Giustizia: Censis; quasi 70mila detenuti, ma tra due anni potrebbero arrivare a 100mila Il Velino, 3 dicembre 2010 Ci sono voluti quattro anni dall’ultimo provvedimento di indulto per riportare gli istituti carcerari a vivere gli stessi problemi di allora, con quasi 70.000 detenuti (nel 2006 erano 60.000) e un tasso di sovraffollamento che supera il 150 per cento, ma che in alcuni casi oltrepassa il 170 per cento. È quanto rileva in Censis nel 44esimo rapporto sulla situazione del paese. Andando avanti di questo passo, a fine 2012 si dovrebbe sfiorare la quota di 100.000 detenuti. Oltre al sovraffollamento ci sono però altri fattori di disagio, che rivelano quale sia la gravità della situazione: il 36,9 per cento dei detenuti è straniero; il 24,5 per cento è tossicodipendente, il 2,3 per cento è dipendente da alcol, l’1,8 per cento è infetto da Hiv; le guardie penitenziarie sono 39.569, rispetto alle 45.121 previste per legge; il costo medio giornaliero per detenuto è sceso dai 131,9 euro del 2007 ai 113,4 euro stimati per il 2010. A questo si aggiunge che circa 30.000 detenuti, pari al 44 per cento del totale, sono in attesa di uno dei gradi del procedimento. Tra questi, la gran parte (15.111) è in attesa del giudizio di primo grado. Inoltre 18.769 condannati si trovano a dover scontare una pena - o una pena residua - inferiore a tre anni (e tra questi 11.601 hanno una pena inferiore a un anno), quindi avrebbero i requisiti per usufruire delle misure alternative alla detenzione. Circa 30.000 detenuti si trovano in carcere per avere contravvenuto alla legge sulla droga e circa 4.000 a quella sull’immigrazione. Il personale che lavora in carcere risulta completamente insufficiente a gestire una situazione che diventa di giorno in giorno più complessa: ad essere sottodimensionate non sono solo le guardie carcerarie, ma anche altre figure più esplicitamente votate al recupero dei detenuti, come gli educatori e gli assistenti sociali. Su questa situazione si innesta il Piano carceri, che si propone di ridurre il sovraffollamento attraverso tre tipi di interventi: l’ampliamento del numero dei posti disponibili per complessivi 21.709 nuovi posti. Questi propositi sono stati ridimensionati nel Piano che il Commissario straordinario ha presentato lo scorso 29 giugno; l’introduzione di misure deflattive, con la possibilità di scontare l’ultimo anno di pena residua agli arresti domiciliari e la messa in prova. Su questo punto è stata approvata a novembre la legge che dovrebbe riguardare circa 7.000 detenuti; l’assunzione di 2.000 nuovi agenti di polizia penitenziaria. Giustizia: un terzo degli imputati arrestati rimane in carcere meno di 10 giorni Redattore Sociale, 3 dicembre 2010 L’ingresso in carcere spesso si traduce nel passaggio attraverso una “porta girevole” dove chi entra è destinato a uscire nel giro di pochi giorni e, qualche volta, di poche ora. È quanto emerge dai dati illustrati dall’ex procuratore della Repubblica di Venezia e oggi membro del Csm, Vittorio Borraccetti, intervenuto questa mattina al convegno sul senso della pena organizzato a Roma da “La società della ragione”. Secondo il magistrato, nel 2009 gli ingressi dalla libertà con stato giuridico di imputato, ovvero le persone che sono entrate in carcere con misura cautelare o arrestate in flagranza, sono state 76 mila, di cui 25mila (circa un terzo) sono restate in carcere non più di 10 giorni. Il problema riguarda in particolar modo gli arrestati in flagranza perché, sempre nel 2009, delle 23.400 persone entrate con le misure cautelari solo 937 sono uscite nei primi 15 giorni. La stessa situazione si verifica per ingressi dalla libertà di stranieri portati in udienza per direttissima: nel 2009, infatti, delle 8.142 persone in questa condizione 3.600 sono usciti nei primi 3 giorni. Inoltre, su un totale di 45 mila detenuti scarcerati nel 2008, 30 mila sono rimasti in carcere tra 0 e 10 giorni. Nel 2008, infine, il 35% degli imputati è restato in carcere fino a due giorni e un altro 18% da 3 a 10 giorni. Giustizia: gli spazi della pena nelle macerie del carcere di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 3 dicembre 2010 È questione di giorni e il topolino comincerà a muovere i suoi primi passi tra le mura delle carceri italiane, rosicchiandone qualche tramezzo e facendone uscire - nella meno realistica delle ipotesi - settemila detenuti. Se così fosse, le presenze in carcere potrebbero scendere, nel giro di qualche mese, a 62mila: tante quante furono sufficienti a spingere una amplissima maggioranza del Parlamento a votare l’indulto del 2006. Questi gli effetti declamati dell’approvazione del disegno di legge governativo per l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno. È questione di tempo, poi il topolino si suiciderà (come peraltro si usa, in galera): entro e non oltre il 31 dicembre 2013 l’esecuzione a domicilio delle pene fino a un anno si dissolverà come neve al sole, tanto - per allora - sarà stato completato il fantomatico “piano carceri” e, addirittura, saranno state riformate le misure alternative alla detenzione. Così prescrive l’ottimistico/propagandistico art. 1 del provvedimento. Prudentemente il dispositivo di autodistruzione è stato programmato per la fine del 2013, anche se i lavori del “piano carceri” è previsto che finiscano entro il 2012: non sia mai la legislatura dovesse andare avanti con questo Governo, ne risponderà chi verrà dopo, del topolino e della montagna che lo ha partorito. Intanto, Franco Ionta, il Bertolaso del settore, Capo Dipartimento e Commissario straordinario alla “emergenza carceri”, metterà a ferro e fuoco l’Italia penitenziaria, cercando di rendere disponibili - in due anni - 9150 nuovi posti letto detentivi, 4400 dei quali ricavati all’interno della attuali strutture penitenziarie. Non occorre essere Jeremy Bentham per sapere che c’è qualche relazione tra l’organizzazione degli spazi penitenziari e la funzione della pena. E allora, se tanto ci dà tanto, l’obiettivo del piano carceri è la pura e semplice saturazione degli spazi penitenziari, secondo la pratica dello storage, la compressione (reale o informatica) degli archivi o dei magazzini. Poco male fin quando si tratti di ammassare materiale inerte; completamente diverso quando, negando il diritto alla affettività e accanendosi in particolare sui tossicodipendenti, destinatari di un simile trattamento siano esseri umani ai quali i nostri principi, prima ancora che il nostro ordinamento giuridico, riconosce diritti fondamentali incomprimibili, non ultimo quello di venire fuori da quegli ammassi di corpi e cemento. A questa insopportabile contraddizione è dedicato il Convegno organizzato oggi e domani dalla Società della ragione, a Roma, presso il Senato della Repubblica. Architettura versus edilizia non vuole essere l’ennesima occasione di denuncia dell’ormai noto sovraffollamento, ma ha l’ambizione di sollecitare una riflessione su quali spazi per la pena secondo la Costituzione. Al contrario del parametro esclusivamente quantitativo della edilizia penitenziaria, ossessionata dalla urgenza di soddisfare una parossistica domanda di “più carcere”, l’architettura mette in campo risposte sulla qualità della vita, anche in un luogo di costrizione e di sofferenza come il carcere, a partire dai bisogni dei suoi abitanti. È la proposta di un cambio di paradigma e, magari, di una nuova prospettiva di riforma, tanto più rilevante quanto più vicina sembra essere la fine di un governo che ha fatto della speculazione sull’insicurezza il proprio tratto distintivo fino a naufragare nella ingovernabilità del sistema penitenziario. Giustizia: architettura della pena di Patrizio Gonnella Terra, 3 dicembre 2010 “Non ci potrà essere né ordine né tranquillità nei nuovi contenitori, magari rivestiti in marmo, che cominciano a farsi notare nelle nostre periferie, come non ci sarà mai sicurezza sufficiente per chi ha perduto qualsiasi rapporto con il proprio territorio”. “Non so se il carcere faccia più paura come oggetto o come concetto. Io li rifiuto in tutte e due le forme, come risposta sbagliata persino ai “terrori” dell’opinione pubblica più sprovveduta che chiede ordine e tranquillità. Non ci potrà essere né ordine né tranquillità nei nuovi contenitori, magari rivestiti in marmo, che cominciano a farsi notare nelle nostre periferie, come non ci sarà mai sicurezza sufficiente per chi ha perduto qualsiasi rapporto con il proprio territorio”. (Giovanni Michelucci). Oggi e domani a Roma (il programma è su www.associazioneantigone.it), in Senato per iniziativa della Società della Ragione, in collaborazione con Antigone, Forum Droghe e Fondazione Michelucci, presso l’ex Hotel Bologna, si discuterà di luoghi della pena, di architettura e edilizia penitenziaria. Ne parleranno studiosi, filosofi, magistrati, architetti, giornalisti, politici. Uno dei tre pilastri, per modo di dire, del piano carceri era (l’uso del passato è d’obbligo visto che il Piano, al pari del Governo che lo ha pensato, è fortunatamente moribondo) il pilastro edilizio. Si è fatta molta propaganda intorno alla ipotesi di costruire nuove carceri. Nulla o quasi si è fatto. Nulla comunque si è detto su come le nuove carceri avrebbero dovuto essere costruite, sulla necessità di renderle coerenti e compatibili con le norme italiane e internazionali in materia di esecuzione penitenziaria. Non una frase sulla idea di pena sottesa alle scelte edilizie o sulla scelta relativa alla collocazione centrale o periferica del carcere nella città. Nell’era di Ionta e Bertolaso a cui sono stati affidati poteri assoluti, c’è chi meritoriamente si perita di discutere di panottico, di Bentham e Foucault, di spazi di espiazione funzionali a un concetto non affittivo di pena. Questa settimana abbiamo deciso di parlare di edilizia e architettura in questa rubrica perché molto spesso i diritti violati dei detenuti hanno una loro origine strutturale: dipendono da spazi insufficienti, da luoghi fatiscenti, da ingegneri e politici corrotti. L’edilizia penitenziaria negli anni ottanta (da allora prigioni ne sono state costruite poche) è stata un terreno di sperimentazione di fenomeni concussivi. Non potevano che derivarne galere che facevano acqua da tutte le parti. Giustizia: sono oltre 14.000 i detenuti che lavorano, ma solo 324 all’esterno del carcere Apcom, 3 dicembre 2010 Sono 14.116 i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, su un totale di 68.795 carcerati al 30 ottobre di quest’anno. Solo 324 di loro hanno un impiego extramurario, mentre ha un’occupazione poco più del 20% della popolazione detenuta. In 630, pari al 4,46% dei reclusi, svolgono attività agricole; gli altri sono impiegati soprattutto in attività di falegnameria, sartoria, legatoria, lavanderia, assemblaggio di componenti, pasticceria e realizzazione di oggetti in legno o altri materiali. Falegnameria, lavorazione di ferro, vetro e metalli, ma anche sartoria, panificazione, pasticceria e produzione agricola. Sono alcune delle attività svolte dai detenuti delle carceri italiane che, grazie all’impegno di cooperative sociali, associazioni e delle amministrazioni penitenziarie hanno la possibilità di imparare un lavoro che potrà essere utile anche fuori. Ma su oltre 68mila detenuti nelle carceri italiane, solo il 20% lavora o sta imparando un lavoro: secondo i dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria su 68.798 detenuti 14.116 lavorano. Di questi 13.255 sono uomini (su un totale di 65.782) e 861 sono donne (su un totale di 3.013). Il dato comprende sia i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, sia quelli che lavorano alle dipendenze di cooperative sociali o imprese dentro al carcere o in regime di semilibertà. “Il lavoro è il vero dramma del carcere - dice Desi Bruno, coordinatrice nazionale dei garanti dei diritti dei detenuti - su cui incide in modo pesante il sovraffollamento”. Il tempo del carcere dovrebbe essere tempo “utile” ovvero un tempo produttivo in cui le abilità manuali e cognitive dei detenuti possono essere impiegate per la crescita personale e per permettere al detenuto di elaborare un nuovo progetto di vita, ritrovando la dignità di vivere un’esistenza proiettata verso la legalità. A giugno 2010 erano attivi, ad esempio, 34 laboratori di falegnameria, 21 di sartoria, 26 tra vivai, serre, allevamenti e tenimenti agricoli, 8 legatorie, 12 lavanderie. “La maggior parte dei lavori sono interni - spiega Bruno - alle dipendenze dell’amministrazione: si tratta di lavori con una turnazione molto forte”. Su 14.116 detenuti che lavorano 12.058 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione e solo 2.058 sono dipendenti di realtà esterne. “Ciò - spiega Bruno - dimostra la difficoltà delle imprese a entrare nel carcere”. Il provvedimento sulla detenzione domiciliare dovrebbe svuotare le carceri e alleggerire un po’ la situazione facilitando anche il lavoro. “Sono favorevole a quel provvedimento - continua Bruno - perché con il carcere strutturato in questo modo è difficile che le aziende vi entrino”. Secondo la coordinatrice dei garanti dei diritti dei detenuti vi sono carceri con attività di nicchia che funzionano ma, purtroppo, non sono la generalità. “Quello attuale è un carcere senza progetto che arranca - afferma Bruno - e purtroppo non mi sembra che vi siano grandi investimenti all’orizzonte: siamo in una situazione di stallo sia per il numero dei detenuti che per la questione del lavoro”. Secondo Desi Bruno bisognerebbe: svuotarlo, ridurre la burocrazia e far entrare le imprese per permettere ai detenuti di lavorare, “oggi come oggi non c’è niente di cui vantarsi”. Delle esperienze di lavoro in carcere si parla al Salone della giustizia di Rimini (dal 2 al 5 dicembre) in una tavola rotonda dal titolo “Il carcere utile: esperienze di lavoro in carcere e nell’esecuzione penale esterna”. Nel padiglione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sarà allestita anche una piazza del mercato in cui è possibile acquistare i prodotti realizzati dai detenuti: enogastronomici (formaggi, vino, olio, miele, cioccolata, dolci e caffè), di pelletteria (borse e accessori), abbigliamento, articoli di cartotecnica e cosmetici. Giustizia: Ionta (Dap); abbiamo poche risorse finanziarie, servono creatività e altre fonti Dire, 3 dicembre 2010 “Le risorse finanziarie sono quelle che sono e il capitolo è attraversato da sonore riduzioni: facciamo uno sforzo di creatività, non facile, sfruttando tutte le risorse disponibili e cercando di attingere anche ad altre fonti”. Così Franco Ionta, capo dell’Amministrazione penitenziaria, interviene oggi sul tema dei tagli alle risorse per gli istituti carcerari a margine di un convegno al Salone della Giustizia a Rimini Fiera. Secondo Ionta, migliorare le condizioni delle strutture carcerarie, fra l’altro, aiuta a favorire il recupero dei detenuti: “Un carcere più aperto e più sicuro - aggiunge il numero uno dell’amministrazione penitenziaria - ha delle migliori condizioni per i detenuti e per il lavoro degli agenti. Chi ha più cultura e un lavoro non ha interesse a comportarsi male”. I dati Dap (Direzione generale esecuzione penale esterna) sui detenuti che lavorano, il 20,68%, pari a 14.116 persone, ribadiscono che l’85,42% (12.058 persone) è alle dipendenze dell’amministrazione carceraria. Il totale dei posti disponibili nei diversi settori è pari a 1.998, ma quelli occupati sono solo 1.417. In merito alle misure alternative i numeri rilevano che in Italia gli affidamenti in prova dal primo gennaio 2010 al 31 ottobre 2010 sono passati da 6.285 a 7.672. Le semilibertà, nello stesso periodo, crescono da 837 a 881, le detenzioni domiciliari da 3.293 a 4.831. Giustizia: Maisto; in 40 anni mai visto un carcere così disumano Redattore Sociale, 3 dicembre 2010 Seminario della “Società della ragione”. Il commento del presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna sulle condizioni di detenzione. Gonnella, Antigone: “Non c’è consapevolezza del problema della droga in carcere” Una due giorni per discutere del senso della pena secondo la Costituzione italiana e, soprattutto, per riflettere sulla necessità di una “grande riforma del carcere” in contrapposizione all’idea del governo di risolvere il problema del sovraffollamento attraverso un piano di edilizia penitenziaria finalizzato all’ampliamento delle strutture. Per il secondo anno consecutivo, “La società della ragione” ha organizzato un seminario, tenutosi oggi e domani a Roma, per riflettere sui tanti mali del carcere con magistrati, avvocati, direttori di carcere, urbanisti, politici ed esponenti dell’associazionismo e del volontariato. Sul tema dell’affettività e della sessualità è intervenuto Franco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, che si è soffermato anche sul problema delle famiglie divise: “Sono 43 mila i minori separati da un genitore detenuto, il 30% dei quali a rischio di criminalità intergenerazionale”, ha detto, aggiungendo più in generale sulle condizioni di detenzione: “In 40 anni non ho mai visto un carcere così disumano come in questo periodo”. “Penso che il fine della pena sia la fine della pena” ha detto Adriano Sofri, intervenuto questa mattina. “La mia convinzione è che sia difficile trovare un senso alla pena”, ha detto lo scrittore, che si considera titolato a parlare semplicemente in virtù della sua “malaugurata competenza”, maturata in oltre nove anni di permanenza nel carcere di Pisa. “Come tutti sanno io mi considero non colpevole” ha ribadito, aggiungendo però che “non è importante la differenza tra chi è innocente e colpevole in galera”. Perché “la ragione per cui le persone sono state portate in galera si cancella due minuti dopo il loro ingresso in carcere”. Sofri ha poi affrontato il tema dell’affettività, ricordando come si sia fatta strada una “visione premiale” del “fare l’amore”. Si assiste, dunque, a una sorta di paradosso e all’affermazione di una punizione “molto moderna”: “Oggi - ha spiegato - da una parte assistiamo a una esibizione estremamente ostentata della sessualità nella società e, dall’altra, a una condizione estrema, come quella carceraria, dove sempre di più finiscono animali umani giovani e quindi prolifici”. A proposito dei luoghi per i tossicodipendenti, il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella, ha affermato: “Non penso che ci debbano essere luoghi di custodia particolari per i tossicodipendenti, ma devono avere servizie programmi di riduzione del danno all’interno delle carceri”. Inoltre, ha aggiunto Gonnella, bisogna avere “la consapevolezza che esistono problemi come quello della presenza della droga in carcere”. Sui tassi di detenzione è intervenuto, infine, il presidente del Comitato Prevenzione tortura del Consiglio d’Europa, Mauro Palma, che detto: “Oggi in Italia è detenuto un maschio tra i 20 e 50 anni su 250 maschi tra i 20 e i 50 anni”. Giustizia: Finocchiaro (Pd); risultati “piano - carceri” tra 3 anni, servono altre soluzioni Ansa, 3 dicembre 2010 “Prima di tre anni non vedremo nessun risultato dal piano carceri. Prima di allora, cosa facciamo?”: lo chiede la capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, nel suo intervento al convegno organizzato da Antigone, “Quali spazi per la pena secondo la Costituzione?”. “Io sono una riformista e sono a favore di una politica che a volte deve stringersi alla riduzione del danno - ha detto Finocchiaro - almeno troviamo una soluzione che rispetti la dignità umana”. Il piano carceri, sostanzialmente basato sull’edilizia e sul recupero degli spazi, “dimentica che la funzione della pena è il recupero sociale”, è la riflessione dell’associazione Antigone. Il piano, oltretutto, è portato al fallimento ha evidenziato il difensore civico dei detenuti di Antigone, Stefano Anastasia. “Infatti, all’inizio si parlava della realizzazione di 17 mila nuovi posti, invece quelli in realizzazione saranno 9 mila. E - sottolinea Anastasia - considerando che nella migliore delle ipotesti dal provvedimento sulla detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena verranno liberati 9 mila posti letto, ci saranno comunque 15 mila persone in eccesso (infatti nelle carceri italiane sono detenute 69 mila persone a fronte di 44 mila posti letto). Il rischio - sottolinea Antigone - di una politica carceraria limitata all’edilizia è trasformare gli istituti in alveari di detenuti senza risolvere il sovraffollamento”. Giustizia: Osapp; polizia penitenziaria insoddisfatta per assenza risorse in ddl sicurezza Il Velino, 3 dicembre 2010 “Quale sindacato del corpo di polizia penitenziaria, non possiamo esimerci dall’esprimere la nostra insoddisfazione per l’approvazione alla Camera dei Deputati del ddl 3857A di conversione del decreto legge 187 del 12 novembre 2010, recante misure urgenti in materia di sicurezza, senza risorse economiche aggiuntive per la specificità delle Forze di polizia”. È quanto si legge in un documento diffuso da Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (l’organizzazione sindacale autonoma Polizia Penitenziaria) in merito al provvedimento di legge approvato quest’oggi, in prima lettura, dalla Camera dei Deputati. “Inserire nel cosiddetto ‘collegato lavorò in vigore dallo scorso 24 novembre, l’esplicito riconoscimento della specificità economica delle Forze di Polizia - aggiunge il leader dell’Osapp - e poi non finanziarlo in alcun modo indica, purtroppo, l’attuale assenza di interesse del governo nei confronti di chi, ogni giorno di più, nelle attività istituzionali di tutela della collettività nazionale fa i conti con crescenti ristrettezze finanziarie. Anche per quanto riguarda gli 80 milioni di euro stanziati per il 2011 e per il 2012, ai fini delle perequazione degli stipendi e delle progressioni in carriera del personale del comparto sicurezza e difesa - indica ancora il segretario generale del sindacato - gli incontri tra le amministrazioni interessate tenuti in questi giorni al ministero dell’Interno hanno evidenziato l’insufficienza delle risorse e la necessità di un consistente incremento. Ci auguriamo, quindi, che il governo del ‘farè non perda anche questa occasione - conclude Beneduci - e individui con urgenza i correttivi di cui i tutori dell’ordine e della sicurezza del Paese hanno estrema urgenza per rendere più serena, concreta e funzionale la propria attività quotidiana”. Giustizia: guida in stato di ebbrezza; condanna ai lavori sociali, invece che al carcere Corriere della Sera, 3 dicembre 2010 Primi casi a Treviso, Sondrio e Udine. “Possibilità solo per chi non ha causato incidenti”. Gli accordi tra sindaci e tribunali per evitare le sanzioni penali. Il carrozziere del Trevigiano ha 39 anni e una condanna per guida in stato di ebbrezza a 90 giorni di lavori socialmente utili. “Novanta giorni - dice lui - durante i quali taglierà le erbacce che nascondo i cartelli stradali; riparerò le auto del Comune di Ponzano, sono carrozziere... 90 giorni durante i quali ogni gesto mi ricorderà l’enorme cavolata che ho fatto”. La sua cavolata è stata quella di guidare con un tasso alcolemico di 1,7 g/l nel sangue: gli è costata una condanna a 45 giorni di carcere, commutata in un’ammenda di 12 mila euro, quindi il sequestro dell’auto e la sospensione della patente per un anno e mezzo. Tutto spazzato via (dimezzata la sospensione della patente) con la richiesta di trasformare la pena in un lavoro socialmente utile, accolta attraverso una convenzione tra comune e tribunale. Il carrozziere arruolato dal Comune di Ponzano Veneto è solo uno dei primi “forzati” dell’etilometro. Le storie come la sua si moltiplicano da Savona a Sondalo (Sondrio), da Arcugnano (Vicenza) a Paularo (Udine) e a Sant’Omero (Teramo). Strappando consensi tra i sostenitori del recupero attraverso il sociale, ma anche perplessità tra chi teme che il tutto si traduca in uno scivolone per il potere deterrente delle nuove norme. La riforma introdotta a luglio (art. 186 del nuovo codice della strada) prevede che, per chi è sorpreso al volante con un tasso alcolemico superiore a 1,5, la pena detentiva (da 6 mesi a 1 anno) o pecuniaria (da 1.500 a 6.000 euro) possa essere commutata con un lavoro di pubblica utilità non retribuito. “Soprattutto nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale, in enti pubblici 0 di volontariato. Una possibilità della quale si può beneficiare una sola volta e se non si è stati causa di incidenti”, spiega l’avvocato del carrozziere trevigiano, Fabio Capraro. “Almeno due ore di lavoro al giorno (non più di otto) che hanno un valore di 250 euro da scalare dalla maxi multa”. Una scelta che porta poi al dissequestro dell’auto, alla riduzione della sospensione della patente e al ritorno della fedina penale pulita. n Comune di Ponzano Veneto ha firmato una settimana fa la delibera per l’impiego del carrozziere trevigiano. Stessa scelta a Savona da parte di un noto commercialista fermato con un tasso di 1,51 gfl: 68 giorni di lavoro in Croce rossa al termine dei quali potrà riavere patente e Porsche. A Sondalo la convenzione è stata firmata a ottobre dal sindaco Luigi Grassi. A beneficiarne sarà il fratello (20.900 euro di multa). “Così la cosa mi crea imbarazzo, ma resto un fermo sostenitore del recupero attraverso il sociale. La legge lo prevede, molti l’hanno fatto e noi stiamo per bissare”. Il sindaco di Paularo, Maurizio Vuerli, la mette sul piano economico: “Qui sono tante le famiglie monoreddito e la convenzione vuole dare una possibilità di riscatto senza rovinare nessuno”. Piace la “pena sociale” al governatore del Veneto Luca Zaia: “Lo ha fatto anche Naomi Campbell. Certo quei 250 euro a giornata gridano vendetta”. Ex obiettore e sostenitore del “non bastano due bicchieri per creare un ubriaco” si dice pronto a dare un lavoro sociale in Regione a chi lo richieda: “Un lavoro che passi dalle corsie di qualche reparto di traumatologia”. Concorda il presidente dell’Asaps, Giordano Biserni: “In linea di principio la cosa è giustissima. I dubbi nascono sull’applicazione, sulle possibili vie di fuga. Forse bisognerebbe delegare il controllo del quando e del come all’associazione vittime della strada”. Lettere: quando il lavoro riesce a rendere libero chi non lo è più di Giorgio Vittadini (Presidente Fondazione per la Sussidiarietà) Libero, 3 dicembre 2010 Viviamo in una società dove chi sbaglia è dannato: dentro o fuori le sbarre rimarrà sempre prigioniero dei suoi errori, un malvagio da emarginare. Ben diversa è la posizione di chi è stato trattato diversamente. Trattato da qualcuno convinto che, qualunque delitto sia stato commesso, c’è sempre la possibilità di cambiare e ricominciare. Anzi, è possibile riprendere un livello di coscienza che non si aveva prima, quando magari si era convinti delle proprie capacità, e della propria forza. Questa è la posizione di cui abbiamo bisogno di fronte a chi sbaglia, a noi stessi, ogni volta che sbagliamo. “Incontro nell’incontro” consiste in una serie di riflessioni, commenti, racconti, che Carlo, Alberto (due detenuti del carcere Bassone di Como) e Patrizia, la responsabile della cooperativa Homo Faber che organizza il lavoro in carcere, si scambiano, in nome di un semplice rapporto di simpatia e amicizia nato dietro le sbarre. Presenze che fanno rinascere la speranza in un ambiente dove non si dovrebbe aver più speranza. Anche in carcere un “incontro” che parli al cuore può cambiare un uomo. Lungo la lettura di queste pagine, ci si convince che il carcere è un luogo limite, in cui l’esperienza umana è costretta ad emergere in modo più radicale e per questo la speranza e la libertà appaiono molto più grandi della mera realizzazione delle nostre immagini umane. E così, la libertà che traspira dall’esperienza qui raccontata è di monito a tutti perché mostra che la libertà nasce dall’intimo dell’animo umano e travolge ogni condizione. Non c’è condizione a cui si è sottoposti che possa annullare la nostra grandezza perché essa consiste nella nostra capacità di rapporto con l’Infinito. È ciò che Patrizia non si stanca mai di richiamare: “Il Destino ha un volto preciso, un volto buono che sa sempre come guardarci”. E questo è quanto si ha bisogno di sperimentare e ridire, innanzitutto a se stessi: “Il quotidiano che vivo con questi uomini che mi sono messi davanti, che incontro in carcere per due giorni alla settimana, con i quali lavoro, è diventato segno del Mistero presente nella mia vita”. Chiunque faccia un lavoro su di sé, ha qualcosa da insegnare agli altri. E più facilmente chi ha sbagliato gravemente capisce il valore di ciò che ha e del suo compito nella società, meglio di chi pensa di non sbagliare mai. Oggi la funzione rieducativa prevista dalla Costituzione è spesso disattesa. Accade così che nella maggior parte dei casi non è vero che le carceri sono luoghi di recupero e di redenzione dei detenuti. Se ancora interessa l’articolo della Costituzione sullo scopo redentivo del carcere, occorrerebbe non ignorare ciò che la realtà ci suggerisce. Firenze: la Procura indaga sulle morti nell’Opg di Montelupo tra il 2005 e il 2010 La Repubblica, 3 dicembre 2010 Il pm di Firenze Giuseppe Bianco ha disposto l’acquisizione dei dati relativi ai decessi dei pazienti dell’ospedale psichiatrico detenuti fra il 2005 e il 2010. All’esame del pubblico ministero anche esposti relativi a maltrattamenti. Il pm di Firenze Giuseppe Bianco, titolare con il procuratore Giuseppe Quattrocchi del fascicolo di inchiesta sull’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo Fiorentino, ha disposto l’acquisizione dei dati relativi ai decessi dei pazienti detenuti fra il 2005 e il 2010. Per ricostruire la situazione dell’Opg, il magistrato ha chiesto notizie al Provveditorato regionale della amministrazione penitenziaria e al Centro regionale Salute in carcere diretto dal professor Giraudo, che ha già mandato diverse relazioni. All’esame del pm anche esposti di pazienti che hanno denunciato maltrattamenti al garante dei detenuti Franco Corleone. L’indagine è stata aperta in seguito alla segnalazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla efficienza del Sistema Sanitario Nazionale, presieduta dal senatore del Pd Ignazio Marino, che ha compiuto un primo sopralluogo a sorpresa nell’Opg il 22 luglio scorso, e che ha eseguito un nuovo controllo ispettivo il 21 novembre, esaminando anche la gestione dei farmaci. Durante la prima visita ispettiva, i parlamentari, accompagnati dai carabinieri del Nas, hanno trovato una situazione strutturale molto grave: reparti fatiscenti, servizi igienici in pessime condizioni, un drammatico sovraffollamento. “L’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo è una struttura da chiudere”, dichiarò il senatore Marino. Nel corso di alcune audizioni in commissione, il direttore sanitario della Asl di Empoli Enrico Roccato, il direttore sanitario dell’Opg Franco Scarpa e lo psichiatra Luca Bigalli, che lavora nell’ospedale, hanno illustrato le difficoltà incontrate quotidianamente per provvedere e possibilmente curare circa 170 malati di mente autori di reati talvolta anche assai gravi. Chiudere Montelupo e trasferire i malati a Solliccianino, come è stato ipotizzato, sarebbe probabilmente una scelta giusta, resa però estremamente difficile dal sovraffollamento carcerario. Ignazio Marino: l’Opg di Montelupo va chiuso “Ambienti degradati e malsani, condizioni di internamento del tutto incompatibili con un progetto di cura. La Commissione d’inchiesta che presiedo aveva rilevato già a luglio le inaccettabili condizioni igienico - sanitarie dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, confermate purtroppo in un recente sopralluogo a sorpresa, compiuto lo scorso 21 novembre. La Commissione ha deciso che convocherà a breve tutti gli assessori regionali coinvolti nella gestione degli OPG per ottenere il trasferimento dei pazienti non socialmente pericolosi nelle Asl di appartenenza. Per farlo utilizzerà tutti i suoi poteri, assimilabili a quelli della magistratura”. Così Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, sulla decisione della Procura di Firenze di aprire un’indagine sui decessi avvenuti all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. “Ospedali Psichiatrici Giudiziari come quello di Montelupo - ha concluso Marino - sono una grave ferita per il Servizio Sanitario Nazionale e devono essere chiusi”. Teramo: il sindaco e parte della giunta visitano il carcere; detenuti vivono come sardine Il Centro, 3 dicembre 2010 Maurizio Brucchi accompagnato dagli assessori Corrado Robimarga, Rudy Di Stefano, Mirella Marchese e Guido Campana e dal presidente del consiglio comunale Angelo Puglia hanno visitato la casa di pena circondariale di Castrogno per rendersi conto della situazione in cui versa. La delegazione è stata accompagnata dal nuovo comandante degli agenti di custodia Giuseppe Donato Telesca e dalla direttrice Maria Celeste D’Orazio, che sostituisce Giovanni Battista Giammaria, attualmente in ferie. Il sindaco si è e intrattenuto a lungo col dirigente medico Franco Paolini il quale ha spiegato che l’istituto teramano è considerato di secondo livello, cioè in grado di ospitare detenuti con patologie importanti. Tanto che esiste un servizio di assistenza medica 24 ore su 24. Diversi i problemi portati alla luce dal commissario, tra questi la carenza di stanziamenti da parte dell’amministrazione centrale, che ovviamente si ripercuote sulla funzionalità del carcere. Altra nota dolente il sovraffollamento dei detenuti. Sono, infatti, 387 i detenuti reclusi per una capienza regolamentare di 231 persone e una capienza tollerabile pari a 360 detenuti. Anche il personale di polizia penitenziaria risulta insufficiente: 180 sono le unità presenti contro le 212 previste. Tale situazione rapportata al maggior numero di detenuti comporta problemi di gestione. Il sindaco si è intrattenuto con la direttrice D’Orazio e il commissario Telesca per studiare le modalità con le quali il Comune potrà aiutare la struttura. Si è parlato di organizzare un concerto natalizio in collaborazione con il “Braga” ed anche della possibilità di organizzare con il Comune corsi formativi per i detenuti. “Il mio impegno e quello della giunta è innanzitutto di sensibilizzare gli enti sovraordinati per migliorare la situazione dei detenuti”, ha commentato Brucchi che rappresenterà anche al ministero “le difficoltà oggettive in cui opera” il personale. Pescara: i medici Asl al lavoro in un carcere sovraffollato al limite del disumano Il Centro, 3 dicembre 2010 Vicino ai detenuti che affrontano una malattia come pochi carceri in Italia. È il doppio volto del San Donato: un luogo di sofferenza capace, però, di garantire ai carcerati un’assistenza sanitaria identica a chi è in libertà. La casa circondariale di Pescara ha stipulato un protocollo di intesa con l’Asl per garantire il diritto alla salute dei detenuti. “Siamo tra i primi penitenziari in Italia ad aver portato a termine l’accordo con una Asl”, spiega il direttore Franco Pettinelli. “Una normativa del 2008 ha stabilito che la sanità penitenziaria sia gestita dal servizio sanitario nazionale. Quello tra il San Donato e l’azienda sanitaria di Pescara è uno dei primi protocolli stipulati a livello nazionale”. Il carcere di San Donato è in una situazione limite per il sovraffollamento. “Nel reparto giudiziario”, ha denunciato la Uil pubblica amministrazione penitenziari, “la popolazione carceraria supera del 100 per cento i posti disponibili”. Così il protocollo firmato da Pettinelli e dal direttore generale della Asl di Pescara, Claudio D’Amario , rappresenta una svolta. I detenuti del San Donato hanno raccontato più volte al Centro il dramma delle malattie in carcere. Sono le paure di uomini che hanno sì sbagliato, ma che devono scontare una pena in un luogo senza assistenza medica. L’accordo con la Asl prevede che al San Donato ci sia un presidio sanitario di base. Questa struttura sarà in grado di assicurare interventi di medicina generale in un arco di tempo di quasi 24 ore. Il presidio sarà diretto da Valeriano Santurbano, affiancato da personale medico e infermieristico. Il servizio di medicina di base fa parte dell’Unità operativa di medicina penitenziaria diretta da Gianfranco Ricci. Al medico della Asl pescarese spetterà il compito di coordinare gli altri servizi. In particolare quelli destinati ai detenuti alcolisti, tossicodipendenti o con problemi di salute mentale. Non a caso una parte integrante del protocollo sono gli accordi stipulati con i responsabili del SerT, Pietro D’Egidio , del Servizio di Alcologia, Speldora Rapini, e del dipartimento di Salute mentale, Enrico Di Fonzo . Il protocollo prevede anche interventi per i detenuti disabili. Per loro sarà attrezzata una palestra fisioterapica e un servizio di fisiokinesiterapia. Sassari: Arci; fatiscente e degradato, il San Sebastiano è un carcere da chiudere di Franco Uda (presidente Arci Sassari) La Nuova Sardegna, 3 dicembre 2010 Il governo ha recentemente approvato il cosiddetto piano “svuota carceri” che secondo il sottosegretario Casellati dovrebbe rispondere all’emergenza sovraffollamento. In realtà i detenuti potenziali che potranno usufruire del provvedimento sono circa 9.000 a fronte di un numero complessivo di circa 70.000 reclusi. Tutti gli operatori della giustizia sono concordi nel rilevare l’inutilità del provvedimento che nella migliore delle ipotesi alleggerirà la pressione nelle carceri per qualche giorno. Sono infatti circa 7.000 i detenuti che entrano ogni mese in carcere e solo 400 ne escono. Nello scorso ottobre, l’Arci provinciale ha organizzato un incontro dibattito sul problema del degrado e della progressiva fatiscenza del carcere di San Sebastiano, situazione certificata da numerose e continue ispezioni dei deputati della commissione giustizia. In quel dibattito si sono messi in evidenza sia i nodi problematici sia le loro possibili soluzioni. 1) È urgente alleggerire lo spazio cella pensato per una o due persone che si dilata al limite delle possibilità di capienza; la presenza in carcere può essere deflazionata evitando di applicare esclusivamente sanzioni detentive, ma applicando misure alternative indirizzate maggiormente verso la giustizia riparativa e non solo repressiva. È urgente superare il dogma della detenzione come modalità esclusiva del risarcimento del danno per poter incidere su promiscuità e sovraffollamento. 2) Il carcere è una sciagura trasversale. Le condizioni di invivibilità della vecchia struttura ottocentesca si scaricano sull’intera comunità penitenziaria ed oltre le mura. La progressiva erosione degli spazi (un intero piano è inagibile), confligge con il turnover quotidiano di nuovi ingressi e vanifica le opportunità di pianificare le attività previste per un reale percorso di recupero e riabilitazione. 3) Le leggi ed i regolamenti innovativi a partire dal 1975 sono ispirate al principio di riabilitazione del reo ed alla umanizzazione della pena, perciò alcune voci autorevoli auspicano la chiusura del S. Sebastiano. Una struttura anacronistica ed obsoleta, oltre che fatiscente, è già di per sé contraria allo spirito delle leggi. Grazie a quelle leggi, si è potuto attivare un flusso di osmosi tra “dentro” e “fuori” ovvero di collaborazione tra esponenti della società civile e le istituzioni che ha consentito di allargare i confini delle mura carcerarie con la sperimentazione di percorsi di recupero all’interno ed all’esterno del carcere. 4) Il carcere, quando se ne limitino le funzioni a luogo destinato alla mera custodia di persone in attesa di sentenza e/o condannati, mostra la realtà disumanizzante della detenzione: i soggetti privati della libertà, dei legami affettivi, socialmente isolati si deresponsabilizzano e diventa il luogo per incancrenire nel delitto. Non a caso la patologia carceraria più grave è l’autolesionismo sino al limite del suicidio. Infine, noi siamo persuasi che un’altra politica sulla giustizia e sulle carceri sia possibile, a partire dal principio costituzionale che la pena ha, prima di tutto, una funzione riabilitativa e che non può confliggere con le più elementari condizioni di umanità. San Sebastiano, nonostante gli eroici sforzi degli operatori, è oltre questi limiti. Il governo deve dare risposte adeguate e non propagandistiche. Venezia: in carcere siamo trattati come animali, un detenuto sporge querela di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 3 dicembre 2010 La vita all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore è sempre più difficile a causa della grave situazione di sovraffollamento. E non mancano gli incidenti. Un detenuto di nazionalità algerina, di 37 anni, ha denunciato di essere caduto dalla branda al terzo piano, posta a notevole altezza dal suolo, e di essersi procurato gravi lesioni ai polmoni. Il suo legale, l’avvocato Marco Zanchi, ha depositato ieri in procura una querela con la quale chiede ai magistrati di accertare le eventuali responsabilità per l’accaduto: “È incredibile che in carcere possano esistere letti a castello a tre piani senza la ben che minima sponda protettiva”, si legge nella querela. Nelle scorse settimane il legale veneziano ha raccolto numerose testimonianze di detenuti di Santa Maria Maggiore i quali lamentano le condizioni in cui sono costretti a vivere: “In tutte le tipologie di celle si osserva un sovrannumero che a volte è triplo di quello consentito dalle normative di sicurezza europea”, si legge in un documento firmato da una settantina di detenuti, i quali lamentano le poche ore d’aria e i molti problemi nell’assistenza sanitaria. I sempre più numerosi atti di autolesionismo e suicidio vengono correlati alle carenti condizioni dei penitenziari: “Non siamo animali, ma esseri umani che sono chiamati a scontare una pena - scrivono - chiediamo che vengano applicati i nostri diritti di detenuti”. L’avvocato Zanchi ha scritto anche una lettera al presidente del Tribunale di sorveglianza Giovanni Maria Pavarin, chiedendo un suo intervento a tutela dei carcerati. Castrovillari (Cs): comune cede terreni al carcere per laboratori agricoli dei detenuti Agi, 3 dicembre 2010 È stata approvata all’unanimità, in consiglio, la delibera di cessione di terreni alla casa circondariale di Castrovillari da parte del Comune. Ne dà notizia un comunicato della casa circondariale. “Il Ministero della Giustizia e l’Amministrazione Comunale di Castrovillari, - è scritto - si ritrovano ancora insieme nello spirito di collaborazione per favorire il processo di inclusione sociale e per sostenere un ambizioso progetto volto alla realizzazione di laboratori agricoli finalizzati ad agevolare l’inserimento dei soggetti in esecuzione di pena. La situazione carceraria è uno dei più scottanti problemi del paese, sia per quanto riguarda le strutture detentive, sia per la condizione dei detenuti. È importante attivare interventi finalizzati a creare una prospettiva di lavoro concreto per persone soggette alla restrizione della libertà in cui crede e porta avanti, da più tempo, l’intera Amministrazione comunale attraverso gli Assessorati di competenza all’Ambiente ed ai Lavori Pubblici (Giuseppe Abbenante e Rosalba Amato). Ciò può avvenire attraverso la partecipazione attiva di tutte le componenti della società civile che hanno a cuore lo sviluppo della democrazia e della condizione di civiltà del paese. La delibera votata dall’intero consiglio comunale vuole concorrere a determinare queste condizioni. Il progetto - è spiegato - si propone la costruzione di un “modello” di impresa agricola biologica che avrà la sua sperimentazione sui terreni ceduti in comodato gratuito dal Comune di Castrovillari nella logica del principio generale di territorializzazione dell’esecuzione penale e in ragione delle effettive possibilità occupazionali locali. L’attività agricola, così come si è rivelata particolarmente inclusiva per soggetti “svantaggiati”, dimostra anche forti potenzialità sul piano “trattamentale” ai fini rieducativi e di inclusione sociale dei detenuti, come è emerso dalle ultime ricerche sul lavoro agricolo dei detenuti. Il progetto ha quindi un forte valore sociale - scrive la direzione del carcere - e unisce all’inclusione di soggetti marginali il valore aggiunto delle produzioni biologiche”. Il Direttore dell’istituto, Fedele Rizzo, afferma che “quanto avvenuto in sede di consiglio comunale ha sancito oltre che un accordo a creare un contesto favorevole al reinserimento sociale dei detenuti durante e a fine pena e, a concorrere a stabilire un rapporto, così come prevedono la normativa e le disposizioni dell’amministrazione penitenziaria, tra carcere e territorio circostante e l’imprenditoria locale. Un plauso va dunque da parte della Direzione della casa circondariale a quanti hanno contribuito alla costruzione di un modello di impresa agricola con finalità sociali”. Foggia: Bordo (Pd); penitenziario sovraffollato e con poco personale 9Colonne, 3 dicembre 2010 “Il carcere di Foggia è una struttura decorosa e ben organizzata, nei limiti in cui può esserlo un penitenziario che ospita il doppio dei detenuti e opera con personale ridotto”. È quanto affermato da Michele Bordo, deputato del PD e componente della Commissione bicamerale Antimafia, all’uscita dalla casa circondariale del capoluogo che ha deciso di visitare anche a seguito del recente suicidio di un detenuto. La presenza di un numero doppio di detenuti “incide negativamente sull’adeguatezza e la fruibilità degli spazi e delle strutture comuni, aggravando la qualità della vita già compromessa dal sovraffollamento delle celle”. “Comunicherò gli esiti di questa visita alle strutture ministeriali competenti, ribadendo l’assurdità della presenza, in provincia di Foggia, di 5 strutture detentive costate 10 milioni di euro e mai attivate - conclude Michele Bordo - e l’urgenza di un intervento del ministero della Giustizia per affrontare seriamente un’emergenza sociale sempre più grave e che necessita di un piano straordinario di edilizia carceraria”. Trani (Ba): Osapp; nuova aggressione ad un agente Ansa, 3 dicembre 2010 Un assistente di polizia penitenziaria è stato aggredito nel carcere di Trani con pugni sferrati allo stomaco da un detenuto, che si trovava nel reparto Infermeria “per problemi psichiatrici”. L’agente è stato soccorso da operatori del 118 che lo hanno trasportato in ospedale dove è stato diagnosticato un “trauma contusivo al torace”. Lo rende noto il vicesegretario generale nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, secondo il quale questa ennesima aggressione è da collegare senza dubbio al sovraffollamento (in Puglia ci sono 4.800 reclusi rispetto ad una capienza di 2.500 posti) e all’eccessivo carico di lavoro al quale sono costretti gli agenti penitenziari. Nell’episodio denunciato dall’Osapp, a sferrare i pugni contro l’agente è stato “lo stesso detenuto che alcuni mesi fa aggredì altre due unità di polizia e lanciò contro di questi e nella propria cella escrementi umani”. In Puglia - dove mancano in organico secondo Mastrulli circa 400 agenti - i poliziotti penitenziari espletano anche 15 ore consecutive di lavoro; vengono imposti doppi turni e ore di straordinario che poi non vengono pagate”. Lamezia: siglato accordo per lavori socialmente utili a condannati Asca, 3 dicembre 2010 È stato siglato questa mattina il protocollo d’intesa tra Comune di Lamezia e Tribunale per i lavori di pubblica utilità ai condannati dal giudice monocratico. Presenti alla firma il presidente del Tribunale, Giuseppe Spadaro, il procuratore Salvatore Vitello, il sindaco Gianni Speranza, l’assessore alla Cultura, Tano Grasso assieme al resto della giunta comunale, don Giacomo Panizza in rappresentanza della Comunità Progetto Sud. A prendere la parola per prima è stato l’assessore Tano Grasso: “Il messaggio che si dà oggi rende più credibile lo Stato. E quanto più lo Stato è credibile tanto maggiore sarà la fiducia dei cittadini”. Don Giacomo Panizza, subito dopo, ha spiegato di aver detto: “subito di sì perché penso che la mediazione tra carcere e società non possano più farla i clan, perché il buono deve essere solo lo Stato” Poi ha aggiunto:”C’è un aspetto pedagogico: le persone che commettono un reato ed entrano in carcere rischiano di espiare il reato fine a se stesso. Con questo protocollo, invece, chi ha commesso un reato si fa vedere, ci mette la faccia, per ricucire lo strappo con la società a seguito degli sbagli che ha commesso. In questo senso - ha aggiunto - l’aspetto umano e collaborativo del detenuto è fondamentale per permettere a queste persone di rientrare a testa alta nella società”. Per il sindaco Gianni Speranza la firma del protocollo d’intesa tra comune e tribunale è “un grande privilegio per la nostra città che, allo stesso tempo, investe su se stessa. Si tratta di un nuovo punto di partenza, collettivo e di straordinario valore”. Infine il procuratore Salvatore Vitello ha spiegato come “la firma su questo protocollo ha un significato importante per due motivi. Il primo è di natura pedagogica: vogliamo far capire alla città che la giustizia ha una componente di natura umanitaria. Chi si vuole ravvedere siamo pronti ad accoglierlo e lo facciamo tutti insieme. In rete”. Poi ha sottolineato il secondo motivo che, a suo avviso, “riguarda l’umanizzazione della pena. Alcune volte si ha la sensazione che sia difficile da realizzare. Il carcere è un luogo di grande sofferenza e se i delinquenti, reali o potenziali, mi ascoltano, devono capire questo concetto: nel carcere si soffre. Il protocollo fa sì che chi sbaglia può poi fare qualcosa di utile per la società con un’azione operosa. Questi due concetti sono quelli che mi danno la speranza: ogni giorno che passa mi rendo conto che a Lamezia si migliora - dice - e questa è veramente una bella cosa. Se poi si opera tutti insieme, allora si lascia il segno”. Poi aggiunge: “Un giorno, quando qualcuno di noi andrà via, si saprà che è passato da Lamezia qualcuno che ha dato un contributo positivo. Se riuscirò a far questo, sarò molto contento”. Alla fine dell’incontro, prima della firma del protocollo d’intesa, il presidente del Tribunale Giuseppe Spadaro ha voluto ringraziare tutti per l’impegno profuso alla realizzazione di questo patto annunciando anche che, dopo quattro anni, probabilmente andrà via dal tribunale lametino avendo inoltrato istanza di trasferimento. Cagliari: manca il nullaosta, detenuto albanese espulso non riesce tornare in patria Ansa, 3 dicembre 2010 Un detenuto albanese, Adriam Bali, di 35 anni, è in carcere a Buoncammino nonostante il magistrato di sorveglianza abbia emesso il 15 ottobre scorso il decreto di espulsione in alternativa alla pena detentiva, in gran parte scontata. Per il rispetto del diritto a raggiungere la famiglia ha anche effettuato una settimana di sciopero della fame. “È un’altra situazione assurda provocata dalle autorità albanesi che non hanno ancora rilasciato il nullaosta per il ritorno in patria del loro concittadino”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha ricevuto la drammatica lettera da Bali. Nel corso di un colloquio con i volontari di Sdr, l’uomo ha espresso la sua disperazione. “Ho scontato la mia pena - ha detto - prima a Genova ed ora a Cagliari. Il decreto di espulsione del magistrato di sorveglianza del Tribunale di Genova, Stefano Grillo, ha posto fine alla mia detenzione. Tuttavia non riesco a raggiungere mia moglie e mia figlia che vivono a Paskugan alla periferia di Tirana. La mia patente l’hanno sequestrata i Finanzieri di Genova al momento dell’arresto per detenzione di droga. Sono in possesso di un certificato di nascita che attesta le mie generalità ma nessuno mi spiega perché debba continuare a stare ingiustamente in carcere”. Bologna: “no alla pena di morte”, l’ex detenuto Moore racconta la sua storia Quotidiano Nazionale, 3 dicembre 2010 Fa tappa a Bologna la Campagna internazionale della Comunità di Sant’Egidio, “Città per la vita”. Ospite d’eccezione il reo - confesso Moore, per 17 anni in bilico tra la vita e la morte. Bologna, 2 dicembre 2010 - Non importa quale religione si osservi: ci sono quelle che credono nella reincarnazione, quelle che dopo la morte prevedono un’esistenza incorporea, una resurrezione dell’anima. Ma non credo esista fede che rinneghi la vita. Perché vivere è un diritto insindacabile e nessuno ha la facoltà di privarcene. Continua la Campagna Internazionale contro la Pena di morte “Città per la vita”, promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. A Bologna, in collaborazione con il prof. Stefano Canestrari, è previsto un incontro nella Sala Feste della Facoltà di Giurisprudenza (via Zamboni 22) perché si dia voce a chi crede che vivere valga sempre la pena. E a raccontare la sua esperienza nel braccio della morte c’è un ex detenuto della Georgia, reo - confesso d’omicidio negli anni ‘70, per 17 anni in bilico tra la vita e la morte. Un uomo disperato, Billy Moore, che di ritorno dal servizio nell’esercito, nel 1974, aveva scoperto di non avere più soldi né moglie, finita nel giro della tossicodipendenza, e con un figlio di tre anni a cui garantire una dignitosa esistenza. Dignità che proprio la disperazione gli ha tolto nel momento in cui si è visto costretto a vivere delle ricchezze altrui e, spinto da un amico, a tentare la rapina nell’abitazione dell’anziano Mr Stapleton. Non c’era stata premeditazione, eppure la rapina portò all’omicidio del vecchio signore. Billy aveva 22 anni, non aveva più niente ed ora su di lui gravava anche l’accusa d’omicidio. Reo - confesso, dopo un’udienza di tre ore la sua sorte fu decisa da un giudice, senza neanche giuria: Moore fu condannato a morire sulla sedia elettrica e venne rinchiuso nel braccio della morte. Gli affidarono un legale d’ufficio che subito dimostrò la sua totale incompetenza. La data dell’esecuzione fu fissata e poi rinviata, senza che nessuno lo avvertisse. Billy decise di difendersi da solo: venne in possesso delle carte processuali, scoprì nomi e indirizzi dei familiari della vittima e chiese loro perdono. I parenti di Mr Spadleton lo invitarono a volgere la sua vita al bene e lui decise di ascoltarli. Nel braccio della morte e nelle varie carceri della Georgia dove è stato detenuto, Billy hastudiato legge e teologia. Ha formato un gruppo di studio sulla Bibbia ed è divenuto lui stesso un sostegno per tutti i suoi compagni detenuti.”È già terribile stare qui dentro, dove lo Stato ci vuole uccidere. Dobbiamo trattarci bene l’un l’altro”, diceva loro. “Tutto il tempo che potevo - racconta Billy - lo trascorrevo aiutando gli altri, insegnando loro a leggere e scrivere, o pregando con loro e per loro.”Ma più Billy cercava di ritrovare la dignità perduta, più il sistema carcerario tentava di disumanizzargli la vita, togliendogli tutto il possibile: anche il nome. “Tutto lì dentro ricorda la morte: le guardie usano l’appellativo death row inmate (detenuto del braccio della morte). Si può solo provare a sopravvivere e la fede cristiana, che ho conosciuto e in cui mi sono ritrovato in quegli anni terribili, mi ha dato nuova speranza e sollievo nelle ore più difficili”. Più volte Billy Moore ha visto la morte vicina, così come i suoi 14 compagni detenuti che in quel periodo sono stati uccisi dallo Stato. Era il 21 maggio 1984 quando un capitano lo invitò a leggere e firmare un foglio: era l’ordine di esecuzione, che sarebbe avvenuta 3 giorni dopo, e gli era chiesto cosa voleva si facesse del suo corpo dopo la morte. Fu portato nella cella attigua alla stanza dell’esecuzione e tenuto sotto stretta osservazione da due guardie, per evitare il suicidio”. Tre giorni prima dell’esecuzione - racconta Moore - le guardie mi vollero mostrare la sedia elettrica, perché forse quel giorno non avrei avuto il tempo divederla bene e mi lessero una lista dei comportamenti e delle parole di chi la morte l’aveva conosciuta prima di me. Era un’ulteriore tortura”. A sette ore dalla pena capitale, l’esecuzione fu sospesa. Billy tornò a sperare. In questa battaglia umana, prima ancora che legale, Moore ebbe il sostegno di molti personaggi autorevoli che si erano appassionati al suo caso, come il Rev. Jesse Jackson e Madre Teresa di Calcutta, che con la sua consueta semplicità disse ai giudici della Georgia: “Fate a Billy Moore quello che farebbe Gesù.” E se non fosse stato sostenuto dalla famiglia della sua vittima, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente e non gli sarebbe stato concesso di vivere. Billy ora ha tre figlie e gira il mondo parlando di pace e provando a convincere i leader politici ad investire di più sulle aree urbane depresse, dove il crimine seduce maggiormente i giovani, come è successo a lui. Non dimentica l’errore commesso e crede di dover restituire la Grazia ricevuta, aiutando le nuove generazioni ad essere migliori. Il suo è un caso unico, raccontato nell’autobiografia “I shall not die” e nel film “Execution” di Steven Scaffidi, ma è la dimostrazione di come un uomo colpevole possa riscattarsi e, dopo un periodo di riabilitazione, migliorare la qualità della sua vita. E di quella degli altri. Roma: favori a detenuti, agente Rebibbia sospeso per corruzione Ansa, 3 dicembre 2010 Avrebbe fornito a due detenuti schede telefoniche nonché lettere di un arrestato e fornito ad un altro detenuto il contenuto degli atti del suo fascicolo personale. Un agente penitenziario di Rebibbia, A.G., è stato sospeso dal pubblico servizio perché accusato di corruzione. Lo ha deciso il gip Valerio Savio che ha accolto le richieste del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del sostituto Luca Tescaroli. Per gli inquirenti, l’agente avrebbe fornito favori ai due detenuti a fronte della promessa di ricevere un finanziamento di 50 mila euro, per il tramite dell’avvocato difensore del primo, a sua volta indagato per concorso in corruzione, da restituire, senza interessi, con rate mensili da 500 euro. Finanziamento non erogato, è detto nel capo d’accusa, per “cause indipendenti dalla volontà dai correi”. Al riguardo, l’agente, interrogato dagli inquirenti, si è giustificato sostenendo che il finanziamento era una questione personale tra lui e l’avvocato, indipendentemente dai favori ai due detenuti. Quanto alla consultazione del fascicolo personale del detenuto N.M., l’agente penitenziario è accusato di aver rivelato atti giudiziari a fronte della promessa di ricevere un finanziamento di 35 mila euro da “una terza persona, allo stato non identificata”. Sul punto l’agente penitenziario ha respinto l’addebito. Genova: sesso con detenuta; il Pm chiede 6 anni di pena per il direttore del carcere Ansa, 3 dicembre 2010 Il pm Ranieri Vittorio Miniati ha chiesto sei anni di reclusione per l’ex direttore del carcere femminile di Pontedecimo, Giuseppe Comparone, di 61 anni, accusato di violenza sessuale nei confronti di una detenuta marocchina di 29 anni. Il processo con rito abbreviato si svolge davanti al Gup Silvia Carpanini. I reati che vengono contestati all’ex direttore sono violenza sessuale aggravata con abuso di autorità, concussione, calunnia e falso ideologico. L’inchiesta era partita nel 2009 dopo la denuncia della detenuta marocchina. La donna aveva raccontato di essere stata indotta ad avere rapporti sessuali con Comparone. La detenuta godeva del beneficio del lavoro esterno. Secondo l’accusa sarebbero stati tre gli episodi di violenza sessuale; l’accusa di calunnia riguarda il fatto che l’ex direttore avrebbe indotto la donna ad accusare falsamente un ispettore della polizia penitenziaria. L’ex direttore del carcere, che adesso è in pensione, ha sempre negato ogni addebito. Il processo è stato poi rinviato al 6 dicembre quando parleranno le parti civili e inizieranno le arringhe delle difese. Teatro: “Don Giovanni in carcere”, con i detenuti della Casa Circondariale di Ancona Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2010 “Don Giovanni in carcere”, in scena l’1 e il 2 dicembre, è il primo progetto formazione a partire quest’anno con i detenuti della Casa Circondariale di Montacuto. Le novità di questa edizione sono un blog e una proiezione video dei due spettacoli per il pubblico prossimamente al Ridotto La Fondazione Teatro delle Muse e la Casa Circondariale di Montacuto prima con il professor Aldo Grassini e poi con il regista Luciano Colavero hanno lavorato con i detenuti al Don Giovanni di Mozart. Don Giovanni in carcere è il primo di quattro progetti di formazione che la Fondazione Teatro delle Muse metterà in piedi tra 2010 e 2011 con il titolo di Muse per la Città. Il laboratorio teatrale rivolto ai detenuti / attori della Casa Circondariale di Montacuto di Ancona con il regista Luciano Colavero è stato con un gruppo di detenuti comuni e un secondo gruppo di detenuti di massima sicurezza, per mettere in scena appunto due spettacoli liberamente ispirati al Don Giovanni di Mozart, opera andata in scena al Teatro delle Muse la scorsa Stagione con grande successo. Il laboratorio è iniziato con degli incontri sul melodramma e di guida all’ascolto del Don Giovanni a cura del professor Aldo Grassini ed è proseguito con il laboratorio e le lezioni del regista Colavero. Con questo progetto l’arte teatrale diventa quindi lo strumento attraverso cui creare una sinergia ed un’integrazione tra l’istituzione penitenziaria, la società e il territorio, trasformando un luogo di esclusione e marginalità in uno spazio permanente di cultura e crescita sociale. Novità di quest’anno rispetto agli anni passati, è stato possibile seguire il lavoro sviluppato durante le lezioni svolto leggendo il blog http://musecarcere.blogspot.com/ aggiornato in itinere e sarà possibile vedere gli spettacoli proposti all’interno del carcere in video al Ridotto del Teatro delle Muse in una serata dedicata nel febbraio 2011. Partner istituzionale del progetto Casa Circondariale di Montacuto (An). Con il sostegno di Regione Marche - Ambito Sociale Territoriale 11 del Comune di Ancona “Comitato Carcere e Territorio” e dell’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Ancona. Main partner: Ubi e Angelini. Si ringrazia Gallerie Commerciali Italia Spa - Auchan Ancona. Irlanda: i Cappellani lamentano la grave situazione nelle carceri Radio Vaticana, 3 dicembre 2010 Un rapporto sulle pessime condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti è stato reso noto dai cappellani delle carceri irlandesi. Una situazione carceraria, definita “disumana”, che si fa sempre più insostenibile a causa di continui episodi di violenza, del crescente uso di sostanze stupefacenti tra i detenuti e del sovraffollamento. Nelle quattordici carceri irlandesi operano ventisette persone, tra cappellani, sacerdoti, religiosi e laici, che lavorano ogni giorno a fianco dei detenuti e delle loro famiglie. “È scoraggiante - ha dichiarato all’Osservatore padre Ciarán Enright, responsabile della cappellania del carcere di Arbour Hill - dover registrare ogni anno che non vi sono segnali di miglioramento, rispetto alla situazione dell’anno precedente. I cappellani sono costretti a subire una politicizzazione del sistema della giustizia penale che non riesce ad affrontare il vero problema della criminalità e della prevenzione. Il problema del sovraffollamento è così preoccupante - ha aggiunto padre Enright - che la scorsa estate 129 detenuti del carcere di Mountjoy non avevano nemmeno un materasso sul quale dormire. Nella prigione di Wheatfield un anziano di 75 anni è stato costretto a dormire su un materasso steso sul pavimento. In celle anguste dove convivono fino a quattro detenuti, spesso l’unico servizio igienico è un vaso da notte”. I cappellani nel rapporto hanno evidenziato come le notizie che spesso accompagnano alcune scarcerazioni rendano sempre più difficile il reinserimento degli ex detenuti nella comunità. Un esempio lampante - si legge nella nota del responsabile - è rappresentato dal rilascio di un detenuto, Larry Murphy; in quell’occasione i giornali hanno prodotto un circolo mediatico che ha alimentato paura e ansia nella società irlandese, la messa in pericolo della vita di una persona e la creazione di panico immotivato. In un’altra occasione, un detenuto che doveva essere visitato in un ospedale è stato preso di mira all’uscita dal carcere da un folto gruppo di giornalisti e fotografi. Il comunicato evidenzia anche come all’interno delle carceri si susseguano quotidianamente episodi di estrema violenza: tra i più diffusi, l’utilizzo di una lama per sfregiare in modo permanente il volto di un detenuto. Il centro di recupero per giovani e minori “St Patrick” viene indicato dai cappellani come motivo di grave preoccupazione. La struttura è in diretta violazione della convenzione dell’Onu sui diritti del fanciullo che vieta la detenzione dei ragazzi, al di sotto dei 18 anni, insieme agli adulti. Al “St Patrick” non viene applicata nessuna protezione nei confronti dei minori. Qui, un giovane su quattro si trova in carcere cautelare rinchiuso per 23 ore al giorno senza fare nulla. I laboratori per i giovani vengono descritti come uno spreco di denaro e non offrono una formazione alla persona. I cappellani comunque si auspicano di rendere più sicure le prigioni e soprattutto libere dalla droga per l’interesse di tutti ma l’unico ostacolo al momento sembrerebbe essere la volontà politica. Israele: morte in incendio 40 guardie carcerarie su autobus, carcere Damas sgomberato Apcom, 3 dicembre 2010 Sono guardie carcerarie le 40 vittime del violento incendio scoppiato nella zona di Haifa, nel nord di Israele: lo hanno reso noto i servizi di soccorso dello Stato ebraico. Le vittime si trovavano a bordo di un pullman diretto verso la prigione di Damas per assistere il personale nello sgombero della struttura, che ospita 500 detenuti palestinesi e che era minacciata dalle fiamme: il veicolo si sarebbe rovesciato e successivamente incendiato. Gli sfollati sono centinaia: i vicini villaggi di Issafiyah e Beit Oron sono stati sgomberati dalle autorità, secondo le quali tuttavia il vento che alimenta le fiamme soffia verso il mare e non vi sarebbero rischi per i centri abitati. Sono 25 le squadre dei vigili del fuoco - appoggiati da quattro aerei antincendio - impegnati nelle perquisizioni di spegnimento delle fiamme; le cause dell’incendio non sono state accertate ma sembra escluso che si possa trattare di un evento doloso, data la forte siccità nella regione. Afghanistan: prigioniere a vita, destino donne che non hanno un “garante per libertà” Aki, 3 dicembre 2010 Una vita di prigionia. È quello che il destino riserva alle donne afghane che sebbene abbiano scontato la pena, di fatto sono costrette a rimanere in carcere perché non c’è nessun parente di sesso maschile che possa garantire per la loro liberazione. “È illegale, ma accade abbastanza spesso in Afghanistan”, spiega Suraya Subhrang, membro della Commissione indipenente afghana per i diritti umani (Aihcr). Ed è quello che è accaduto anche a Zarghoona, nome di fantasia di una ragazza che ha finito di scontare tre mesi di reclusione in un carcere della provincia di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, per essere fuggita di casa, ma che di fatto di prigione non può uscire. “Tutta la mia famiglia mi ha abbandonato. Per loro sono morta - dice - e dal penitenziario sostengono che mi libereranno solo se potranno consegnarmi a un uomo di famiglia”. Costretta a sposarsi all’età di 15 anni con un uomo anziano e psicologicamente instabile, Zarghoona ha subito violenza sessuale, veniva regolarmente picchiata e così ha deciso di fuggire di casa, ma è stata arrestata. Catturata in base a una legge che non esiste. “Il nostro sistema legale si basa sulla sharia in base alla quale la fuga d’amore è un peccato per cui, a seconda dei casi, si possono comminare pene che vanno dai due ai tre mesi di reclusione”, afferma all’organo d’informazione delle Nazioni Unite Irn Bahawddin Baha, capo della sezione penale della Corte Suprema. Ma nel codice penale afghano non c’è alcun riferimento a casi di donne o ragazze che fuggono di casa. “Volevo morire - dice Zarghoona in un’intervista telefonica all’Irn - piuttosto che stare con un uomo così brutale”. “Cosa devono fare - si chiede - le donne senza un mahram (un parente vicino, come un padre, un fratello o un figlio, ndr)? Devono uccidersi perché non c’è un uomo che può prendersi cura di loro?”. Intanto, Golam Dastgheer Mayar, responsabile del carcere centrale di Kandahar, assicura non essere a conoscenza del caso di Zarghoona e sottolinea come spesso le donne preferiscano rimanere in carcere, anche dopo aver finito di scontare la condanna, ‘perché non hanno dove andarè. ‘Considerare la fuga d’amore come un crimine è un fenomeno legato alla cultura patriarcale del Paese e non all’Islam’, afferma Wazhma Frogh dell’Afghan Women’s Network, una rete di organizzazioni non governative che lavora sulle tematiche di genere. E spesso in Afghanistan per le donne la fuga da casa è l’unica speranza di salvezza.