Giustizia: non ha senso una pena che è soltanto sofferenza gratuita di Adriano Sofri Il Foglio, 6 dicembre 2010 È difficile trovare un senso alla pena che è sofferenza gratuita, il fine della pena dovrebbe essere la fine delle pene. Lo dice uno che è tuttora detenuto. Io mi considero non colpevole e penso di essere stato in galera per tanto tempo pur non essendo colpevole. Ma vorrei rovesciare il problema per dire che non è importante la differenza tra un innocente e un colpevole. Dopo due minuti che si sta in carcere, dopo le pratiche, le foto, la perquisizione anale, la ragione diventa irrilevante. C’è assoluta analogia con la sofferenza, concetto ereditato dalla tradizione cristiana, che non è altro che una pena senza colpa. E questo è un paradosso, non ha senso, così come non ha senso la sofferenza gratuita degli esseri umani. Le attuali condizioni con tre detenuti “ospiti” in una cella infima, il sangue sui pavimenti dei ragazzi che si sono tagliati volontariamente, un carcere così illegale, equivale a una dittatura. Ed è ora di tirare le somme del riformismo-realismo. Aderire ad una definizione della realtà che dimezza le proprie pretese ha portato a 69mila persone recluse in condizioni schifose. Giustizia: il Pd propone di vendere le carceri in centro, possibile ricavarci 100 milioni Agi, 6 dicembre 2010 Il Pd propone di costruire carceri nuove e vendere le carceri in centro, fra cui Regina Coeli e San Vittore. L’operazione potrebbe rendere un centinaio di milioni. Lo rendono noto i senatori democratici Luigi Lusi e Vidmer Mercatali, al termine di una conferenza stampa al Senato sugli emendamenti del Pd. Giustizia: legge svuota-carceri, tutti d’accordo… tranne la legalità di Alessandro De Nicola Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2010 La classe politica è ammirevole. Sul serio. Non più tardi di 4 anni fa, quando il ministro Mastella fece approvare l’amnistia che mise per strada migliaia di detenuti, ci fu un certo malcontento generale, il Parlamento discusse a fondo e alcune forze politiche (la Lega e la defunta An) votarono contro. Questa volta, le Camere hanno votato la legge “svuota carceri”, che farà scontare a circa 9mila detenuti l’ultimo anno di detenzione agli arresti domiciliari, e nessuno ha fatto un piega: maggioranza a favore e opposizione astenuta (in quanto la legge “non risolve” il problema carceri: bella scoperta). Certo, in questo caso il testo non è vergognoso quanto quello della precedente legislatura: non saranno liberati i delinquenti abituali, chi è sottoposto a sorveglianza speciale o quando vi sia la concreta possibilità che il detenuto possa commettere altri delitti o darsi alla fuga. Insomma, i più pericolosi restano dentro. Inoltre, essere agli arresti domiciliari non vuol dire rimanere a piede libero; se si evade, le pene vengono inasprite fino a un massimo di 5 anni e la norma sarà temporanea (massimo fino al 2013), in attesa della costruzione di nuove carceri, dell’ampliamento di quelle esistenti nonché di nuove norme sulle pene alternative. Si prevede poi il reclutamento di 2mila guardie penitenziarie. Le maggiori cautele adottate e il fatto che le condizioni di vita nelle carceri siano diventate insopportabili, anche a causa del sovraffollamento, non giustifica però chi ha omesso di fare alcunché per evitare questa situazione. Non è possibile che l’Italia sia l’unico paese civile ove si ricorra con tale frequenza a provvedimenti di scarcerazione in massa: ne soffre la cultura della legalità e l’essenziale funzione di prevenzione speciale e generale della pena. In poche parole, se il sentimento generale è che o non si vada in galera o i processi cadano in prescrizione o quando si è in prigione prima o poi arriva il salvacondotto per i condannati, inevitabilmente il rispetto della legge cala. Gli studi di analisi economica mostrano che per ridurre la criminalità (specie quella minore) o si adotta un sistema di inflizione frequente di sanzioni non pesanti oppure si comminano più raramente punizioni esemplari, per il semplice principio che chi delinque compie un calcolo implicito molto semplice: soppesa il beneficio del frutto del crimine verso lo svantaggio della severità della pena moltiplicato per la probabilità di essere castigato (10% di probabilità di essere condannato a 10 anni di galera = maleficio prevedibile di un anno). L’unica certezza è che un sistema di saltuaria comminazione di pene basse e comunque a rischio di condono non funziona per niente, soprattutto se la detenzione si passa in penitenziari fatiscenti (grazie al pregiudizio contro la costruzione e gestione di prigioni private come accade in numerosi paesi civili) e dove i carcerati non sono rieducati perché rimangono oziosi (cosa se ne pensa degli sforzi britannici per farli lavorare?). Anche questo, un brutto episodio di vita italiana. Giustizia: Alfano; fare luce sulle revoche al 41-bis disposte nel 1993 Ansa, 6 dicembre 2010 “Tirerò fuori tutte le carte che sono nei cassetti ministeriali e le darò a disposizione del Parlamento” per contribuire a far luce sui motivi che nel ‘93 portarono alle mancate proroghe e alle revoche di centinaia di provvedimenti di 41 bis (il cosiddetto ‘carcere durò inflitto ai boss di mafia), all’indomani delle stragi di Cosa Nostra. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia Angelino Alfano che - intervistato dal Tg1 - ha definito l’allora Guardasigilli Giovanni Conso un “insigne giurista” nonché “notoriamente un galantuomo”. “Certo - ha aggiunto - mi sono più volte chiesto in questi giorni cosa sarebbe accaduto se le revoche del 41bis le avesse fatte il sottoscritto con presidente del Consiglio Silvio Berlusconi”. Alla domanda sul perché, a suo avviso, i media non stiano mostrando interesse alle revoche di 41 bis durante il governo Ciampi del ‘93, Alfano ha risposto: “probabilmente fa glamour preoccuparsi di Berlusconi”. “Ho sempre detto, e ciò mi ha anche attirato addosso delle polemiche, che i magistrati non perseguono un disegno politico ma perseguono un disegno di verità nella ricerca della verità e mi riferisco ai magistrati che indagano sulle stragi”, ha aggiunto il ministro fornendo la sua “assoluta disponibilità ad essere ascoltato sia alla Camera che al Senato” dalle Commissioni competenti che lo dovessero convocare sulla base delle carte ministeriali fornite. Quanto al recente rafforzamento del carcere duro, Alfano ha fornito un bilancio positivo: “sta funzionando, siamo al record storico di detenuti al 41bis. Le comunicazioni con l’esterno sono crollate, le collaborazioni con la giustizia sono aumentate. Ritengo - ha concluso - che questo sia il sistema più efficace per affermare da parte dello stato che lo Stato vince e la mafia perde”. Giustizia: le relazioni di De Gennaro; no a cedimenti sul carcere duro di Giovanni Bianconi Il Corriere della Sera, 6 dicembre 2010 Sostiene Massimo Ciancimino che il misterioso “signor Franco” fu uno dei protagonisti della trattativa fra Stato e mafia al tempo delle stragi, fra il 1992 e il 1993. Era l’uomo che faceva avanti e indietro con la casa romana di suo padre, l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimi-no, nel periodo in cui ci andava anche il colonnello dei carabinieri Mario Mori; era colui che assicurava coperture politico-istituzionali e al tempo stesso riportava messaggi e valutazioni del boss latitante Bernardo Provenzano. Dopo aver descritto per un paio d’anni movimenti e ruoli del misterioso personaggio senza mai dargli volto e nome, negli ultimi mesi Ciancimino jr ha accostato la sua figura al prefetto Gianni De Gennaro, in quel biennio al vertice della Dia, la neonata Direzione investigativa antimafia. Così gli aveva rivelato “don Vito” morto nel 2002, dice, che serbava rancore nei confronti dell’allora “super poliziotto” e del giudice Falcone che lo aveva fatto arrestare. Ma alcuni documenti a disposizione degli inquirenti per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni del giovane Ciancimino su questo punto, fanno emergere posizioni e attività di De Gennaro che sembrano andare in direzione opposta alla trattativa dipanatasi tra una bomba mafiosa e l’altra. E dunque in contrasto con le trame imbastite dal “signor Franco” o chi per lui. A cominciare da un appunto del 27 luglio 1992, otto giorni dopo l’omicidio di Paolo Borsellino, in cui il futuro prefetto, all’epoca vice-direttore della Dia, comunicava che nella strage di via D’Amelio “si intravedono elementi tali da far sospettare che il progetto eversivo non sia di esclusiva gestione dei vertici di Cosa nostra, ma che allo stesso possano aver contribuito e partecipato altri esponenti del potere criminale, sia a livello nazionale che internazionale”, il responsabile operativo del nuovo organismo investigativo segnalava gli “elementi di anomalia rispetto al tradizionale comportamento mafioso” nell’eliminazione di Borsellino, primo indizio che dietro una strage troppo vicina a quella di Capaci in cui era morto Giovanni Falcone c’erano probabilmente altri interessi oltre a quelli mafiosi. Forse gli stessi alla base della presunta trattativa. Quattro mesi più tardi, a novembre del 1992, ancora la Dia sfornava una richiesta al procuratore nazionale antimafia di spedire al soggiorno obbligato ventisei sospetti mafiosi nei confronti dei quali non c’erano ancora le prove per dei provvedimenti d’arresto, ma considerati possibili referenti ed esecutori di una campagna stragista “il cui contenuto eversivo non può essere sottovalutato”, si legge nella relazione della Dia, che proseguiva: “C’è fondato motivo di ritenere che il livello di scontro con le strutture istituzionali possa essere addirittura innalzato mediante il compimento di fatti delittuosi che, all’agghiacciante ferocia delle stragi di Capaci e via D’Amelio, aggiungano, come allora, altrettante inequivoche simbologie”. Tra le persone proposte per il confino c’era anche Francesco Bonura, il costruttore socio occulto di Vito Cianci -mino (secondo i recenti racconti del figlio Massimo) poi condannato per mafia. Anche gli attentati di Roma, Firenze e Milano del 1993” nella ricostruzione giudiziaria tentata finora, rientravano nella trattativa avviata tra Cosa nostra e le istituzioni. Fra gli obiettivi dell’organizzazione criminale c’era l’abbandono dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che introduceva il carcere duro per i mafiosi, divenuto legge all’indomani della strage di via D’Amelio. Ora si scopre che - non s’è capito ancora per iniziativa di chi - per qualche centinaio di detenuti quella misura fu abbandonata tra maggio e novembre dello stesso anno. Ma il 10 agosto ‘93, nelle “valutazioni e ipotesi investigative” sulle bombe scoppiate a fine luglio, De Gennaro divenuto direttore della Dia scriveva: “La perdurante volontà del governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha sicuramente concorso, assieme ad altri fattori, alla ripresa della stagione degli attentati... Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’articolo 41 bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”. Giustizia: i Cappellani accanto a chi soffre, tra i detenuti come educatori di Mimmo Muolo Avvenire, 6 dicembre 2010 In carcere da educatori. Per rispondere a una vocazione che da sempre caratterizza i cappellani dell’ambiente penitenziario, ma anche per far proprio l’impegno di tutta la Chiesa italiana in questo decennio. Si è conclusa con questa rinnovata consapevolezza la riunione del Consiglio pastorale nazionale dei cappellani delle carceri, svoltasi a Roma nell’Istituto “Maria Bambina”. Una riunione centrata soprattutto sul tema “Educazione: senso della nostra presenza in carcere” (proprio in riferimento agli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana di recente pubblicazione), ma nella quale sono stati esaminati anche argomenti di grande attualità nel mondo carcerario, come l’attuazione del Piano carceri, oggetto di una relazione di Emilio Di Somma, vice capo vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Abbiamo scelto questo tema - ha sottolineato, monsignor Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani - perché la nostra azione, accanto ai detenuti e al personale è sempre stata e sempre sarà un’azione educativa”. In un decennio dedicato all’educazione, dunque, “tale consapevolezza non può che essere accresciuta e stimolata e perciò ci sembrava opportuno riflettere sul testo appena uscito”. A guidare la riflessione dei sacerdoti e dei religiosi che operano in questo particolare ambito è stato monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e Assistente generale dell’Azione cattolica. Il presule, anche in base alla propria esperienza di assistenza spirituale al “supercarcere” di Paliano (Frosinone), ha fatto notare: “I detenuti rispetto al discorso dell’educazione vengono da un grosso fallimento di attenzione, di cura e di compagnia. Spesso nella loro vita è mancata la compagnia educativa nell’età evolutiva o è stata soffocata da passioni o situazioni esterne che ne hanno azzerato se non del tutto cancellato la traccia”. Si presentano allora, ha aggiunto monsignor Sigalini, “due grandi prospettive che gli Orientamenti pastorali di questo decennio ci possono aiutare a perseguire”. Da una parte “un percorso di educazione per sé, con un paziente lavoro di ricostruzione degli ideali di vita, di riconquista del senso vero della libertà, di riconciliazione, di pacificazione dell’animo”. Dall’altra “un percorso di attenzione alle proprie responsabilità che ancora esercitano nelle loro relazioni familiari, sociali, matrimoniali, di gruppo carcerario”. Ad ogni modo, educare è un compito indispensabile anche di fronte a vicende personali che sembrano irrimediabilmente perdute. Di qui l’incoraggiamento del vescovo ai cappellani a “offrirsi come la simpatia di Dio per i detenuti”. “Educare è una azione bella e entusiasmante - ha aggiunto -; quando ti relazioni con le persone e le vedi aprirsi a valori nuovi, a ideali belli, cogli la gioia negli occhi perché gli si allarga la vita, gli si aprono orizzonti nuovi”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche monsignor Caniato: “Siamo chiamati ad assistere l’uomo detenuto senza pregiudizi e senza distinzioni di razza, nazionalità, religione, lingua. L’unica mira che dobbiamo perseguire è quella di aiutarli a ricostruire le loro vite, più che sia possibile. E il Vangelo ci dice che per tutti c’è sempre una nuova possibilità”. Monsignor Caniato non dimentica neanche il personale delle carceri. “Siamo lì anche per loro, per sostenerli in un compito che spesso è difficile e ingrato e non fa notizia”. Insomma il bene può sbocciare anche dietro le sbarre. “In tanti anni - conclude l’Ispettore dei cappellani - posso testimoniare di aver visto molte belle storie di rinascita personale”. Proprio lì dove meno te lo aspetti. Lettere: i motivi del sovraffollamento? l’aumento dei detenuti stranieri e i nuovi reati di Orazio Sorrentini (Direttore Casa di Reclusione di Opera) La Padania, 6 dicembre 2010 Il Rapporto Censis 2010 ha, nella parte di esso inerente alle carceri, descritto correttamente, seppur in maniera sintetica com’era giusto che fosse, l’attuale situazione del sistema penitenziario italiano. Il dato che più colpisce è senz’altro quello che riguarda il numero complessivo dei reclusi, di molto aumentato negli ultimi anni e destinato a crescere ulteriormente. Siamo ancora ben lontani dal tasso di percentuale dei detenuti più alto del mondo rispetto agli abitanti del Paese, primato saldamente in mano agli Stati Uniti d’America e non si tratta neppure di un record nella storia del nostro giovane Paese perché nei primi decenni post-unitari esso era ben maggiore, però il fenomeno è certamente meritevole di attenzione e studio. Per risolvere il correlativo problema dell’eccessivo affollamento degli istituti di pena si è prevista, come è noto, la costruzione di nuovi penitenziari. Occorre tuttavia chiedersi, come fa di frequente il cittadino comune, perché i detenuti siano sempre di più. La domanda è naturalmente tanto giustificata e affascinante quanto difficile, ma se si vuole cercare seriamente di darvi una risposta bisogna convincersi che al riguardo vi è una sola certezza e cioè che non esiste un solo tipo di spiegazione. Nonostante sia un terreno minato è indubbio e indiscutibile che al fenomeno in esame abbia dato e dia un contributo decisivo l’aumento dell’immigrazione, soprattutto quella irregolare. Ciò per il semplice quanto inconfutabile dato che è costante l’aumento della percentuale dei detenuti stranieri rispetto al numero totale dei reclusi (era del 15,1% nel 1991 e del 37,5% nel 2007) ed indipendentemente da qualsiasi tipo di valutazione sui motivi per cui ciò sia avvenuto. Un altro fattore decisivo è sicuramente lo sviluppo tecnologico che di per sé comporta sia nuove forme di delinquenza che il legislatore punisce per mezzo della creazione di nuove figure di reato (basti pensare ai computer crime o criminalità informatica) che nuovi fondamentali strumenti atti a facilitare l’individuazione dei colpevoli. Credo infine che sia giusto sottolineare come abbiano avuto scarso successo le varie normative finalizzate a “decarcerizzare” il sistema (come ad esempio le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi previste dalla legge n. 689 del 1981, che introdusse nel nostro ordinamento la pena del lavoro sostitutivo). Ciò ha indotto il legislatore ad emanare leggi volte direttamente a deflazionare gli istituti, quali quella sull’indulto del 2006 che molte polemiche suscitò e quella, recentissima, n. 199 dello scorso 26 novembre inerente a coloro i quali debbano scontare non più di un anno di reclusione (anche se residuo di una pena maggiore). Valle d’Aosta: l’Osservatorio Carcere ha discusso di sanità penitenziaria e lavoro per i detenuti Ansa, 6 dicembre 2010 La Presidenza della Regione informa che si è riunito oggi, lunedì 6 dicembre, l’Osservatorio ex art. 7 del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Valle d’Aosta, presieduto dal Presidente della Regione Augusto Rollandin. Tra i punti di rilievo, la situazione della sanità penitenziaria, per la quale, oltre all’avvenuta pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 19 novembre scorso delle Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Valle d’Aosta recanti il trasferimento di funzioni in materia di medicina e sanità penitenziaria, si è preso atto con favore del lavoro congiunto tra l’Assessorato della sanità, la Direzione del carcere e l’Usl, che ha permesso di far fronte alle emergenze e che consentirà di organizzare al meglio tale ambito con l’applicazione della norma di attuazione. È stato inoltre comunicato che proseguono con successo, grazie all’intervento della Sovraintendenza agli studi, gli interventi di alfabetizzazione linguistica destinati ai detenuti stranieri per l’apprendimento della lingua italiana e i corsi di alfabetizzazione informatica. Nell’ambito formativo, sono in fase di realizzazione le iniziative promosse dall’Agenzia regionale del lavoro e co-finanziate dal Fondo Sociale Europeo: un corso di formazione per addetto alla aree verdi e alle piccole manutenzioni, laboratori di scultura e grafica, percorsi di orientamento e tirocini di formazione. Procede inoltre l’attività di lavanderia interna avviata nell’aprile di quest’anno, per la quale esistono prospettive di crescita, mentre dei buoni risultati sono stati ottenuti nell’inserimento lavorativo dei detenuti. Infine, un plauso è stato espresso per la pubblicazione del nuovo giornale “Pagine speciali”, realizzato dai detenuti a seguito di un corso di giornalismo promosso dall’Agenzia del lavoro, dall’Enaip e dall’Associazione valdostana Volontariato carcerario e finanziato con fondi europei. Il Presidente Rollandin ha ribadito che “l’impegno dei diversi soggetti - la Regione, la Direzione della Casa Circondariale ed anche il volontariato - ha permesso di raggiungere risultati soddisfacenti, grazie anche alla confermata stabilizzazione del dottor Minervini alla direzione del carcere, alla sua esperienza e agli sforzi da lui realizzati. Per i prossimi mesi saremo impegnati nel definire le linee applicative della nuova norma di applicazione in materia sanitaria, attraverso la legge regionale e la nuova organizzazione che ne conseguirà. Sono passaggi essenziali che abbiamo deciso di realizzare sin dall’inizio in perfetto raccordo tra Regione, Direzione della Casa Circondariale e Usl”. Sicilia: il Garante; sarà “Mister prezzi” a verificare prezzi praticati dagli spacci interni alle carceri Ristretti Orizzonti, 6 dicembre 2010 Fleres, Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, su prezzi praticati presso gli spacci presenti all’interno delle strutture penitenziarie della Sicilia: “Sarà “Mister prezzi” ad effettuare una verifica sui prezzi praticati dagli spacci interni alle strutture penitenziarie” “Questa è la richiesta contenuta in una nota che ho inviato al Garante per la sorveglianza dei prezzi a seguito delle continue lamentele che giungono da quasi tutte le strutture penitenziarie della Sicilia, circa i prezzi praticati dagli spacci presenti all’interno delle medesime strutture. “I detenuti, ha proseguito il Sen. Fleres, sono costretti a sopperire alle carenze nelle forniture acquistando molti prodotti, alimentari e non, attraverso gli spacci, oltre tutti quei generi che solo attraverso tale mezzo possono possedere. “Mi auguro, ha concluso il Sen. Fleres, che questa vicenda possa risolversi tenendo conto del fatto che i detenuti non possono rivolgersi ad altre per acquistare i prodotti ed è dunque auspicabile che si tenga conto di questo ulteriore dato nella fissazione dei prezzi”. Torino: con la legge svuota-carceri solo 83 detenuti potranno (forse) lasciare le Vallette La Repubblica, 6 dicembre 2010 L’hanno chiamata “legge svuota carceri”, entrerà in vigore il 16 dicembre. Ma anche in Piemonte - dove si veleggia oltre quota 5.300 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 3.445 - le “disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno” non avranno un’incidenza massiccia. Al Lorusso e Cutugno - ormai stabilmente sopra le 1.600 presenze giornaliere, contro le 1.092 regolamentari e le 1.790 ritenute tollerabili dal ministero - i condannati che hanno i requisiti giuridici per passare a casa gli ultimi dodici mesi di condanna sono 83, pari a circa il 5 per cento. “Questo è il totale teorico degli aventi diritto - spiega il direttore del carcere torinese, Pietro Buffa - ma il numero reale potrebbe scendere. Ogni singola posizione deve essere vagliata dalla magistratura di sorveglianza che valuterà caso per caso se e chi ammettere alla detenzione domiciliare. Noi c’eravamo preparati in tempo. Abbiamo già inoltrato tutti i nominativi e i relativi fascicoli”. Lo stesso è stato fatto negli altri istituti piemontesi e per la casa di reclusione di Aosta. “Ci siamo mossi quest’estate - racconta Aldo Fabozzi, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - appena abbiamo avuto notizia dell’approvazione del disegno di legge in materia. Così c’è stato il modo di censire in anticipo i detenuti interessati e di preparare la documentazione. Gli ammissibili sono sulla carta un migliaio. Però, secondo le nostre previsioni, non otterranno la detenzione domiciliare più di 300-350 persone”. Uno dei requisiti fondamentali è l’avere un indirizzo fisso e controllabile, che sia una abitazione, un luogo pubblico o privato di cura oppure un centro di assistenza e accoglienza. Molti stranieri non hanno alcun punto d’appoggio. E c’è una quota non indifferente di italiani border-line. Però Fabozzi vede anche il bicchiere mezzo pieno. “Anche 300 detenuti in meno sono importanti per migliorare le condizioni di chi resterà dentro”. Nei 13 istituti del Piemonte sono rinchiuse 5.340 persone, quasi metà straniere (2.633). I detenuti in attesa di primo giudizio 992, quelli che aspettano l’appello 620, i ricorrenti in Cassazione 393. Nuoro: carcere e recupero dei detenuti, al via progetto delle fattorie sociali La Nuova Sardegna, 6 dicembre 2010 Parte il progetto “Fattorie delle opportunità” che darà a dieci ex detenuti la possibilità di essere inseriti nel mondo del lavoro. Un cammino teso alla costruzione di una rete attraverso le Fattorie sociali e la via dell’economia solidale. Centosedicimila euro del Fondo sociale europeo saranno utili per inserire i detenuti nella vita delle comunità attraverso una stretta relazione “carcere, comunità, lavoro”. Non solo: il progetto mira a valorizzare e diffondere le buone prassi in termini di agricoltura sociale. Un percorso che mette in rete assessorato regionale alla Sanità, Provincia (ente capofila), Laore, l’ente di formazione Enap, la rete di economia solidale Terra Madre, l’associazione Ut Unum Sit, le cooperative sociali Il Samaritano e il Seme. “Puntiamo a sgretolare la marginalità sociale e a costruire nuovi posti di lavoro - ha detto Giuseppe Dessena, assessore provinciale al lavoro, presentando il progetto -. Riguarda i soggetti svantaggiati sottoposti a misure detentive. Auguriamo loro di trovare una solida e stabile occupazione nel mondo del lavoro”. E il direttore del Csl, Tullio Sanna, coordinatore del progetto ha affermato: “Finalmente si comincia a discutere di progetti inclusivi per persone con problemi di marginalità. Non è un percorso che mira solo alla massimizzazione del profitto: esiste l’impegno sociale”. I dieci ex detenuti provengono da varie parti dell’isola. Lavoreranno in aziende agricole di Nuoro, Fonni Mamoiada, Ula Tirso e Samugheo, percepiranno uno stipendio di 450 euro al mese. Viterbo: Radicali in visita trovano sovraffollamento, carenza di organico e mancato rispetto norme Il Messaggero, 6 dicembre 2010 Rita Bernardini annuncia interrogazione sulla Casa circondariale “Abbiamo trovato sovraffollamento, carenza di organico e mancato rispetto norme ordinamento penitenziario”. Sovraffollamento, carenza di organico, mancanza assoluta di attività trattamentali e mancato rispetto delle norme dell’ordinamento penitenziario: presenterà un’interrogazione al ministro della Giustizia Angelino Alfano sulla Casa circondariale Mammagialla di Viterbo, la radicale eletta nelle liste del Pd Rita Bernardini, dopo la visita ispettiva effettuata questa mattina con una delegazione composta, oltre che dalla Bernardini, membro della commissione Giustizia della Camera, dal presidente di Casa Pound Italia, Gianluca Iannone, e dal radicale Enrico Salvatori. “Abbiamo trovato una situazione al collasso - spiega la delegazione - A cominciare da una carenza di personale a dir poco preoccupante: nella casa circondariale operano 150 agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto a quanto previsto dalla pianta organica, tutti costretti allo straordinario obbligatorio quotidiano nonostante il loro sia considerato un lavoro usurante. E questo naturalmente si ripercuote sulle attività carcerarie anche per motivi di sicurezza, tanto che nel carcere non si fanno attività trattamentali, che invece sono fondamentali per il reinserimento del condannato. A generare forti criticità - prosegue la delegazione - è anche il fatto che il Mammagialla ospiti diverse tipologie di detenuti: tra i 750 reclusi ci sono detenuti con il 41 bis, detenuti in regime di alta sicurezza, detenuti con condanna definitiva e circa 50 ergastolani, e per chi organizza la sicurezza interna del carcere è difficile mantenerli separati. Così ci si trova nella situazione paradossale che ergastolani coabitino nella stessa cella con detenuti comuni o addirittura con reclusi in stato di carcerazione preventiva, con le conseguenze immaginabili in termini di disagio psicologico. Una situazione peraltro contraria alla legge, visto che il codice stabilisce che gli ergastolani debbano scontare la pena in istituti ad hoc, in isolamento notturno e con l’obbligo di lavorare”. “Il lavoro è un altro punto dolente - riferisce ancora la delegazione - solo il 10% dei detenuti infatti lavora, e lo fa a rotazione. Nel carcere inoltre ci sono solo cinque educatori e tre psicologi, un numero evidentemente insufficiente a fare fronte alle esigenze dei detenuti. Anche dal punto di vista sanitario la situazione è complicata, oltre che per le carenze di tipo sanitario in senso stretto, anche per la carenza di agenti penitenziari, che costituiscono il personale preposto alle traduzioni dei reclusi, e, visto il loro numero ridotto, potrebbero non essere in grado a far fronte tempestivamente alle emergenze. Anche perché il Mammagialla ospita 110 reclusi affetti da malattie infettive, compresa epatite B e C, e nove sieropositivi, mentre il 30% dei detenuti è tossicodipendente, e un altro 30% è affetto da patologie di tipo psichiatrico. Il problema più grave resta però il sovraffollamento, dimostrato dal fatto che anche nelle piccole celle da un posto siano sistemati due detenuti con letto a castello, e che venga utilizzato per i detenuti comuni anche un reparto come quello dell’isolamento, che per legge dovrebbe avere finalità completamente diverse. Una condizione così drammatica che può accadere, come è appunto successo due sere fa, che sei persone arrestate siano costrette a dormire per terra nel corridoio perché il carcere è tutto pieno. Note positive - conclude la delegazione - il buon rapporto tra gli agenti penitenziari e i detenuti, la pulizia del carcere e la professionalità, nonostante le carenze di organico, del personale sanitario. “Situazioni come quella di oggi non vorremmo più doverle vedere - spiega il leader di Cpi Gianluca Iannone - Anche se siamo distanti politicamente dai Radicali concordiamo però sulla necessità di una riforma che, nel rispetto della Costituzione, trasformi le carceri da luoghi di vessazione in luoghi di riabilitazione”, conclude. Fossombrone (Pu): Consiglio regionale visita il carcere; buona la situazione dei detenuti Corriere Adriatico, 6 dicembre 2010 È finito oggi, con il sopraluogo all’Istituto penale di Fossombrone, il ciclo di visite svolte dalla delegazione dell’Assemblea legislativa delle Marche nelle prigioni della regione. Per l’occasione era presente il presidente Vittoriano Solazzi, il consigliere regionale Giancarlo D’Anna, i rappresentanti del gruppo Verdi e del gruppo Idv in Regione, accompagnati dall’Ombudsman regionale e Garante per i diritti dei detenuti, Italo Tanoni. Nel corso dell’incontro, il presidente Solazzi ha sottolineato l’importanza di queste visite, che consentiranno al consiglio regionale di avere un quadro preciso della situazione carceraria nelle Marche. L’obiettivo è poi quello di presentare al Ministero dell’Interno tutte quelle richieste che saranno ritenute necessarie per migliorare le condizioni umane all’interno degli istituti di pena marchigiani. La delegazione si è incontrata con il direttore del penitenziario, Maurizio Pennelli, e ha visitato il carcere che in questo periodo ospita centoventidue detenuti, di cui il 9% è di origine extraeuropea. in una nota la Regione precisa che “Anche se l’istituto necessita di alcuni interventi, la situazione generale in cui versano i detenuti, dal punto di vista ambientale e umano, è apparsa abbastanza buona”. La delegazione informerà, con una relazione, l’assemblea legislativa, affinché tutto il consiglio regionale sia reso partecipe della situazione in cui versano i setti istituti penali delle Marche. Rimini: detenuto suicida, due agenti della polizia penitenziaria accusati di omicidio colposo di Andrea Lattanzi Il Corriere di Romagna, 6 dicembre 2010 Giovanni Lorusso avrebbe dovuto lasciare il carcere il giorno dopo ma due agenti si sono scordati di avvisarlo e il detenuto si è suicidato. Il 41enne carcerato, dopo due precedenti dinieghi, decise di suicidarsi con il gas del fornellino all’interno della sua cella. Tutto ciò successe un anno fa e la sua famiglia non ha ottenuto giustizia né risposte convincenti sulle cause della morte del congiunto. Ancora non è stata fissata l’udienza per discutere se chiudere la vicenda o se sono necessari supplementi negativi dato che c’è stata opposizione all’archiviazione del procedimento a carico di due agenti della polizia penitenziaria, accusati di omicidio colposo. Bologna: scrisse falso certificato di invalidità per un detenuto, arrestato il medico Ansa, 6 dicembre 2010 Il suicidio del siciliano, avvenuto a gennaio, spinge gli inquirenti ad aprire un'indagine. Ed emerge che era ai domiciliari per un falso certificato che gli aveva consentito di uscire dal carcere. Un certificato di invalidità totale. E S.B., 42 anni, condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, fine pena prevista nel 2023, esce dal carcere, per lui i domiciliari, a Imola. Ma quell'uomo, che si è suicidato a gennaio 2010, secondo l'accusa partecipava a balli di gruppo e guidava l'auto senza ausilii, tanto che fu fermato dai vigili. Le indagini, condotte per un anno dalla Polizia di Stato, hanno portato all'arresto del medico che firmò quel certificato: Mauro Menarini, 52 anni, già direttore sanitario del Centro di riabilitazione e attualmente responsabile del Dipartimento medicina riabilitativa e Unità spinale della stessa struttura. Genova: presunta violenza sessuale da parte del direttore, detenuta chiede i danni Agi, 6 dicembre 2010 Si è costituita parte civile la giovane detenuta marocchina che, denunciando di avere consumato dei rapporti sessuali con l’ex direttore del carcere di Genova Pontedecimo Giuseppe Comparone, 61 anni, aveva dato vita ad un’inchiesta che si era conclusa con il rinvio a giudizio del dirigente della polizia penitenziaria per violenza sessuale aggravata con abuso di autorità, concussione, calunnia e falso ideologico e la sospensione dall’incarico seguita a breve dal suo pensionamento. La marocchina, che sta scontando una pena per violenza su minore, oggi 29enne, quando nel 2009 scoppiò lo scandalo fu trasferita in un altro carcere. La sua costituzione come parte civile è avvenuta stamani di fronte al Gup Silvia Carpanini. Il processo si sta celebrando con rito abbreviato. I difensori di Comparone, Mario Iavicoli e Stefano Savi, hanno chiesto l’assoluzione per il loro assistito. L’inchiesta aveva preso le mosse nel 2009 proprio da una denuncia della detenuta. Il pm Vittorio Ranieri Miniati ha chiesto sei anni di carcere per l’ex direttore del carcere. Secondo l’accusa Comparone consumò tre rapporti sessuali con la ventinovenne che godeva del beneficio del lavoro esterno. I rapporti sarebbero stati consumati sotto la minaccia di revoca di questo beneficio. La sentenza sarà pronunciata venerdì. Pisa: un convegno sul tema “Lavorare in libertà, un carcere per rinascere” Il Tirreno, 6 dicembre 2010 Il lavoro come elemento fondante per il reinserimento nella società di quanti sono precipitati nell’inferno carcerario italiano. Un tema, questo, tra l’altro sancito dalla nostra Costituzione, dibattuto ieri a Pisa, all’auditorium “Toniolo”, nel corso di un convegno nazionale dal titolo “Lavorare in libertà: un carcere per rinascere” cui hanno preso parte esponenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura e del sociale. Non è certo la prima volta che nella nostra città si dibatte un tema così delicato quanto importante, proprio perché il “Don Bosco” in sinergia con la casa circondariale di Torino, 20 anni or sono, dette impulso all’esperienza pilota denominata progetto Prometeo, dedicato in prima istanza a detenuti affetti da Aids e Hiv, che in una sezione apposita potevano beneficiare di un regime meno restrittivo e socializzare con altri detenuti sani, appositamente inseriti nel contesto. Un progetto che in tutta la provincia di Pisa porta il nome di “agricoltura sociale” che ha dato la possibilità, se pur a pochi oggi ex detenuti, di ricominciare una vita normale grazie all’impegno delle istituzioni e di molte aziende del territorio. “Una goccia nel mare - la definisce Enrico Della Ratta Rinaldi, magistrato di sorveglianza a Roma - che dovrebbe costituire la regola e non l’eccezione. Il lavoro, in carcere è l’unica possibilità per togliere il detenuto da quello stato di prostrazione causato dallo stare sdraiato a guardare il soffitto”. Un primo passo verso la comprensione di chi, pur sbagliando, soffre le pene di un carcere che ha ormai perduto il senso della dignità umana, possiamo farlo visitando il mercatino di Natale allestito con le opere artigianali dei detenuti del Don Bosco, al piano terra dell’Arcivescovado. Fino al 18 dicembre con orario 10-12.30 e 15.30-19.30, esclusi i festivi. Sassari: droga lanciata in carcere all’interno di palle da tennis, arrestati famigliari di un detenuto Ansa, 6 dicembre 2010 Un flusso di droga in entrata nel carcere di San Sebastiano, a Sassari, anche con un ingegnoso metodo di palline da tennis riempite di dosi e lanciate dall’esterno, è stato scoperto dagli della Polizia penitenziaria al termine di una indagine, coordinata dalla Procura sassarese, che ha portato all’arresto di due persone, padre e figlia. In manette, con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, sono finiti Gavino Usai, meccanico sassarese di 49 anni, e la figlia Veronica, di 21. Gli agenti penitenziari, in collaborazione con l’unità cinofili del Provveditorato regionale, hanno predisposto un servizio all’ingresso dell’istituto di pena riuscendo così a bloccare Usai. L’uomo, grazie al fiuto del pastore belga Badiane, è stato trovato in possesso di alcuni grammi di hascisc destinati al figlio Alessandro, di 24, in carcere per scontare un anno di reclusione per violenza sessuale. Nell’abitazione del meccanico, gli agenti, guidati dal commissario Riccardo Secci, hanno poi sequestrato altri 167 grammi di marijuana. Nella stanza della figlia Veronica sono stati invece trovati dieci grammi di cocaina, già suddivisi in dosi. Sequestrata anche una pallina da tennis con un’incisione che, secondo la Polizia, serviva per inserire la droga. Gli inquirenti, che un mese fa avevano recuperato una pallina con le stesse caratteristiche in uno dei cortili del San Sebastiano, sono convinti che cocaina, hascisc e marijuana venivano introdotti nel carcere anche con lanci dall’esterno, dal lato di via Cavour. Enna: cartoline realizzate dai detenuti per auguri di Natale Ansa, 6 dicembre 2010 I detenuti del carcere di Enna che partecipano ai corsi professionali organizzati dall’Associazione nazionale famiglie emigrati (Anfe) regionale in vista delle prossime festività natalizie hanno realizzato una cartolina che sarà distribuita a tutti i detenuti per mandare un messaggio ai familiari. L’idea è quella di distribuirla in città a chi ne facesse richiesta, come biglietto di auguri per enti, associazioni e privati cittadini. La cartolina, che ritrae un gruppo di detenuti insieme al cappellano del carcere, don Giacomo Zangara, è stata realizzata, sotto la guida del filmografo Paolo Andolina, con la tecnica del photoshop su un disegno donato dal fumettista Corrado Cristaldi. I detenuti hanno progettato il lavoro curandone tutti gli aspetti, dall’allestimento scenografico alla realizzazione della foto, dalla stesura dei testi alla stampa. “È il modo concreto - ha detto il direttore dell’Anfe regionale Vincenzo Savarino - per mettere in pratica le abilità imparate nel corso dell’anno scolastico. L’idea è stata promossa dal direttore della Casa Circondariale, Letizia Bellelli. Ogni anno abbiamo sempre realizzato un qualcosa di tangibile per i detenuti, un premio per la loro costanza ed impegno nel volere imparare”. “È un modo - ha detto la direttrice del carcere Letizia Bellelli - per dare voce e, in questo caso, volto agli invisibili essendo presenti anche all’esterno del carcere, nella comunità ennese che da sempre ci sostiene, in momenti particolari come quelli delle festività natalizie”. Milano: carcere Opera apre al pubblico con spettacolo beneficenza per i bambini haitiani Agi, 6 dicembre 2010 Aprirà i cancelli al pubblico, il carcere di massima sicurezza di Opera, provincia di Milano, per mettere in scena un musical di beneficenza, il cui ricavato andrà a sostenere l’attività della Fondazione Rava ad Haiti. Lo spettacolo, dal titolo “La luna sulla capitale” è diretto da Isa Beau, e vedrà la partecipazione come attori dei detenuti del carcere. Il ricavato verrà destinato alla costruzione di una casa di accoglienza per bambini rimasti orfani dopo il terremoto dell’anno scorso. I cancelli saranno aperti alle 19 del 15 dicembre e il costo del biglietto sarà di 20 euro. Televisione: stasera Lucarelli ricostruisce le morti di Gianclaudio Arbola e Federico Aldrovandi La Sicilia, 6 dicembre 2010 Oggi, lunedì 6 dicembre nel corso della trasmissione “Lucarelli racconta”, in onda su Rai Tre alle ore 21,00, si parlerà del caso di Gianclaudio Arbola, di Pantelleria, suicidatosi nelle carceri di Marsala dopo il suo arresto nell’ambito di una indagine su un traffico di droga da Milano a Pantelleria. È la puntata d’esordio che s’intitola “Nelle mani dello Stato”. È stata intervistata la moglie Adelina Barbera, assistita dall’avvocato Antonio Consentino. La puntata è introdotta dall’intervista a un cantautore con un forte interesse per i temi sociali come Daniele Silvestri e racconta di luoghi diversi: caserme, questure, carceri, reparti penitenziari degli ospedali, ospedali psichiatrici giudiziari, centri di identificazione ed espulsione. Luoghi in cui un cittadino può trovarsi perché arrestato o fermato, detenuto in attesa di giudizio o condannato, o perché semplicemente bisognoso di cure. A torto o a ragione, innocente o colpevole, il cittadino finisce nelle mani dello Stato. Ci sono leggi, procedure, controlli e persone che regolano questa tutela, in una democrazia, e la maggior parte delle volte questo succede. Ma altre volte no. Come nei casi di Stefano Cucchi o Federico Adrovandi, o come in quelli di donne e uomini che stavano dietro le sbarre, cittadini morti nelle mani dello Stato. Dopo dieci edizioni di “Blu Notte - Misteri italiani”, Carlo Lucarelli ritorna su Rai Tre con un nuovo programma “Lucarelliracconta”. Lo scrittore e conduttore televisivo riprende con il suo appassionante stile narrativo un percorso di indagine e ricostruzione di alcune delle più controverse vicende della società italiana. Cinque nuovi casi della nostra storia recente, La mala del Brenta, La quarta mafia, La morte sul lavoro, Nelle mani dello Stato e La trattativa per raccontare fatti che troppo spesso rimangono nascosti o sono archiviati, dove la storia del crimine inevitabilmente si intreccia alla storia di chi al crimine si contrappone o di chi fatalmente ne rimane vittima. Ogni puntata avrà un prologo ed un epilogo con un’intervista di Carlo Lucarelli ad un personaggio che introduce e chiude il tema trattato nella puntata. La storia di Federico apre la prima puntata della nuova trasmissione Il caso Aldrovandi torna in tv. A parlarne, questa sera, sarà lo scrittore Carlo Lucarelli, che nei mesi scorsi aveva inviato una troupe a Ferrara per svolgere alcune interviste ai protagonisti della vicenda. La storia di Federico, insieme a quella di Stefano Cucchi, sarà la protagonista della puntata “Nelle mani dello Stato”, che inaugura questa sera alle 21 su ratTre il nuovo filone televisivo condotto dall’autore bolognese, “Lucarelliracconta”. Carlo Lucarelli, con i suoi racconti dinamici, torna a far luce sui grandi misteri d’Italia. Lo stile narrativo è quello efficace e dinamico di “Blu Notte”, quello che racconta attraverso le storie trasformandole in inchieste. Con una novità, perché da quest’anno alcuni personaggi noti, legati in qualche forma ai casi affrontati, regaleranno alla puntata un epilogo o un prologo. Daniele Silvestri ad esempio parlerà della vita nelle carceri italiane; Andrea Camilleri commenterà le presunte trattative che legano Mafia e Stato; Ascanio Celestini interverrà sul tema delle morti sul lavoro; Massimo Carlotto illustrerà la questione della mafia nel Nord, e don Luigi Ciotti dirà la sua sulla Sacra Corona Unita. Spunti di riflessione e approfondimenti, voci esterne per accordare maggior respiro al tema in discussione. Senza il fastidioso imperativo della caccia allo scoop, Lucarelli tornerà a mettere in fila i fatti perché sia lo spettatore a rivelare i meccanismi di alcune pagine nere. Dopo la puntata su Federico Aldrovandi, si passerà alle stragi di Capaci e di via D’Amelio (La trattativa - 13 dicembre); dalle storie tragiche di imprenditori e lavoratori (La morte sul lavoro - 20 dicembre), ai gangster del Brenta (La mala del Brenta - 20 dicembre), alla Puglia insanguinata da usura, estorsioni e traffici di varia natura (La quarta mafia - 3 gennaio 2011). Immigrazione: i cittadini eritrei respinti dall’Italia, espulsi dalla Libia, sequestrati in Egitto di Fulvio Vassallo Paleologo (Università di Palermo) www.meltingpot.org, 6 dicembre 2010 Dopo la celebrazione dei “successi storici” conseguiti da Frattini e da Maroni nella “guerra all’immigrazione illegale”, con la chiusura quasi completa della rotta dalla Libia a Lampedusa, ancora una volta la tragica realtà dei fatti inchioda alle loro responsabilità quanti hanno anteposto ragioni di natura economica e miserabili vantaggi elettorali al rispetto dei diritti umani e della stessa vita dei migranti. Il sequestro di centinaia di migranti eritrei, somali, sudanesi, in Egitto, le torture alle quali vengono sottoposti quotidianamente per estorcere altro danaro alle loro famiglie, le sei vittime note, e le altre probabilmente ignote, che si devono già contare, come i giovani eritrei uccisi nei mesi scorsi con un colpo alle spalle, colpiti dalle guardie egiziane mentre tentavano di raggiungere la frontiera israeliana, sono conseguenze dirette ed evidenti del blocco di ogni via di fuga dalla Libia verso le coste italiane. Come al solito la chiusura di una rotta comporta immediatamente l’apertura di altre vie per l’immigrazione irregolare. Aumentano i costi e dunque i profitti delle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di esseri umani. Solo il governo italiano continua a ritenere che dalla Libia non arrivino migranti richiedenti asilo, una circostanza ben nota invece al Parlamento Europeo che nella sua risoluzione del 17 giugno scorso, sulla base dei dati forniti dall’Acnur, richiama proprio gli eritrei come la componente più consistente dei migranti detenuti nei centri libici, “selon le Hcr, 9 000 réfugiés - principalement palestiniens, iraquiens, soudanais et somaliens - ont été enregistrés en Libye, dont 3 700 sont demandeurs d’asile, essentiellement en provenance de l’Érythrée; que les réfugiés risquent constamment d’être déportés vers leurs pays d’origine et de transit en violation des critères de la convention de Genève, et d’être ainsi exposés aux persécutions et à la mort; que des cas de mauvais traitements, de torture et de meurtres ont été rapportés dans les centres de rétention pour les réfugiés, ainsi que des abandons de réfugiés dans les déserts situés aux frontières entre la Libye et les autres pays africains”. L’Italia continua così a sostenere le politiche ricattatorie di Gheddafi, come testimoniato appena pochi giorni fa, alla fine di novembre, dall’ennesimo viaggio di Berlusconi a Tripoli, seguito questa volta dal sequestro di un peschereccio mazarese bloccato dai libici in acque internazionali, acque sulle quali dopo gli accordi con l’Italia rivendicano la loro sovranità. Neppure un cenno, da parte di Berlusconi invitato alla corte di Gheddafi, alla sorte dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici e poi liberati per essere quindi espulsi alla scadenza dei permessi brevi per lavoro, concessi per tre mesi, di fronte alla indignazione della comunità internazionale dopo le violenze di Misurata e di Brak. E si deve registrare anche la chiusura della sede dell’Acnur a Tripoli, il cui personale è stato accusato lo scorso 8 giugno di svolgere attività illegali, una sede che al governo italiano era servita proprio per legittimare, anche in Parlamento, la politica dei respingimenti collettive e la collaborazione con le forze di polizia libiche. Ed a luglio una maggioranza trasversale da “larghe intese” aveva ratificato l’invio di militari italiani in Libia. Ancora oggi si vorrebbero finanziare organizzazioni non governative per procedere anche in Libia nelle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e dunque delle procedure di asilo. Intanto in Europa, ed in particolare in Italia il numero dei richiedenti asilo è in drastico calo, dalla Libia non passa più nessuno. La dipendenza che il governo italiano subisce nei confronti della Libia è diventata tale che qualsiasi protesta sulla violazione dei diritti umani avrebbe come immediata ritorsione il blocco dei rifornimenti di gas e petrolio. I dossier di Wikileaks confermano adesso quanto viene denunciato da anni, la stretta commistione tra accordi commerciali e le politiche di collaborazione nel blocco delle rotte dell’immigrazione irregolare. Violenze sempre più gravi, dentro ed adesso anche fuori la Libia, in Egitto ma sempre riconducibili alle decisioni di espulsione del governo libico, senza che i politici italiani avvertano la necessità di revocare gli accordi di respingimento e di riammissione stipulati con Gheddafi. Ma le responsabilità non sono soltanto italiane, anche se l’Italia si sta mostrando il paese guida, all’interno dell’Unione Europea, per sollecitare politiche sempre più repressive nei confronti dei migranti. Il Parlamento europeo aveva affermato a giugno che “que toute coopération ou accord entre l’Ue et la Libye doit être subordonné à la ratification et à l’application par la Libye de la convention de Genève sur les réfugiés et des autres conventions et protocoles majeurs en matière de droits de l’homme; ed aveva incaricato il suo Presidente “de transmettre la présente résolution au Conseil, à la Commission, aux États membres, ainsi qu’à l’Assemblée générale des Nations unies, au Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés et aux autorités libyennes”, ma le altre istituzioni dell’Unione Europea non hanno mosso neppure un dito per impedire alla Libia di proseguire nelle sue continue e gravissime violazioni dei diritti della persona umana, ed anzi la Commissaria Cecilia Malmstrom, dopo un suo viaggio a Tripoli, sta continuando a premere per un accordo tra Unione Europea e Libia per il contrasto dell’immigrazione clandestina, come se dimenticasse che la maggior parte dei migranti che, negli anni passati, arrivavano in Italia dalla Libia erano richiedenti asilo. Un accordo operativo appare però assai lontanto dopo che Gheddafi ha alzato la posta del ricatto che vorrebbe imporre all’Europa. Ma intanto l’Europa rimane distante dalle tragedie che si consumano nei paesi di transito, non meno dei governi dei paesi del Mediterraneo che rivendicano i fondi europei ma praticano la politica degli accordi bilaterali. Non stupisce certo che il governo italiano non abbia sentito l’esigenza di intervenire tempestivamente nella vicenda del sequestro degli eritrei bloccati nel deserto del Sinai. Eppure l’Egitto, in materia di immigrazione, è da sempre un partner privilegiato dei vari governi che si sono succeduti nel nostro paese. Dopo la vergogna dei respingimenti in Libia, l’Italia sta dando adesso nuovo impulso alla collaborazione con il governo egiziano, allo scopo di espellere o respingere verso quel paese il maggior numero possibile di immigrati irregolari. Dal mese di marzo del 2007 centinaia di cittadini egiziani irregolarmente giunti in Italia, o salvati in mare da mezzi della nostra marina militare e poi condotti nel’isola di Lampedusa, o sulle coste pugliesi, sono stati rimpatriati in Egitto, dopo un riconoscimento sommario da parte di agenti consolari di quel paese, senza avere la effettiva possibilità di presentare una richiesta di asilo. Dopo il rimpatrio in Egitto gli stessi migranti espulsi dall’Italia sono stati sottoposti ad una dura detenzione ed a violenze di ogni genere. Alcuni risultano addirittura scomparsi. I respingimenti collettivi verso l’Egitto continuano ancora oggi. Come denunciato dall’ACNUR, dall’ASGI e dalla Caritas di Catania, dopo lo sbarco sulle coste della Sicilia orientale del 26 ottobre scorso, sono stati rimpatriati 68 migranti (con un volo diretto a Il Cairo), 44 minori sono stati inseriti nel circuito delle comunità alloggio protette, altri 17 sono stati arrestati con l’accusa di essere trafficanti. Gli immigrati dichiaravano di essere palestinesi, ma secondo le forze dell’ordine erano egiziani. “Indipendentemente dalla loro nazionalità - ha dichiarato il direttore della Caritas Catania - non è stato concesso loro il tempo e la possibilità di istruire una pratica per l’iter di asilo politico, come da normativa, lasciando poi valutare la situazione a chi è competente nel giudizio. E questo avviene in uno Stato di diritto”. All’aeroporto di Catania era presente un agente consolare egiziano che effettuava i riconoscimenti, mentre in un altra stanza alcuni avvocati attendevano invano che qualcuno presentasse richiesta di protezione internazionale. Una richiesta evidentemente troppo pericolosa per chi, grazie alle scelte del ministero dell’interno, era stato già identificato dal proprio ufficio consolare. Si registra dunque un altro “salto di qualità”nella collaborazione tra Italia ed Egitto, dopo la chiusura, grazie all’intervento in quel paese di unità militari italiane, nel 2004, della “rotta di Suez” che aveva comportato la riconsegna al governo cingalese di migliaia di tamil in fuga dalla guerra civile. Pratiche di cooperazione di polizia tra Italia ed Egitto, che avevano esposto alla tortura, e forse alla morte, molti di coloro che erano stati deportati dal Cairo a Colombo. In un paese che non riconosce ancora il reato di tortura sembra sempre più “normale” che i migranti in fuga, soprattutto nei paesi di transito, possano essere seviziati ed uccisi. Ed anche quando si tratta di cittadini provenienti proprio da questi paesi, come gli egiziani, se lo scopo è quello di respingerli in massa, non si rispettano neppure le procedure previste dalla legge e dalle direttive comunitarie. E se qualcuno protesta l’unica risposta sono i manganelli, come è successo a Catania poche settimane fa. Le operazioni di riammissione tra Italia ed Egitto, con voli diretti da Catania e da Roma al Cairo, sono rese possibili dall’accordo di collaborazione firmato proprio nel gennaio del 2007 dal governo italiano, in persona del sottosegretario agli esteri Intini e alla presenza del viceministro all’interno Lucidi, accordo che, in cambio di qualche migliaio di posti riservati ai lavoratori egiziani nelle quote ammesse annualmente con i decreti flussi, consentiva forme di attribuzione della nazionalità, se non della identità personale e dell’età, assai celeri, grazie anche alla collaborazione di funzionari e interpreti egiziani presenti in Italia. Da questo punto di vista, la politica estera italiana è assolutamente coerente, malgrado il cambio dei governi. Già nel 2005, infatti, tra il governo italiano e quello egiziano esisteva un “Accordo di cooperazione in materia di flussi migratori bilaterali per motivi di lavoro”, siglato al Cairo il 28 novembre 2005 dall’ allora ministro del lavoro Roberto Maroni. Nel testo dell’accordo si prevedeva che i due governi, al fine di “gestire in modo efficiente i flussi migratori e prevenire la migrazione illegale”, si impegnano a facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoratori migranti da e per l’Egitto. Il governo italiano, dal canto suo, si impegnava a valutare l’attribuzione di una speciale quota annuale per lavoratori migranti egiziani. Nel protocollo esecutivo si leggeva che il ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano comunicheranno all’omologo egiziano i criteri, ai sensi della normativa italiana, per redigere una lista di lavoratori egiziani disponibili a svolgere un’attività lavorativa subordinata anche stagionale in Italia. La lista dovrà essere pubblicata sul sito web del ministero del Lavoro italiano”. Non si sa quanti lavoratori egiziani siano effettivamente arrivati in Italia con un visto di ingresso, anche perché il governo italiano ha bloccato i decreti flussi annuali, ed ha sbarrato qualunque possibilità di ingresso per lavoro. Un regalo immenso fatto alle organizzazioni criminali che “commerciano” i migranti nel loro viaggio e poi li sfruttano, riducendoli in condizioni di servitù, quando una volta giunti in Italia devono pagare I loro debiti. Un trattamento più crudele è invece riservato ai richiedenti asilo, che “valgono” di più. Se I loro parenti non pagano, torture fino alla morte, come sta avvenendo in questi giorni nel deserto del Sinai, e per qualcuno persino l’espianto forzato di organi, una vera ignominia sulla quale la comunità internazionale non può continuare a tacere. Rimane da verificare la volontà del governo egiziano di lottare effettivamente contro le organizzzioni dei trafficanti che ovunque godono di complicità insospettabili. Cosa fa l’Egitto per impedire che i migranti in fuga dal Corno d’Africa vengano sequestrati, torturati ed uccisi dalle bande dei trafficanti che in quel paese hanno campo libero. Nulla. Cosa fa la Libia? Si limita a fare fuggire verso l’Egitto quei migranti che non trova più conveniente detenere, quegli stessi migranti che l’Italia ha respinto negli anni passati, o quelli che le guardie libiche più recentemente sono riuscite a riprendere in acque internazionali, con le motovedette ed il personale della guardia di finanza garantiti dal governo italiano. E cosa fa il nostro governo, il ministro degli esteri Frattini, il capo del governo così intimo di Mubarak, di fronte ad un sequestro e a torture che sono state denunciate anche dal Vaticano ? Silenzio, ipocrisia e ancora un rilancio della politica della paura, della paura degli immigrati, una facile strumentalizzazione che già in passato ha garantito un sicuro successo elettorale. Anche sulla pelle di quei migranti che i trafficanti egiziani marchiano a fuoco. Se non si annega più tra Zuwara e Lampedusa, si muore nei deserti africani o nel Sinai, nella terra di nessuno tra Israele ed Egitto. L’Italia deve denunciare gli accordi di respingimento e di riammissione con la Libia e con l’Egitto perché non garantiscono il rispetto dei diritti umani dei migranti. Certo è difficile attendere dal governo italiano e dai vertici delle forze di polizia alcuna umanità, dopo anni di stretta collaborazione con le autorità egiziane e libiche. Sono troppi i rapporti delle agenzie internazionali come Hrw, Msf ed Amnesty che il governo italiano ha irriso giungendo ad attaccare sistematicamente l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e gli avvocati che difendono coloro che, dopo avere subito un respingimento collettivo, di massa, di fatto una deportazione, vietata da tutte le convenzioni internazionali, riescono a presentare un ricorso contro l’Italia davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Se qualcuno volesse dare un segno di discontinuità rispetto alle politiche disumane praticate in materia di immigrazione ed asilo è questo il momento. Sembra però che recenti gravi fatti di cronaca possano rilanciare le politiche che trasformano i migranti in pericolosi nemici, politiche che negli anni passati sono state avallate anche dall’opposizione. Si deve esigere da parte di tutta l’Unione Europea una iniziativa urgente in modo che l’Egitto garantisca una protezione effettiva a tutti coloro che fuggono dal loro paese, come nel caso dei profughi sequestrati nel Sinai. Di fronte a fatti tanto gravi cresce la responsabilità delle istituzioni internazionali. Attendiamo ancora le decisioni della Corte di Strasburgo sui ricorsi presentati dopo i respingimenti collettivi in Libia effettuati dall’Italia il 6 e 7 maggio del 2009, ma intanto il sequestro di migranti eritrei in Egitto, nel deserto del Sinai, dopo gli abusi e le violenze di Misurata, di Sebha, di Brak e di altri centri di detenzione in Libia, come lo stillicidio di vittime tra coloro che dalla Grecia cercano di raggiungere i porti dell’Adriatico, costituiscono una pietra tombale sulla dignità delle persone che hanno contribuito direttamente o indirettamente a produrli, ma anche una macchia sull’onore di tutti gli italiani che non si ribellano a queste politiche di morte e di deportazione. A tutti coloro che ancora hanno a cuore la vita, la libertà e la dignità dei migranti, che non sono disgiunte dalla dignità e dal futuro dei cittadini italiani, non rimane altro che moltiplicare gli sforzi per estendere e rafforzare le reti di solidarietà e di protezione legale, fino a raggiungere gli immigrati arrestati e violentati nei paesi di transito e contribuire in qualsiasi modo alla circolazione delle informazioni censurate dalle agenzie governative, promuovendo iniziative perché l’opinione pubblica non si abitui all’idea che, in fondo, è meglio che i migranti, piuttosto di raggiungere l’Italia, muoiano o vengano abusati lontano dai nostri occhi. Iran: oltre 80 studenti ancora in carcere per motivi politici Aki, 6 dicembre 2010 In Iran ci sono oggi “oltre 80 studenti rinchiusi in carcere per motivi politici”, tra questi i casi più rilevanti sono quelli di Majid Tavakoli e Bahareh Hedayat. A lanciare l’allarme, alla vigilia della Giornata dello studente che si celebra domani nella Repubblica Islamica, è Mostafa Khosravi, membro dell’ufficio politico dell’Organizzazione degli Studenti Iraniani Laureati (Advar Tahkim Vahdat). “Alcuni studenti sono rinchiusi in una sezione specifica nel carcere di Evin, a Teheran, altri più attivi, come Majid Dari e Zia Nabavi, sono prigionieri negli istituti penitenziari più sperduti del paese”, afferma Khosravi in un’intervista ad Aki-Adnkronos International, a margine di una conferenza sul movimento studentesco iraniano che si è svolta all’Università La Sapienza. “Quasi tutti gli studenti in carcere sono sottoposti a tortura, una pratica applicata costantemente contro i prigionieri politici in Iran”, sottolinea il leader studentesco, che durante le contestate elezioni presidenziali dello scorso anno ha fatto parte dello staff elettorale del candidato riformista, Mehdi Karroubi, battuto dal presidente, Mahmoud Ahmadinejad. Mozambico: “Vita dentro”, il progetto dell’Ong italiana Mlal nelle carceri di Nampula di Davide Pelanda Nuova Società, 6 dicembre 2010 Si chiama “Vita dentro” ed è un progetto che una Ong italiana, il Mlal (Movimento Laici America Latina) sta svolgendo nelle carceri di Nampula, città africana del Mozambico. Un progetto che, a partire dal marzo 2010, sta interessando quasi 2 mila detenuti in tre strutture diverse: una di tipo Civile, una che accoglie le donne detenute e il Penitenziario regionale che ospita detenuti di quattro province della zona. A capo di questo progetto è stata chiamata Angela Magnino, assistente sociale torinese, già dirigente dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Torino che, grazie al distacco dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria piemontese, per due anni dovrà coordinare il lavoro africano e mettere in relazione l’Amministrazione penitenziaria mozambicana con quella del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditorato regionale del Piemonte e Valle d’Aosta dell’Amministrazione penitenziaria visto che questi ultimi enti sono anche i partner italiani del progetto assieme all’Unicri (United Nations Interregional Crime & Justice Research Institute). Da parte africana, invece, i partner sono l’Universidade Catolica de Moçambique, la Direzioni nazionale carceri e l’Associaçao Ephatto na Conga. Ma cosa fa di preciso questa ong italiana in Mozambico? Dicono dal Mlal: “Siamo impegnati al miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, per la difesa dei diritti delle donne e dei minori carcerati e per il reinserimento sociale dei detenuti. In concreto i nostri progetti si stanno traducendo nel risanamento igienico e sanitario delle strutture carcerarie, nell’avvio di attività agricole (orti e allevamento del pollame) che migliorino la dieta alimentare dei detenuti, in corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale e nella promozione di microimprese per il reinserimento lavorativo dei detenuti”. Interessante sapere, e allo stesso tempo assai curioso, che l’ordinamento penale in vigore attualmente in Mozambico è quello che era in vigore nel 1930 in Portogallo, essendo questa nazione una sua colonia dove attualmente anche la lingua ufficiale di questa nazione africana è il portoghese. Il Mozambico, inoltre, ha una popolazione di venti milioni di abitanti di cui il 50% ha meno di 15 anni di età, e ci sono ben 23 etnie diverse. Altro dato interessante è che il carcere in Mozambico esiste da 150 anni circa, mentre ogni struttura carceraria deve istituzionalmente man tenersi e sostentarsi autonomamente dallo Stato centrale, per cui tutte hanno un loro pezzo di orto. Inoltre in questo paese africano le donne carcerate sono solo il 4% dell’intera popolazione carceraria, mentre le pene comminate non superano mai i 30 anni di reclusione (per omicidio) e, cosa ancor più singolare, è che qui non esiste l’ergastolo. I reati commessi dai detenuti mozambicani sono, per la stragrande maggioranza, legati al patrimonio, quindi i furti vanno per la maggiore; altro reato commesso, legato molto spesso a gelosie e contese passionali soprattutto ad opera di donne, è l’incendio della casa del rivale in amore la cui pena è normalmente comminata in 20 anni di detenzione. Da poco tempo poi è stato aperto il primo carcere minorile che già contiene 159 persone. L’intero progetto, dicono dal Mlal, è considerato un pi una specie di orgoglio per il governo mozambicano, mentre anche l’ambasciatore italiano in Mozambico Carlo Lo Cascio non ha dubbi sulla qualità del progetto: egli infatti ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia Maria Benvinda Levi per invitarla a riprodurre tale progetto nell’intero Paese. “Promessa mantenuta - dicono con soddisfazione all’ong italiana - visto che due soli giorni dopo (i primi di ottobre) lo stesso ministro ha inviato un messaggio di apprezzamento alla nostra capo progetto, descrivendo il lavoro svolto nelle carceri di Nampula, come un buon esempio di cogestione delle attività educative e di reinserimento dei detenuti. L’ambasciatore italiano ha inoltre “confermato - dice la capo progetto Angela Magnino - che noi possiamo continuare ad essere la sua antenna qui nel Paese”. Tutto ciò finalmente è andato a buon fine, visto che all’inizio, dicono sempre al Mlal “non è stato per niente facile stabilire una relazione di partenariato con il Ministero di Giustizia mozambicano, che per lungo tempo di è limitato a studiarci tenendoci in scacco con una convenzione che siamo riusciti a firmare solo nel marzo 2010”.