Rassegna stampa 11 febbraio

 

Giustizia: Piano carceri al via, anche con Protezione Civile spa

di Andrea Mascolini

 

Italia Oggi, 11 febbraio 2010

 

Piano carceri al via anche con Protezione civile spa. È quanto prevedono gli emendamenti approvati dall’assemblea del Senato martedì sera nell’ambito della conversione in legge del decreto legge 195/09 (che dovrà essere esaminato dalla Camera). Le norme approvate stabiliscono, fra le altre cose, che il Commissario straordinario per l’emergenza carceraria (che dovrà gestire la realizzazione di 47 interventi aggiuntivi alle carceri esistenti e di 18 nuovi istituti) possa avvalersi della società "Protezione civile spa" per le attività di progettazione, scelta del contraente, direzione lavori e vigilanza degli interventi strutturali ed infrastrutturali attuati in esecuzione del programma.

Il Senato ha confermato, approvando l’emendamento del governo, la deroga al vincolo di subappalto dei lavori della cosiddetta categoria prevalente (che passa dal 30 al 50%). Per accelerare l’avvio degli interventi volti alla realizzazione di nuove infrastrutture carcerarie e l’aumento di quelle esistenti, si è stabilito che nell’utilizzo delle risorse disponibili si vada in deroga al vincolo di destinazione dei fondi (nelle regioni del Mezzogiorno l’85% delle risorse e il restante 15%alle regioni del Centro-Nord).

Per quel che riguarda i controlli antimafia il Senato li ha estesi, oltre che ai contratti pubblici e ai successivi subappalti e subcontratti aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, anche alle "erogazioni e concessioni di provvidenze pubbliche attuati in esecuzione del programma". Infine la norma varata dal Senato prevede anche una disposizione aggiuntiva in base alla quale si snellisce la procedura di nomina dei commissari straordinari per gli interventi relativi alla trasmissione e alla distribuzione dell’energia, nonché per gli interventi relativi alla produzione dell’energia, da realizzare con capitale prevalentemente o interamente privato, per i quali ricorrono particolari ragioni di urgenza in riferimento allo sviluppo socio-economico.

Giustizia: mafia; il Cdm ha varato "decreto anti-scarcerazioni"

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2010

 

Il decreto legge anti-scarcerazioni è stato varato ieri, all’unanimità, dal Consiglio dei ministri nel segno del compromesso politico e giuridico: 388 processi in corso a capimafia, affiliati e concorrenti (anche esterni) di associazioni mafiose "armate" non saranno azzerati, ma rimarranno davanti ai tribunali e più o meno altrettanti imputati detenuti non verranno scarcerati; il reato di 416 bis (associazione mafiosa), "comunque aggravata", non trasmigrerà, neanche in futuro, davanti alle corti d’assise, e tuttavia, a partire dal 30 giugno 2010, su queste ultime pioveranno addosso reati gravissimi, dal terrorismo al traffico di stupefacenti, come prevede l’articolo 1 del ddl di riforma del processo penale, recepito nel decreto con la sola esclusione dei reati di mafia.

Plaude la maggioranza e plaudono anche Udc e Pd (salvo qualche perplessità sul raggio d’azione delle corti d’assise). Fino a ieri sera, però, il testo era ancora da completare. E il Quirinale aspettava la versione definitiva. "Se fosse confermato l’allargamento di competenze della corte d’assise, in particolare sul traffico di stupefacenti, sarebbe una follia", commenta Giuseppe Cascini, segretario dell’Anm. Ma dal ministero della Giustizia confermano .Il decreto raccontato da Alfano poggia su tre pilastri.

Il primo è una norma transitoria che salva i processi di mafia in corso e scongiura il rischio scarcerazioni: una "toppa" per "porre rimedio a un errore non del legislatore, ma di chi ha interpretato la norma", sottolinea il ministro. Il riferimento è alla ex Cirielli del 2005,che aveva inasprito le pene per l’associazione mafiosa "armata", determinando uno spostamento di competenza dal tribunale alla corte d’assise. Ora la Cassazione ha rimproverato al legislatore di "non essersene reso conto", altrimenti avrebbe inserito una norma transitoria per salvare i processi dal rischio di azzeramento.

Ma il governo rispedisce la critica al mittente, sostenendo che a sbagliare sono stati i magistrati nell’interpretare la legge. Alfano dice di non voler fare "polemiche" e passa al secondo pilastro del dl, riguardante i processi futuri per 416 bis, "comunque aggravati", anch’essi di competenza dei tribunali. A questo punto, il decreto avrebbe esaurito la sua funzione di intervento "necessario e urgente". Invece c’è un terzo pilastro, "l’ultimo in ordine di emergenza - ammette il guardasigilli - ma il primo in ordine logico, tant’è che è l’articolo 1 del decreto, che modifica le competenze della corte d’assise".

È questa la vera novità, politica e giuridica, del provvedimento, poiché la modifica della competenza delle corti d’assise è già prevista dal ddl 1440 sul processo penale all’esame del Senato. Qual è la "necessità e l’urgenza " di anticiparla con un decreto legge (tanto più che se ne rinvia di 4 mesi l’operatività)? Le risposte dei tecnici di via Arenula sono imbarazzate. L’unica ragione è politica: non trasformare il dl in una sconfessione della ex Cirielli e della riforma del processo penale, che attribuivano alla corte d’assise persino i reati di 416 bis insieme a molti altri. La Lega insiste per l’allargamento delle competenze dei giudici popolari, che in campagna elettorale è un buon argomento da spendere, e anche i penalisti premono in questa direzione.

Di qui la forzatura, a cui ha dovuto fare da argine il Quirinale, e poi il compromesso, a cominciare dalla norma transitoria per rinviare al 30 giugno 2010 l’allargamento delle competenze, con esclusione dei reati di mafia. Ma l’allargamento, così come l’ha raccontato Alfano,"preoccupa "il Pd. Il ministro ha fatto riferimento all’articolo 1 del ddl 1440 e, quindi, ai delitti, consumati o tentati, di terrorismo, riduzione o mantenimento in schiavitù, sequestro di persona, tratta, traffico di stupefacenti.

"Così si paralizzerebbero le corti d’assise ", dice Silvia Della Monica, riprendendo le preoccupazioni già espresse dal Csm nel parere al ddl 1440 per le ricadute sulla funzionalità della giustizia e per l’inidoneità tecnica dei giudici popolari ad affrontare questi processi (senza contare la loro maggiore influenzabilità). Un parere di cui il Quirinale intende tener conto prima di dare via libera a un decreto "urgente e necessario" soltanto per due terzi.

Giustizia: detenuto operato al cuore, torna in cella dopo 48 ore

di Riccardo Arena

 

Dalla pagina di "Radio Carcere" sul Riformista, 11 febbraio 2010

 

Patrie galere. La vicenda di Roberto, 65 anni, cardiopatico e detenuto in carcere da 2 anni in attesa di giudizio. Il suo caso è emblematico delle difficoltà che oggi deve affrontare un detenuto malato per ottenere ciò che è ovvio: essere curato e non rischiare di morire in carcere.

Roberto, 65 anni, è gravemente malato di cuore e sta in carcere da due anni perché sottoposto a misura cautelare. Nell’ottobre del 2007 Roberto viene arrestato e portato nel carcere di Lanciano. Lì viene sbattuto in una piccola cella, occupata da altre 4 persone. Roberto sta male. Già quando era libero gli era stata diagnosticata un’ostruzione del 100% della coronaria destra, tanto che i medici avevano consigliato un immediato intervento chirurgico.

Nel carcere di Lanciano la malattia di Roberto non migliora. Il suo cuore non viene adeguatamente controllato dai medici del penitenziario e così le sue condizioni si fanno più gravi. Passa un anno ed inizia il processo dinanzi alla V sezione del Tribunale di Roma. Un processo che per Roberto significa anche dover fare lunghi e non confortevoli viaggi da Laciano verso la capitale. Viaggi di circa 4 ore, che Roberto fa all’interno di in un furgone, rinchiuso in una gabbietta di ferro e ammanettato. L’ideale per un cardiopatico.

Nel luglio del 2009 i difensori di Roberto, visto il peggiorarsi delle sue condizioni di salute, chiedono al Tribunale di sottoporlo ad una visita cardiologica all’Ospedale di Lanciano. Visita che viene fatta dopo 4 mesi, ovvero il 27 ottobre 2009. Ma c’è un problema. Infatti Roberto sta talmente male che il cardiologo, dopo pochi minuti, sospende l’esame dello "stress test" per di evitare un collasso cardiocircolatorio.

Come se nulla fosse, Roberto viene riportato nella sua piccola e sovraffollata cella del carcere di Lanciano. Ovvero una struttura assolutamente inidonea a curare una persona cardiopatica.

Il 27 novembre 2009, Roberto, accusando da tempo dolori al petto e vertigini, viene visitato dal suo cardiologo che, nella relazione del depositata al Tribunale di Roma, diagnostica una grave forma di cardiopatia ischemica, sottolinea che Roberto è in pericolo di vita e che necessita di un ricovero ospedaliero immediato.

Il 30 novembre 2009, il Tribunale di Roma ordina il ricovero urgente di Roberto nel reparto di cardiologia dell’Ospedale Tor Vergata di Roma. Ma l’ordine del Tribunale non viene eseguito dal carcere Rebibbia di Roma, dove Roberto era intanto detenuto. L’11 dicembre, i difensori presentano un’ulteriore istanza di sollecito. Istanza seguita da un altro ordine del Tribunale di Roma al carcere di Rebibbia per far ricoverare in ospedale Roberto. Purtroppo anche questo secondo ordine resta disatteso e Roberto resta in cella sofferente.

Il 29 dicembre il Tribunale inoltra un terzo ordine al carcere di Rebibbia e trasmette al Dap la segnalazione, fatta dai difensori, della mancata esecuzione dei precedenti ordini di ricovero. Solo il 14 gennaio 2010, ovvero dopo più di un mese dal primo provvedimento del Tribunale, Roberto viene finalmente portato dell’ospedale di Tor Vergata per essere operato al cuore. Ma non è finita.

La sera del 19 gennaio 2010 Roberto subisce un operazione a cuore aperto. Dopo il delicato intervento viene portato in terapia intensiva. Reparto dove Roberto però rimarrà poco più di 48 ore. Passano infatti solo due giorni dall’operazione e si presentano in terapia intensiva degli agenti che prelevano Roberto e, con la nota delicatezza, lo riportano nel carcere di Rebibbia. Roberto viene così rinchiuso in una cella. Immobile e dolorante e sanguinante.

Il 28 gennaio 2010, Roberto viene di nuovo visitato dal suo cardiologo che evidenzia al Tribunale come il regime carcerario a cui è sottoposto Roberto non è idoneo all’assistenza medica necessaria e che di conseguenza Roberto è esposto in carcere ad un grave pericolo di vita.

Ora vedremo cosa deciderà il Tribunale di Roma sulla scarcerazione di Roberto, la cui storia è grave e emblematica. È l’esempio di cosa oggi deve affrontare un detenuto malato per ottenere ciò che è ovvio: essere curato e non rischiare di morire in carcere.

Giustizia: Ilaria Cucchi; adesso non ci danno la Tac di Stefano

 

Ansa, 11 febbraio 2010

 

"L’indagine va avanti e noi abbiamo piena fiducia nel lavoro da parte della procura. C’era stato un momento di sfiducia, pensiamo comprensibile perché non ci arrivavano risposte". Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, parla così in diretta radiofonica alla trasmissione Te la do io Tokyo su Centro Suono Sport.

"Si sta lavorando ma il vero problema è che a pochi giorni dalla chiusura delle perizie medico legali non ci vengono forniti esami fondamentali come la Tac- continua- L’abbiamo chiesta solo noi, solo i nostri medici per dimostrare quello che andiamo sostenendo, ossia che Stefano è morto per uno squilibrio elettrolitico causato dalle lesioni provocate durante quella "colluttazione". Non abbiamo risposte alla nostra richiesta, ci vengono forniti cd contenenti altri esami ma non la Tac, che è fondamentale".

Ilaria sottolinea poi che "al momento ci sono nove indagati: tre agenti e sei medici. Sosteniamo che la responsabilità dei medici c’è ed è gravissima ma allo stesso tempo è chiaro che senza le botte Stefano al Pertini non ci sarebbe mai arrivato. Riteniamo ci sia un nesso tra le percosse e la morte di Stefano - continua. Abbiamo sempre avuto fiducia nelle Istituzioni, ora chiediamo che loro si assumano l’onere di individuare e punire in maniera esemplare i responsabili della morte di mio fratello. Ce lo aspettiamo da cittadini italiani".

La sorella di Stefano Cucchi, poi, non commenta le affermazioni di Carlo Giovanardi: "Preferisco non commentarle, le sue parole sono state offensive ed inopportune. Stefano non era come lui lo ha descritto quindi mi è rimasta impressa questa definizione di "larva umana". Stefano non era così ma, se anche così fosse stato, comunque non giustifica il modo in cui è morto, soprattutto perché in quel momento era sotto la tutela dello Stato".

Alla fine si rivolge a Gianfranco Fini: "Rivolgo un appello anche al Presidente della Camera che in un primo momento ci aveva offerto il proprio sostegno, per noi è fondamentale entrare in possesso di quella documentazione. Vi ringrazio e ribadisco che il vostro sostegno è fondamentale e che senza di quello sarebbe sceso il silenzio sulla morte di Stefano".

Giustizia: morte di Giuseppe Saladino; il giallo del diario clinico

 

Ansa, 11 febbraio 2010

 

"Vogliamo il diario clinico del carcere". Non bastano le copie, il sospetto è che manchi qualcosa. Qualcosa che potrebbe fare luce su cos’è successo a Giuseppe Saladino in quella notte passata in via Burla, da cui è uscito cadavere. L’avvocato Letizia Tonoletti, che assiste la madre del 32enne Rosa Martorano, lo ribadisce: "Le copie acquisite dalla procura sono di difficile consultazione. Mi risulta infatti che sia prassi, nel carcere, aggiungere dei foglietti. Non possiamo essere sicuri di avere in mano tutti gli elementi se non abbiamo l’originale. La nostra richiesta, però, è stata rigettata dalla procura. Siamo intenzionati a reiterarla quando verrà depositata la perizia dell’autopsia e degli esami tossicologici". La mamma del giovane detenuto morto nella notte tra il 7 e l’8 ottobre oggi ha ripetuto ai microfoni di Tv Parma di volere verità e giustizia per suo figlio: "Stava bene e non aveva problemi psichiatrici. Devono dirmi cos’è successo".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

Dalla pagina di "Radio Carcere" sul Riformista, 11 febbraio 2010

 

Noi malati nel carcere di Opera. Caro Arena, Ti scrivo, anche a nome dei miei compagni, per farvi sapere quello che succede nel centro clinico del carcere di Opera. Qui dentro c’è di tutto. Persone senza gambe, altre ormai destinate alla morte, persone paralizzate, chi ha il cuore malato o chi passa le giornate sul letto e vive nella speranza di ricevere un trapianto. Il fatto è che noi detenuti del centro clinico viviamo in condizioni schifose. Spesso manca l’acqua calda e nelle celle il riscaldamento non c’è. Inoltre le nostre celle sono sporche e manca la benché minima igiene.

Anche i materassi dove dormiamo sono vecchi e sporchi e le lenzuola sono macchiate di sangue o bucate. I medici praticamente ci ripetono a tutti la stessa frase: "la sua situazione è stabile", ma la verità è che noi veniamo lasciati abbandonati in queste cellette e non ci rimane che aspettare la morte. I nostri familiari hanno denunciato tutto questo, ma la magistratura di sorveglianza non fa nulla. Vi dico che molti di noi potrebbero ottenere misure alternative o la detenzione domiciliare, ma ogni istanza viene rigettata. Queste sono solo alcuni aspetti del centro clinico del carcere di Opera e ce sarebbero tanti altri da raccontare.

Grazie per aver fatto conoscere anche la nostra voce

 

Antonio e 12 detenuti dal Centro Clinico del carcere Opera di Milano

 

All’Ucciardone, in 13 dentro una cella. Cara Radiocarcere, ti informiamo che qui all’Ucciardone siamo costretti a vivere in 12 o 13 detenuti dentro una cella. Una cella sporca e dove manca di tutto. Pensa che non abbiamo neanche l’acqua calda per lavarci, figuratevi il resto. Qui è inutile che noi facciamo richieste perché intanto non ci ascolta nessuno. Nelle celle siamo tutti mischiati, tra chi è sano e chi è malato. Addirittura ci sono ragazzi sieropositivi messi in cella con persone sane, il che ci crea non poche preoccupazioni per la nostra salute.

Inoltre molti di noi sono tossicodipendenti, ma non veniamo curati né mandati in una comunità di recupero. Questa situazione crea parecchi disagi psicologici, non a caso un ragazzo tossicodipendente è morto 3 settimane fa, mentre un altro si è impiccato poco fa. Morti che potevano essere evitate anche con una maggiore sorveglianza. Infatti c’è solo un agente che deve sorvegliare tutti i 4 piani dell’Ucciardone. Per non parlare poi di quei detenuti che, magari appena arrestati sono costretti a dormire per terra e senza cuscino. L’igiene è qui sconosciuta, la sporcizia è ovunque e molti di noi hanno la scabbia e pure la rogna. Insomma siamo abbandonati a noi stessi e lasciati nella più buia disperazione. Ti salutiamo: Giulio, Enrico, Massimo, Piero, Vincenzo, Carmelo, Nicola, Francesco, Simone e Felice. Con tanta stima.

 

12 persone dal carcere l’Ucciardone di Palermo

Lazio: Epatite, Tbc, Aids; nelle carceri c’è emergenza sanitaria

 

Redattore Sociale - Dire, 11 febbraio 2010

 

Convegno a Regina Coeli sull’attuazione della riforma sanitaria penitenziaria. Riuniti detenuti, medici, personale penitenziario e associazioni. Tra gli altri temi: sovraffollamento, aumento dei suicidi.

La completa attuazione della Riforma sanitaria penitenziaria per affrontare l’emergenza sanitaria nelle carceri laziali. È questo il tema del convegno, in corso da questa mattina al carcere di Regina Coeli, tra detenuti, medici, personale penitenziario e associazioni del terzo Settore, ideato dal Centro Studi Cappella Orsini, promosso dalla regione, in collaborazione con l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio e il Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute. Un incontro dettato dal peggioramento della salute dei detenuti, con oltre 2 mila reclusi affetti da epatite, il doppio di detenuti affetti da Hiv nel Lazio rispetto alla media italiana, l’aumento dei casi di tubercolosi e Aids, e il 62% dei detenuti affetto da diverse patologie. Una deriva sanitaria aggravata dal sovraffollamento delle carceri laziali e dalla carenza di personale che hanno effetti drammatici sulla popolazione carceraria, con l’aumento del numero dei suicidi.

Priorità del convegno è riflettere su una corretta gestione delle malattie negli istituti di pena, attraverso l’attuazione della Riforma Sanitaria Penitenziaria, che con l’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale (Ssn) ha introdotto il principio universalistico del diritto alla salute "senza distinzione di condizioni individuali o sociali". Obiettivo è proprio riscoprire la centralità della persona, nella convinzione che, per superare il sovraffollamento delle carceri, si debba puntare su percorsi di sostegno, accompagnati dalla "restrizione dell’area detentiva", con la riforma del codice penale, la depenalizzazione dei reati e il ricorso alle pene detentive.

All’incontro partecipano anche Livia Turco, Commissione affari sociali della Camera dei deputati, Daniele Fichera, assessore piccola e media impresa, commercio, artigianato della Regione Lazio, Edoardo Del Vecchio, presidente dell’Upi Lazio, Santi Consolo, vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, Angiolo Marroni, garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Evangelista Sagnelli, presidente della società italiana di malattie infettive e tropicali, Claudio Leonardi, presidente della Federazione Regione Lazio degli operatori dei servizi pubblici per le tossicodipendenze.

 

Record dei detenuti affetti da Hiv

 

Il 62% dei detenuti ha patologie che richiedono un intervento medico, quasi il 40% è affetto da epatite cronica, il 27% soffre di problemi psicologici - psichiatrici. Inoltre al Lazio spetta il record dei detenuti affetti da Hiv, con una percentuale del 3, 33% (quasi il doppio rispetto alla media italiana) e aumentano anche i casi di tubercolosi e di Aids. È il quadro dell’emergenza sanitaria che affligge le carceri laziali. Secondo i dati presentati oggi al convegno in corso nel carcere di Regina Coeli, lo stato di salute delle strutture penitenziarie è dunque peggiore nel Lazio rispetto alle altre regioni italiane. Circa 200 dei 2500 sieropositivi detenuti nelle carceri italiane, vivono negli istituti di pena della regione e poco meno di un detenuto su tre soffre di disagi psichici. Oltre ai problemi psicologici (un detenuto su due è stato trattato con psicofarmaci), le patologie diffuse sono le malattie virali croniche (circa il 17% dei detenuti), patologie osteoarticolari (10%), problemi cardiovascolari (oltre il 9%), problemi legati al metabolismo (6,8%), malattie dermatologiche (6,7%). Problemi aggravati dalla carenza delle strutture e dal loro sovraffollamento, con il rischio di contagio per gli agenti di Polizia penitenziaria (sono oltre 5 mila nel Lazio), che spesso lavorano in condizioni critiche. Inoltre risultano insufficienti anche le risorse finanziarie destinate alla salute dei reclusi: appena 5 euro dei 157 spesi ogni giorno dallo Stato, per ciascun detenuto.

Risulta dunque necessaria, secondo gli organizzatori, una corretta gestione delle malattie negli istituti di pena, attraverso l’attuazione della riforma sanitaria penitenziaria, che ha trasferito al Servizio sanitario nazionale tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e da quello della Giustizia minorile.

Già il decreto legislativo 230/99, viene fatto notare, conteneva norme per il riordino della medicina penitenziaria, stabilendo che "i detenuti e gli internati hanno diritto al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate sulla base degli obiettivi di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani Regionali e in quelli locali". Ma solo con la legge finanziaria del 2007 è stato disposto il trasferimento al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie carcerarie, con l’integrazione dell’intero personale medico e paramedico carcerario nel SSN e nelle relative ASL territoriali.

 

Aumentano i suicidi

 

Milleduecento detenuti in più rispetto al numero consentito, un aumento di oltre il 50% dal 2001 al 2008, oltre settanta suicidi durante il 2009. Sono i dati relativi alle carceri laziali, presentati dagli organizzatori del convegno in corso oggi al carcere di Regina Coeli. Nelle strutture penitenziarie della Regione, i reclusi sono oltre cinquemila (il 10% degli oltre 64mila in Italia), il 55% di questi è in attesa della condanna definitiva, contro una media europea del 25%. Al sovraffollamento, si aggiunge la carenza di personale: solo tra gli agenti di polizia penitenziaria delle carceri laziali mancano oltre cinquemila unità. Dati che hanno causato un aumento del numero dei suicidi: 175 morti in carcere nel corso del 2009, tra cui 72 suicidi; inoltre 15 suicidi nei soli primi tre mesi del 2010. La più alta incidenza di suicidi, negli ultimi tre anni, si è registrata nei carceri di "Rebibbia" (con 5 suicidi e 32 casi di tentati suicidi tra il 2007 e il 2008), in quello di "Rebibbia - sezione femminile" (3 suicidi e 14 tentati suicidi) e nel carcere di Viterbo (3 suicidi tra il 2008 e il 2009, e 20 tentati suicidi).

Sotto accusa, soprattutto la carenza delle strutture e del personale. "L’incremento dei casi di suicidio o dei tentativi di suicidio - spiega l’avvocato Renato Borzone, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane - è dovuto anche ad una carente struttura carceraria parallela, cioè quella costituita dagli assistenti, psicologi e parroci che potrebbero essere un supporto fondamentale per chi è psicologicamente più fragile e non riesce a sopportare il regime carcerario". Tra le priorità da affrontare, vengono messe in luce dagli organizzatori la "restrizione dell’area detentiva", attraverso la riforma del codice penale, la depenalizzazione dei reati e il ricorso alle pene alternative, con un occhio di riguardo ai tossicodipendenti (su oltre 53mila detenuti, più di 14mila assumono droghe pesanti, cioè circa uno su tre).

"Bisogna puntare sulla decarcerazione, grazie a percorsi di sostegno, anche se resta problematica la depenalizzazione del piccolo spaccio ed è necessaria molta cautela sulla somministrazione controllata di eroina", sottolinea Gian Carlo Caselli, ex Direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 1999, che propone: "Il primo passo è rendere più agile il sistema rigido e formalistico che dà accesso alle pene alternative per i tossicodipendenti con condanne al di sotto dei 4 anni". Inoltre, secondo gli organizzatori, meno carcere equivale a meno recidiva, cioè maggiore sicurezza. I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlano chiaro: tra chi ha usufruito dell’indulto, il tasso di recidiva si assesta a circa il 30% per i beneficiari provenienti dal carcere, e a circa il 21% per coloro che al momento dell’entrata in vigore della legge stavano scontando la pena in misura alternativa.

Lucca: sovraffollamento, insufficienti cure mediche ai detenuti

 

Il Tirreno, 11 febbraio 2010

 

Un sovraffollamento ormai cronico al carcere San Giorgio. E una situazione sanitaria preoccupante: 5 casi di Hiv/Aids, 29 tossicodipendenze, 46 malati di epatite. Sono queste le patologie più diffuse secondo il report clinico dell’Usl 2 analizzato dal gruppo istituzionale carcere ed ufficio esecuzione penale esterna, coordinato dall’assessore provinciale alle politiche sociali Mario Regoli.

L’indagine, realizzata su una struttura carceraria con 168 detenuti su una capacità di accoglienza ottimale di 80 persone, fa emergere vari problemi: il gruppo istituzionale carcere chiede un forte intervento per potenziare il servizio sanitario al San Giorgio. Chiede l’aumento della copertura della presenza della guardia medica nelle ventiquattro ore e del servizio sociale, oltre a una serie di interventi per migliorare l’assistenza infermieristica e psicologica.

Le richieste, fanno sapere dalla Provincia, saranno rivolte alla Regione, competente in materia di sanità carceraria attraverso le aziende sanitarie, in forza di un decreto ministeriale che ha sancito il passaggio delle funzioni di assistenza sanitaria dal ministero della giustizia a quello della salute. L’indagine compiuta dopo il sopralluogo fotografa anche la provenienza dei detenuti. Su 174 ospiti del San Giorgio, 65 sono italiani e 109 extracomunitari.

Dei 65 italiani, 13 sono di Lucca e 18 di Viareggio; 34 arrivano da fuori provincia. Tra gli stranieri, 48 vengono dal Marocco, 10 dall’Albania, 18 dalla Tunisia, 14 dalla Romania, 6 dall’Algeria, 13 da altri paesi. "Il sovraffollamento è ormai diffuso in tutte le carceri italiane - dichiara don Giuseppe Giordano, parroco di San Pietro a Vico e cappellano al San Giorgio -. È vero, le carceri sono piene, spesso di persone che vi sono detenute anche per lunghi periodi ma perché hanno compiuto piccoli reati, sempre gli stessi ma reiterati.

Perché hanno compiuto piccoli furti, magari al supermercato per mangiare. Mi domando - continua il cappellano - perché il giudice non disponga più misure alternative invece della condanna da scontare in carcere". L’indagine contiene anche un approfondimento sulla situazione sanitaria nel San Giorgio indica numerosi detenuti tossicodipendenti: a fronte di 29 casi accertati, 48 risultano quelli dichiarati. Piuttosto diffusi anche i disturbi all’apparato digerente (45), così come le epatiti, 36 i "B" e 10 "C".

Gli alcoldipendenti accertati sono 4 a fronte di 20 dichiarati; 5 le patologie all’apparato cardiovascolare, 5 a quello respiratorio, 8 i casi di disturbi mentali e 3 di diabete. Quattro i detenuti affetti da ipertensione, 4 le patologie renali. Sono 5, inoltre, i casi di Hiv/Aids, 1 di sifilide, 6 le sofferenze osteoarticolari, 4 le patologie otoiatriche, 1 sordomutismo e 1 ipertiroidismo. "Il passaggio di competenze di assistenza sanitaria nelle carceri alle Asl - dichiara l’assessore Regoli - è stato positivo. La Regione e l’Asl 2 hanno stanziato risorse consistenti, ma la situazione carceraria, delicata e difficile in tutta Italia soprattutto a causa del sovraffollamento, impone uno sforzo in più. Ci impegneremo per garantire livelli di cura e assistenza all’altezza per tutti i detenuti, anche fornendo apparecchiature e strumentazioni adeguate".

Vicenza: chiude la sezione A.S. più spazio ai detenuti "comuni"

 

Giornale di Vicenza, 11 febbraio 2010

 

Per affrontare il sovraffollamento di San Pio X verranno spostati tutti i reclusi per reati mafiosi, circa 50. Pegoraro (Cgil): "Il penitenziario verrà ampliato con 100 posti". Il direttore Cacciabue: "Si stanno riclassificando tutte le carceri".

Via la sezione di massima sicurezza. Sembra questa la soluzione che si sta concretizzando per sollevare il carcere di S. Pio X alle prese da anni con un sovraffollamento di detenuti, a fronte di una pianta organica di agenti sempre più ristretta.

La soluzione arriva dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che sembra abbia deciso di spostare tutti i detenuti che devono rispondere del 416 bis, ovvero di reati legati all’associazione di stampo mafioso. Accanto a loro anche altri carcerati, accusati di traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

In sostanza una cinquantina di persone, che ora vengono guardate a vista dagli agenti e alle quali non è permesso partecipare a tutte le attività che gli altri detenuti svolgono. La notizia rimbalza da Venezia. A parlarne il segretario regionale della Cgil della Funzione pubblica delegato alle politiche carcerarie, Giampietro Pegoraro.

"Il ministero - dice - non più tardi di un mese fa, ha incaricato un generale per valutare la situazione nei vari istituti di pena della regione e per trovare soluzioni immediate, visto che la situazione è molto pesante e non solo nel capoluogo berico. A Vicenza la soluzione individuata riguarda lo spostamento della sezione di massima sicurezza in altre case circondariali: potrebbero essere Tolmezzo piuttosto che il nuovo carcere di Trento che verrà aperto a breve, oppure Ferrara".

"In quegli spazi troverebbero posto altri detenuti che a tutt’oggi si ritrovano ammassati in celle pensate per una persona, dove in realtà vivono in tre. Non solo - prosegue Pegoraro - resta l’ipotesi di allargamento, con altri cento posti in più. Se n’era già parlato in passato e del tema alcuni parlamentari e consiglieri regionali si erano fatti portavoce".

Questo servirà, in un carcere pensato per 130 persone, che in realtà ne ospita da un minimo di 330 ad un massimo di 370, a risolvere la situazione?

"Sicuramente no - risponde Pegoraro - anche perché il ministro ha promesso l’invio in tutta Italia di duemila agenti in più, che nessuno ha ancora visto, ma almeno allenterà un po’ le tensioni che tutte le carceri stanno vivendo". "Non so quali siano le scelte dell’Amministrazione penitenziaria - risponde il direttore di S. Pio X, Fabrizio Cacciabue - posso solo dire che è in atto una nuova riclassificazione dei vari istituti di pena sparsi sul territorio nazionale. Quali decisioni verranno prese per S. Pio X non sono in grado di dirlo e nemmeno potrei farlo".

Diplomatica la risposta del direttore. "E non potrebbe essere diversa - conclude Pegoraro - sta di fatto che se la sezione di massima sicurezza dovesse essere trasferita, questo significa reperire più celle per i detenuti comuni che a Vicenza sono la maggioranza e quindi garantire condizioni di vita diverse anche in attesa dell’allargamento della casa circondariale. Ma non risolverebbe comunque il problema legato alla carenza del personale in servizio".

Bologna: si dimette dirigente sanitario del carcere della Dozza

 

La Repubblica, 11 febbraio 2010

 

Non solo la "Dozza" scoppia, circa 1.200 detenuti contro una capienza di 480, mancano gli educatori e il personale di polizia penitenziaria è ridotto al minimo, ma adesso dopo 25 anni il carcere perde il suo storico direttore sanitario, Pasquale Paolillo.

Il dirigente ha rassegnato le dimissioni alla fine di gennaio ed è in attesa di ricevere una risposta dai vertici bolognesi dell’Ausl, suoi referenti da quando dall’aprile del 2008 la sanità carceraria dipende direttamente dal Servizio sanitario nazionale. Alla base del gesto ci sarebbero una serie di richieste fatte da Paolillo a cui l’Ausl pare non sia riuscita a far fronte: come l’impiego di un numero adeguato di medici in servizio all’interno del carcere e maggiore chiarezza sui compiti proprio del direttore sanitario, il cui ruolo è stato depotenziato in questi ultimi due anni. Paolillo però preferisce non spiegare i motivi che lo hanno portato a dimettersi. "Dico solo che attendevo una risposta entro il primo di febbraio, ma ad oggi nessuno mi ha fatto sapere nulla.

Evidentemente la cosa non gli interessa". Dal canto suo la direzione dell’Ausl, con una nota, fa sapere invece di essere "in contatto costante con la "Dozza", per predisporre una serie di interventi che qualificano la presenza del Servizio sanitario regionale nella fase di passaggio di competenze. Ruoli, compiti e funzioni di tutti i soggetti coinvolti in questo passaggio sono stati individuati. In questo contesto, la direzione aziendale sta valutando le dimissioni del dottor Paolillo, al quale va il riconoscimento per il lavoro svolto in tutti questi anni.

Nuoro: violenze nel carcere di Mamone 8 agenti sotto processo

 

La Nuova Sardegna, 11 febbraio 2010

 

Per tutta la mattina, hanno atteso che il processo che li vede imputati per peculato e per le presunte violenze commesse nei confronti di un gruppo di detenuti nella colonia penale di Mamone, celebrasse una nuova udienza. Solo in tarda mattina, per la concomitanza con un altro processo, gli otto agenti di polizia penitenziaria del carcere vicino a Onanì presenti in tribunale hanno scoperto che il loro processo sarebbe stato rinviato al 23 marzo per l’audizione di alcuni testi extracomunitari.

Così, gli imputati Bachisio Pira, Efisio Torazzi, Antonio Sanna, Salvatore Pala, Piero Sulas, Marco Pitzalis, Giovanni Mazzone e Natalino Ghisu, sono tornati a casa con un nulla di fatto. Secondo l’accusa nel 2002 si erano resi protagonisti, a vario titolo, di un discreto numero di violenze che avrebbe riguardato anche alcuni detenuti di fede religiosa musulmana. Sempre secondo l’accusa, qualcuno di questi ultimi era stato costretto a baciare la statua della Madonna e a rendere omaggio alla bandiera italiana. Gli otto imputati attraverso i loro avvocati hanno sempre respinto con forza queste accuse. La prossima udienza è fissata al 23 marzo.

Droghe: giudice autorizza la marijuana gratis, come medicina

di Giuliano Di Tanna

 

Il Centro, 11 febbraio 2010

 

Il giudice autorizza la somministrazione in un caso di sclerosi multipla: ordinanza d’urgenza di un giudice del tribunale di Avezzano, Elisabetta Pierazzi. È il primo caso in Italia. Il farmaco derivato dalla cannabis costerebbe troppo rispetto alla capacità di reddito del paziente.

Un temporaneo via libera alla marijuana gratuita per uso terapeutico arriva dal tribunale di Avezzano. Il principio è affermato in un’ordinanza del 2 febbraio scorso del giudice Elisabetta Pierazzi. La pronuncia è stata emessa in un procedimento cautelare e urgente promosso da un malato di sclerosi multipla allo stadio avanzato. Essa afferma il diritto alla somministrazione gratuita di cannabinoidi al malato in questione. Il provvedimento è il primo nel suo genere in Italia.

Il malato che ha ottenuto la pronuncia innovativa del giudice del tribunale di Avezzano è in condizioni di particolare indigenza e per questo aveva chiesto alla Asl di poter ottenere la somministrazione gratuita del farmaco a base di cannabis prodotto fuori dall’Italia, dimostratosi l’unico efficace ad alleviarne le sofferenze.

"La decisione assunta", ha spiegato il giudice Elisabetta Pierazzi, "è funzionale a trattare gravi patologie, in quanto altri medicinali usati dal paziente non sono risultati idonei. Il medicinale somministrato a pagamento e non viene prodotto in Italia. Viene importato di volta in volta in piccole quantità. Quindi deve essere somministrato a pagamento, con costi elevatissimi".

Sulla vicenda è intervenuta l’Aduc. "C’è da constatare ancora una volta", afferma l’Associazione diritti utenti e consumatori, "che, per ottenere il rispetto di un diritto costituzionale, un cittadino è stato costretto a fare causa".

La decisione si basa su una particolare interpretazione dell’articolo 32 della Costituzione (che afferma il diritto del cittadino alla salute). L’ordinanza considera, infatti, questo diritto prevalente, in un certo senso, rispetto a norme a fondamento etico che pure di fatto ne limitano l’efficacia.

In sostanza, la pronuncia stabilisce una diretta applicabilità della norma costituzionale (l’articolo 32) davanti alla domanda presentata dal malato, in via urgente (in base all’articolo 700 del codice di procedura civile) volta a ottenere la somministrazione gratuita di farmaci cannabinoidi di efficacia e necessità comprovate su base scientifica.

La procedura d’urgenza per ottenere il farmaco è stato accolta perché ci sarebbe il cosiddetto periculum in mora. Cioè il rischio di un pregiudizio imminente e irreparabile alla salute del paziente perché le condizioni del ricorrente potrebbero essere pregiudicate dal tempo che occorre per instaurare un giudizio ordinario (più lungo e complesso), in considerazione della gravità della patologia diagnosticata e della sua progressiva evoluzione in senso peggiorativa.

Il pericolo di una danno grave e irreparabile consiste, secondo il giudice, anche nel fatto che la spesa necessaria per l’acquisto degli unici medicinali efficaci, anche in relazione alla cronicità della patologia, potrebbe compromettere la possibilità di soddisfare con il proprio reddito le altre minime esigenze di vita del malato: insomma il farmaco in questione costerebbe troppo rispetto al reddito della persona che ha presentato il ricorso.

"Sono felice di questa mia vittoria", ha detto il malato, "che è la vittoria di tutti i malati costretti a rinunciare alle uniche cure che possono alleviarne le sofferenze in base a divieti irragionevoli e contrari ai fondamentali diritti umani e civili".

Il legale del malato è Bartolo De Vita, avvocato del Codacons a Vallo della Lucania in provincia di Salerno. De Vita osserva, in proposito, che la decisione "fa salvo il diritto alla salute di soggetti che si vedono negare la prestazione sanitaria richiesta in virtù di una normativa pesantemente condizionata da improprie e parziali valutazioni etiche".

Serbia: l'ombudsman denuncia; carceri affollate e diritti negati

 

Ansa, 11 febbraio 2010

 

La grave situazione delle carceri in Serbia, sovraffollate e con la negazione di diritti fondamentali ai detenuti, è stata denunciata da Milos Jankovic, ombudsman del Paese balcanico. "Le persone private della libertà sono persone alle quali è temporaneamente negata la libertà di movimento o con una libertà di movimento limitata. In Serbia i loro diritti vengono trascurati nel senso che a loro viene prestata scarsa attenzione", ha detto Jankovic presentando oggi a Belgrado un rapporto sulle carceri.

Per gli 11 mila detenuti che attualmente sono nelle carceri della Serbia non vi è sufficiente spazio, e sarebbe necessario aumentare almeno del 50% le capacità delle prigioni. In certi casi - ha notato Jankovic - i detenuti dormono per terra e spesso sono costretti a stare anche in quindici in una cella senza finestra. A Zabela, località a circa 70 km a sud di Belgrado, un solo medico è a disposizione di oltre 1.300 detenuti - ha denunciato Jankovic.

Inoltre, la qualità del cibo è generalmente molto scadente, e in alcune prigioni i detenuti devono prepararsi da mangiare da soli. Il numero dei detenuti in Serbia - ha detto ancora Jankovic - cresce del 10% ogni anno e le prigioni troppo affollate hanno conseguenze negative sulla sicurezza.

G.B.: i documenti sulle torture a Guantanamo vanno pubblicati

 

Ansa, 11 febbraio 2010

 

La sentenza della giustizia britannica sul caso di Binyam Mohamed, ex detenuto a Guantanamo e vittima di torture, mette in imbarazzo Gran Bretagna e Stati Uniti. Il governo del Regno Unito ha perso in appello il processo per impedire la pubblicazione di informazioni segrete riguardanti il sospetto terrorista pakistano fornite dalla Cia ai servizi britannici.

"I paragrafi chiave dei documenti su cui si basa il verdetto descrivono nel dettaglio le torture che ha subito Mohammed. Dalle veglie forzate alle finte esecuzioni fino alla mutilazione parziale dei genitali ripetuta a distanza di mesi" spiega l’avvocato del gruppo di testate giornalistiche che, assieme a Mohamed, si è rivolto alla giustizia per ottenere la pubblicazione dei documenti. Il Ministro degli Esteri britannico David Miliband fa buon viso a cattivo gioco: "Il caso dimostra che ci siamo attenuti a un principio corretto: le informazioni di intelligence di un Paese non possono essere rese pubbliche da un altro Paese in maniera automatica". La Corte ha ritenuto che, contrariamente a quanto sostenuto dal governo, le informazioni sulle torture rappresentano un interesse per l’opinione pubblica ancor prima che riguardare la sicurezza nazionale. Mohamed, arrestato nel 2002 e torturato in Marocco, è stato rinchiuso a Guantanamo, senza accuse formali, fino all’anno scorso.

 

 

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