Giustizia: il ddl “svuota-carceri” entra in vigore; tante polemiche ma impatto minimo di Silvia Barocci Il Messaggero, 9 dicembre 2010 Per le sovraffollate carceri italiane sarà una boccata d’ossigeno che, seppure minima, potrà rivelarsi vitale per la tenuta di un sistema (69.155 detenuti contro 44.874 posti regolamentari) sull’orlo del collasso: il cosiddetto ddl “svuota-carceri”, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale di lunedì, entrerà in vigore il prossimo 16 dicembre e consentirà a circa 5-6mila detenuti (su una platea di circa 9.600 possibili beneficiari) di scontare l’ultimo anno di pena in detenzione domiciliare. Per Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si tratta di una “misura saggia e di equilibrio” e che, soprattutto, “non comporterà una immissione in libertà tout court”. Insomma, è tutt’altra storia rispetto all’indulto. Innanzitutto il beneficio non è automatico ma sarà il magistrato di sorveglianza a decidere, caso per caso, se il detenuto ha i requisiti necessari (sono esclusi i condannati per reati gravi come terrorismo, criminalità organizzata, omicidio volontario etc., nonché i delinquenti professionali, abituali o per tendenza). Inoltre - fa notare Ionta - sono previsti “controlli di polizia” su chi sconterà ai domiciliari l’ultimo anno, e “pene severe (da uno a tre anni, ndr.), anche superiori a quelle previste per l’evasione dal carcere (da 6 mesi a un anno, ndr.)”. In previsione del varo del ddl, il Dap ha provveduto, la scorsa estate, a preparare i dossier di ciascuno dei 9.600 possibili beneficiari. Che, realisticamente, dovrebbero scendere a 5-6mila. Ora spetterà agli uffici dell’esecuzione penale esterna individuare l’effettività del domicilio dichiarato dal detenuto e il magistrato di sorveglianza ne valuterà l’idoneità. Così da escludere, per esempio, che un condannato per maltrattamenti sulla moglie possa scontare l’ultimo anno pena nella stessa abitazione. Il principale “nodo” da sciogliere sarà quello dei detenuti stranieri: ad accedere al beneficio potrebbero essere in teoria circa 4.500 sui 9.600 totali, ma più difficile sarà stabilire quale sia il loro domicilio. Su questo fronte si punta al coinvolgimento di enti locali, associazioni di volontariato o ecclesiastiche affinché mettano a disposizione strutture dove ospitare in detenzione domiciliare gli stranieri. La critica mossa da Marco Travaglio al ddl “svuota-carceri” dalle pagine del “Fatto Quotidiano” non è piaciuta al sindacato penitenziario Osapp: per Leo Beneduci non è un “un indulto occulto” come l’ha definito il giornalista ma “una delle poche soluzioni praticabili nell’attuale e del tutto incerto momento politico”. E ciò anche per altri due motivi: gli studi hanno dimostrato che la recidiva diminuisce con i benefici penitenziari; ci sarà anche l’assunzione di circa 1.800 nuovi agenti penitenziari. Giustizia: caro Travaglio, quella legge non è né un indulto né un insulto di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2010 Quelle poche migliaia di persone che usciranno dalle nostre malmesse prigioni sono nella maggior parte dei casi i detenuti-tipo: poveri, disagiati sociali e psichiatrici, tossicodipendenti, stranieri. Nelle ultime settimane mi è capitato varie volte di esprimere giudizi in pubblico sulla legge di recente approvata che consente di scontare l’ultimo anno di pena in un regime di detenzione domiciliare. Ho letto e riletto i contenuti di quel provvedimento e ho avuto modo di verificare che risulta sostanzialmente inutile. Il sovraffollamento penitenziario rimarrà tale e quale. Oggi, ricordo a Marco Travaglio, la popolazione detenuta è composta da quasi 70 mila detenuti, mentre i posti letto sono 44 mila. Ci sono quindi 26 mila persone accampate in celle di fortuna. Per tutti i detenuti il dettato costituzionale (pena umana e funzionale alla rieducazione) è oramai un mito. Si è costretti a vivere in non più di tre metri quadri a testa (così violando le norme internazionali) bagno alla turca compreso. Parto dai punti di dissenso con l’analisi fatta ieri da Marco Travaglio: 1) Non tiene conto che quelle poche migliaia di persone (e non delinquenti come lui li chiama) che usciranno dalle nostre malmesse prigioni sono nella maggior parte dei casi i detenuti-tipo che abitano le nostre carceri, ossia poveri, disagiati sociali e psichiatrici, tossicodipendenti, stranieri. Fra loro non vi sono né mafiosi, né assassini, né narco-trafficanti, né pedofili né colletti bianchi. Di questi ultimi, d’altronde, non vi è traccia nelle patrie galere; 2) L’indulto non è stato un insulto ma un “eccezionale” provvedimento di clemenza che avrebbe dovuto essere usato - come affermò il presidente della repubblica Giorgio Napolitano all’indomani della sua approvazione - per riformare il sistema penale e quello penitenziario. La dura campagna me-diatica che ne seguì ha impedito ogni possibile proposta riformatrice e ha indurito i sentimenti dell’opinione pubblica sempre più orientata verso pulsioni di vendetta piuttosto che di giustizia; 3) Va superata l’idea che le misure alternative alla detenzione (lavoro all’esterno, semilibertà, affidamento ai servizi sociali o in una comunità di recupero) siano una negazione della certezza della pena. Esse sono a loro volta una pena. In un sistema giuridico avanzato va trovato il modo per diversificare le sanzioni. Il lavoro socialmente utile, ad esempio, è meno costoso nonché più vantaggioso della detenzione in termini di prevenzione speciale e generale. Inoltre le statistiche ci dicono che meno dello 0,2% di quelli che sono in misura alternativa commette un reato durante l’esecuzione della stessa e che chi ottiene un beneficio ripaga lo Stato con tassi di recidiva molto più bassi rispetto a coloro i quali scontano tutta la pena in galera, abbrutendosi e aumentando il proprio spessore criminale; 4) Infine, l’ultimo argomento di dissenso con Marco Travaglio, riguarda l’uso forte delle sue parole che rischiano di alimentare sentimenti di insicurezza e richieste di galera, proprio ora che le carceri sono piene di esseri umani oltre il limite del tollerabile. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è legittimare o sollecitare l’opposizione anti-berlusconiana a fare l’ennesima pericolosa campagna sulla sicurezza (quella precedente di sinistra ha prodotto la lotta ai lavavetri e ai rumeni). I ricchi raramente finiscono in galera. Men che meno i colletti bianchi. Fra quei detenuti in via di scarcerazione che avrebbero potuto usufruire del provvedimento sulla detenzione domiciliare avrebbero potuto esserci: Alberto Grande, 22 anni, morto suicida nel carcere di Ancona, Giancarlo Pergola, 55 anni, morto suicida nel carcere di Foggia, Gheghi Plasnicj, 32 anni, morto suicida nel carcere di Bologna, Antonio Gaetano, 46 anni, morto suicida nel carcere di Palmi, Rocco D’Angelo, 53 anni, morto suicida nel carcere di Carinola. Solo per citare gli ultimi detenuti che si sono tolti la vita. Nessuno può accusare noi di Antigone - che da anni monitoriamo e denunciamo le condizioni di vita nelle prigioni italiane - di collusione o intelligenza col nemico berlusconiano. Questa legge però non è un indulto né un insulto. È un inefficace, provvisorio e emergenziale atto di consapevolezza della tragedia in cui versano le prigioni italiane. Una tragedia che richiederebbe ben altro coraggio politico e l’approvazione di riforme di sistema. Ne cito alcune: la introduzione del crimine di tortura nel codice penale, l’istituzione di un organismo indipendente di controllo dei luoghi di detenzione, la decriminalizzazione della vita dei consumatori di droghe, la depenalizzazione dello status di immigrato irregolare, la cancellazione di quelli leggi (ex Cirielli sulla recidiva in primis) che hanno trasformato il diritto penale in un diritto che giudica le persone e non i fatti da loro commessi. IL PUNTO di convergenza con l’analisi di Marco Travaglio riguarda la natura sommaria e elitaria della giustizia penale ai tempi di Berlusconi (tale per colpa delle leggi ad personam ma anche di quei giudici che applicano burocraticamente le leggi mandando in galera gente come Stefano Cucchi): inflessibile con i poveri e generosa con i ricchi, clemente con chi ha un buon avvocato e inesorabile con chi si affida al difensore d’ufficio. La replica di Marco Travaglio Molte cose mi dividono, solo culturalmente e non moralmente, dagli amici di Antigone. Ma non la valutazione sulla situazione vergognosa delle carceri e sulla composizione classista della loro popolazione. So bene che in cella risiedono solo i poveracci. Ma dissento sulla soluzione: sono cinquanta anni che affrontiamo il sovraffollamento dei penitenziari liberando i detenuti (che sono, mi spiace dirlo, “delinquenti” in quanto condannati per gravi delitti, altrimenti non sarebbero detenuti in un paese dove, sotto i 3 anni, non si finisce quasi mai in cella). Amnistie, indulti, indutini e porcheriole come quest’ultima di Alfano, che legittimano la sfiducia dei cittadini nella giustizia e alimentano il senso d’impunità dei criminali. Poi regolarmente ci ritroviamo con le carceri strapiene: forse perché il problema non sono i troppi detenuti, ma i pochi posti cella. Gli amici di Antigone vorrebbero estendere ulteriormente le pene alternative (già applicate a 30 mila detenuti) e depenalizzare altri reati (giusto, per il possesso di droghe leggere e per l’immigrazione clandestina, che però danno vita a detenzioni molto brevi). Io preferisco che le pene vengano scontate in carcere, ma in ambienti dignitosi e in condizioni umane. Dunque vorrei che fossero costruite nuove carceri. Questa maggioranza le promette da 15 anni e non ne ha costruita nemmeno mezza, anzi non è riuscita neppure ad attivare quelle già costruite e abbandonate. Questo, a proposito dell’indulto mascherato di Alfano, avrebbe dovuto denunciare l’opposizione, se esistesse. Giustizia: il provvedimento di Alfano e l’infondata critica di Travaglio di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 9 dicembre 2010 Il ddl Alfano, approvato dalla maggioranza di centrodestra e riguardante “l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno”, è secondo Marco Travaglio un “indultino mascherato” (Il Foglio, 7 dicembre 2010) dal quale sarebbero esclusi solo i condannati per mafia, terrorismo e omicidio. No. Non è vero. Questa tesi di Travaglio è del tutto infondata. Il ddl Alfano è solo un microscopico mezzo per contrastare l’aumento della sovrappopolazione carceraria. Non è paragonabile neppure al più piccolo degli indulti: prevede il parere discrezionale del magistrato di sorveglianza e, oltre ad escludere i soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, non può essere applicato ai soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare e ai soggetti cui è già stata revocata la detenzione domiciliare. In sintesi, è un piccolo beneficio premiale che, fra l’altro, contempla un inasprimento della pena per il reato di evasione. Travaglio non si limita però soltanto a ignorare le caratteristiche giuridiche del provvedimento targato Alfano. Nel suo articolo invita a fare attenzione: “già oggi i detenuti possono scontare gli ultimi due anni di pena agli arresti domiciliari e gli ultimi tre in affidamento al servizio sociale, cioè liberi.” Poi sintetizza il proprio ragionamento con le seguenti parole: “insomma, per finire dentro e restarci bisogna proprio fare una strage”. No. Anche questa tesi è completamente sbagliata. L’eventuale fatto di scontare gli ultimi due anni di pena agli arresti domiciliari e gli ultimi tre in affidamento sociale, come prevede la legge Gozzini del 1986, è sempre a discrezione del magistrato di sorveglianza. Diversi tipi di condannati sono esclusi dal beneficio degli arresti domiciliari, fatta eccezione per coloro che versano in gravi condizioni di salute, e sempre dall’affidamento al servizio sociale. Infine, ma non per importanza, la quasi totalità delle decine di migliaia di persone che finiscono in carcere e ci restano, anche a lungo e al contrario della diffamatoria affermazione sopra citata, non hanno mai compiuto una strage. Travaglio, ad ogni modo, prosegue imperterrito, come se non avesse il benché minimo dubbio sulla validità delle proprie affermazioni. L’effetto del provvedimento, secondo il giornalista, sarebbe “un’ondata di scarcerazioni (usciranno chi dice 2 mila, chi 7 mila, chi 12 mila carcerati su 70 mila) che per giunta, non essendo accompagnata da investimenti per reinserire gli ex detenuti nella società, li porterà a tornare a delinquere, con un aumento dei reati e dell’insicurezza sociale. Il tutto a opera del centrodestra, sempre pronto ad accusare il centrosinistra di “mettere fuori i delinquenti”.)”, ma pure qui la falsità è smascherabile in un batter d’occhio. I detenuti condannati, tranne gli ergastolani, hanno fine pena diversi e con date specifiche. Nessuno si accorgerà delle scarcerazioni a contagocce. D’altra parte, non esistono al momento dati previsionali attendibili. Le cifre di cui parla Travaglio, senza per altro citarne la fonte e di fatto riferite a persone da scarcerare fino al 2013, sono talmente diverse fra loro da negarsi a vicenda! È vero che lo Stato non accompagna il provvedimento con misure finanziarie a favore del reinserimento degli ex detenuti nella società, ma ciò non significa automaticamente che i condannati beneficiari dei suddetti arresti fra le mura domestiche debbano tornare a delinquere. È altrettanto vero che il Pdl e la Lega spesso agiscono in modo ipocrita. Sappiamo bene che in campagna elettorale avevano alzato la bandiera della “certezza della pena” e della “tolleranza zero”, ma non possiamo permetterci il lusso di criticarli tanto per criticarli. Oggi hanno espresso una piccolissima opzione diversa dalle solite politiche forcaiole e questo, senza dubbio, è un fatto di progresso. Piccolissimo, quasi impercettibile, specie agli occhi di chi conosce il carcere dall’interno, ma concreto. Ciò che merita di essere criticato in ogni circostanza e, al di là della provenienza politica, è invece il populismo penale, un fenomeno diffuso in Italia fra coloro che non conoscono nulla del sistema carcerario, del codice di procedura penale, della riforma del 1975, della Legge Gozzini e del carattere liberticida e antiquato del codice penale italiano del 1930. Uno dei massimi propagandisti del populismo penale in Italia è proprio Marco Travaglio. Se perciò quest’ultimo giudica negativamente la possibilità che, per una parte dei condannati, l’ultimo anno di pena detentiva si svolga agli arresti domiciliari, vuol dire che il Parlamento ha approvato qualcosa di utile e non certo dannoso. Giustizia: viva l’indulto!... Il Fatto e Travaglio permettendo di Piero Sansonetti Il Riformista, 9 dicembre 2010 Nei due anni del governo Prodi la sinistra combinò davvero poco. Non riuscì neppure ad avviare le riforme che aveva promesso. Varò una pessima legge sul welfare. Si arenò sulle unioni civili. Tentò, per fortuna inutilmente, di mettere in piedi un decreto contro i Rom. Fece una sola cosa buona (e di sinistra): l’indulto. Cioè fece prevalere la sua anima garantista (era il 2007, e ancora a sinistra luccicava una minuscola fiammella garantista): ridusse le pene dei carcerati e diede un po’ d’ossigeno alle prigioni, che erano strapiene e dentro le quali i detenuti vivevano in condizioni disumane. L’indulto aveva due caratteristiche. La prima era quella di essere una legge molto umana. Civilissima. La seconda caratteristica era quella di essere una legge osteggiatissima. Il Parlamento l’approvò a larga maggioranza, grazie alla convergenza tra il Pd, Forza Italia e Rifondazione comunista, ma la stragrande maggioranza della popolazione, dei giornali, delle televisioni e degli intellettuali era contraria. Veniamo a oggi. Leggo sul Fatto un bell’editoriale intitolato “L’indulto occulto”: è una requisitoria feroce contro il provvedimento (votato in questi giorni da Pdl e Lega) che permette ai detenuti che devono scontare solo un anno di pena di uscire dal carcere e tornare a casa. A occhio e croce mi pare che con questa legge il centrodestra abbia replicato il “profilo” del centrosinistra: due anni al governo senza fare nulla, tranne una cosa buona: l’indultino, come lo chiama Il Fatto. L’editoriale è firmato da Marco Travaglio, dunque è “ufficiale”, più che autorevole. Ne trascrivo poche frasi: “Un bell’indultino mascherato che farà uscire dal carcere migliaia di delinquenti... insomma, per finire dentro bisogna proprio fare una strage... usciranno chi dice 2mila chi 5mila chi 12mila carcerati su 70mila... e questa scarcerazione li porterà a tornare a delinquere, con un aumento dei reati e dell’insicurezza sociale”. Per un momento tralasciamo di giudicare il linguaggio, che mi ricorda parecchio quello che una volta usavano solo i “missini” o i giornali reazionari della sera, come La Notte. Vediamo la sostanza. Primo: per andare dentro bisognerà fare una strage. Non è così, anche perché mi risulta, a dire il vero, che in Italia le stragi sono rimaste tutte impunite... per andare dentro basterà essere immigrato irregolare, e magari avere compiuto un piccolo furto, o essere stato beccato con qualche grammo di droga in tasca. Le cifre ci dicono questo: la maggioranza schiacciante dei detenuti sono accusati di piccolissime “illegalità”. Non è questione di ideologia, stavolta: di dati. Secondo: torneranno a delinquere. Cito ancora un dato: la percentuale di recidiva (a due anni dalla scarcerazione) per gli ex detenuti che hanno ottenuto l’indulto nel 2007, è di cinque volte inferiore alla percentuale media di recidiva dei detenuti scarcerati al termine regolare della pena. Dunque la grande preoccupazione di Travaglio per le nostre città insicure è infondato. Del resto, sia il centrodestra sia il centrosinistra hanno sempre speculato sull’idea che in Italia l’insicurezza sia crescente. Ma tutte le fonti ufficiali ci dicono che mai, mai nella storia, il tasso di criminalità è stato, in Occidente, così basso e così costantemente in calo. Nell’ultima parte dell’articolo, Travaglio se la prende con la Lega, e cita delle frasi - effettivamente molto “leghiste” - pronunciate qualche anno fa dal ministro Calderoli. Diceva Calderoli: “Chiedo al ministro di venire in Parlamento a riferire sui reati commessi in futuro da quanti verranno scarcerati grazie a questo squallido indulto mascherato. Le recidive saranno molte, ed è giusto che il popolo lo sappia”. A me però viene spontanea una domanda: perché Marco si indigna tanto per queste frasi di Calderoli? Non sono forse identiche alle frasi scritte da lui stesso appena trenta righe prima? E poi una seconda domanda: ma perché Il Fatto è considerato un giornale di sinistra, anzi, molto di sinistra - insieme a Repubblica e all’Unità è il giornale più letto dal popolo della sinistra - se poi assomiglia così tanto alla Padania? Giustizia: se gli spazi della pena violano la dignità della persona di Luca Zevi Il Manifesto, 9 dicembre 2010 “Ci occupiamo di carceri per occuparci di giustizia” (e, forse, di giustizia sociale, si può aggiungere). Con queste parole Franco Corleone, animatore de “La società della ragione”, sintetizza il senso e l’urgenza del convegno “Architettura versus Edilizia: quali spazi per la pena secondo la Costituzione?”, organizzato in collaborazione con “Antigone”, “Fondazione Michelucci” e “Forum Droghe” il 2-3 dicembre scorsi al Senato. Un’iniziativa resa urgente da un’acutizzazione della situazione carceraria tanto dal punto di vista della condizione interna agli istituti di pena (come hanno sottolineato Anna Finocchiaro e Sandro Margara), quanto da quello dell’iniziativa governativa attraverso il “piano carceri”, quanto ancora da quello dell’inerzia, quando non della complicità, delle forze di centro-sinistra (Patrizio Gonnella). Con un approccio “concentrazionario” si guarda oggi alla devianza sociale, ma anche all’immigrazione clandestina e perfino all’alloggio provvisorio degli abitanti delle aree centrali de L’Aquila, con le “nuove città” trionfalmente sbandierate dal Presidente del Consiglio (Sonia Paone). La penalizzazione, che agisce oggi come una sorta di Leviatano dell’attuale era “liberale” - con l’affermazione perentoria di un “prisonfare” in sostituzione di un welfare drammaticamente “passato di moda” - rappresenta un pesantissimo assalto alla dignità della persona, presupposto del costituzionalismo moderno, da cui invece bisogna ripartire (Eligio Resta). Del “piano carceri” del governo si sono documentati il carattere velleitario, in termini di compatibilità economica, e l’inefficacia, sul piano dei risultati anche solo quantitativi in termini sovraffollamento delle carceri (Stefano Anastasia). L’auspicato aumento della capienza dei penitenziari viene concepito esclusivamente come “iperdensificazione” degli istituti, attraverso la saturazione degli spazi oggi destinati al verde e alle attività lavorative e ricreative (Corrado Marcetti). La cultura architettonica sembra non accorgersi di come vengono elaborati i capitolati d’appalto per la realizzazione di nuovi centri di detenzione: grandissima attenzione ai dettagli costruttivi, nessuna a una qualità della vita decorosa (Cesare Burdese). Alla stagione innovatrice dell’edilizia carceraria, sviluppatasi dal secondo dopoguerra fino all’approvazione della legge di riforma del 1975, è seguita immediatamente l’età dell’emergenza e, con essa, il tramonto di ogni tentativo di umanizzazione della pena, di configurazione di nuove prigioni sul modello del campus universitario piuttosto che del penitenziario tradizionale (Leonardo Scarcella). La seconda giornata, inaugurata dalla denuncia del persistente valore nobilitante attribuito dalla società alla sofferenza fisica (Adriano Sofri), è stata caratterizzata dalla documentazione della persistente insensibilità al tema dell’affettività dei detenuti (Francesco Maisto e Grazia Zuffa) e, soprattutto, del progressivo disinteresse tanto nei confronti delle misure alternative alla detenzione rivolte ai tossicodipendenti (Maria Stagnitta e Patrizio Gonnella), quanto della carcerazione per le persone in attesa di giudizio (Vittorio Borraccetti e Guido Calvi). Capovolgendo l’approccio oggi in voga, il convegno si è concluso riaffermando con forza come il problema del sovraffollamento delle carceri vada affrontato anzitutto con la fuoriuscita dal carcere (e l’affidamento sul territorio) di tutti quei soggetti - in primo luogo tossicodipendenti ed emigranti clandestini - per i quali la reclusione non può che allontanare il reinserimento nella società (Franco Corleone). Per i condannati si deve continuare a auspicare la promozione di un modello di istituto di pena responsabilizzante anziché, com’è oggi, infantilizzante (Mauro Palma). Pur a fronte di un’azione governativa gravemente lesiva dei diritti delle persone - e di un sostanziale disinteresse delle forze “progressiste” - sono state illustrate infine esperienze significative di umanizzazione della vita carceraria, presenti per fortuna su tutto il territorio nazionale, dovute all’iniziativa individuale di funzionari e di volontari (Sebastiano Ardita). Giustizia: Ionta (Dap); il ddl Alfano è misura saggia, decide il Magistrato di sorveglianza Ansa, 9 dicembre 2010 Per le sovraffollate carceri italiane sarà una boccata d’ossigeno che, seppure minima, potrà rivelarsi vitale per la tenuta di un sistema (69.155 detenuti contro 44.874 posti regolamentari) sull’orlo del collasso: il cosiddetto ddl svuota-carceri, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale di lunedì, entrerà in vigore il prossimo 16 dicembre e consentirà a circa 5-6mila detenuti (su una platea di circa 9.600 possibili beneficiari) di scontare l’ultimo anno di pena in detenzione domiciliare. Per Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si tratta di una misura saggia e di equilibrio e che, soprattutto, non comporterà una immissione in libertà tout court”. Insomma, è tutt’altra storia rispetto all’indulto. Innanzitutto il beneficio non è automatico ma sarà il magistrato di sorveglianza a decidere, caso per caso, se il detenuto ha i requisiti necessari (sono esclusi i condannati per reati gravi come terrorismo, criminalità organizzata, omicidio volontario etc., nonché i delinquenti professionali, abituali o per tendenza). Inoltre - fa notare Ionta - sono previsti controlli di polizia su chi sconterà ai domiciliari l’ultimo anno, e pene severe (da uno a tre anni, ndr.), anche superiori a quelle previste per l’evasione dal carcere (da 6 mesi a un anno, ndr.). In previsione del varo del ddl, il Dap ha provveduto, la scorsa estate, a preparare i dossier di ciascuno dei 9.600 possibili beneficiari. Che, realisticamente, dovrebbero scendere a 5-6mila. Ora spetterà agli uffici dell’esecuzione penale esterna individuare l’effettività del domicilio dichiarato dal detenuto, e il magistrato di sorveglianza ne valuterà l’idoneità. Così da escludere, per esempio, che un condannato per maltrattamenti sulla moglie possa scontare l’ultimo anno pena nella stessa abitazione. Il principale “nodo” da sciogliere sarà quello dei detenuti stranieri: ad accedere al beneficio potrebbero essere in teoria circa 4.500 sui 9.600 totali, ma più difficile sarà stabilire quale sia il loro domicilio. Su questo fronte si punta al coinvolgimento di enti locali, associazioni di volontariato o ecclesiastiche affinché mettano a disposizione strutture dove ospitare in detenzione domiciliare gli stranieri. Ma il ddl svuota-carceri, assieme all’assunzione dei poliziotti penitenziari, è uno dei tre pilastri del cosiddetto piano carceri del governo. Il principale, relativo alla costruzione dei nuove carceri, lo sta portando avanti Ionta, il cui mandato di commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria scade il prossimo 31 dicembre. L’obiettivo è costruire entro il 2102 20 nuovi padiglioni in altrettanti vecchi istituti e 11 nuove carceri, per un totale di 660milioni di euro di cui 500 milioni provenienti dalla finanziaria 2010 e i rimanenti dai capitoli di bilancio ordinario del Dap e dalla Cassa delle ammende. Avviate le intese con gli enti locali, le prime gare di appalto per i nuovi padiglioni partiranno nel 2011. Giustizia: Ionta (Dap); serve proroga ai poteri straordinari, per non perdere lavoro fatto www.polpen.it, 9 dicembre 2010 A poco più di un anno dall’intervista al Capo del Dap Franco Ionta, Polpen è tornata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per fare il punto sulla situazione attuale del Corpo. Un’ora di colloquio per analizzare quanto è stato fatto e chiarire alcuni interrogativi. Lo scorso anno si parlava di una serie di interventi per la razionalizzazione del personale: sentinelle, spacci e l’eliminazione delle scorte e delle vigilanze che non spettavano alla Polizia Penitenziaria. A che punto è questo processo? “In questi mesi è stato fatto tanto. Proprio in questi giorni scade il bando di gara per la gestione degli spacci di tutti gli Istituti italiani. Se questo progetto di assegnazione non dovesse andare in porto passeremo allo step 2, cioè all’assegnazione della gestione Istituto per Istituto. L’indicazione generale è quella di mettere il Personale in condizioni migliori. In questo modo potremmo recuperare 562 unità ai compiti di Istituto. Anche sui distacchi è stato fatto un grosso lavoro”. Nei giorni scorsi il Governo ha emanato alcune disposizioni in favore del Corpo. “La legge approvata la scorsa settimana è importantissima per la Polizia Penitenziaria. Andiamo verso la stabilizzazione del sistema. È stata fatta una operazione epocale con un forte recupero del turnover del personale che va in pensione e noi già abbiamo diramato un bando per la copertura di 700 posti. Accanto a questo c’è un’assunzione straordinaria che oscilla tra le 1600 e le 1800 persone. Accorciando i tempi della formazione per la Polizia Penitenziaria da un anno a sei mesi, noi contiamo di avere entro il 2011 le nuove 2.500 unità operative. Questa legge contiene anche la possibilità di far scontare l’ultimo anno di pena ai domiciliari. È una misura di civiltà e di saggezza. È una forma diversa di detenzione. La terza e importante misura presa dal Governo è quella dell’edilizia penitenziaria. Avere 9.000 posti detentivi in più significa mettere le persone detenute in condizioni migliori in modo che la Polizia Penitenziaria possa lavorare meglio. A febbraio partiranno i bandi per la realizzazione dei nuovi padiglioni e nei prossimi mesi verranno firmati i protocolli d’intesa per la realizzazione delle nuove carceri. Dove sarà possibile verranno realizzati alloggi di servizio per la Polizia Penitenziaria. Sulle nuove assunzioni c’è una novità importante. Abbiamo previsto il blocco della prima sede di assegnazione per 5 anni. Questo evita tutta una serie di manovre per ritornare nelle sedi di origine. A questo proposito vorrei dire che stiamo mettendo in operatività il carcere di Trento che è una struttura tecnologicamente avanzata. Abbiamo mandato circa 20 agenti neo assunti del 161° corso per gestire l’informatica. Questo serve a dire che con una permanenza di 5 anni nella sede di assegnazione la struttura può essere gestita al meglio.”. Il 31 dicembre scadranno i poteri di Commissario Straordinario per l’emergenza carceri… “Io credo che tutto il sistema si debba muovere per la proroga di questi poteri altrimenti si rischia di perdere tutto il lavoro fatto”. Abbiamo parlato di assunzioni. Su questo argomento i lettori di Polpen intervengono spesso per sapere le ultime novità sul concorso a 219 posti (con 800 idonei che aspettano con il fiato sospeso). “Già da qualche settimana sono finite le visite attitudinali. Abbiamo utilizzato una forma di riserva perché ancora non abbiamo le autorizzazioni del Ministero della Funzione Pubblica. Io credo che questa cosa possa avere tempi prevalentemente brevi”. C’è un concorso per Ispettori, bandito nel 2003, che va a rilento… “Ci sono delle priorità per una sana gestione amministrativa. In questo momento l’esigenza primaria è quella di assumere personale in altri ruoli. Le procedure che riguardano quel concorso andranno, comunque, seguite attentamente”. Problema Traduzioni. In alcuni casi il Personale è stato punito perché si è rifiutato di partire senza gli anticipi economici… “Il problema delle Traduzioni è uno dei nodi vitali del sistema. Già da alcuni mesi c’è allo studio la riorganizzazione completa. L’esigenza primaria è quella di dare maggiore dignità alla Polizia Penitenziaria. Il nuovo modello organizzativo privilegerà le Traduzioni aeree. Stiamo lavorando ad un modello operativo completamente diverso in cui noi sostituiremo la Traduzione aerea fatta con le compagnie di linea con una gestione di una flotta aerea di cui spero a breve di avere la disponibilità. Noi acquisteremo un pacchetto di ore volo e ci verranno forniti aerei completi. In questo modo contiamo di avere un forte risparmio economico ed un forte risparmio di Personale. C’è anche in cantiere uno studio per i detenuti del Lazio. Grazie ad un accordo con la Magistratura di sorveglianza vogliamo dare la facoltà ai detenuti di poter partecipare alle udienze in collegamento video. Vogliamo limitare il percorso e l’ambito delle Traduzioni. Mi auguro che situazioni come queste dell’anticipo dei soldi per la missione finiscano al più presto”. Il 15 dicembre il Corpo compie 20 anni. Un periodo difficile per il Poliziotto Penitenziario, soprattutto in questi ultimi anni. Lei come Capo di questo Corpo che si sente di dire alla Polizia Penitenziaria? “Il 15 dicembre noi cercheremo di dare particolare importanza a questo ventennale. Venti anni sembrano tanti ma sono abbastanza pochi. Stiamo ancora combattendo con le parole, nel senso che ancora l’opinione pubblica parla di guardie carcerarie, di secondini. Non è un caso che abbia fatto effettuare un sondaggio sulla credibilità della Polizia Penitenziaria. Siamo all’ultimo posto tra le Forze di Polizia. A questo punto possiamo solo migliorare e sono convinto che già il prossimo anno ci saranno risultati diversi”. Il 2010 che anno è stato? “Lo definirei un anno di transizione ma anche di costruzione. Gli effetti del lavoro si vedranno nel giro di pochi mesi”. Vede un futuro migliore? “Io credo che non bisogna temere il futuro ma bisogna averne rispetto. Ci sono in campo tante cose che vanno nella direzione della stabilizzazione del sistema”. Il peggio è passato? “Credo proprio di sì”. Giustizia: Uil-pa; allarme per le carceri italiane, rischio di incendi come accaduto in Cile Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2010 “Mentre commentiamo stupiti ed attoniti l’incendio sviluppatosi nel penitenziario di Santiago del Cile, che ha portato alla perdita di circa 80 vite umane, il nostro preoccupato pensiero non può non andare alle disastrate condizioni del sistema carcere italiano perché per noi è ben chiaro che ciò che è successo in Cile può capitare, in ogni momento ed in ogni dove, anche nel nostro Paese. Con le stesse nefande conseguenze”. I tragici fatti di cronaca che giungono dalla capitale cilena scuotono il Segretario Generale della Uilpa penitenziari, Eugenio Sarno, che rilancia l’allarme sulla scarsa sicurezza delle strutture penitenziarie italiane. “Premetto che il nostro è , e vuole essere, un grido di allarme razionale e motivato, non un esercizio di inutile allarmismo. Per noi, che ben conosciamo la realtà penitenziaria italiana, è sin troppo facile pronosticare che simili tragedie possano verificarsi anche nella maggior parte delle carceri italiane. Noi della UIL, che abbiamo anche l’abitudine di visitare gli istituti penitenziari, non omettiamo mai di denunciare situazioni di rischio e pericolo derivanti dallo stoccaggio di materiali non ignifughi (vecchi materassi, coperte e lenzuola) in locali non adeguatamente attrezzati con impianti di rilevazione dei fumi o antincendio. Così come non è raro trovare archivi cartacei sistemati in luoghi improbabili senza alcuna strumentazione di controllo e di allarme. Evidentemente nemmeno la notte di fuoco alle Vallette di Torino (3 giugno 1989, 11 morti) è servita all’Amministrazione Penitenziaria per un adeguamento degli impianti e degli standard antincendio. Sempre più spesso -prosegue- siamo nelle condizioni di verificare negli istituti penitenziari la mancata o ritardata manutenzione degli estintori e l’inadeguatezza degli impianti di spegnimento con idranti, che in taluni casi sono fuorigioco per la mancanza di acqua. Questo significa che in caso di incendio, soprattutto in ore notturne, il pericolo di vere e proprie stragi è molto di più che una mera ipotesi di scuola. Tra l’altro la carenza di personale in tali ore non lascerebbe alcuna possibilità di salvare vite umane. Come sempre, il personale di fronte a situazioni del genere dovrà fare ricorso, esclusivamente, alle proprie capacità, al proprio intuito e alla propria esperienza, stante la quasi totale mancata redazione e comunicazione dei piani e delle modalità di evacuazione”. E ancora: “In quasi tutti gli istituti, a prescindere dalle dimensioni, di notte un solo agente è preposto a due-tre sezioni e, quindi, potrebbe aprire le celle ( con una sola chiave) quando e se il caposervizio rende disponibili e porta sul posto le chiavi. Gli idranti non funzionerebbero per il blocco dei rifornimenti idrici disposti per il ricarico dei serbatoi; gli estintori potrebbero non funzionare per la mancata o ritardata manutenzione. Gli allarmi scatterebbero in ritardo perché i centralini sono chiusi e i mezzi di soccorso potrebbero essere non immediatamente disponibili perché quasi tutte le carceri sono sprovviste di autoambulanza. Il personale medico non sarebbe immediatamente disponibile perché in moltissime strutture penitenziarie il servizio medico non è assicurato in loco ma solo attraverso il servizio di guardia medica”. Giustizia: Italia condannata 1.556 volte dalla Corte di Strasburgo, peggio solo la Turchia di Anna Irrera Italia Oggi, 9 dicembre 2010 Il 7% dei ricorsi pendenti dinanzi la Corte europea dei diritti dell’uomo parla italiano. Sul totale di 141.450 contenziosi sono, infatti 9.950 quelli provenienti dall’Italia che si colloca quindi al quinto posto della classifica. Svetta la Russia (28,3%), seguita da: Turchia (11,3%); Romania (8,6%); e Ucraina (7,6%). Questo è quanto emerge dalle statistiche della Corte (aggiornate al 31 ottobre 2010) le quali rilevano, inoltre, che, in quarant’anni di attività, sono state 2.023 le sentenze che hanno visto coinvolta l’Italia. Solo la Turchia, con le sue 2.295 decisioni, è riuscita a tenere più occupati i giudici di Strasburgo. Di questo totale di sentenze che hanno coinvolto l’Italia, in 1.556 casi è stata rilevata almeno una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), mentre sono stati 48 i casi in cui non è stata riscontrata alcuna offesa. Le violazioni italiane costituiscono quindi il 16,57% delle infrazioni totali dal 1959 al 2009. Il 18,81% sono addebitate alla Turchia, il 7,07% alla Russia, il 6,34% alla Francia e il 6,29% alla Polonia. Tra le infrazioni riscontrate, spiccano le 1095 violazioni italiane al diritto alla ragionevole durata del processo, garantito dall’articolo 6 Cedu. Proprio queste condanne fanno dell’articolo 6 la norma dei record. È infatti l’articolo più colpito in assoluto, con un totale di 4.008 violazioni, nonché il più bersagliato da un singolo Stato membro. Le infrazioni italiane sono confrontabili alle 278 condanne alla Francia, le 320 alla Grecia o le 54 alla Germania. Proprio questi dati hanno mosso il Comitato dei ministri del consiglio d’Europa a richiamare l’Italia attraverso la risoluzione n. 22 del 2 dicembre scorso. Con tale risoluzione, le alte cariche dello stato italiano, sono state infatti sollecitate a tener fede agli impegni presi per sanare la piaga della lunghezza dei processi. In particolare, il comitato dei ministri ha rilevato che, secondo i “pochi” dati ufficiali forniti dall’Italia, nel 2008 è stato registrato un “leggero aumento” della durata dei processi penali. L’invito “fermamente” rivolto alle autorità italiane è quindi quello di intervenire al più presto attraverso misure che vedano coinvolti i “principali attori” del sistema giustizia. Quello della ragionevole durata del processo non è però il solo diritto sancito dall’articolo 6 a non essere garantito dall’Italia. Sono state 229, infatti, le violazioni riscontrate del diritto a un equo processo, ossia il 12% di tutte le infrazioni. Il 16% è invece costituito dalle 291 violazioni dell’articolo 1 del Protocollo 1 il quale sancisce il diritto alla protezione della proprietà. Corrispondono al 6% i 128 casi nel quale l’Italia è stata condannata per non aver assicurato il diritto al rispetto della vita privata e familiare, principio sancito dall’articolo 8 Cedu. Giustizia: Cassazione; la condanna penale non preclude l’affidamento dei figli Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2010 Non basta una sentenza penale, neppure passata in giudicato e nonostante sia relativa a reati commessi nel contesto della separazione, a giustificare l’affidamento esclusivo a uno solo dei genitori. Alla regola generale dell’affidamento condiviso, ha stabilito ieri la Sesta sezione civile della Cassazione (24841/10), si può infatti derogare solo se la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”. Il caso portato davanti ai giudici di legittimità riguardava una giovane madre pugliese accusata di calunnia nei confronti del convivente, padre dei suoi figli, e poi anche condannata in primo grado; la donna aveva denunciato il partner per abusi sessuali sulla figlia di tre anni, pur sapendolo innocente. Sulla scorta di quella pronuncia il tribunale dei minorenni aveva affidato i due figli maschi al padre e la bimba alla mamma, mentre la Corte d’appello aveva poi reintegrato entrambi i genitori nellapotestà genitoriale dei tre figli, ma affidato la prole in via esclusiva al padre. Secondo la Sesta civile, però, il giudice di appello in quel modo aveva posto a fondamento della propria decisione fatti lontani nel tempo, non ancora cristallizzati in un provvedimento definitivo, ma soprattutto senza dimostrare perché “quelle vicènde renderebbero, in rapporto all’attualità, del tutto evidente l’inidoneità della madre a svolgere adeguatamente e responsabilmente il ruolo materno”. Invece il giudice, al momento di derogare al regime standard di affidamento condiviso, è tenuto a motivare “non più solo inpositivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore”, come prevede una giurisprudenza ormai costante (16593/2008 e 26587/2009). Pertanto le vicende intercorse tra i due ex conviventi, “anche se strettamente correlate al loro ruolo di genitori e ai loro rapporti con i figli” non sono sufficienti a sorreggere l’affidamento esclusivo, tantomeno a sostenere, come fa “apoditticamente” la corte di merito “il grave pregiudizio che la piccola ha subito e subirebbe rimanendo affidata alla madre”. Giustizia: Sappe; manifestazioni contro tagli Comparto Sicurezza e criticità carcere Ansa, 9 dicembre 2010 “È significativa dello stato di malessere della Categoria la presenza oggi in molte provincie d’Italia di rappresentanze del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, al fianco degli amici delle altre Forze di Polizia per denunciare i rischi sull’operatività e l’efficienza dei servizi di ordine pubblico legati al recente ritiro alla Camera dell’emendamento al decreto sicurezza sulla specificità delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, il taglio di circa 2 miliardi e mezzo di euro in tre anni, la manovra finanziaria che, dal prossimo 31 dicembre, fissa un tetto massimo allo straordinario e alle indennità operative. Ci auguriamo che questa mobilitazione, che culminerà nel sit-in di protesta di lunedì 13 dicembre a Montecitorio, sensibilizzi l’opinione pubblica sul comportamento irresponsabile avuto dal Governo che ha sino ad ora disatteso ogni impegno assunto in campagna elettorale e nei documenti programmativi sui versanti della sicurezza e delle connesse politiche per il personale.” È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commentando i volantinaggi odierni dei Sindacati delle Forze di Polizia. Capece sottolinea anche la particolare e difficile situazione penitenziaria: “Abbiamo troppi detenuti costretti a vivere in spazi ridottissimi, dove crescono le tensioni anche in relazione all’approssimarsi delle Feste natalizie. E la legge appena approvata, quella sulla detenzione domiciliare per pene detentive non superiori ad un anno, che pure ha avuto il nostro plauso, avrà un impatto minimale sulle criticità del sistema, con poche migliaia di detenuti che usciranno dalle carceri, sicuramente meno degli 8mila previsti. Vi sono, insomma, tutte le condizioni per sostenere che nella carceri italiane a pochi giorni dalle festività natalizie non vi sarà proprio nulla da festeggiare. Oggi abbiamo 176 carceri italiane su 206 che superano la capienza regolamentare e ben 116 istituti penitenziari italiani che superano addirittura quella tollerabile. Il totale delle persone detenute è di 69.225, oltre 22.500 in più, tra uomini e donne di quelle previste dai posti disponibili. Tutto ciò viene ormai comunemente riassunto con la parola “sovraffollamento” ed è un termine talmente inflazionato che questi numeri non fanno più notizia. Per noi del Sappe invece, il Sindacato più rappresentativo della Polizia Penitenziaria, si tratta di condizioni di lavoro e di vita impossibili da sostenere: nonostante ciò i nostri valorosi Agenti lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive delle carceri italiane, sventando anche i numerosi tentativi di suicidio di detenuti. Ma per quanto tempo ancora dovranno farlo prima che la politica decida seriamente di intervenire?” Giustizia: Uil-Pa; il 13 i Sindacati di polizia in piazza per i mancati impegni del Governo Adnkronos, 9 dicembre 2010 Lunedì prossimo, 13 dicembre, i sindacati di polizia protestano in Piazza Montecitorio. “Le bandiere torneranno a garrire per denunciare la vergogna di un governo che non mantiene fede ai patti”, sostiene Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari. “A settembre - ricorda il sindacalista - abbiamo chiuso l’accordo economico del biennio 2008-2009 per il comparto Sicurezza e Difesa solo per senso di responsabilità e perché abbiamo voluto dare credito a quei rappresentanti del governo impegnati a salvaguardare la specificità del comparto, anche attraverso l’esclusione dal blocco delle indennità stipendiali per poliziotti e militari”. “Questo governo, che ha incentrato la propria campagna elettorale anche sulla millantata vicinanza alle Forze dell’Ordine, - prosegue Sarno - smentisce tutti gli impegni e le promesse solenni fatte a poliziotti e militari. Dopo il ritiro dell’emendamento presentato da alcuni deputati della maggioranza, che intendeva rendere concreti gli impegni del governo, è chiaro che Berlusconi e i suoi ministri nulla hanno da dare e dire ai poliziotti e ai militari”. “È chiaro - conclude quindi il segretario generale Uil Pa - che il costante, provato, disinteresse del governo verso gli uomini e le donne del Comparto Sicurezza e Difesa non potrà non concretarsi attraverso la civiltà e la fermezza della nostra protesta di piazza. Protesta che trova, ancor più, ragioni in nome delle illegali, incivili, inefficienti e afflittive condizioni di lavoro che sono costretti a subire le donne e gli uomini della polizia penitenziaria”. Giustizia: caso Cucchi; Gup decide forse il 25 gennaio sul rinvio a giudizio degli imputati Dire, 9 dicembre 2010 Il Gup del Tribunale di Roma deciderà probabilmente il 25 gennaio sul rinvio a giudizio degli imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il 31enne romano deceduto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre del 2009, pochi giorni dopo essere stato arrestato per possesso di sostanze stupefacenti. La decisione dello slittamento è stata presa perché è stata riscontrata, da parte del gup Rosalba Liso, la necessità di continuare la discussione, fissando quindi appunto una nuova udienza oltre a quella di oggi. La tesi della Procura, rappresentata dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, che hanno chiesto il rinvio a giudizio di dodici persone e di due anni di reclusione per il tredicesimo imputato (che ha optato per il rito abbreviato), non convince nessuna delle difese, né quella dei medici né quella degli agenti penitenziari, che stanno dando battaglia. I pm hanno parlato di “lesioni”, e non di omicidio preterintenzionale, per gli agenti penitenziari (perché non è stato riscontrato legame tra le lesioni e la morte), mentre da parte dei medici e degli infermieri ci sarebbe stato un “disinteresse”. Una ricostruzione che non va giù nemmeno ai legali della famiglia Cucchi. Al momento, comunque, il processo è stato chiesto quindi per tre agenti penitenziari, sei medici e tre infermieri dell’ospedale Pertini, mentre a volersi avvalere del rito abbreviato è stato il funzionario del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. I reati contestati vanno dall’abuso di autorità nei confronti di un arrestato, alle lesioni aggravate, dall’abbandono di persona incapace al favoreggiamento, all’omissione di referto. Se gli agenti di Polizia penitenziaria, tra le altre cose, sono accusati di lesioni aggravate e di abuso d’autorità, medici e infermieri, invece, avrebbero abbandonato Cucchi non adottando così “presidi terapeutici” e “assistenza”. Lazio: Commissione Sanità riceve Fabio Gui, responsabile sanità per il Garante detenuti Dire, 9 dicembre 2010 Alessandra Mandarelli, presidente della Commissione Sanità della Regione Lazio ha ricevuto in audizione Fabio Gui, responsabile sanità Garante detenuti del Lazio, accompagnato da altri due collaboratori del Garante Angiolo Marroni. Dare una risposta soddisfacente alla richiesta di salute dei detenuti del Lazio è stato l’argomento posto sul tavolo dall’operatore che ha spiegato come “la carenza delle strutture di alcuni penitenziari del Lazio, nell’80% ritenute non idonee, sommata al sovraffollamento delle carceri sono condizioni che aggravano la richiesta di cure dei reclusi della nostra regione. In particolare, Roma con il centro clinico di Regina Coeli ospita detenuti-malati che arrivano da altre regioni, creando una movimentazione che grava sul sistema sanitario del Lazio pur non essendo esclusivamente detenuti di istituti laziali”. “Proporre la partecipazione dei direttori degli Istituti penitenziari del Lazio al tavolo della Conferenza dei sindaci - ha dichiarato la presidente Mandarelli - in fase di programmazione socio-economica con i direttori delle Asl dei singoli distretti, potrebbe portare ad una programmazione a medio-lungo termine, e quindi alla presa in carico delle realtà degli istituti penitenziari a livello locale, con l’inserimento del budget nel Piano aziendale. Forse così- ha chiosato Mandarelli - sui può concretizzare quel governo del territorio come previsto dalla legge regionale 38. Portare la questione sul tavolo della Conferenza dei sindaci come metodo per invertire la tendenza di questi anni, miseramente fallita, di calare dall’alto le normative anziché fare sintesi legislativa della programmazione virtuosa proveniente dal basso”. Disponibilità ad un lavoro di collaborazione con la commissione Sanità è stato espresso dal presidente della Commissione Pari opportunità, Maurizio Perazzolo. Approfondire la conoscenza delle diverse realtà nelle carceri romane è stato l’invito del consigliere Rocco Berardo della Lista Bonino-Pannella, come l’apertura a capire l’incidenza dei costi sulla sanità del Lazio dei detenuti-malati provenienti da altre regioni. Basilicata: interrogazioni dei Radicali e del Psi sulla situazione nelle carceri Ansa, 9 dicembre 2010 In un’interrogazione al Ministro della Giustizia, la deputata radicale Rita Bernardini (eletta nelle liste del Pd) ha chiesto di sapere se “quanto riscontrato dalla Uil-Penitenziari sulle gravi carenze degli Istituti penitenziari lucani corrisponda alle valutazioni del Ministero”. Bernardini ha anche chiesto di sapere “se sia vero che la sicurezza degli istituti lucani sia deficitaria”, ‘come intenda intervenire per coprire le carenze di organico della polizia penitenziaria e per rispettare le norme contrattuali e di legge sulle condizioni di lavoro e sugli straordinari”. Progetto inclusione sociale detenuti, interrogazione di Vita Il capogruppo del Psi in Consiglio regionale denuncia ritardi nell’attuazione di un progetto per l’inclusione sociale e lavorativa dei soggetti adulti e minori sottoposti a provvedimento dell’autorità giudiziaria in Basilicata. Il capogruppo del Psi in Consiglio regionale, Rocco Vita, ha presentato oggi un’interrogazione al presidente della Giunta regionale e all’assessore alla Formazione, Lavoro, Cultura e Sport, nella quale segnala una serie di ritardi nell’attuazione di un progetto per l’inclusione sociale e lavorativa dei soggetti, adulti e minori, sottoposti a provvedimento dell’autorità giudiziaria. Vita ricostruisce il complesso iter attuativo dell’iniziativa, e segnala in particolare che l’Apof-Il “non è in condizione di poter avviare le attività previste per l’assenza di un atto formale di assegnazione di risorse finanziarie”. Per questo motivo Vita chiede di conoscere “le motivazioni di tale ritardo che, nonostante la presenza di cospicue risorse economiche previste e la ricca presenza di atti formali prodotti, non hanno reso possibile l’erogazione di adeguate attività formative in tutti gli Istituti penitenziari della Regione con gravi disagi per la popolazione detenuta che risulta in costante aumento”. Vita chiede infine di sapere, “se come mi auguro e sollecito, si vorrà dare attuazione al programma in tempi rapidissimi, quali sono le modalità e le azioni che il Governo regionale intende mettere in campo per superare le criticità che hanno determinato tali ritardi”. Imperia: Fp-Cgil; le carceri scoppiano di detenuti e il personale è ridotto all’osso Secolo XIX, 9 dicembre 2010 “Le Carceri di Imperia scoppiano di detenuti e il personale è ridotto all’osso - cosa fanno le Istituzioni?”. È quanto si chiedono Pasquale Modesti e Francesco Cutrera, rispettivamente Delegato Sindacale Aziendae e segretario Generale della Funzione Pubbluca della Cgil. “Non fa più notizia, oramai - continua il comunicato dei due esponenti sindacali -, il fatto che i due poli penitenziari imperiesi sono al collasso, in particolare quello di Imperia che con i suoi circa 120 detenuti e la sua struttura non proprio al massimo della sicurezza, potrebbe attestarsi come fanalino di coda di tutte le carceri del nord Italia. Non sono nemmeno servite le varie ispezioni del Dipartimento Centrale di Polizia Penitenziaria a smuovere il Provveditore Regionale per far si che una situazione così grave potesse alleggerirsi almeno un po’. Il risultato di tutto ciò è che i Poliziotti delle carceri imperiesi hanno svolto, ieri 7 dicembre, un presidio di protesta per evidenziare la grave situazione in cui operano i poco più di 50 agenti ivi impiegati; hanno manifestato a gran voce per sottolineare che il Provveditore Regionale non ha nemmeno preso in considerazione la possibilità di assumere almeno parte di quei più di 20 posti vacanti utilizzando, come è noto, la strada delle assunzioni previste per il 2011 dal “Decreto Alfano”. E non ha nemmeno preso in considerazione di far rientrare dai distacchi e dai comandi circa 10 agenti di polizia penitenziaria sparsi per l’Italia che potrebbero, almeno in parte, alleviare le carenze denunciate dai Sindacati di Polizia Penitenziaria. La FP Cgil lo aveva denunciato, non più tardi di un anno fa, quando le Istituzioni asserivano che le celle stavano “scoppiando” e che il personale era ridotto al lumicino, sino a raggiungere carenze del 30/40% nel Carcere di Imperia, ma nulla si stava facendo per rimediare. Tutti se ne accorgevano, stranamente, tardi; in un momento, tra l’altro, in cui il reato di clandestinità stava prendendo corpo e quasi sicuramente i fermi e gli arresti conseguenti, avrebbero creato ulteriori problemi di sicurezza e stress a tutto il personale di Polizia Penitenziaria il quale, con grandissime difficoltà cercava, e cerca tuttora, di ‘tappare il bucò che lo Stato ha generato, in modo vergognoso, da tempo. A distanza di un anno quello che purtroppo il nostro Sindacato denunciò, si è avverato! E malgrado le nostre contestazioni e quelle di tutti i Sindacati di polizia penitenziaria, alle istanze superiori, nulla si è mosso anzi! Il risultato è che, invece di adeguare l’organico le Direzioni delle carceri hanno favorito le mobilità verso altre strutture causando la situazione che ha ingenerato, ora, la protesta dei lavoratori. Per non parlare, poi della gestione poco attenta di ferie e riposi, soprattutto in quest’ultimo periodo e, soprattutto, dell’adozione necessaria di turni massacranti di 8/10 ore che non permettono, a lungo andare, il recupero psico-fisico degli Agenti e li mettono nella condizione di abbassare il livello di attenzione dei controlli con conseguenze che, purtroppo si sono lette sulla stampa locale - ci si riferisce alle recenti evasioni ed a suicidi in cella. La Fp-Cgil si augura che, finalmente il competente Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria romana possa intervenire sul Provveditorato regionale per far si che i rappresentanti dei lavoratori siano ascoltati e le loro proposte prese in considerazione, per il bene della collettività di Imperia”. Rovigo: Fp-Cgil; con ddl Alfano usciranno solo 12 detenuti, rimane il sovraffollamento Il Gazzettino, 9 dicembre 2010 Se da un lato è positivo che il decreto Alfano sulla detenzione domiciliare sia stato approvato come strumento per ridurre il sovraffollamento delle carceri, dall’altro fa nascere altri problemi sul fronte del personale. A denunciarlo il segretario regionale Fp Cgil Alessandro Biasili e quello provinciale Giampietro Pegoraro, che pongono l’accento sui carichi i lavoro che porterà il decreto sugli uffici di Esecuzione Penale Esterna. Mentre infatti potranno esser assunti 1800 poliziotti a livello nazionale, per questo servizio non sono previste nuove unità. “Per non parlare della quasi inesistenza di psicologi dell’osservazione, dell’insufficienza degli educatori e delle difficoltà che incontrano gli uffici di Sorveglianza per carenze di personale e di magistrati di Sorveglianza”. Per quanto riguarda nello specifico Rovigo, Pegoraro fa notare che il decreto non risolverà comunque l’emergenza del sovraffollamento del carcere di via Verdi, visto che a beneficiare della detenzione domiciliare tra gli attuali detenuti saranno solamente in 12 rispetto ai 116 oggi custoditi. Un numero troppo esiguo che, se non bastasse, non riduce nemmeno il carico di lavoro degli agenti. “L’assunzione di poliziotti penitenziari, peraltro molto esigua rispetto alle necessità - evidenzia il segretario Fp-Cgil Pegoraro - può sembrare un primo tamponamento dell’emergenza, ma con un cerotto non si sutura un’emorragia e, soprattutto, non si interviene realmente sul problema”. I destinatari del provvedimento sono infatti i detenuti con fine pena sotto l’anno, per la maggior parte stranieri o senza fissa dimora, che non rientrano nelle fattispecie previste. “I problemi - evidenzia anche Biasioli - si trasferiranno dal carcere al domicilio, dove dovranno essere controllati da forze dell’ordine già allo spasimo in termini numerici e di risorse, distogliendole di fatto dall’attività di prevenzione e contrasto alla criminalità”. Per la Cgil bisognerebbe quindi trovare soluzioni non tampone, ma mirate con interventi anche trattamentali e con personale adeguato al recupero dei detenuti e allo svolgimento delle procedure. Trento: Osapp; Provincia consegna nuovo carcere, ma mancano direttore e comandante Il Trentino, 9 dicembre 2010 “Mancano il direttore e il comandante titolari del nuovo carcere di Trento. Dal punto di vista organizzativo non è pronto alcunché e servirebbero almeno altri due mesi”. È quanto afferma il segretario generale dell’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci. “Non si tratta solo dei soliti problemi di igiene e di funzionalità edilizia tipici dei nuovi istituiti penitenziari - prosegue il sindacalista - ma di vere e proprie carenze organizzative che possono condurre a gravissimi problemi di ordine e di sicurezza interni ed esterni, visto che tutti di detenuti andranno immatricolati e riallocati di nuovo e che non esistono disposizioni sui posti di servizio in cui sarà prioritario impiegare un personale di polizia penitenziaria di 80 unità inferiore alle previsioni e mentre è in programmazione il piano ferie natalizi”. Oggi la Provincia di Trento consegna il nuovo carcere al Demanio dello Stato, dopodiché, con ordine del capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) Franco Ionta, saranno spostati, entro il 15 nella nuova struttura 120 agenti e 170 detenuti, precisa Beneduci. A novembre, però, il sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati aveva confermato l’entrata in funzione del penitenziario entro il mese scorso, rispondendo ad un’interrogazione del deputato Udc Roberto Rao sollecitato dal collega di partito in consiglio comunale Paolo Zanlucchi, essendo già iniziato il trasloco da via Pilati a Spini di Gardolo. Sulmona (Aq): ex detenuti isolati dalla burocrazia; niente residenza quindi niente servizi Il Centro, 9 dicembre 2010 Dopo il carcere, la burocrazia: alcuni ex detenuti, scontata la pena, non possono accedere ai benefici comunali perché ufficialmente non residenti in città. Il vice sindaco e assessore ai servizi sociali Enea Di Ianni annuncia interventi mirati e auspica maggior attenzione al problema da parte della Regione. Il fenomeno degli ex detenuti che decidono di stabilirsi in città per rifarsi una vita, negli ultimi anni è in aumento. In molti, però, dopo essere usciti dal super carcere, non sanno dove andare e bussano alle porte delle associazioni di volontariato ma soprattutto del Comune. “I casi affidati ai servizi sociali sono in aumento” sostiene Di Ianni “due si sono registrati soltanto nell’ultimo mese”. Il Comune potrebbe erogare benefici, una sistemazione abitativa temporanea e sostegno ma poi la burocrazia chiude ogni porta e spegne le aspettative di una vita migliore. Gli ex detenuti, infatti, sono quasi tutti residenti in altri comuni d’Italia e, tecnicamente, il Comune può sostenere soltanto i suoi residenti. “Più volte” riprende il vice sindaco “ci siamo attivati con la Prefettura e altre istituzioni cercando di risolvere i loro problemi, ma servono interventi concreti e mirati perché non si può liquidare una persona, in questo caso un ex detenuto che non sa dove andare, dicendo che non può accedere ai benefici perché non residente a Sulmona”. Chi esce dal carcere di via Lamaccio ha alle spalle pene detentive abbastanza lunghe, spesso non ha più legami familiari. Teramo: l’indagine sul presento pestaggio in carcere non verrà archiviata Il Centro, 9 dicembre 2010 Il giudice riapre il caso Castrogno. L’inchiesta sul pestaggio di un recluso e sull’audio shock con la frase “un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto” non sarà archiviata. Almeno per i prossimi sei mesi. Il giudice per le indagini preliminare Marina Tommolini, infatti, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla procura per l’ex comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Luzi e per cinque agenti, accogliendo l’opposizione fatta da Mario Lombardi , il detenuto che accusa di essere stato pestato in carcere. È stato proprio lui, da qualche tempo trasferito in un’altra struttura, ad opporsi attraverso il suo legale Filippo Torretta all’archiviazione chiesta dal pubblico ministero David Mancini (attualmente in servizio all’Aquila). Il giudice, dunque, ha sciolto la riserva con cui qualche giorno fa aveva concluso la camera di consiglio comunicando alle parti di chiedere nuove indagini sul caso finito sulle prime pagine de i giornali nazionali. Lombardi, 46 anni, ha sempre sostenuto di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria di Castrogno come atto di ritorsione per una sua resistenza nei confronti di un poliziotto: caso per cui l’uomo è stato rinviato a giudizio ed attualmente è a processo. Da qui quel presunto pestaggio. Mancini, dopo mesi indagini, ha chiesto l’archiviazione per l’ex comandante della polizia penitenziaria Luzi e cinque agenti, sottolineando e rimarcando nel provvedimento l’impossibilità di poter dimostrare i fatti per l’omertà registrata proprio nell’ambiente carcerario. L’ex comandante, per cui qualche giorno fa è stata revocata la sospensione, subito dopo l’esplosione del caso, aveva ammesso che era sua la voce che si sentiva nel colloquio shock registrato sul cd. E lui che dice: “Il detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto”. Quel testimone era Uzoma Emeka, detenuto nigeriano morto in carcere un mese dopo i fatti, stroncato da un tumore al cervello non diagnosticato. E l’avvocato Torretta, nella sua richiesta di opposizione, ha chiesto al giudice d’ascoltare la moglie di Emeka per sapere quello che lui le ha raccontato dell’aggressione vista. La donna, qualche giorno fa, sentita come teste in un’udienza del processo a Lombardi ha detto: “Mio marito era in carcere e mi disse di aver visto picchiare un detenuto”. Una testimonianza che getta altre ombre su un caso che il giudice, per ora, ha deciso di non archiviare. San Gimignano (Si): Cgil; acqua razionata ad aggravare situazione del carcere di Ranza Agi, 9 dicembre 2010 Nel carcere di Ranza a San Gimignano è stata razionata l’acqua. La decisione è stata presa per problemi riguardanti i pozzi di raccolta dell’acqua. Lo denuncia Massimo Miscia della funzione pubblica della Cgil. “Un problema - aggiunge - estremamente delicato che da troppi anni si presenta continuamente, con disagi per gli operatori penitenziari e perla popolazione detenuta ristretta nell’istituto. Come se non bastassero le problematiche della cronica carenza di organico del personale di polizia penitenziaria, del sovraffollamento della popolazione detenuta, dell’assenza di un Dirigente “fisso”. Il sindacalista fa presente che due anni fa l’amministrazione penitenziaria “avrebbe rifiutato fauna proposta del Comune di San Gimignano, che si era offerto di farsi carico delle spese necessarie per la risoluzione del problema (circa tre milioni di euro), praticamente il 50% delle spese per l’allacciamento alla conduttura del comunale”. Pontremoli (Ms): inaugurato oggi il primo Ipm d’Italia riservato alle giovani detenute Il Tirreno, 9 dicembre 2010 Si è tenuta oggi la cerimonia di inaugurazione del ristrutturato carcere minorile femminile di via IV Novembre, alla presenza del ministro della Giustizia, Angelino Alfano e dei dirigenti dei carceri minorili dipendenti dalla Corte di Appello di Torino, competente per territorio. Si conclude così l’iter di un struttura carceraria che era nata come Casa mandamentale per ospitava i detenuti a disposizione del pretore di Pontremoli, e che nel tempo è stata successivamente trasformata in casa circondariale per carcerati tenuti a disposizione di ogni attività giudiziaria del tribunale. Questo però fino all’inizio degli anni Novanta quando il carcere di Pontremoli si era dimostrato di non possedere tutti i requisiti tali da poterlo definire “a prova di evasione”, infatti un pomeriggio di pioggia un detenuto era riuscito a fuggire scavalcando il muro di cinta. Nel 1993, il ministero della Giustizia decise che il carcere di Pontremoli fosse trasformato in complesso femminile: pertanto era stato ristrutturato per potere accogliere fino a 30 detenute che dovevano scontare brevi periodi di pena. Per una dozzina di anni il carcere di via IV Novembre è stato in piena attività. Ma dagli anni Duemila ogni volta che una detenuta veniva rimessa in libertà il suo posto non veniva occupato e così in poco tempo il carcere si era andato svuotando, tanto nel 2006 si era verificato lo stridente contrasto di un carcere funzionante a pieno organico di impiegati e guardie carcerarie ma con le celle vuote. E mentre nel Paese si parla ogni giorno di carceri sovraffollate, la stampa continuava a sciorinare i dati riferiti a istituti di pena iniziati e mai completati, in questo elenco il carcere di Pontremoli figurava come funzionante ma con tutte le celle vuote. E così le guardie carcerarie sono state ridotte, e la struttura è rimasta in stand-by. Le pressioni eserciate sul Ministero da parte di tutte le forze politiche pontremolesi hanno sortito l’effetto giusto: il ministro Alfano ha dato il placet per il riutilizzo ottimale della struttura carceraria di Pontremoli in quanto il carcere minorile femminile di Deiva Marina non è stato ritenuto ulteriormente agibile perché bisognoso di rifacimento strutturale. La prova lampante che il problema del carcere era in via di risoluzione si è avuta il 5 ottobre scorso quando il dottor Pappalardo, responsabile del dipartimento giustizia dei minori di Torino, accompagnato dalla dottoressa Maura Lorenzini, dei servizi sociali del tribunale dei minori di Genova, ha fatto visita al carcere femminile di Pontremoli. In quell’occasione il dottor Pappalardo e la dottoressa Lorenzini avevano incontrato il sindaco Franco Gussoni e i rappresentanti delle associazioni di volontariato disponibili a prestare la loro opera di sostegno per le giovani detenute per poterle reinserire a pieno titolo nella società al termine del loro percorso riabilitativo. Milano: cronache dall’Icam, la casa per madri detenute con figli piccoli “in libertà” di Diego Motta Avvenire, 9 dicembre 2010 La stanza di Marta ha le pareti color arancione, gli orsetti appoggiati sul letto e un pò di giocattoli sparsi sul pavimento. In un angolo c’è un lettino dove vive Giulia, due anni e mezzo, sua figlia. Non ci sono sbarre, eppure siamo in carcere, all’Icam di Milano, l’istituto di custodia attenuata per le madri detenute con figli fino a 3 anni. Un posto unico nel suo genere, dove queste donne scontano la pena o vengono rinchiuse in attesa di giudizio. Nell’Italia dell’emergenza permanente, delle carceri sovraffollate e di migliaia di detenuti dimenticati, innanzitutto dalla politica, ecco una storia che merita di essere raccontata perché va controcorrente. “Più che un carcere, sembra una casa famiglia” ammette l’ispettore Stefania Conte, responsabile della struttura per conto dell’amministrazione penitenziaria, mentre ci guida nella visita degli spazi all’interno di una palazzina di proprietà della Provincia di Milano. Lo si vede dalla disposizione delle camere, curate e in ordine, dalla presenza di una biblioteca e di una sala tv, dalla cucina dove una mamma sta preparando il pranzo per le altre detenute. Ogni spazio è pensato per rispondere a un preciso compito e il coinvolgimento di educatori e volontari 24 ore su 24 lo dimostra. Poi ci sono loro: i bambini. Che si svegliano con le loro mamme, escono per andare all’asilo nido della zona, tornano nel pomeriggio e si addormentano come fossero a casa. “Prima di creare questa struttura - racconta l’ispettore Conte - esisteva un nido nel carcere di san Vittore. Si trovava al primo piano, nella zona delle detenute tossicodipendenti. L’abbiamo chiuso quando abbiamo capito che in quella struttura tutto, dal rumore sordo delle chiavi al grigio delle mura, ricordava anche ai più piccoli che ci si trovava in una prigione”. Che conseguenze può avere, fin da piccolissimi, dover crescere dietro le sbarre? È un problema che da tempo interroga le istituzioni, compreso il Tribunale dei minori, gli enti locali e le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti. Le conseguenze della forzata reclusione sulla popolazione infantile non vanno nascoste e l’Icam in questo senso è una risposta che tiene insieme le esigenze di custodia riservate alle madri con il bisogno di garantire un’infanzia serena ai bambini. “Qui cerchiamo di ricostruire una persona, a partire dalla richiesta di una presa di consapevolezza di quanto è stato commesso”. La struttura ha ospitato in tutto 130 persone in 3 anni, con un massimo di 16 persone contemporaneamente. Delle 3mila detenute rinchiuse nei carceri d’Italia, infatti, sono meno di 100 quelle che hanno i requisiti per entrare qui. E chi ci arriva sa di godere di un privilegio. “Là dentro sei in cella, in uno spazio piccolo con altre donne” racconta Bruna, mentre la figlia le gira intorno. Bruna sta studiando per prendere il diploma di terza media e poter tornare a lavorare, magari come barista. “Intanto, con i corsi che mi fanno fare, ho imparato a fare i dolci”. I percorsi di recupero in realtà non sono semplici da affrontare. Prima di tutto perché sempre di una struttura penitenziaria si tratta, sia pure con agenti che girano in borghese. “Gestire la sicurezza è il compito prevalente nelle carceri normali, mentre qui è possibile fare un passo in più, sulla via del trattamento e del reinserimento” fa notare Conte. È una versione della sicurezza dal volto umano, possibile solo in queste condizioni. “All’inizio far rispettare le regole, anche qua dentro, è stato molto faticoso. Poi molte di loro hanno capito che l’impegno in prima persona per ritornare se stesse paga, anche fuori dall’istituto”. Non per tutte, infatti, l’uscita coincide con la messa in libertà definitiva. Per alcune si apre, in caso di buona condotta, la possibilità delle misure alternative, per altre invece, al compimento del terzo anno d’età da parte del figlio, si va incontro invece a un nuovo strappo: la separazione col bimbo. “È un passaggio che affrontiamo per tempo, anche grazie alla presenza di psicologi - spiega l’ispettore Conte. Alla detenuta non viene nascosto nulla”. La normalità qui dentro è il lavoro: su se stessa, innanzitutto, poi sulla relazione con gli altri, dalle compagne alle autorità. “Neppure il bambino può diventare l’alibi per non far nulla. A differenza di San Vittore, infatti, l’ozio non è ammesso...”. Taranto: Osapp; non pagate fatture 2010, rischio stop di erogazione idrica per morosità Ansa, 9 dicembre 2010 Per quasi tutto il 2010 il carcere di Taranto non avrebbe pagato le fatture per la fornitura idrica all’Acquedotto pugliese: per questo potrebbe subire il taglio dell’erogazione del servizio. Lo denuncia in una nota il vice segretario nazionale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), Domenico Mastrulli. “Il verificarsi del preannunciato grave evento - afferma Mastrulli - provocherebbe sicuramente un gravissimo disagio all’intera struttura sia per la utenza detenuta, che a Taranto supera abbondantemente le 650 unità, sia per la polizia penitenziaria che, benché sott’organico di 60 unità, vanterebbe un numero pari a 300 poliziotti già costretti a soggiornare in una caserma pericolante e pericolosa per le infiltrazioni di acqua piovana”. L’Osapp chiede che siano stanziati ‘nel più breve tempo possibile i fondi necessari per intervenire e sanare il problema dell’acqua e di “prendere seriamente in considerazione la proposta del prefetto di Taranto” che ha invitato Aqp a soprassedere alla paventata interruzione idrica, sollecitando il Provveditorato regionale della Puglia ad assumere urgenti iniziative al riguardo”. Agrigento: due detenuti tentano il suicidio, salvati dagli agenti Ansa, 9 dicembre 2010 La Polizia penitenziaria in servizio all’interno della Casa circondariale di contrada Petrusa, lunreì scorso ha salvato la vita a due detenuti. Un extracomunitario e un palermitano che lunedì scorso avevano deciso di farla finita. Il primo annodandosi il lenzuolo al collo, il secondo ingurgitando tutte le medicine del compagno di cella. I fatti si sono succeduti nell’arco di poche ore, confermando come il livello di attenzione tra gli agenti, coordinati dal dirigente del Corpo, Giuseppe Lo Faro, sia sempre più alto. Venezia: un volontario si racconta; io, la fede… e i carcerati da accompagnare La Nuova di Venezia, 9 dicembre 2010 Da 6 anni fa volontariato tra i detenuti, tanto da diventare un punto di riferimento importante per chi ha sbagliato ed è deciso a cambiare vita. Giorgio Schipilliti, 31 anni, mestrino doc, abita in via De Amicis, (laterale di via Piave) di fatto però, la maggior parte della settimana vive in via Passo Campalto, dove la Caritas diocesana ha aperto tra il 2005 e il 2006 la casa Monsignor Vianello, per ospitare i detenuti del carcere maschile in permesso. Da quanto tempo fa volontariato? “Da quando sono ragazzino, ho iniziato nella parrocchia di San Lorenzo, poi sono passato alla Caritas”. Perché proprio i carcerati? “Una volta, durante un incontro del patriarca con i giovani, Scola ci ha invitato a fare volontariato. In quell’occasione aveva nominato vari esempi di possibili pratiche di aiuto: gli handicappati, i bambini, i carcerati. Alla parola “detenuti” ho storto il naso, non è che fossi tanto convinto: gente che ruba, che spaccia. È stata una questione di coscienza, mi son detto: “Se penso così che cristiano sono?”. Prima di giudicare ho voluto rendermi conto. Ho iniziato ad andare in carcere, ad ascoltare i detenuti, accompagnarli. Un giorno uno dei cappellani del Duomo mi ha suggerito di propormi al direttore della Caritas, intenzionato a dar vita alla Casa Monsignor Vianello. Ed eccomi qua”. Ma non è un mestiere. Che lavoro fa? “Insegno, prendo le supplenze che mi vengono assegnate, attualmente lavoro in una scuola di Mira. Sono laureato in chimica industriale, ma rimanere chiuso in un laboratorio non mi ha mai ispirato, preferisco il rapporto umano”. Cosa le piace di quello che fa? “Sacrificarmi per qualcuno, anche se in maniera spesso involontaria. Mi spiego, non è che lo faccio per soddisfazione personale, perché in questo tipo di volontariato non ce ne sono molte: non è che tutti righino diritto, non tutti cambiano vita. Ogni tanto accade, ma non è questo che mi muove. Alla radice c’è sempre la fede, il fatto di trovarmi di fronte una persona bisognosa di aiuto”. L’identikit delle persone che vengono a passare qualche giorno nella Casa? “Carcerati in permesso, ex detenuti, gente che ha voglia di rifarsi una vita: la casa di accoglienza li ospita per un periodo di passaggio, prima di trovare un alloggio o di essere destinati a una comunità di recupero ed io li accompagno per un pezzo di strada”. Nello specifico? “Dormo in una stanza accanto alla loro, gli riordino la vita, li aiuto nelle piccole faccende quotidiane. Spesso sono analfabeti, hanno difficoltà a gestire la quotidianità: dall’abbonamento dell’autobus al telefonino, alla visita dal medico. Io li sostengo”. Cosa l’appassiona? “La varietà, mi trovo ogni giorno di fronte a persone diverse. Quest’anno ho visto 3-4mila persone in tutto, tra le 20 e le 30 al giorno. Vado in carcere, ascolto i detenuti, porto loro i vestiti se li hanno richiesti, alcuni li accompagno alla Casa Vianello, altri no”. Bari: Osapp; agente aggredito da un detenuto, fratture e contusioni alla mano La Repubblica, 9 dicembre 2010 Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito nel carcere del capoluogo salentino da un detenuto di nazionalità straniera, riportando fratture e contusioni alle dita di una mano, tanto da dover fare ricorso alle cure dei medici dell’ospedale Vito Fazzi. Lo riferisce in una nota il vice segretario generale nazionale dell’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Domenico Mastrulli. L’aggressione, che segue di pochi giorni un’altra analoga verificatasi all’interno del carcere di Trani, è avvenuta la sera del 4 dicembre scorso, ma lo si è saputo soltanto ieri. Mastrulli sottolinea che nel carcere di Lecce sono recluse circa 1.450 persone, un sovraffollamento comune a tutte le carceri pugliesi che metterebbe a rischio l’incolumità degli agenti di polizia penitenziaria. Per questo motivo l’Osapp ribadisce la richiesta di incrementare l’organico degli agenti con compiti di vigilanza, sottraendo gli stessi agenti a responsabilità di ufficio. Una proposta avanzata da molto tempo dalle organizzazioni sindacali di categoria, ma sinora rimasta in sostanza senza risposte. Roma: presentato “Stoffe di silenzio”, recital per ricordare la vicenda di Aldo Bianzino Redattore Sociale, 9 dicembre 2010 L’opera, scritta da Ugo De Vita, mette in scena un dialogo immaginario tra il padre Aldo e il figlio Rudra e fa parte di una trilogia dedicata ai diritti dei detenuti. È stato presentato martedì mattina a Roma “Stoffe di silenzio”, un recital per ricordare la vicenda di Aldo Bianzino, quarantaquattrenne morto in circostanze oscure nel carcere di Perugia nell’ottobre del 2007, due giorni dopo il suo arresto per la coltivazione di alcune piante di marijuana. “Un dialogo metafisico tra padre e figlio” nelle parole dell’autore Ugo De Vita, che con il progetto “Parole oltre le sbarre” cura una trilogia dedicata ai diritti dei detenuti, trilogia iniziata con “In morte segreta”, spettacolo ispirato alla vicenda di Stefano Cucchi. “È un imperativo, per il teatro e la poesia, riuscire ad andare oltre e sensibilizzare”, ha osservato De Vita. Il dialogo, accompagnato dalla musica dei cantautori che Aldo amava, è un tempo unico della durata di 55 minuti e sarà rappresentato per la prima volta a metà gennaio a palazzo Valentini, sede della regione Lazio a Roma, e subito dopo nel carcere di Padova. Fanno parte dell’opera anche una raccolta di poesie e il video con un’intervista a Rudra, il figlio oggi diciassettenne di Aldo, realizzata nei luoghi dell’Appennino umbro marchigiano dove la famiglia Bianzino viveva. Rudra ha voluto sottolineare l’importante ruolo di sua madre nel portare alla luce un caso sospetto “perché all’inizio la vicenda di mio padre era passata come morte naturale, come è stato detto anche per altre storie di morte in carcere. Invece ci sono voluti il dolore e lo stress dei familiari che si sono fatti carico di portare alla luce gli aspetti non chiari, trovando anche la forza per chiedere verità”. Rudra Bianzino ha sottolineato che questo forte stress a suo avviso ha contribuito a far precipitare le condizioni di salute di sua madre, determinando l’aggravarsi della sua malattia e poi la morte. Per Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, “In uno stato democratico certe cose non dovrebbero accadere, ma è altrettanto grave che quando accadono siano sepolte in una coltre di omertà e silenzio che le fa passare per morti naturali, se non fosse per la forza di alcuni familiari che se la sentono di lottare per ottenere giustizia”, ha commentato D’Elia in riferimento alle parole di Rudra Bianzino, il quale a proposito della parola giustizia ha osservato che “Se non si vuole cambiare il significato di questa parola, allora bisogna cambiare il sistema”. Secondo la deputata radicale Rita Bernardini, quella di Aldo Bianzino “è una storia emblematica di come lo Stato possa intervenire, armato e con grande dispiegamento di forze, e distruggere l’equilibrio di una famiglia intera”, riferendosi alla sequenza di lutti che ha segnato la famiglia a partire dalla morte di Aldo, cui è seguita la scomparsa della nonna di Rudra e poi di Roberta, moglie di Aldo e madre di Rudra. “Non esito a dire che per me Aldo è stato assassinato dallo Stato”, ha inoltre dichiarato Bernardini. Lo spettacolo “stoffe di silenzio” è stato realizzato con la collaborazione delle associazioni Alice in cerca di teatro, Nessuno tocchi Caino, A buon diritto, Ristretti Orizzonti e Articolo 21. Cile: incendio nel carcere sovraffollato e inumano di San Miguel, muoiono 83 detenuti di Giorgia Fletcher Il Manifesto, 9 dicembre 2010 Almeno 81 detenuti del carcere di San Miguel, sobborgo della grande Santiago, in Cile, sono morti tra le fiamme nell’incendio che ieri ha devastato parte dell’edificio carcerario. Ma il bilancio potrebbe ancora salire, tra i 19 feriti ce ne sono 14 in stato critico. Una tragedia impressionante, avvenuta quasi sotto gli occhi dei familiari - mercoledì è giorno di visite. E un grande imbarazzo per il governo, costretto ad ammettere che le carceri cilene sono sovraffollate e “inumane”, come ha detto il presidente Sebastian Pinera. L’inferno è scoppiato verso le 6 del mattino nella Torre 5 del carcere, quarto piano, dove si trovavano 147 detenuti. Il magistrato inquirente ha detto che l’incendio è stato appiccato deliberatamente - pare nel corso di una rissa tra i detenuti ammassati là dentro. Le televisioni hanno presto mostrato le fiamme che si levavano dall’edificio, decine di vigili del fuoco al lavoro, poi ancora spesse colonne di fumo nero, muri anneriti, uomini che agitavano le braccia da dietro le sbarre. Più tardi 200 detenuti, scampati alle fiamme, sono stati trasferiti dalla zona incendiata. Tutto questo mentre decine di familiari arrivavano davanti al carcere - molti avevano in programma di farlo perché è giorno di visita, altri sono accorsi a sentire la notizia: alla disperata ricerca di notizie premevano contro i cancelli e le mura di cinta, urlavano nomi nella speranza di ricevere risposta da dietro le sbarre. “Non sappiamo se sono vivi o morti”, urlavano persone esasperate alle telecamere tv. Qualcuno ha lanciato sassi e spintonato la polizia, cercando di entrare. Altre scene di disperazione quando i funzionari del carcere hanno cominciato a leggere liste di nomi di sopravvissuti. in un clima di forte tensione, al carcere si è precipitato il ministro della giustizia Felipe Bulnes. Ha cercato di calmare i parenti: ora si tratta di identificare le vittime, ha detto, poi sarà il momento di identificare le responsabilità. Ma ha ammesso: “al di là della causa specifica del fuoco”, sono “le condizioni di sovraffollamento” del carcere l’origine della tragedia. Il carcere di San Miguel ha 1.960 internati ma è previsto per 1.100, ha detto il ministro. E non è un caso unico, ha aggiunto: il “grave sovraffollamento” delle carceri cilene dura da decine di anni. Anche il presidente Sebastian Pinera si è sentito in dovere di intervenire. “È una tragedia terribile e dolorosa”, ha detto, e “non possiamo garantire che il bilancio non salga”. Ma soprattutto, ha detto, “non possiamo andare avanti o con un sistema di prigioni assolutamente disumano”: il governo, ha promesso, “dovrà accelerare il processo per assicurare al paese un sistema carcerario umano, dignitoso, degno di un paese civile”. Difficilmente le promesse consoleranno la folla di parenti che per tutto il giorno è rimasta davanti al carcere di San Miguel, tra l’andirivieni di ambulanze - molte adibite a curare i feriti e intossicati dalle fiamme. “Non sono animali, là dentro. Sono esseri umani”, dicevano alcuni parenti esasperati - mentre da dentro, dalla zona non incendiata, alcuni agitavano magliette e urlavano il proprio nome per dire “sono vivo”. La riforma del sistema penitenziario Un sistema penitenziario “inumano” cui il Governo già da mesi aveva deciso di porre rimedio. Il presidente cileno Sebastian Piñera commenta la tragedia che ha colpito il carcere di San Miguel, dove un incendio divampato in seguito a una lite tra carcerati ha portato alla morte di 81 persone. Il governo aveva già “avviato il 15 ottobre un completo piano di modernizzazione della nostra struttura carceraria”, ha detto Piñera all’indomani della “tremenda e dolorosa tragedia”. “Si stanno costruendo tre nuove carceri e si stanno pianificando carceri di emergenza a moduli, come gli ospedali e e le scuole realizzati in seguito all’emergenza terremoto”, ha aggiunto. Due mesi fa, il ministro della Giustizia Felipe Bulnes aveva consegnato al presidente un piano in undici punti per riassestare la condizione delle carceri. Un piano a beneficio dei carcerati, “ma anche dei 17 milioni di cileni”, spiegava Piñera dicendosi convinto che il programma avrebbe aumentato di riflesso la sicurezza cittadina. Il piano prevedeva l’acquisto di materassi, letti e coperte, miglioramento del vitto, delle luci e delle condizioni igieniche, dell’assistenza sanitaria nelle situazioni di emergenza, aumento delle ore d’aria. E ancora: migliorie nelle modalità di perquisizione, nel calendario delle visite, nell’assistenza spirituale e nella sicurezza interna alle strutture. Al momento sono solo 31 i corpi identificati dalle autorità cilene, per gli atri 50 occorrerà probabilmente attendere ancora qualche giorno. Ma il bilancio della tragedia potrebbe peggiorare: almeno 14 dei 21 feriti versano infatti in condizioni molto gravi. Le stime prodotte dai media cileni rivelano che il carcere di San Miguel aveva una popolazione di 1.960 reclusi, il doppio della capacità per cui era stato disegnato. Messico: turista leccese morì in carcere, poliziotti e magistrati sotto processo in Italia Ansa, 9 dicembre 2010 Si svolgerà a Lecce il 20 dicembre l’udienza preliminare del processo ai poliziotti e ai magistrati messicani ritenuti responsabili della morte di Simone Renda, deceduto il 3 marzo 2007 nella prigione messicana di Playa del Carmen, località nella quale era andato in vacanza. Si tratta del primo processo che si svolge in Italia per omicidio in conseguenza di atti disumani e degradanti in violazione della Convenzione di New York sui diritti umani, E la storia di Simone, 34 anni, impiegato di banca di Lecce, precede drammaticamente quella di Daniele Franceschi morto quest’estate nel carcere francese di Grasse. “Dopo tre anni di attesa e di indagini - spiega all’Ansa la mamma di Simone, Cecilia Greco Renda - siamo riusciti ad avere un risultato straordinario: è la prima volta in Italia che si processano funzionari di uno stato estero, in questo caso messicani, con l’accusa di omicidio volontario con l’aggravante della tortura e di atti disumani. Sono queste le imputazioni per otto pubblici ufficiali messicani”. “L’udienza preliminare è una tappa molto importante - continua Cecilia Greco - perché, se ci sarà il rinvio a giudizio, si apre un precedente ed un aiuto per tutte le altre famiglie che hanno figli detenuti all’estero che hanno subito maltrattamenti. Quello di Simone è un caso che sarà scritto nei testi di procedura penale internazionale, farà giurisprudenza. E così io spero che la sua morte non sia stata vana”. La richiesta di rinvio a giudizio dei funzionari messicani è stata resa possibile - dice la mamma di Simone - grazie ad un intenso lavoro del magistrato Ercole Aprile. “Il giudice Aprile è stato veramente coraggioso nell’abbracciare la Convenzione di New York - sostiene Cecilia Renda - che è l’unica che consente, qualora un cittadino venga sottopost a trattamento disumano da parte di pubblici ufficiali in uno stato straniero, che gli imputati di tali misfatti possano essere processati nello Stato di origine della vittima”. La mamma di Simone dopo tre anni di lotte e di indagini sostiene che si è riusciti a far luce su quello che accadde realmente al figlio quella mattina del primo marzo 2007. E racconta: “Simone era ospite della Posada Mariposa a Playa del Carmen, doveva rientrare in Italia ma quella mattina non si sveglia e in albergo, invece di sollecitarlo, chiamano direttamente la polizia turistica per sgomberare la stanza. Il ragazzo viene portato via, viene picchiato, gli viene chiesto del denaro che non ha. Simone arriva in carcere dopo un’ora e mezza - aggiunge la mamma - dopo essere stato picchiato. Arrivato in carcere Simone si sente male, ha un infarto, ma viene rinchiuso in una cella d’isolamento e lasciato lì. Senz’acqua e senza cibo per tre giorni e tre notti: è morto disidratato. Cecilia Greco Renda su Facebook ha fondato un gruppo, ‘Giustizia per Simonè che ha già 1.318 iscritti. Tra questi un ragazzo inglese le ha mandato le foto di trenta ragazzi morti in Messico negli ultimi anni, sembra uccisi da poliziotti senza scrupoli. Tanti casi, come quello di Simone, ancora in attesa di una risposta. La richiesta di rinvio a giudizio per gli 8 pubblici ufficiali messicani è consultabile sul sito www.ansa.it. Filippine: detenuti in sciopero della fame per rilascio di attivisti politici “43 di Morong” Aki, 9 dicembre 2010 Sciopero della fame per un centinaio di detenuti delle Filippine, che si considerano prigionieri politici e protestano per il rilascio dei cosiddetti “43 di Morong”, un gruppo di detenuti che divide il Paese. Si tratta di persone, tra le quali alcuni medici, arrestate dieci mesi fa e che il governo di Manila considera legate al movimento ribelle comunista, mentre parte dell’opinione pubblica le considera attivisti incarcerati ingiustamente. I 43 sono stati arrestati nella cittadina di Morong, dove si trovavano per un corso per paramedici che, secondo le autorità, era a favore del New Peoplès Army (Npa), il braccio armato del movimento maoista, attivo sin dal 1969. Secondo la Selda, un’organizzazione di ex detenuti politici, almeno 99 dei presunti 371 prigionieri politici attualmente nelle carceri del Paese sono in sciopero della fame in diverse prigioni in segno di solidarietà con i 43 di Morong. Tra le manifestazioni di sostegno al gruppo, ha ricordato Padre Dionito Cabillas, prete cattolico e segretario generale di Selda, oltre allo sciopero della fame dei detenuti ci sono anche proteste portate avanti da Ong fuori dalle prigioni. Stando ai dati di Selda e Karapatan, un’organizzazione per i diritti umani vicina al movimento di sinistra, sarebbero oltre duemila, compresi i 43 di Morong, le persone arrestate illegalmente durante la presidenza di Gloria Macapagal-Arroyo, dal 2001 a giugno 2010. Secondo le due organizzazioni, inoltre, nei primi quattro mesi della presidenza di Benigno Aquino, iniziata a luglio, 23 persone sarebbero state arrestate ingiustamente e 13 di queste sono considerate “prigionieri politici”. Parte delle polemica tra il governo e le organizzazioni di sinistra è dovuta al programma Operation Freedon Watch portato avanti dal governo sin dal 2002 e che Aquino prevede di sostituire a gennaio con una nuova strategia. Il programma prevede un duplice approccio per sconfiggere l’Npa, ovvero operazioni militari nelle aree rurali, dove i ribelli esercitano la propria influenza, e operazioni a livello civile e militare nei centri urbani con l’obiettivo di limitare l’espansione delle infrastrutture politiche dei comunisti. Questo secondo approccio, è stato appurato anche da un’inchiesta dell’Onu di due anni fa, ha portato a centinaia di omicidi extragiudiziali. Per le organizzazioni Selda e Karapatan, gli arresti sono parte dello stesso piano. Egitto; EveryOne: 63 profughi eritrei e somali arrestati sono a rischio deportazione 9Colonne, 9 dicembre 2010 L’Agenzia Habeshia e il Gruppo EveryOne esprimono una protesta formale verso le autorità egiziane che hanno arrestato 63 rifugiati eritrei e somali, dopo la loro liberazione dai trafficanti vicino a Suez City. I profughi sono accusati di immigrazione clandestina. “Ricordiamo al Governo egiziano” dichiarano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti di EveryOne, e don Mussie Zerai, di Habeshia, “che l’Egitto ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e che i 63 migranti hanno diritto alla protezione internazionale poiché fuggono da una crisi umanitaria”. L’Agenzia Habeshia e il Gruppo EveryOne chiedono formalmente all’Alto Commissario Onu per i Rifugiati (Unhcr) Antonio Guterres e al suo portavoce in Italia Laura Boldrini di attivarsi affinché ai profughi sia concessa protezione internazionale e non vengano deportati in Eritrea. “Sono inoltre in corso” aggiungono gli attivisti, “dei negoziati tra le autorità egiziane e i trafficanti nella cittadina di Rafah, nel Governatorato del Sinai del Nord, al confine con Israele, dove sono detenuti da oltre un mese i 250 profughi eritrei, somali, sudanesi ed etiopi, 6 dei quali sono stati barbaramente uccisi. Gli ostaggi sono nelle mani del noto trafficante Abu Khaled, la cui rete si occupa di traffico di migranti, commercio di organi umani, vendita di armi e altre attività criminose. Rimanendo comunque estremamente cauti sulle conseguenze delle trattative ancora in corso, riteniamo vi sia la probabilità di una loro liberazione a breve. Chiediamo dunque sin da ora” continuano Malini, Pegoraro, Picciau e Zerai, “che l’Unhcr e gli uffici dell’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani (Ohchr) vigilino attentamente sul rispetto dei loro diritti fondamentali in vista di un’eventuale liberazione dai loro carcerieri e avanzino preventivamente la richiesta formale all’Egitto che i profughi beneficino di protezione internazionale in qualità di perseguitati. L’Europa deve essere altresì pronta ad accoglierli,” concludono gli esponenti delle due Ong, “e non possiamo permettere che dopo minacce, torture e altre brutalità subiscano un arresto arbitrario e una deportazione irresponsabile”. Canada: capo della polizia avvia indagini sui maltrattamenti ai detenuti Apcom, 9 dicembre 2010 Il capo della polizia di Ottawa ha chiesto all’Ontario Provincial Police di indagare su un video di sorveglianza che riprenderebbe alcuni maltrattamenti di alcuni suoi agenti nei confronti di alcuni detenuti. Vern White ha deciso che un’indagine dell’Opp è il solo l’unico modo trasparente per fare chiarezza sulla faccenda. La bufera è nata dal caso di Stacy Bonds. Un recente video mostra la Bonds durante un alterco con alcuni agenti. La donna viene poi legata da dietro dall’agente speciale Melanie Morris e bloccata al suolo prima che il sergente Steve Desjourdy le strappasse la camicia e il reggiseno con un paio di forbici. Il giudice che supervisionò il video parlò di “indegnità verso un essere umano”.