulta conferma che la clandestinità è reato “Ovviamente bisognerà attendere le notizie ufficiali della Corte Costituzionale. Ma per quanto si legge sulle agenzie di stampa, la consulta avrebbe confermato la conformità alle supreme norme del reato di immigrazione clandestina”. Lo dichiara il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri. “Si tratterebbe di una decisione molto importante e decisiva, che stronca le pretestuose polemiche sollevate da più parti. Abbiamo fatto bene ad introdurre nel nostro ordinamento il reato di immigrazione clandestina che contribuisce ad aumentare il livello di sicurezza del nostro paese. Appare secondaria, invece, la circostanza riguardante l’aggravante di clandestinità. Quel che conta davvero in quelle norme è avere sancito che entrare illegalmente in Italia è un reato”, conclude Gasparri. Droghe: la legge Giovanardi non funziona? colpa dell’ex Cirielli e dei pochi soldi per il recupero di Alessio Scandurra www.linkontro.info, 10 giugno 2010 In una intervista ad Affari Italiani dell’8 giugno 2010 Carlo Giovanardi, Sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega sulla lotta alla droga, invoca l’applicazione della “sua” legge, nella parte in cui prevede l’affidamento terapeutico per i tossicodipendenti con un residuo di pena fino a 6 anni. Ci sembra una indicazione importante e da sostenere, sia per le attuali condizioni di intollerabile sovraffollamento delle carceri italiane, sia perché in effetti il carcere per i tossicodipendenti non serve proprio a nulla, ed in assenza di un intervento terapeutico i tassi di recidiva per loro sono infatti elevatissimi. Ma perché la legge Fini-Giovanardi non ha funzionato? Curiosamente per il sottosegretario “la complicazione è una sola: che la sanità penitenziaria è passata alle regioni”. Questa spiegazione però non sta in piedi, dato che per le tossicodipendenze questo passaggio si era già verificato con la legge n. 45 del 1999, e con l’accordo Stato Regioni sempre del 1999. Nel 2006, al momento dell’entrata in vigore del provvedimento di indulto, a fronte degli oltre 16.000 tossicodipendenti ristretti nelle nostre carceri, i tossicodipendenti in affidamento terapeutico erano intorno ai 3.800. Alla fine del 2008 a fronte degli oltre 14.700 detenuti tossicodipendenti, quelli in affidamento erano poco più di 1.200, e 1.500 alla fine del 2009, a fronte però di un numero di tossicodipendenti in carcere certamente aumentato, ma che nessuno conosce. Un calo dunque del 60%, che certamente non è dovuto dal passaggio della sanità penitenziaria alle regioni. Ma se non c’entra il passaggio della sanità penitenziaria alle regioni, come si spiega allora il crollo delle misure alternative terapeutiche segnalato sopra? Facciamo sommessamente notare che del 2006 ad oggi è intervenuta la legge ex Cirielli (l. 251/05), che pone ostacoli all’accesso alle misure alternative per i recidivi, e molti tossicodipendenti comprensibilmente sono recidivi, nonché la stessa legge Fini-Giovanardi (l. 49/2006), che rende più difficile l’accesso alle misure alternative per i tossicodipendenti, limitando ad esempio il numero delle concessioni, accentuando la natura custodialistica, anziché terapeutica, della misura, o dettando tempi troppo stretti per la presentazione della documentazione. Davvero qualcuno si stupisce se con queste novità normative, e con la crescente diffidenza del legislatore verso le misure alternative, i magistrati concedono meno misure alternative, e se le Asl pagano meno volentieri le rette ai detenuti, concentrando le risorse di cui dispongono su altri pazienti meno “malvisti”? È davvero possibile sorprendersi se, a fronte di reiterate indicazioni politiche palesemente mirate al progressivo smantellamento del sistema delle misure alternative, le misure alternative calano? Giovanardi fa bene a rilanciare il ricorso alle misure alternative, e in molti lo sosterremo in questo intento, ma crediamo anche che senza uno sforzo serio del governo, capace sia di rimuovere gli ostacoli normativi all’accesso alle misure, sia di dare una indicazione politica e culturale chiara, non si andrà lontano. Le misure alternative non sono condoni immotivati, ma modalità alternative di esecuzione della pena, più efficaci e rispettose del dettato costituzionale rispetto alla esecuzione della pena in carcere, e fintanto che chi governa il paese non si farà interprete di questa elementare verità, suffragata peraltro dai numeri, le misure alternative continueranno a calare, e fare a scaricabarile con le regioni non cambierà certo le cose.