Giustizia: com'è possibile questa completa cecità rispetto a ciò che avviene in carcere? di Elisabetta Laganà (Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 5 dicembre 2010 “In 40 anni non ho mai visto un carcere così disumano come in questo periodo”. Questa frase, pronunciata alcuni giorni fa ad un convegno da Francesco Maisto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, apre un generale e forte interrogativo sul vedere quanto accade: come è possibile che politici, istituzioni, la comunità intera (a parte pochi) si siano resi completamente ciechi rispetto a ciò che avviene dentro il carcere? E come è possibile che un analogo processo avvenga anche oggi nei confronti dei soggetti con un debole potere contrattuale e sociale, nei confronti dei malati di mente, dei tossicodipendenti, degli handicappati, degli anziani istituzionalizzati nelle case di riposo, dei senza casa, degli immigrati? Come è possibile che le persone siano cieche a quanto accade nei ghetti Rom, nei centri di espulsione o nel circuito illegale del mercato nero? Come era possibile allora, e come è possibile oggi, che la società faccia in modo di porre il deviante, il diverso, lontano dal suo sguardo, delegando totalmente la sua gestione ad apparati e istituzioni, che il più delle volte, invece di riabilitare, si limitano a “gestire”, se non a reprimere? C’è un romanzo che metaforicamente solleva questa problematica: è “Cecità” di José Saramago. Nel libro la perdita improvvisa della vista in una popolazione allude alla perdita della ragione, alla caduta nel conformismo e nell’indifferenza e mostra le tragiche conseguenze di questo evento: la repressione, la sopraffazione dei forti sui deboli, progressivamente, fino all’imprigionamento di tutti. Quando si discute del carcere, si dovrebbe discutere di questo: di camere oscure e oscurate al mondo, di luoghi ciechi, muti, privati di diritti. Dove le parole della Costituzione rimangono solo modi di dire. Dove ai detenuti manca tutto, dal diritto alla salute al sapone. La sofferenza del sistema è giunta ad un punto molto critico: è fondamentale richiamare la politica alle sue responsabilità sul tema delle risorse, che non possono essere ricavate solo sul piano della fantasia, e sulla rilevanza di una attenzione ai diritti, considerando che i diritti senza risorse che ne consentano l’esercizio rischiano di essere inesigibili. La soglia dei 69 mila detenuti nelle carceri italiane è stata superata. Dall’inizio anno sono già 62 i detenuti suicidi nelle carceri italiane. In una materia come questa, che tocca corde sostanziali del diritto, non andrebbero espresse timidezze; bisognerebbe operare con forza sul fronte delle riforme legislative e sulle politiche sociali; servirebbe una chiara azione riformatrice. Come volontariato nutriamo pochissime aspettative sul numero di persone che realisticamente uscirà dalle carceri in virtù del decreto sulla detenzione domiciliare: un segnale troppo debole per un sovraffollamento così forte. La cosiddetta legge svuota-carceri non solo inciderà in misura minima ( e a tempo determinato) sul sovraffollamento carcerario, ma soprattutto non esprime quel doveroso coraggio che la disastrosa situazione delle carceri richiederebbe, quale una inversione di rotta della detenzione come unica pena a favore di pene e provvedimenti alternativi al carcere. Legge dove nessun investimento è stato pensato per incrementare il personale educativo e trattamentale. Sarebbe necessario un ripensamento complessivo sui temi della sicurezza e della pena. Questa situazione deve chiamare a raccolta tutti i soggetti che si trovano ad entrare in contatto con la realtà del carcere e le persone ivi detenute. Anche l’ANM si è espressa sulla necessità che si ritorni al carcere come “extrema ratio” e che vengano utilizzati “alcuni degli strumenti per il superamento della concezione pancarceraria della pena, con l’introduzione delle pene alternative, e la mitigazione delle restrizioni per i recidivi al godimento dei benefici penitenziari”. Ma è necessario che tutte le componenti del mondo giudiziario siano aperte al dialogo per tutelare i diritti e le garanzie dei cittadini privati della libertà. La CNVG ha sollecitato un tavolo di lavoro congiunto con il Governo, le Regioni e gli EE.LL., coordinato dall’Ufficio Rapporti con le Regioni, Enti Locali ed il Volontariato del DAP. Il tavolo, operativo da mesi, lavora per dare corpo e attuazione a livello locale alle “Linee Guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria” approvate nel 2008: queste, sottolineando le ragioni della necessità dell’inclusione e i danni prodotti invece dall’esclusione, delineano in modo preciso i principi e le modalità della collaborazione tra istituti e servizi del Ministero, la programmazione regionale, gli interventi dei servizi socio sanitari e culturali territoriali e il volontariato, fino all’inserimento delle attività per i condannati nei “Piani Sociali di Zona” previsti dalla legge 328/2000. Della commissione fanno parte le Regioni, il Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministero dell’Interno, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero della Solidarietà Sociale, l’ANCI, e il Volontariato Anche l’ANCI, in un documento indirizzato al Governo e al Ministro della Giustizia, richiede che venga costituito in tempi rapidi un Tavolo di confronto sul “Piano Carceri”. La situazione richiede necessariamente ed urgentemente un dialogo ed un confronto reale tra tutte le componenti coinvolte. Oltre a necessarie campagne di informazione sulle reali condizioni carcerarie, anche in sinergia con il Volontariato. Al fine di lavorare tutti insieme per restituire una dimensione visibilmente e concretamente costituzionale della pena. Giustizia: il carcere, un non-luogo dove gli architetti sono stati banditi di Dina Galano Terra, 5 dicembre 2010 “Cominciare a costruire le case partendo da coloro che le abiteranno”. Con la prospettiva di istituti più umani, i tecnici hanno discusso a Roma sul tema “Architettura vs Edilizia”. Il carcere di Sollicciano è in via del Pantano, Firenze. Da malum situ deriva il nome del Maliseti, la casa circondariale di Prato. Simbologie, forse, ma molto della realtà penitenziaria richiama la supina ammissione dell’inappetibilità del sistema carcerario. In un convegno di due giorni che si è concluso ieri al Senato, il tema del senso della pena ha preso forma legandosi a doppia mandata a quello dell’architettura penitenziaria. Con il titolo “Architettura versus edilizia” la Società della ragione, in collaborazione con l’associazione Antigone, la Fondazione Michelucci e il Forum droghe, ha tentato di guidare la riflessione all’interno degli spazi chiusi delle prigioni. Con l’auspicio di superarli. I corpi Le carceri sono sovraffollate, lo si ripete da tempo. Il già procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti lo ha ricordato ieri: 48.693 persone alla fine del 2007, 64.971 al 31 dicembre 2009. Oggi siamo quasi a quota 70mila. Circa un terzo di essi, ha conteggiato il magistrato, sconta un massimo di 10 giorni. Arrestati in flagranza di reato o sottoposti a misura cautelare, il 30 per cento dei detenuti passa attraverso una porta girevole. “Il nostro ordinamento prevede già delle norme che possono impedire l’ingresso in carcere”, ha ammonito Borraccetti. “Bisogna tuttavia convincere le forze di polizia e i pubblici ministeri ad applicarle”. Quando a parlare è un detenuto d’eccezione, Adriano Sofri, subito si offre l’immagine della piccola cella che lo ha ospitato per nove anni a Pisa dove oggi vivono in tre. Dietro l’ammassamento in spazi ridottissimi, secondo il professore di filosofia del diritto Eligio Resta, riposa “l’idea dell’economia politica dei corpi”. Non l’esercizio di un controllo sul delinquente, ma di un “biopotere sul corpo”. Ed ecco che la privazione di esigenze primarie finiscono per aggiungere sofferenza alla pena, attentando alla dignità dell’uomo che, ha spiegato il filosofo, “non solo costituisce il punto di riferimento del Costituzionalismo moderno, ma significa il diritto a non essere sottoposti a sofferenze gratuite in cui non è possibile riconoscersi come essere umani”. Il garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone ricorda i numeri della sua Toscana: nel 2009, 2.318 “eventi critici”, di cui 9 decessi, 8 suicidi, 155 fermi al tentativo e 974 casi di autolesionismo. Gli spazi “L’edilizia penitenziaria non si studia nelle scuole di architettura”, ha denunciato Cesare Burdese, architetto torinese autore di molti progetti per i servizi ai detenuti. Ciò che è contenuto nei capitolati del ministero della Giustizia è “tanto preciso per quanto riguarda celle, finestre e altri spazi di sicurezza”, ha continuato il collega Corrado Marcetti, direttore della Fondazione Michelucci, “quanto del tutto disinteressato agli ambienti per la socialità, i colloqui, il lavoro”. Quest’ultimi diventati una rarità perché, a causa della crescita della popolazione detenuta, si è realizzata “un’iperintensificazione delle carceri già esistenti, con nuovi padiglioni aggiunti all’interno dei recinti già esistenti”. L’atmosfera di soffocamento che si respira anche fuori, ha segnalato l’architetto Scarcella, tecnico del ministero, ha fatto assomigliare il carcere “alla gabbia per il leone o al forno per il coniglio”. Se lo spazio ha una funzione ideologica e simbolica, il presidente del Comitato europeo contro la tortura Mauro Palma lo definisce “infantilizzante”, il non-luogo dove il detenuto “viene fatto regredire”. Nessuno spazio per l’affettività, come ha denunciato la psicologa Grazia Zuffa di Fuoriluogo, nessun rispetto per l’autonoma deliberazione della persona. Il carcere sembra obbligato per legge ad essere un luogo brutto e disumano. Con la frustrazione dei tecnici che, lavorando per anni a un progetto, non sono interpellati quando la struttura viene modificata. Tutto molto lontano da quello che insegnava Michelucci: “Commissionatemi la progettazione di una città”, rispondeva a chi chiedeva di costruire un penitenziario. I modelli Lo schema oggi imperante è quello del “carcere più lontano”, non solo separato dalla città ma più isolato, nella periferia, presso gli snodi stradali (porti e autostrade). La “periferizzazione”, ha spiegato Marcetti, è iniziata “a fine ‘800 e si è consolidata nel ‘900 per motivi di tipo igienico-sanitario e affinché l’istituto fosse separato dal tribunale”. Questa delocalizzazione si sta spingendo perfino al subappalto della questione detentiva ad altri Paesi, come la Libia per esempio. Negli anni Settanta, alla vigilia della riforma del 1975 che ha innovando l’ordinamento penitenziario aprendo ad alternative alla reclusione, nascono le carceri nuove: la moderna architettura tenta il superamento del carcere a ballatoio, dei corridoi dritti, della rigidità degli schemi in genere. Sergio Lenci, il gruppo Mariotti, Giovanni Michelucci, Mario Ridolfi hanno segnato una stagione dell’architettura penitenziaria che Scarcella ha definito “irripetibile”. Quel modello che aveva spinto a cambiare anche il materiale di realizzazione, tuttavia, si è scontrato con la storia d’Italia. Il “carcere della speranza” ha lasciato il posto alle esigenze degli anni della Tensione, degli inasprimenti sanzionatori, dell’emergenza terroristica e del carcere duro. Dal 1977 in poi sono venuti alla luce circa 80 strutture “tutte uguali, fatte con il timbro, in luoghi isolati che di notte sono allarmanti”, ha polemizzato Marcetti. Il tentativo di costruire spazi di cerniera con la società libera è definitivamente tramontato. E quel timore diffuso nell’opinione pubblica, così come la mano forte dello Stato nel gestire l’emergenza, rischiano di tornare ad essere attuali. Il Piano È il 29 giugno 2010 quando il Piano per l’edilizia penitenziaria viene definitivamente vistato. Ma, ha pronosticato la senatrice Pd Anna Finocchiaro, “prima di tre anni non ne vedremo niente”, soprattutto perché “nella legge di stabilità non c’è alcuna copertura per la sua realizzazione”. Nella sua storia, il progetto edilizio proposto da Alfano ha attraversato molte tappe: commissariamento ad hoc, adozione di un programma di interventi, la dichiarazione dello stato di emergenza e il piano edilizio completo. A quasi due anni dal primo annuncio, ha spiegato il difensore civico dei detenuti Stefano Anastasia nella sua relazione, il progetto finale ha subito “un sensibile ridimensionamento”. Degli oltre 17mila posti promessi nella prima versione, amplificati a 22mila nella seconda, ecco che la terza formulazione è davvero più modesta: 9.150 posti detentivi da realizzare, finanziati con i 610 milioni di euro di cui sin dalle origini si era assicurata la disponibilità. “In tutto questo tempo il governo non ha trovato altri fondi”, ha sottolineato il ricercatore, lasciando l’uditorio con questa domanda: “Quale idea insiste dietro un indirizzo politico irrealizzabile e fallimentare rispetto allo scopo prefisso?”. Perché è certo, le nuove 11 carceri e i 20 padiglioni in ampliamento di istituti esistenti non riusciranno ad arginare il sovraffollamento delle strutture, che corre al tasso del 152 per cento. Giustizia: pena di morte e… affari italiani di Rosa Ana De Santis www.altrenotizie.org, 5 dicembre 2010 Il business sulle esecuzioni capitali, da gennaio 2011 partirà dalla sede italiana di Liscate (Milano) dell’azienda farmaceutica Hospira. Questo denuncia il dossier di “Nessuno tocchi Caino” e l’ong “Reprieve”. Il Pentotal, barbiturico ormai inutilizzato per gli ospedali, verrà prodotto per essere utilizzato nei protocolli Usa dell’iniezione letale. Un carteggio svelato tra l’ufficio del governatore del Kentucky e una dirigente della società di Lake Forest lo dimostra. Quindi mentre l’Inghilterra dice no, l’Italia subisce pressioni fortissime per diventare il magazzino della pena di morte. Una contraddizione imbarazzante per un paese da sempre impegnato nella moratoria universale contro la pena di morte. Per non dire delle nostre Istituzioni che in tutte le salse portano avanti campagne per la difesa della vita. Papa compreso, che della sua extraterritorialità si dimentica molto spesso in cambio d’ingerenze fortissime nella vita politica italiana. Se ne ricorderà nel prossimo angelus o nella prossima lettera ai fedeli? Le tantissime esecuzioni in sospeso hanno indotto le autorità federali a investire ancora di più nel modernissimo stabilimento di Liscate. Il marketing del macabro è proprio tutto qui. L’amministratore delegato di Hospira Italia, Giuseppe Riva, si è difeso sostenendo che il Pentotal serve solo nella fase preparatoria dell’esecuzione, come anestetico. Gli basta poco per sentirsi sollevato. Nel frattempo é stato depositato un esposto alla Procura di Milano dal presidente dei Verdi Angelo Bonelli e l’accusa per i vertici di Hospira potrebbe essere quella di “concorso in omicidio”. L’auspicio è che il “governo della vita” decida di intervenire con forza su questa questione pesantissima e di non evitarla per assecondare i diktat americani e il solleticante profitto. L’episodio ci creerà più di qualche problema alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’Italia si racconta, ancora una volta, con l’ipocrisia che ha sempre contraddistinto la nostra politica. Viene in mente il caso delle mine anti uomo. Anche li siamo sempre stati contro, ma lo stop alle produzioni è arrivato soltanto nel 1997 e si continua a tollerare, senza alcuna parola di condanna, che le maggiori banche italiane continuino indisturbate ad investire nelle aziende che le producono. Del resto quello che accade nello stabilimento di Hospira non è altro che un effetto fisiologico, e non patologico, di una certa forma mentis che governa il mercato e, nel caso specifico italiano, del rapporto di subalternità che ci lega all’impero degli Stati Uniti d’America. Altro che Russia. Non si capisce perché certe pratiche contrarie ai diritti umani, ad esempio lo sfruttamento della manodopera e le condizioni disumane di lavoro, diventino argomenti di agitazione politico-istituzionale straordinaria. Forse perché si tratta di cinesi e delle loro imprese tessili che tolgono guadagno alle nostre? La contrarietà di certe pratiche ai valori in cui si riconosce il nostro paese è evidente che diventa una questione di attenzione politica solo quando si tratta di paesi “canaglia” (come li chiamano gli Usa) o di affari di casa nostra. La coerenza della teoria vacilla un po’. Negli Stati Uniti la carenza di Sodium Thiopental e l’imminente scadenza delle dosi presenti sta generando una moratoria de facto nelle carceri americane. Noi però ci stiamo dando un gran da fare per far ripartire la macchina della morte. La sensazione è che si dovrebbe impedire la produzione e l’esportazione di un farmaco il cui utilizzo, carte alla mano, è finalizzato all’uccisione di detenuti. Perché, semplicemente, la legge italiana condanna la pena di morte. Oppure il rispetto della legge vale solo quando si tratta di tecniche di fecondazione assistita, di crio-congelazione degli embrioni o di diagnosi pre-impianto? Questa applicazione parziale dell’inno alla vita, che è capace di mobilitare Camera e Senato o su bambini mai nati o su persone che scelgono liberamente di morire, è il ritratto di un paese imprigionato in battaglie ridicole e fallimentari. La conseguenza è che i cittadini ricchi di questo paese vanno a pochi km a fare tutto quello che la legge 40 gli vieta di fare in Italia, così come gli aspiranti suicidi continuano a suicidarsi. Mentre i detenuti americani, persone coscienti in carne ed ossa che vengono uccisi dallo Stato, alcuni dei quali inchiodati nel braccio della morte da un ingiusto processo, ricevono proprio dal Belpaese della vita il boia della loro ultima ora. Siamo ridotti ad un arlecchino della morale e della coerenza. Una sintesi di business e di devozione agli Usa che ci fa dubitare in qualsiasi seria reazione di forza sul caso Hospira Italia. Siamo pronti a batterci per la difesa del parmigiano reggiano, per la vita degli embrioni e per i malati terminali. Ma sulla vita di condannati a morte per ora preferiamo limitarci ad accendere le fiaccole sotto gli archi del Colosseo. Che si trova a distanza ragguardevole dall’ambasciata Usa. Giustizia: tanti laboratori dietro le sbarre; una mostra al Salone di Rimini di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2010 Dai cappelli a manetta di “Made in carcere” fatti per Borsalino alle toghe per magistrati e avvocati della “Sartoria San Vittore”. Se solo il 20% dei detenuti ha un lavoro durante la detenzione è anche vero che chi ha l’opportunità di fare un percorso formativo mentre sconta la pena si impegna per creare prodotti competitivi sul mercato. É il caso dei detenuti di “Made in carcere” a cui la fondazione Borsalino fornisce tessuti e know how per realizzare kit venduti nelle boutique della casa nota per il famoso cappello. Il ricavato della vendita viene poi impiegato per comprare macchine da cucire da regalare alle detenute che escono dal carcere. Con lo slogan “Chi meglio di noi, può prendersi cura di voi?” le detenute che lavorano per la sartoria San Vittore, che ha un negozio al centro di Milano, confezionano toghe per magistrati e avvocati. Il costo della versione “base” da processo è di 250 euro. La toga, in fresco di lana, può essere però personalizzata con il nome e arricchita con le cordoniere, la pettorina con o senza pizzo, l’arricciatura a nido d’ape o le guarnizioni di velluto. Gettonata anche la griffe “codice a sbarre” che ha tra i suoi numerosi testimonial anche i cantanti Gianna Nannini e Francesco Tricarico che reclamizzano i capi d’abbigliamento prodotti in cella. Si orienta invece sulle shopping bag e sui cappelli “Made in carcere”, il tutto realizzato con tessuti di scarto e riciclati, “per offrire un’altra chance alle donne detenute e una doppia vita a tessuti e oggetti”. Tutte le creazioni sono esposte al salone della giustizia di Rimini che si chiuderà domenica. Del lavoro in carcere si è parlato questa mattina al Convegno che si è tenuto nella sala Diotallevi dal titolo:”Il tempo del carcere, il carcere nel tempo”, a cui ha preso parte il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta. L’incontro è stata l’occasione per parlare della realtà carceraria anche al di là dei suicidi e della cronaca del superaffollamento. Il Dap ha diffuso i dati sui detenuti che lavorano, una realtà che riguarda solo il 20% di chi si trova in prigione, per un totale di 14.116 persone, di cui 13.255 uomini e 861 donne. Il lavoro costituisce però un’opportunità che andrebbe estesa anche ad altri nella consapevolezza della funzione sociale che questo riveste. “Un carcere più aperto è un carcere più sicuro - ha detto Franco Ionta - io ricorro spesso a questo slogan per sottolineare quanto le condizioni dei detenuti e degli agenti carcerari migliorino se si svolge un’attività. Chi ha un lavoro non ha interesse a comportarsi male”. Quello che manca sono però le risorse. “Abbiamo avuto delle sonore riduzioni alla voce “mercedi” del bilancio. Dobbiamo unire le nostre forze a quelle dell’imprenditoria - confida Ionta - e fare anche degli sforzi di creatività”. Tra i detenuti che lavorano, l’85,42% dipende dall’amministrazione penitenziaria, di questi 324 lavorano all’esterno dell’istituto di pena. Sono invece 2.058 i detenuti che svolgono un’attività presso aziende o cooperative fuori dal carcere. Falegname e sarta i mestieri più diffusi, seguiti a ruota da giardinieri e agricoltori. Ma non mancano pasticceri e tecnici informatici. Il capo del Dap Franco Ionta ha poi spostato l’attenzione sui 13.384 detenuti sottoposti a misure alternative al carcere. In base ai dati aggiornati a fine ottobre scorso 7.672 sono sottoposti all’affidamento in prova, 881 godono della semilibertà, mentre per 4.831 ci sono gli arresti domiciliari. Giustizia: Alfano; come regali di Natale userò i prodotti realizzati in carcere Ansa, 5 dicembre 2010 “Acquisterò tutti i miei regali di Natale dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che organizza il lavoro dei detenuti: vengono prodotti eccellenti realizzazioni di artigianato in pelle, articoli di abbigliamento, tra i quali anche dei cappelli che vengono venduti nei negozi Borsalino, ma anche dolci squisiti, come quelli cucinati dalla pasticceria Giotto di Padova, o creme di bellezza fatte dalle detenute di Venezia”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, visitando nella giornata conclusiva del Salone della legalità svoltosi al Palafiera di Rimini, visitando l’ampio padiglione dove il Dap ha proposto, esposti su numerose bancarelle, gli articoli realizzati dalle cooperative dei detenuti che hanno il marchio Sigillo del ministero della Giustizia. “Il lavoro in carcere - ha aggiunto il ministro - emancipa il detenuto e abbatte il rischio di recidiva perché consente di imparare una professione o, talvolta, di riprenderla in mano. I detenuti che lavorano, inoltre, sono quelli che hanno un comportamento più tranquillo e questo facilita il lavoro della polizia penitenziaria che è già molto pesante”. Giustizia: Opg; la Commissione Sanità studia chiusura Aversa, Barcellona e Montelupo Ansa, 5 dicembre 2010 Chiudere gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) dove le condizioni igienico-sanitarie e di cura sono inaccettabili, spostando gli internati che non possono essere dimessi nei piccoli ospedali da riconvertire. È l’ipotesi sulla quale sta lavorando la Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, che la prossima settimana sentirà il coordinatore dei magistrati di sorveglianza, Giovanni Tamburino, per valutare le modalità con cui iniziare a far uscire dagli Opg i circa 300 malati considerati dimissibili. Le strutture che dovrebbero essere chiuse, ha spiegato lo stesso Marino, intervenuto a un corso dell’associazione, Volontari in Carcere (Vic), sono quelle di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo Fiorentino, nelle quali sono internati circa 600 dei 1500 malati psichici ospitati dai 6 Opg italiani. Il modello di presa in carico di questi pazienti, considerati “pericolosi”, dovrebbe essere quello dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, dove sono accolte tutte le donne con problemi psichiatrici, che ha una struttura “davvero ospedaliera, dove gli ospiti sono seguiti possono fare attività, sono liberi di muoversi nel parco e hanno anche la piscina. Lì le guardie carcerarie si incontrano solo entrando, perché controllano un muro di cinta esterno”. Giustizia: sindacati di polizia in piazza, contro i tagli per i comparti sicurezza e difesa Ansa, 5 dicembre 2010 “Si rafforzano le motivazioni che ci hanno portato ad annunciare nei giorni scorsi una manifestazione davanti a Montecitorio il 13 dicembre. Quello che è successo giovedì alla Camera è un colpo basso per i comparti sicurezza e difesa. Non ci sono altre parole per definire il vergognoso comportamento della maggioranza che ha ritirato un proprio emendamento, mettendo a rischio l’operatività e l’efficienza dei servizi delle forze dell’ordine dal prossimo primo gennaio. Il 9 dicembre i principali sindacati di Polizia organizzeranno un volantinaggio in tutte le regioni per informare i cittadini di quel che è accaduto. Abbiamo inoltre deciso di organizzare una serie di proteste in tutte le regioni e capoluoghi di provincia, con modalità che i sindacati stanno valutando”. È quanto affermano, in una nota, le segreterie nazionali dei sindacati di polizia Siulp, Sap, Siap, Silp-Cgil, del Sappe (polizia penitenziaria), del Sapaf (corpo forestale dello Stato) e del Fns - Cisl (Federazione Nazionale Sicurezza della Cisl). “L’emendamento presentato nell’ambito della conversione in legge del pacchetto sicurezza - continuano i sindacati - è fondamentale per la salvaguardia delle indennità specifiche per i servizi di Polizia, per l’indennità pensionabile, per gli avanzamenti di carriera e gli scatti, per gli assegni di funzione. Ai poliziotti italiani sono già stati imposti sacrifici gravosi e nonostante i tagli i risultati delle forze dell’ordine continuano ad arrivare. Vogliamo sperare che al Senato, come promesso dal ministro Maroni, ci possa essere un ripensamento per l’approvazione di questo fondamentale emendamento che recepisce gli ordini del giorno approvati più volte a seguito della nostra manifestazione di questa estate. Impegni che il Governo ha ribadito anche a settembre, in sede di contratto. Adesso il tempo delle parole è davvero finito”. Lettere: brevi note in ricordo di Vittorio Grevi, scomparso oggi a Pavia di Giorgio Bertazzini (già Garante dei detenuti della Provincia di Milano) Ristretti Orizzonti, 5 dicembre 2010 È per me naturale consegnare a Ristretti Orizzonti queste brevi note in ricordo di Vittorio Grevi, scomparso oggi a Pavia. Una riflessione lieve, in verità una testimonianza autobiografica che viene da lontano: dalla memoria profonda della feconda stagione riformatrice degli anni 70. Nel 1975, anno della riforma dell’Ordinamento penitenziario, Vittorio Grevi, a soli 33 anni, è già Professore Ordinario di Procedura penale all’università di Pavia, la sua città. Era difficile superare il suo esame di Diritto dell’esecuzione penale. Era ancor più difficile, per alcuni studenti, comprendere che le visite che organizzava annualmente in diverse carceri italiane non erano “visite allo zoo” (così si esprimeva), bensì esperienze di studio e conoscenza di luoghi in cui erano ristrette “persone comunque titolari di diritti inviolabili”, luoghi in cui la società doveva entrare per verificare l’effettività dei principi e delle finalità costituzionali della pena. Altri studenti, quelli del “collettivo politico di Giurisprudenza”, un pò “estremisti di sinistra”, volevano, volevamo capire il perché dell’esistenza pervasiva e totalizzante dello spazio-tempo recluso, immaginando l’utopia possibile del “liberarsi della necessità del carcere”. Nutrivamo per il Professor Grevi profondo rispetto: certo, solo un “riformista”; noi eravamo rivoluzionari! Sapeva il Professor Grevi che nel corso delle visite ai penitenziari avremmo posto alle Direzioni quesiti scomodi, avremmo chiesto di vedere determinate celle o alcuni reparti in particolare, nonché di parlare direttamente con i detenuti. Sapeva e non si sottraeva: con stimolante confronto dialettico il bilancio di quelle visite è sempre stato proficuo. Porto Azzurro (l’ergastolo per antonomasia), la fortezza di Volterra, il manicomio criminale (allora si chiamava così) di Montelupo Fiorentino, e altri ancora: inevitabile, al termine di quei percorsi, laurearsi in Diritto penitenziario con Grevi. Mi scuso per queste annotazioni personali, ma un tempo si diceva “il personale è politico”, e nella polis c’è anche il carcere, storicamente determinato. Il sentirmi oggi così “impregnato di carcere” è dovuto non poco agli insegnamenti di Vittorio Grevi, esemplare figura di giurista illuminato, garantista - nell’accezione nobile - ante litteram; acuto e rigoroso analista che, rifuggendo da sterili tecnicismi, ha saputo coniugare diritti e legalità; eguaglianza formale e sostanziale; Stato di diritto e giustizia sociale. Professor Grevi, mi mancherà. Lettere: un fuorilegge a forma di stivale di Valentina Ascione Gli Altri, 5 dicembre 2010 C’è un fuorilegge là fuori. Un fuorilegge a piede libero. Che non agisce nell’ombra, ma si muove alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti. Che continua a farla franca, anche se l’allarme è scattato e suona, inascoltato, da tempo. C’è un fuorilegge, là fuori, che si chiama Italia. Non siamo noi a dirlo, ma alcuni tra i massimi esperti del diritto internazionale. Giuristi e accademici chiamati a raccolta dal Partito Radicale e da Radicali Italiani per discutere, nell’ambito di un convegno, di rispetto e applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano (Cedu). Il risultato è un documento senza precedenti, nel quale gli esperti denunciano sistematiche violazioni, in Italia, dei diritti umani e di numerosi articoli della Cedu. E rilevano il rischio per la vita stessa dello Stato di diritto nel nostro Paese. Secondo il gruppo di giuristi, tra i quali Vladimiro Zagrebelsky, Pasquale De Sena, Giuseppe Cataldi, Francesco Francioni, Enzo Canniz-zaro, Luigi Condorelli, Elena Sciso, Mario Patrono, “lo Stato italiano è largamente inadempiente rispetto agli obblighi imposti dalla Convenzione europea dei diritti umani, peraltro in buona parte già previsti dalla Costituzione italiana”. Le inadempienze sottolineate riguardano numerosi fronti dell’azione statale: dall’utilizzo strumentale del segreto di Stato “che impedisce la repressione di violazioni gravi di diritti umani fondamentali”, alla “mancanza di indipendenza del sistema radiotelevisivo pubblico”; dalle “criticità del disegno di legge sulle intercettazioni”, alle “gravi conseguenze, per il diritto alla salute, derivanti dalla manifesta carenza nella gestione del ciclo dei rifiuti”. Ma non è tutto. Nel documento si punta l’indice anche contro la politica di respingimento dei migranti, definita come “radicalmente incompatibile con il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, con il divieto di espulsioni collettive, e con il diritto a un ricorso effettivo”. E contro la gravissima situazione delle carceri, ultimo anello di un’amministrazione della giustizia che versa in condizioni drammatiche. Ma l’indifferenza è una difesa forse ancora più efficace dell’attacco, visto che l’allarme dei giuristi non ha suscitato nemmeno una replica. Nel mentre, però, le carceri del Lazio facevano segnare un nuovo record di sovraffollamento. Il garante Angiolo Marroni dava notizia della morte di un trentaduenne tossicodipendente recluso a Rebibbia, avvenuta un mese e mezzo fa nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, per meningite, forse, o leucemia fulminante. In diversi istituti si denunciavano casi di scabbia tra i detenuti, oltre a svariati tentativi di suicidio. A Milano un medico veniva indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver firmato le dimissioni dall’ospedale di un egiziano che aveva soccorso sulla torre dell’ex fabbrica Carlo Erba, dove l’uomo protestava da 23 giorni e dove si era sentito male per un principio di assideramento. Su quest’ultimo caso i Verdi di Bonelli hanno annunciato un esposto anche alla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, l’organo chiamato a esprimersi sulle violazioni della Cedu. Appunto. Lettere: “un minuto da detenuto”… e già mi sentivo soffocare di Carmine Tomeo www.agoravox.it, 5 dicembre 2010 Guardavo quella stanzetta di poco più di 6 metri quadri e sentivo l’aria mancare. Una specie di leggera claustrofobia di cui mai ho sofferto. Dentro, ad “arredare” 3 metri per 2 e mezzo, tre letti a castello, un gabinetto. Mi sentivo il respiro affannato ed ero nella piazza principale della mia città. A Vasto, davanti al palazzo che fu dei marchesi D’Avalos, con ingresso sulla piazza e vista opposta sul panorama del golfo, guardavo una stanzetta di poco più di 6 metri quadri e sentivo l’aria mancare. Una specie di leggera claustrofobia di cui mai ho sofferto. Mi ero affacciato nella riproduzione a grandezza naturale di una cella carceraria. Dentro, ad “arredare” 3 metri per 2 e mezzo, tre letti a castello, un gabinetto con solo una tendina a fingere una separazione ed un pò di privacy, un lavabo e pochi oggetti essenziali. Si trattava dell’iniziativa organizzata pochi giorni fa a Chieti e a Vasto da “Voci di dentro”, rivista scritta quasi interamente da detenuti, per fare riflettere sulle squallida condizione carceraria italiana, che trattiene 70.000 persone in strutture che ne possono ospitare 40.000. Per dire che una vita poco o per niente dignitosa, alla quale sono costretti troppo spesso i detenuti, rende molto più difficoltoso quel recupero che l’art. 27 della Costituzione impone quando recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Guardavo dentro la cella e provavo ad immaginare la convivenza forzata di tre persone che per 20 ore al giorno devono dividersi uno spazio che costringe di fatto all’immobilità. Disumanizzante proprio perché quegli spazi non permettono movimenti minimi necessari al corpo umano, restringono l’immaginazione che credo possa espandersi sempre meno, man mano che il tempo trascorre monotono in carcere. Sapevo che la mia libertà stava solo nel movimento della testa. A me è bastato girarmi, volgere lo sguardo fuori da quella piccola stanza per tornare a respirare e allungare lo sguardo fin dove la mia vista poteva consentirmi. A 70.000 persone questo non è concesso: a loro è data la possibilità di vedere solo un pezzetto di cielo, un piccolo spazio oltre la cella. Ma a riportarmi fuori da quel tugurio, a rimettermi con i piedi e con tutti i cinque sensi nella mia condizione di persona libera, è stato il commento di un passante, che si rivolgeva ai suoi amici di passeggio per dire “ma chi li ha costretti quelli là a commettere un reato”. Già sentito molte volte eppure ancora non riesco a rimanere insensibile a frasi come quelle, dette da persone evidentemente libere di muoversi fisicamente ma carcerieri dei loro stessi pensieri, incapaci a quanto pare di riflettere oltre quello che la loro posizione gli mostra immediatamente. Una commento disarmante per la sua enorme banalità, che sottintende la convinzione della volontà a delinquere a prescindere da qualunque condizione. Inaccettabile pure per Lombroso. La conclusione, miope quanto il commento, è che un detenuto ha niente da rivendicare. È stato in quel momento che mi è tornata in mente la riflessione che Gramsci, rinchiuso nella sua cella esprimeva in una lettera a sua moglie Julca, nella quale diceva “che nel caso di un carcerato si possa parlare di “rivendicazioni” in confronto delle persone libere, perché la condizione del carcerato storicamente si ricollega alla schiavitù del periodo classico; in Italia “galera” e “ergastolo” che si adoperano per carcere indicano questa filiazione in modo evidente”. Ancora oggi. E abbiamo la presunzione di definirci una società civile. Lettere: detenuti di Ferrara ringraziano l’Ipercoop per la donazione di generi alimentari La Nuova Ferrara, 5 dicembre 2010 Con questo messaggio vogliamo esternare dal suo quotidiano alla direzione dell’Ipercoop Il Castello di Ferrara da parte di tutta la comunità dell’Arginone, il nostro ringraziamento e la nostra riconoscenza per la fornitura gratuita di prodotti alimentari e derrate che periodicamente e costantemente arrivano ai detenuti del nostro istituto, grazie al progetto umanitario, in favore delle fasce sociali più bisognose e meno abbienti, denominato “brutti ma buoni” ed all’impegno instancabile e senza tregua di don Antonio Bentivoglio, nostro cappellano e punto di riferimento, oltre alla signora Rosa, la nostra catechista. Questa manifestazione di umanità e solidarietà rappresenta un ponte ed una concreta volontà di rendere partecipe e di interagire la nostra città estense, con la realtà e la popolazione carceraria della casa circondariale di Ferrara. A volte basta un gesto, una briciola di altruismo per colmare confini e frontiere che sulla carta possono sembrare invalicabili, quanto impensabili da abbattere; davvero grazie, grazie di cuore. I detenuti dell’Arginone Velletri (Rm): i detenuti sono il doppio del previsto e mancano 60 agenti penitenziari Il Messaggero, 5 dicembre 2010 Sovraffollamento di detenuti e carenza del personale di custodia nelle carceri del Lazio e in quelle di Velletri in particolare. Sulla situazione tornano preoccupati per l’ennesima volta sia il garante regionale dei diritti dei detenuti sia i rappresentanti sindacali castellani della Fp-Cgil della Polizia penitenziaria. Il garante, Angiolo Marroni, parla della situazione impossibile vissuta presso l’istituto penitenziario veliterno, dopo aver esordito annunciando che nel mese di novembre, all’interno delle carceri del Lazio, dove, in nove mesi, i detenuti sono aumentati di 552 unità, “si è sfondata per la prima volta in assoluto la quota di 6.400 presenze, con 6.434 reclusi - 1.760 in esubero - ospitati nelle 14 strutture della regione”. Di questi, sono 370 i detenuti ammassati nelle celle utilizzate presso il complesso di contrada Giannettola, nella campagna meridionale di Velletri, a 10 chilometri dal centro abitato, allo stato del 22 novembre sono risultati essere 370, a fronte di un’agibilità consentita per 208 ospiti con un esubero di 162 detenuti, pari al 77,88 per cento in più della quota possibile. La situazione è ancor più inconcepibile perché, come sottolinea Marroni, a Velletri, nella stessa area del penitenziario, all’avanguardia per le sue attività produttive (serre, vino, olio, confetture e altro) è stato realizzato un padiglione da 200 posti che rimane incomprensibilmente chiuso. “E il dato peculiare che rende la situazione del Lazio particolarmente grave - afferma il garante - è che nella regione la popolazione detenuta cresce, su base annua, a un ritmo quasi doppio rispetto alla base nazionale: 12 per cento, nel Lazio, contro il 7 per cento, del resto d’Italia. Una situazione drammatica che, a causa del freddo invernale, del sovraffollamento e delle precarie condizioni igieniche, potrebbe aggravarsi in maniera irreparabile già nei prossimi giorni”. Al grido d’allarme del garante si aggiunge quello del sindacato Fp-Cgil della polizia penitenziaria ribadendo come le condizioni e i carichi di lavoro degli agenti siano sempre più estenuanti. Condizioni, che sono aggravate dai continui prepensionamenti dovuti proprio al disagio lavorativo. In una nota sottoscritta dal segretario generale del sindacato Fp-Cgil, Paolo Calvano, e dal coordinatore locale dello stesso, Enzo Felici, viene rilevato che in pratica, alla casa circondariale di Velletri, “si contano sessanta unità lavorative in meno rispetto al dovuto”. Poi, dopo aver ricordato che le condizioni generali portano anche ad atti di disperazione tra i detenuti, come quello di uno di loro che il 23 novembre scorso ha tentato di togliersi la vita - tentativo sventato dal pronto intervento degli agenti - i due sindacalisti aggiungono: “Questa situazione non è più tollerabile da parte degli agenti, i quali denunciano, e noi con loro, un forte stato di disagio e di stress a cui sono sottoposti. Nonostante ciò, anche in presenza di condizioni di lavoro critiche, ganatiscono il servizio con alto senso di responsabilità”. I rappresentanti sindacali sono giunti alla terminazione di praticare l’iter di una denuncia pubblica nella speranza che essa “faccia muovere i vertici istituzionali a promuovere quelle iniziative, quanto meno allevianti le condizioni dei lavoratori, nonché quelle dei detenuti stessi”. Fossombrone (Pu): garitte del carcere inutilizzabili, si muove il Prefetto Il Messaggero, 5 dicembre 2010 In merito al servizio “Muro pericolante, polizia penitenziaria costretta ad abbandonare le garitte e a fare la guardia in auto”, riceviamo e pubblichiamo una nota dei diretti interessati, gli agenti del carcere. “Grazie per aver evidenziato con parole chiare la situazione che vive la Casa di Reclusione a Fossombrone. Segnaliamo, inoltre, gli aspetti che configurano l’attuale condizione di lavoro degli agenti: carenza di personale che costringe a fronteggiare non più i tradizionali turni e le continue esigenze di servizio per garantire la sicurezza esterna ed interna del carcere; gente che deve godere ferie arretrate; stress che prende per mano; impedimento a curare gli affetti familiari. Insomma. Una vita impossibile. Giustamente avete scritto “Dov’è andato a finire il rispetto dovuto alla persona che lavora?”. Da anni, il numero del personale è sotto organico. Dove in servizio richiedeva quattro persone, oggi è ridotto a due. Dove ne richiedeva uno, oggi manca a discapito degli altri. Nessuno s’interessa realmente, cercandola di risolvere, della situazione in cui “tira a campare” o “cerca di sopravvivere” il carcere a Fossombrone”. Il Prefetto Giuffrida, sulla situazione denunciata nel servizio di ieri, ha già trasmesso una segnalazione al ministero della Giustizia. L’Amministrazione comunale, una diretta interessata a salvare quella struttura che i forsempronesi definiscono “industria carceraria” per il reddito che produce alla città, si è costantemente “raccomandata” alle figure politiche della zona, affinché, in sede romana, perorino la salvaguardia della Casa di Reclusione. Il sindaco, Maurizio Pelagaggia, non fa mistero delle difficoltà: “Con i tempi che corrono…”. Venezia: cade dal terzo piano del letto a castello, detenuto rischia di morire La Nuova di Venezia, 5 dicembre 2010 In carcere si muore (lo scorso anno i suicidi a Santa Maria Maggiore sono stati ben tre), in carcere si soffre. In quello veneziano potrebbero starci in 160, sono invece più del doppio, 340-350. Nelle celle ci sono letti a castello (senza sponda) a tre piani e nelle settimane scorse un detenuto algerino di 37 anni è caduto da oltre due metri: è stato ricoverato all’ospedale. Ora, ha presentato una querela per lesioni colpose in Procura contro la direzione del carcere e contro chi sarà ritenuto responsabile delle condizioni in cui sono costretti a vivere a Santa Maria Maggiore. Un documento di protesta che ha raccolto 70 firme di detenuti è stato consegnato all’avvocato Marco Zanchi, il quale da tempo si interessa delle condizioni di vita nelle celle. Scrivono che a Santa Maria Maggiore, oltre al sovraffollamento che esiste nella maggior parte dei penitenziari, mancano luoghi adatti per l’attività rieducativa, non c’è un infermeria per trattenere detenuti malati, i tossicodipendenti e i sieropositivi non sono separati dagli altri. Anche gli agenti sono sotto organico e sono sottoposti a turni massacranti. In celle che possono ospitare 4 persone si ritrovano in otto e rimangono distesi nelle brande anche 20 ore al giorno perché le celle vengono aperte solo per 4 ore e all’interno non c’è spazio per muoversi. “Manca lo spazio, manca l’aria, mancano gli affetti, manca la speranza, manca il lavoro, manca (spesso) l’acqua calda, manca l’igiene, manca la possibilità di essere tempestivamente e adeguatamente curati quando si sta male, mancano agenti penitenziari e i pochi presenti sono spesso stressati, manca la libertà di denunciare tutto questo per timore di punizioni e ritorsioni”. A scriverlo è l’avvocato Zanchi in una lettera al presidente del Tribunale di sorveglianza Giovanni Pavarin. “Questo carcere - sostiene il legale - non può essere in grado di rieducare alcuno, ma addirittura desocializza con certezza e rende il detenuto peggiore e più pericoloso”. L’avvocato chiede ai magistrati di concedere più misure alternative al carcere, più sospensioni della pena e più detenzioni domiciliari. In una delle lettere firmate dai detenuti, uno di loro (un trevigiano) rivela di essere stato in cella con “Brunetto” Vidali quando era a Santa Maria Maggiore e di avergli salvato la vita strappandogli dalla testa il sacchetto che si era infilato assieme ad una bombola di gas. Suicidio poi riuscitogli nel carcere di Tolmezzo con lo stesso sistema. Cagliari: detenuto morto in cella per overdose, trovate le trascrizioni dei nastri spariti L’Unione Sarda, 5 dicembre 2010 L’altro ieri la prima udienza dopo la clamorosa scomparsa dei nastri con le intercettazioni al processo per la morte di Roberto Grimaldi, il detenuto stroncato da un’overdose di eroina il 12 giugno 2005 a Buoncammino. Sotto accusa davanti al Tribunale di Cagliari è finito Stefano Medde, il compagno di cella della vittima a cui sono contestati i reati di morte derivante da altro reato e omissione di soccorso. A luglio i giudici avevano incaricato un perito di procedere alla trascrizione delle conversazione registrate in carcere che inchioderebbero l’imputato, ma l’esperto aveva annunciato che nei nastri prelevati dal Gabinetto di polizia scientifica non c’era più nulla. O meglio, c’erano altre intercettazioni, sovrascritte alle precedenti. A quel punto i giudici avevano disposto l’acquisizione delle trascrizioni effettuate dagli inquirenti, provvedimento a cui si erano opposti i legali della difesa Denise Mirasole e Leonardo Filippi. Ieri il pm Gaetano Porcu ha dunque consegnato i brogliacci con le trascrizioni, interrogando poi i due agenti che ascoltarono i nastri. La svolta nelle indagini era arrivata dopo che, nella sala colloqui del carcere, uno dei compagni di cella di Grimaldi (i cui familiari sono tutelati dall’avvocato Antonio Curcu) fu intercettato mentre parlava con la moglie. Da qui la ricostruzione: l’imputato aveva diviso l’eroina con Grimaldi che si era sentito male. Ma l’allarme era stato dato in ritardo perché Medde sarebbe dovuto uscire dopo due giorni e temeva di finire nuovamente nei guai. Oristano: detenuto trasferito a Taranto; appello ai parlamentari per riavvicinarlo a casa La Nuova Sardegna, 5 dicembre 2010 Il detenuto è in custodia cautelare a Taranto. Troppo lontano da casa sua perché possa essere assistito in maniera dignitosa, così come previsto dalla Costituzione. Così il caso di Graziano Congiu, bracciante agricolo di Milis, finito dietro le sbarre per il suo presunto coinvolgimento nella rapina ad una tabaccheria di Simala, rischia di finire nelle aule del Parlamento. L’avvocato difensore Aurelio Schintu, ha preso contatti con alcuni parlamentari perché si facciano carico di esporre direttamente al Ministero il caso considerato fuori legge. Le manette erano scattate nel mese di luglio, quando i carabinieri di Mogoro conclusero gli accertamenti sul colpo messo a segno alla tabaccheria che fruttò un bottino di cinquemila euro. Graziano Congiu e il suo presunto complice Luca Settefonti, allevatore di Santu Lussurgiu, furono traditi dall’utilizzo di alcune schede telefoniche della stessa partita di quelle rapinate nella tabaccheria Onidi di Simala, dove il padre del titolare fu rinchiuso dai malviventi durante il colpo. Indagini a parte, la difesa lamenta il fatto di non poter svolgere nel migliore dei modi il proprio lavoro. Anzi, le difficoltà sono numerosissime da quando è stato deciso il trasferimento di Graziano Congiu nel carcere di Taranto. Le distanze dalla Sardegna creerebbero problemi insormontabili che, secondo l’avvocato Aurelio Schintu, ledono il diritto della difesa sancito dalla Costituzione italiana. È per questo che il caso finirà in Parlamento. Treviso: romeno senza dimora sfonda vetrina per poter “mangiare e dormire” in carcere La Tribuna di Treviso, 5 dicembre 2010 È riuscito a farsi arrestare Dino Soraj Stoica, il rumeno di 33 anni che dopo aver spaccato una vetrina di un bar a Conegliano aveva detto ai vigili “L’ho fatto perché non ho un posto dove mangiare e dormire”. Mercoledì verso le 19.45 l’uomo ha preso di mira un altro bar a caso ed è arrivato al Cafè Company situato nell’area commerciale di via Conegliano a Susegana, situato di fronte alla Sme. I titolari del bar hanno chiesto l’intervento del 113 dopo che l’uomo senza motivo aveva mandato in frantumi un vetro, prendendo in mano un grosso sasso e lanciandolo contro la vetrata. L’immigrato era appena stato rimesso in libertà dai vigili urbani di Conegliano, quando gli agenti del commissariato hanno fatto scattare le manette ai suoi polsi. Il rumeno infatti poche ore prima aveva compiuto lo stesso gesto contro un esercizio pubblico di via Colombo a Conegliano perché voleva finire in galera. “Per dormire e mangiare” questa è stata la sua motivazione. È perciò stato arrestato dalla polizia e accompagnato al carcere di Santa Bona a Treviso, ha così collezionato una doppia denuncia per danneggiamenti. Alla fine è riuscito a centrare il suo obiettivo, cioè trovare un tetto sotto il quale dormire e poter avere del cibo. Un pericolo pubblico che mercoledì ha creato scompiglio fortunatamente senza provocare feriti e per il momento non creerà più danni. Ora dovrà essere il magistrato a convalidare il suo arresto. Il rumeno è appena stato munito di un decreto di espulsione dalla Questura di Roma proprio per i suoi precedenti. Adesso sarà valutato il suo accompagnamento nella sua terra d’origine, anche se lui sembra preferire le carceri italiane. Milano: Franco Ionta (Dap) visita gli istituti penitenziari di Opera, Bollate e San Vittore Comunicato stampa, 5 dicembre 2010 “Un carcere più aperto è un carcere più sicuro”, così Ionta ha commentato la visita al carcere di Bollate, dove circa seicento detenuti sono impiegati nelle attività lavorative organizzate all’interno dell’istituto. “Tutto questo è possibile grazie al personale di Polizia penitenziaria che assicura lo svolgimento delle molteplici attività trattamentali garantendo sicurezza e legalità e grazie alla dirigenza che promuove un’idea di carcere dove il principio del reinserimento sociale sperimenta percorsi innovativi e produttivi di risultati. E proprio di lavoro penitenziario è parlato alla tavola rotonda che si è tenuta al Salone della Giustizia, durante la quale Ionta ha ribadito la centralità del lavoro penitenziario come punto nevralgico su cui devono convergere energie e potenzialità dell’Amministrazione penitenziaria, dell’associazionismo e degli imprenditori. La visita del capo del dipartimento è proseguita nel carcere di San Vittore, dove è stata segnalata l’esigenza della ristrutturazione e della riapertura di due raggi, e nell’istituto a custodia attenuata, un esempio di alternativa al carcere per le detenute madri, dove la Polizia Penitenziaria lavora indossando abiti civili e dove ai bambini viene assicurata una dimensione di vita quanto più possibile simile alla famiglia perché vivono in un carcere senza sbarre. Il capo dell’Amministrazione penitenziaria ha chiuso la giornata milanese nel carcere di Opera, dove ha cenato con gli agenti di Polizia Penitenziaria e le loro famiglie. “Un segnale di attenzione verso il mio personale, ha detto Ionta, che affronta situazioni di disagio lavorative senza mai venire meno al senso di responsabilità. Ho piena consapevolezza dei sacrifici dovuti alla difficoltà dell’emergenza e la mia visita è anche un messaggio di vicinanza concreta, perché i problemi del Corpo sono al centro del mio impegno come capo del Dap.” Ufficio Relazioni Esterne del Dap Catania: sport dietro le sbarre all’Ipm di Bicocca grazie a un torneo di calcio per minori La Sicilia, 5 dicembre 2010 Per il 4° anno adolescenti e ragazzi reclusi nel carcere minorile di Bicocca abbracciano discipline sportive grazie al progetto “Sport dentro le mura” portato avanti dall’associazione “Futur@”, realtà che ormai da tempo opera nel campo dei servizi sociali, con uno sguardo particolare rivolto ai ragazzi a rischio devianza. Il progetto è curato dagli istruttori sportivi Enzo Buttò, Luca Pacini e Francesco Pelosi. Sono loro, coordinati dai professori di educazione fisica Marcello D’Onofrio e Mario Sanginisi, a consentire ad una trentina di giovani di praticare attività fisica all’interno della struttura penitenziaria della zona sud della città, diretta da Maria Randazzo. Calcio a 5, a 11 ma anche attrezzistica le discipline in cui si misurano in questi mesi tutti i ragazzi: i più promettenti, così come peraltro è già avvenuto per le edizioni passate, fanno parte di una squadra di calcio a 5 che partecipa al torneo di PGS e che consente loro di scendere in campo contro squadre esterne. Un torneo con gironi di andata e ritorno che vengono disputati tutti a Bicocca, il primo incontro c’è già stato ed ha registrato la vittoria della squadra dei giovani detenuti. Per l’attrezzistica sono svariate le attività che possono sviluppare armonia e benessere fisico. “Abbiamo la certezza - ha detto il presidente dell’associazione Futur@, Marcello D’Onofrio - che questa attività sia ancora una volta un valido aiuto per coinvolgere i giovani che, pur trovandosi in un momento così delicato, riescono ad approcciarsi con il mondo esterno”. Ferrara: presentato il libro “Vorrei dirti che non eri solo”, di I. Cucchi e G. Bianconi La Nuova Ferrara, 5 dicembre 2010 “Il libro di Ilaria racconta di una famiglia italiana, delle difficoltà dei rapporti, dell’amore e della cura: non è un libro di denuncia ma c’è la cronaca di un calvario lungo sei giorni durante i quali la famiglia di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma mentre era in stato d’arresto, si è trovata abbandonata e poi maltrattata dalle istituzioni, quelle stesse istituzioni nelle quali avevano nutrito fiducia”. Con queste parole Franco Corleone, presidente della Società Ragione e Garante dei Diritti dei detenuti, ha presentato venerdì sera presso la Sala della Musica il libro “Vorrei dirti che non eri solo” di Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi, edito da Rizzoli. “Il primo problema che la mia famiglia si è trovata ad affrontare è stato la mancanza di verità. Abbiamo saputo della sua morte grazie alla notifica del decreto del giudice che aveva richiesto l’autopsia del cadavere dopo giorni di attesa fuori la porta dell’ospedale, dove i medici ci rassicuravano dicendoci che Stefano era tranquillo - ha spigato la Cucchi -. Lui sapeva che nelle difficoltà avrebbe potuto sempre contare su di noi ed invece in quei giorni avrà pensato che l’avevamo abbandonato, questo ci dà ancora più dolore ed alimenta la nostra rabbia. Chi ha il diritto di decidere che una persona debba essere improvvisamente privata dei suoi diritti civili e debba morire da solo, ucciso dal pregiudizio di chi lo ha etichettato come un tossicodipendente? Io sono stata fortunata, ho trovato delle persone intorno a me che hanno saputo indirizzarmi, come Patrizia Moretti, che mi hanno sostenuto fino ad ora. Quando ci hanno fatto vedere il cadavere di mio fratello in una teca di vetro, senza poterlo neanche accarezzare, abbiamo capito che solo la verità avrebbe restituito dignità a Stefano e un po’ di pace a noi”. Di pregiudizio hanno parlato anche Patrizia Moretti e l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. “Il prezzo che queste persone stanno pagando è troppo alto perché sia accettato da una società civile - ha affermato Anselmo -. Se la legge è uguale per tutti, i rappresentanti delle istituzioni, che indossino o meno la divisa e che vengono accusati di avere approfittato del loro potere devono essere spogliati di quest’ultimo e posti a giudizio quali cittadini, sullo stesso piano delle proprie vittime. Invece, di fronte a tragedie come queste, le istituzioni si chiudono a riccio a protezione della propria immagine e si schierano a fianco dei propri operatori e non di tutti i cittadini. Il perpetrarsi di questa cultura di impunità del potere è inaccettabile perché, cullata dai media e sospinta dalla pubblica opinione, partorisce i casi Cucchi ed Aldrovandi. La denuncia è l’unico mezzo per cambiare questa mentalità ma lo Stato chiede trasparenza ai cittadini e poi non è in grado di assicurarla agli stessi: il pm e il giudice che hanno interrogato Stefano Cucchi hanno dichiarato di non aver notato lo stato di salute del ragazzo per non averlo mai guardato in faccia”. Busto Arsizio: i detenuti preparano biglietti di auguri e un presepe… sovraffollato Il Giorno, 5 dicembre 2010 Distribuiti 450 biglietti ai detenuti, raggiungeranno 40 paesi del mondo. Pronto anche il presepe pieno di statuine per ricordare il problema del sovraffollamento. Centinaia di biglietti d’auguri natalizi verranno spediti nei prossimi giorni dal carcere di Busto Arsizio e andranno in giro per il mondo. Già, perché sono una quarantina le nazionalità presenti nella struttura carceraria bustese. La maggior parte dei detenuti sono stranieri, molti accusati di essere corrieri della droga arrestati a Malpensa. I biglietti raffiguranti la Natività, donati dal cappellano don Silvano Brambilla, insieme a un bloc-notes e una biro sono stati consegnati ieri mattina a ogni detenuto dai volontari dell’Associazione assistenza carcerati e loro famiglie di Busto Arsizio-Gallarate che da anni operano dentro il carcere bustese. Sono 450 i cartoncini augurali distribuiti cella per cella da Rodolfo Zecubi e suor Augusta Negri. Oltre la metà, 280, sono destinati a immigrati che hanno gradito il pensiero. Un gesto particolarmente atteso dai detenuti per i quali proprio il periodo natalizio è quello in cui si avverte maggiormente il peso della solitudine e della lontananza dagli affetti più cari, soprattutto se a casa ci sono i figli che non si possono abbracciare, condividendo la gioia di una festa importante come quella che ricorda la nascita di Gesù. Scrivere, comunicare anche solo un piccolo pensiero diventa allora un modo intimo per sentirsi vicino alle persone care. Tra qualche giorno i biglietti “prenderanno il volo”. Lasceranno le celle e andranno oltre le sbarre, liberi, in giro per il mondo, portando parole di affetto e di amicizia, ancora più importanti perché uscite dal carcere. “La lontananza dalla famiglia - spiegano i volontari - è l’elemento di maggior sofferenza dentro il carcere. Scrivere aiuta ad alleggerire questa sofferenza”. Ieri mattina ogni detenuto ha ricevuto il suo biglietto d’auguri con tanto di francobollo, un dono gradito da tutti, anche dagli stranieri che hanno sorriso e ringraziato Rodolfo Zecubi e suor Augusta. Intanto fervono i preparativi per la preparazione del presepe che sarà allestito dai carcerati. Sarà un presepe particolarmente adornato di statuine, almeno un centinaio per ricordare il problema che affligge oggi tante strutture carcerarie e anche quella bustese, il sovraffollamento. Sempre i volontari dell’Associazione assistenza carcerati stanno invece preparando la festa per le famiglie dei detenuti in programma sabato 11 dicembre nella parrocchia di Madonna in campagna a Gallarate dove nel pomeriggio celebrerà la santa messa monsignor Luigi Stucchi, vicario episcopale nella zona di Varese. Dopo la celebrazione ci sarà la distribuzione dei pacchi-dono per i bambini. “Abbiamo bisogno di un po’ di aiuto - dicono dall’associazione - ci servono giocattoli nuovi, quaderni, matite per preparare i pacchi - dono per i bambini. Chi è interessato ad aiutarci può venire a trovarci nella nostra sede in via Sanzio a Gallarate”. Bollate (Mi): cavalli in carcere per un programma di riabilitazione equestre Cavallo Magazine, 5 dicembre 2010 “Gli animali in carcere aiutano a portare rispetto, dignità e soprattutto amore, ingrediente principale per la motivazione al cambiamento”. Sono le parole di Pauline Quinn, una suora dominicana che ventitré anni fa, introdusse per prima un programma di riabilitazione per detenuti, in una prigione dello stato di Washington. Questo tipo di programma che prevedeva la presenza di cani e in seguito di cavalli nelle carceri, ha trovato un appoggio concreto con la Casa Circondariale di Bollate a due passi da Milano, che da tre anni si presenta come unica realtà in Italia e in Europa e che utilizza proprio i cavalli all’interno delle proprie strutture per la riabilitazione sociale dei detenuti. Un programma rivolto alla popolazione penitenziaria che ha così a disposizione nuove opportunità di reinserimento a fine pena. Negli ultimi anni il cavallo ha trovato nuove valenze educative e psicologiche, la riabilitazione equestre è una dimostrazione lampante. Il cavallo è entrato nelle carceri, ed è stato per quasi quattro anni il motore dell’importante iniziativa nata in seno alla Federazione Italiana Sport Equestri. Il convegno che si è tenuto lunedì scorso ha confermato il grande interesse nei confronti di iniziative come questa. Promotori anche per il 2011, la Federazione Italiana Sport Equestri e Asom (Associazione Oltre il Muro), presieduta da Claudio Villa. Il progetto “Cavalli per il Carcere” prevede la formazione di figure professionali legate al mondo dei cavalli; fino ad oggi sono stati organizzati tre corsi, con un totale di 30 detenuti coinvolti (a fronte delle oltre cento richieste pervenute) e impegnati a rotazione nella gestione della scuderia. I partecipanti hanno così ottenuto l’attestato di Artiere . Sotto la direzione di Lucia Castellano, Bollate conferma la propria vocazione a porsi come un circuito penitenziario differenziato capace di dare ad ogni utente del carcere una risposta differente, a seconda della condizione e della pena del singolo. La Dott.ssa Stefania Cerino, in qualità di Capo Dipartimento Riabilitazione Equestre FISE, ha commentato così il progetto: “abbiamo appoggiato con entusiasmo questa iniziativa che si prefigge di avviare un percorso riabilitativo. In particolar modo, per quelle categorie di reati che hanno bisogno di un vero e proprio intervento rieducativo”. Ci si propone di attuare questo programma di riabilitazione equestre con un protocollo apposito studiato per il lavoro del cavallo da terra e soprattutto per finanziare questa e altre iniziative che si potranno realizzare all’interno di Bollate, viene proposta la possibilità di accogliere all’interno della struttura, cavalli anziani e in riabilitazione a prezzi particolarmente convenienti. Il convegno dello scorso lunedì, ha contato oltre 100 presenze a dimostrazione del reale interesse suscitato da questa iniziativa il Dott. Piermario Giongo, veterinario e volontario dell’Associazione Oltre il Muro ha aggiunto: “il progetto si basa soprattutto sulla buona vlontà dei volontari e per poter proseguire, abbiamo necessita di molte cose che possono essere offerte da chi non ne fa più uso. Gli ampi spazi all’interno del carcere di Bollate consentono di ospitare cavalli provenienti da situazioni diverse come maltrattamenti, abusi, corse clandestine. Sono certo che con questo incontro possa rinforzarsi l’iter positivo partito quattro anni fa”. Televisione: “Nelle mani dello Stato”; domani sera Lucarelli parla di Carceri, Opg e Cie Agi, 5 dicembre 2010 Dopo dieci edizioni di “Blu Notte - Misteri italiani”, Carlo Lucarelli ritorna su Rai3 con un nuovo programma: “Lucarelliracconta”. Lo scrittore e conduttore televisivo riprende con il suo appassionante stile narrativo un percorso di indagine e ricostruzione di alcune delle più controverse vicende della società italiana. Cinque nuovi casi della nostra storia recente: Nelle mani dello Stato, La mala del Brenta, La quarta mafia, La morte sul lavoro e La trattativa, per raccontare fatti che troppo spesso rimangono nascosti o vengono archiviati, dove la storia del crimine inevitabilmente si intreccia alla storia di chi al crimine si contrappone o di chi fatalmente ne rimane vittima. Ogni puntata avrà un prologo e un epilogo con un’intervista di Carlo Lucarelli a un personaggio che introduce e chiude il tema trattato. La prima puntata dal titolo “Nelle mani dello stato”, andrà in onda lunedì 6 dicembre alle 21.05 e sarà introdotta da un’intervista al cantautore Daniele Silvestri. Sono tanti i momenti e i luoghi in cui, a torto o a ragione, colpevole o innocente, un cittadino può ritrovarsi totalmente nelle mani dello Stato, anche in una democrazia. In caserma o in questura perché arrestato o fermato, detenuto in carcere perché in attesa di giudizio o condannato, in infermeria, nei reparti penitenziari degli ospedali, o negli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari perché deve essere curato. Oppure nei Cie, nei centri di identificazione ed espulsione, perché straniero e non in regola con leggi e documenti. Ci sono leggi, procedure, controlli, uffici e persone che regolano questa tutela. La maggior parte delle volte le garanzie funzionano. Ma altre volte no. Come nel caso di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva o del giovanissimo Federico Aldrovandi. Tutti e tre morti violentemente mentre si trovavano in una situazione particolare: nelle mani dello Stato. Teatro: martedì a Roma presentazione di “Stoffe di silenzio”, recital per Aldo Bianzino Adnkronos, 5 dicembre 2010 L’associazione no-profit Alice in cerca di teatro, con Nessuno Tocchi Caino, A Buon Diritto, Ristretti Orizzonti e Articolo 21, nell’ambito del progetto “Parole oltre le sbarre”, presenta “Stoffe di silenzio” Per Aldo Bianzino, un Recital di e con Ugo De Vita che si ispira alla vicenda del 44enne morto nel 2007 nel carcere di Perugia in circostanze oscure, due giorni dopo il suo arresto. L’opera si compone anche di un Video e di una Raccolta poetica. La presentazione si terrà martedì 7 dicembre, alle ore 12, a Roma presso la sede di Nessuno Tocchi Caino (via di Torre Argentina, 76 - 3° piano) e vedrà la partecipazione di Rudra Bianzino, figlio di Aldo, e dei rappresentanti delle associazioni che hanno promosso l’iniziativa, tra cui Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno tocchi Caino, del leader Radicale Marco Pannella, di Rita Bernardini, Deputata Radicale e Sergio Rovasio, Segretario di “Certi Diritti”. Dopo il successo riscosso da “In morte segreta - Conoscenza di Stefano” in memoria di Stefano Cucchi, il recital per Aldo Bianzino è il secondo spettacolo di una trilogia di Ugo De Vita dedicata ai diritti dei detenuti, alla quale hanno dato il proprio sostegno anche i Garanti dei detenuti del Lazio e di Firenze. “Stoffe di silenzio” (tempo unico della durata di 55 minuti) è un dialogo metafisico tra padre e figlio, con la figura materna testimone di un amore e di una lacerazione. La musica scelta per “Stoffe di silenzio” è quella dei cantautori che si ascoltavano in casa Bianzino, le note che hanno accompagnato tante giornate di Aldo e Roberta. Il video (di 14 minuti) propone una breve intervista a Rudra, mostrando i luoghi in cui visse la famiglia Bianzino prima di quella tragica alba dell’ottobre 2007, senza retorica e cogliendo le prospettive di un ragazzo diciassettenne che in soli tre anni e ha perso i suoi affetti più cari. Immigrazione: voci dalla comunità eritrea; siamo in Italia per sfuggire alla dittatura di Ilaria Sesana Avvenire, 5 dicembre 2010 “Lo vedi, lui è il presidente Isaias Afeworki!” Un quarantenne mostra con orgoglio lo screen saver del suo cellulare: “È un grande presidente”, ribadisce con forza cercando di convincere gli interlocutori. In pochi minuti, la disputa politica infiamma gli animi: “Lascialo perdere, è un eritreano leghista”. Abraham, 24 anni, cerca di sdrammatizzare con una battuta, ma il suo sorriso è triste. È fuggito dall’Eritrea nell’aprile 2005 per non essere costretto a trascorrere tutta la vita imbracciando un fucile, da un paio d’anni vive a Milano. Spesso, dopo il lavoro, trascorre la serata nella zona dei Bastioni di Porta Venezia, un angolo di città dove è facile ascoltare il suono aspro del tigrino (la lingua più diffusa in Eritrea) e per mangiare un buon piatto di zighinì (uno spezzatino piccante) è sufficiente varcare la porta di uno dei tanti ristorantini della “piccola Asmara” meneghina. Quella eritrea, infatti, è una delle comunità immigrate più antiche e radicate: i primi “nezelà”, gli scialli di garza bianca tipici delle donne di Asmara, apparvero nel capoluogo lombardo già negli anni Trenta. Circa 10mila persone in tutto, che vivono soprattutto a Milano e a Roma, anche se non mancano piccole presenze a Torino, Bologna, Genova, Verona. Il primo importante flusso migratorio si verificò tra gli anni Settanta e Ottanta, quando la guerra con l’Etiopia costrinse migliaia di persone a fuggire e molti chiesero asilo politico in Italia. La fuga riprese nel 2000: questa volta toccò ai giovani, alla ricerca di un’alternativa alla dittatura e alla naja perpetua imposte da Isaias Afeworki. Quello stesso presidente che i loro padri portarono al potere. Per questo motivo i rapporti tra le due generazioni sono tesi: agli occhi dei più anziani, i ragazzi come Abraham sono dei traditori. Anche a Roma è presente una folta comunità eritrea (2-3mila persone) che si riunisce intorno alla chiesa di San Salvatore in Campo. “È una comunità giovane, ci sono molte donne con bambini - spiega padre Giovanni La Manna, del Centro Astalli -. Molti si sono ben integrati e hanno un lavoro. Altri, invece, sono costretti a vivere per strada o in edifici occupati”. Un dramma che affligge soprattutto chi è arrivato in Italia da poco e trova un contesto più chiuso: “C’è un deficit di accoglienza - puntualizza La Manna -. In Italia manca un vero processo di integrazione e la crisi economica rende ancora più difficile la situazione”. Dal 2009 il numero degli eritrei nella capitale ha registrato un calo. “Ma è solo un rallentamento - conclude La Manna -, i respingimenti hanno avuto come unica conseguenza il fatto di rendere i viaggi più lunghi, pericolosi e costosi”. “Siamo ridotti in catene”, l’ultimo urlo degli eritrei, di Diego Motta Il rumore arriva sordo alla cornetta del telefono. “Senti le catene? Ci hanno legato, come gli schiavi”. La voce della ragazza eritrea, sequestrata in mezzo al deserto insieme ad altri 250 africani di varie nazionalità, arriva da uno dei due accampamenti scelti dai trafficanti di uomini per nascondere la loro vergogna: centinaia di uomini e donne africane, provenienti anche dall’Etiopia, dal Sudan e dalla Somalia, sono da settimane nelle mani di una banda senza scrupoli. Sognavano di arrivare in Occidente, invece sono in una delle tanti prigioni improvvisate nascoste intorno al Sinai. Sei di loro sono stati uccisi all’inizio di questa settimana, molti vengono torturati quotidianamente e sono in condizioni drammatiche. “Ora devo lasciarti, ricordati di mandare i soldi”, è la frase più ricorrente che usano per troncare qualsiasi conversazione e rassicurare i loro aguzzini. Dall’altra parte del telefono, ci sono famiglie, soprattutto svizzere e svedesi, a cui viene chiesto un contributo economico. “Fai in fretta, altrimenti mi tolgono un rene”. Sono i soldi del riscatto, l’unica cosa che interessa ai trafficanti di uomini del ventunesimo secolo: scovare chi, tra questa povera gente, ha parenti in Europa e con loro alzare la posta della liberazione. In Libia era di 2mila dollari mentre adesso, sulle alture del Sinai, il prezzo della libertà vale quattro volte tanto. “Hanno fiutato l’affare - spiega don Mosè Zerai, il sacerdote che dall’Italia sta dando voce alle vittime di questa vicenda - e lanciano ultimatum continui. Sono armati fino ai denti e probabilmente c’è qualcuno che li copre, all’interno di una zona non controllata”. Sotto accusa, nelle ultime ore, è finito proprio il governo egiziano, a cui si sono rivolti nell’ordine la Farnesina, le organizzazioni delle Nazioni Unite che lavorano per i diritti umani e per i rifugiati, diverse Ong e le associazioni ecclesiali. “C’è una sostanziale inerzia da parte del Cairo” denuncia Matteo Pegoraro, copresidente del gruppo Everyone, una Ong che lavora nel campo dei diritti umani, che ha lanciato anche un appello all’Europa e ha chiesto il sostegno persino del Mossad israeliano, affinché aiuti le autorità locali nella cattura della banda. I profughi sono richiedenti asilo, in fuga perenne dalla loro terra, finiti in trappola prima in Libia, da dove sono successivamente scappati, e ora con il miraggio di arrivare in Israele, dove vorrebbero chiedere asilo politico. Ma la loro drammatica rincorsa, passata di trafficante in trafficante, di ricatto in ricatto, è divenuta ormai un caso internazionale. “Non è la prima volta che succede, ma è la prima volta che assistiamo a una deportazione di massa di queste proporzioni”, è il monito duro di don Zerai. “Mai visto un traffico di esseri umani di queste dimensioni”, conferma Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), che parla di “un fiorente business per questi sfruttatori, ancora più spregiudicati da quando sanno che sono chiuse le rotte d’accesso all’Europa che arrivano via mare”. I gruppi criminali sono da sempre in agguato e, quando ti muovi nelle terre di nessuno, diventa impossibile garantire protezione da parte degli Stati, in alcuni casi conniventi proprio con le stesse organizzazioni. “Speriamo che la mobilitazione in corso per la liberazione dia presto i suoi frutti” spiega don Zerai. Il tempo della vergogna (e delle catene) è già scaduto. Chiusa la via del mare spuntano nuove rotte Impiegano più tempo, percorrono rotte sempre più lunghe e pericolose. Pagano molti più soldi ai trafficanti. Ostacoli sempre maggiori, che però non fermano i disperati in fuga dalla Somalia, dalla guerra civile che insanguina il Sudan o dalla dittatura di Afeworki: ogni volta che la “fortezza Europa” innalza una nuova barriera, ecco che sulle carte geografiche sembrano comparire, come per magia, nuove rotte. La drammatica vicenda degli eritrei sequestrati dai trafficanti nel deserto del Sinai è la conferma di quanto sta avvenendo lungo la frontiera meridionale del Mediterraneo: sigillata la frontiera libica (a seguito degli accordi stipulati con l’Italia), i migranti hanno iniziato a investire le loro risorse lungo altre due rotte. La prima attraversa l’Egitto e il deserto del Sinai per raggiungere Israele; la seconda, più lunga e tortuosa, prevede l’attraversamento del Golfo di Aden, la lunga risalita della penisola arabica e l’approdo finale in Grecia. In entrambi i casi, si tratta di rotte già sperimentate da anni, ma in questo complesso “risiko” sono le uniche rimaste ancora accessibili. Cresce dunque la pressione dei migranti su Israele: nel 2009 gli africani giunti nello Stato ebraico erano stati 4.341, nei primi undici mesi del 2010 hanno sfiorato quota 11mila. Un flusso in continua crescita, che il governo di Tel Aviv vuole fermare con una barriera di 250 chilometri lungo il confine con l’Egitto. Per il governo di Israele la presenza africana rappresenta “un pericolo demografico esistenziale”. Un pericolo da fermare, se necessario, anche a colpi di fucile: dall’inizio dell’anno più di 30 persone sono state uccise dalla polizia di frontiera. Per fuggire dal Corno d’Africa c’è poi un’altra possibilità. Occorre raggiungere Bossaso, capitale del Puntland (Stato sorto dalle ceneri della Somalia, non riconosciuto dalla comunità internazionale, ndr) da lì imbarcarsi per lo Yemen. Da qui, chi può pagare, vola in aereo fino in Siria e passa in Turchia. L’Europa è vicinissima, pare quasi di toccarla, ma il salto finale è rischioso e costoso almeno quanto i precedenti. Di nuovo, a fare la differenza, sono i soldi: chi può sale a bordo di una nave, talvolta di lusso. Veri e propri yacht, come quelli fermati lungo le coste italiane la scorsa estate. Per gli altri l’alternativa è attraversare a piedi la pericolosa regione del fiume Evros che segna il confine tra Turchia e Grecia. Qui, lo scorso giugno, è stata scoperta una fossa comune con 150-200 corpi segnalata da un cartello crivellato di proiettili: “Cimitero dei migranti illegali”. Ma una volta giunti in Grecia, c’è appena il tempo per riprendere fiato prima di rimettersi in marcia. E di nuovo, sulle carte geografiche, appaiono nuove rotte: c’è chi si imbarca di nascosto sui traghetti diretti in Italia, chi risale i Balcani, chi si nasconde su un camion diretto in Ungheria o Romania. Argentina: l’odissea di Marcelo Boria accusato di omicidio, appello per italiano in cella di Lucia Capuzzi Avvenire, 5 dicembre 2010 Siamo disperati. Per anni abbiamo avuto fiducia nella giustizia e abbiamo aspettato con pazienza. Mio fratello Marcelo, però, è allo stremo. L’hanno picchiato di nuovo...”. La voce di Maria Iole Doria si interrompe. Poi, riprende, quasi sussurrando: “È un incubo, un incubo...”. Da 1.862 giorni, Marcelo Doria - 34 anni, residente nella Repubblica del Piata ma cittadino italiano - è murato in una cella argentina. Qui dovrà trascorrere il resto dell’esistenza, in base alla sentenza emessa contro di lui un anno fa, dopo quattro anni di estenuante carcerazione preventiva, a meno che il processo d’appello non annulli la condanna per omicidio. E scagioni Marcelo da un’accusa infamante: quello di aver massacrato a botte, il 22 ottobre 2005, Luis Francisco Alippi, alias “Gin”, un taxista 47enne malato di cancro. Implicato - sostengono fonti locali - in affari “poco puliti”. Dietro il gesto brutale, ci sarebbe - sostengono le autorità - un regolamento di conti. Ad “incastrare” Marcelo è la testimonianza di Jorge Raul Ledesma, un contadino con problemi psichici che ha raccontato di essere stato assoldato per collaborare al delitto. Doria, da cinque anni, si proclama innocente. E la famiglia gli crede. “Non è solo questione di affetto. Questo caso è pieno di punti quanto meno dubbi. Noi sappiamo il vero motivo per cui Marcelo si trova in carcere: perché si è rifiutato di pagare il “pizzo” alla polizia. Gli avevano detto che si sarebbero vendicati. E, così, hanno imbastito questa montatura”, ribatte con forza Maria Iole. Una verità sconvolgente, se dimostrata. “Non possiamo ancora provarlo. Però basta elencare una per una le “stranezze” della vicenda. In modo che ognuno tragga le sue conclusioni”. Per prima cosa, le richieste di “tangenti”. In questo senso, raccontano i familiari, il caso Doria comincia ben prima, nel 1994, quando Marcelo - figlio di Dante, un immigrato italiano di Chioggia, e dell’argentina Maria Elba Villalba - allora diciottenne, decide di aprire un’officina meccanica nella città in cui risiede da sempre (anche se è nato in Italia): Paso de los Libres, nella provincia di Corrientes. È una località di 44mila abitanti lungo il confine con il Brasile. Proprio per Paso de los Libres passa la Ruta Internacional che porta al lato brasiliano. Da sempre, un punto strategico. E permeabile. Durante la dittatura, da qui fuggivano molti dissidenti ricercati dai militari. Sempre da qui, inoltre, i contrabbandieri fanno “filtrare” le loro merci nel Paese confinante. A cinque minuti dalla Ruta, Marcelo mette su il suo garage. L’attività decolla. E, insieme ai clienti, arrivano le estorsioni. “Sono cominciate nel 2004. È accaduto varie volte. Io ero presente perché lavoravo là - racconta Dante, uno dei 7 fratelli di Marcello. Gli agenti entravano e dicevano a Marcelo doveva pagare per “stare tranquillo”. C’erano molti furti nella zona, aggiungevano”. Doria rifiuta. E l’officina viene saccheggiata. “A volte si presentavano e facevano ispezioni senza mandato. Marcelo aveva paura”. Tra i clienti del garage c’è anche Alippi. Chiede, qualche mese prima dell’omicidio, a Doria un prestito di 7mila pe-sos (circa 2mila euro). Questo sarebbe il movente del delitto. “Ma Alippi aveva restituito tutto. Mia madre ha ancora le ricevute”, racconta Maria Iole. “Gin” viene ucciso la sera del 22 ottobre. “Marcelo a quell’ora si trovava a cena con la moglie, la suocera e due amiche di questa. Le signore sono anche andate in commissariato a testimoniare. Poi le hanno minacciate e hanno ritrattato. Che vuole, sono anziane...”. Marcelo Doria viene arrestato il 28 ottobre. “Gli hanno detto il motivo tre giorni dopo. E gli agenti gli hanno chiesto di firmare la confessione. Tanto - gli hanno detto - ti facciamo condannare lo stesso”. La principale prova è stata la testimonianza di Ledesma. “Che, però, parlava di “un certo Marcelo” di cui non sapeva il cognome. La polizia gli ha mostrato una foto e lui ha detto sì. Questa pratica è vietata dalla legge argentina. Oltretutto Ledesma e Marcelo non si vedevano da dieci anni”. Doria, però, è stato condannato. Per arrivare alla sentenza ci sono voluti 4 anni. Che il giovane ha trascorso sempre dietro le sbarre. In violazione alla norma che fissa un massimo di 2 anni per il carcere preventivo. In questo periodo - racconta la famiglia -”hanno cercato due volte di ucciderlo, lo hanno picchiato, umiliato”. Dopo l’ultima denuncia di pestaggio, il viceconsole italiano Domingo Brianti è andato a trovarlo. La famiglia vorrebbe che il caso fosse trasferito nel nostro Paese. Ma l’estradizione, può essere richiesta solo dopo la condanna in appello. L’Ambasciata argentina di Roma si è detta interessata alla vicenda ma non può intervenire “a meno che la famiglia non faccia denuncia esplicita alla Secreteria de Derechos Humanos, un ente apposito del ministero degli Affari Esteri”, spiega il diplomatico Eduardo Varela. “Faremo anche questo - conclude Maria Iole -. Qualunque cosa pur di tirar fuori Marcelo da questo inferno...”. Iran: impiccati 4 uomini, condannati a morte per traffico droga Apcom, 5 dicembre 2010 Quattro uomini condannati a morte per traffico di droga sono stati giustiziati a Ispahan, nel centro dell’Iran. Lo hanno riportato gli organi di informazione iraniani. I quattro uomini sono stati impiccati ieri nel carcere centrale di questa città, ha indicato il quotidiano Arman, che ha citato una fonte giudiziaria. Queste impiccagioni portano ad almeno 150 il numero di condanne a morte eseguite in Iran dall’inizio dell’anno, secondo un bilancio stabilito in base ai dati della stampa locale. Almeno 270 persone furono impiccate nel 2009. L’Iran è uno dei Paesi in cui si svolge il maggior numero di esecuzioni al mondo, con Cina, Arabia Saudita e Stati Uniti. Iran: appello 4 ex presidenti tedeschi per liberazione giornalisti detenuti per spionaggio Adnkronos, 5 dicembre 2010 Quattro ex presidenti tedeschi hanno lanciato un appello alle autorità iraniane per la liberazione dei due giornalisti di “Bild am Sonntag” in carcere da ottobre in Iran. Si tratta di Hoerst Koehler (in carica fino allo scorso maggio), Roman Herzog, Walter Scheel e Richard von Weizsaecker, che hanno pubblicato un appello sulla stessa testata dei cronisti in carcere con l’accusa di spionaggio. Koehler ha esortato le autorità iraniane, nello spirito di umanità e in nome delle buone relazioni tedesco-iraniane, a rilasciare i giornalisti per consentire loro di passare in famiglia le festività natalizie. Herzog, presidente dal 1994 al 1999, ha affermato che “una grande nazione di cultura come l’Iran dovrebbe esercitare giustizia” e ricorda che “in particolare nel Corano l’idea di pietà svolge un importante ruolo”. Scheel, presidente dal 1974 al 1979, commenta di aver “sperimentato che cosa significa non esser in grado di esprimere la propria opinione”, un riferimento alla propria giovinezza durante il nazismo. E Von Weizsaecker (presidente dal 1984 al 1994), descrive l’Iran come “un importante paese con una grande cultura indipendente”, aggiungendo di attendersi che “questo stato a causa di voci critiche sui media non si vendichi sui giornalisti”. I due giornalisti tedeschi sono stati arrestati il 10 ottobre nel nord-ovest dell’Iran durante un’intervista al figlio di Sakoneh Mohammadi-Ashtiani, la donna condannata a morte per assassinio e adulterio. I due erano entrati in Iran con un visto turistico e sono stati incriminati per spionaggio. A metà novembre sono apparsi sulla tv pubblica iraniana “confessando” il proprio reato.