Giustizia: ieri un altro suicidio in cella, il bilancio sale a quota 66 di Dino Frambati Avvenire, 30 dicembre 2010 Continua l’impressionante sequenza di morti in carcere: ieri, a togliersi la vita in cella, a Rebibbia Nuovo Complesso, è stato Rambo Djurdjevic, rom di 24 anni; si è impiccato. Lo ha reso noto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni che ha sottolineato come si tratti del decimo decesso del 2010 (sono 66 a livello nazionale) presso una struttura detentiva della regione, e in quattro casi si è trattato di suicidio. Djurdjevic stava scontando, con il fratello, una condanna per furto. Sarebbe uscito a maggio dell’anno prossimo. “Non sono ancora noti i motivi che hanno spinto questo giovane a pensare di non avere più alternative alla morte - ha detto Marroni - ma posso con certezza ribadire che le condizioni di vita nelle carceri sono sempre più difficili soprattutto a causa del sovraffollamento non più sostenibile. La carenza anche di supporti psicologici fa sì che i più deboli dentro il carcere vedono nella fine traumatica della vita la soluzione di ogni problema”. Mentre l’Unione delle camere penali parla di “vera e propria strage”, ricordando che due giorni fa è morto nel carcere di Sanremo Ferdinando Paniccia, detenuto di 27 anni che pesava oltre 180 chili. Per questo denuncia: “Tra decessi e suicidi siamo ormai a cifre impressionanti, a conferma che il carcere non è più solo luogo di limitazione della libertà personale, ma istituzione dove si rischia la vita e spesso la si perde. Non luogo di rieducazione, come vuole la Costituzione, ma discarica sociale dove vengono meno i principi fondamentali del diritto e dell’umanità. Il rapporto di chi si uccide tra persone in carcere e libere è di 19 a 1: percentuale sproporzionata e spiegabile unicamente con la difficile situazione psicologica derivante dalla limitazione della libertà personale”. Recenti ricerche, rendono noto i penalisti, “hanno dimostrato correlazione fra sovraffollamento e suicidi. In nove istituti dove si registrano almeno due suicidi all’anno, il tasso medio di sovraffollamento è del 176% contro il 154 a livello nazionale e la frequenza dei suicidi è di 1 su 415 detenuti a fronte di una media di 1 su 1.090”. E non solo: “Un’altra ricerca - insistono i penalisti - ha evidenziato come i regimi speciali di detenzione (che riguardano il 10% della popolazione carceraria) nel 2010 siano stati interessati dal 60% dei suicidi. Un dato che dà ragione a chi definisce il regime del 41 bis una “tortura bianca”, dove molte limitazioni, più che ai giusti criteri di sicurezza, si ispirano a criteri di applicazione disumana della pena”. Intanto, ieri, la vicenda di Fernando Paniccia, morto quasi certamente per obesità nel carcere di Sanremo e sottoposto ad autopsia, si è arricchita di particolari. Il detenuto, dai primi di gennaio, avrebbe ottenuto gli arresti domiciliari. Lo ha detto il suo difensore, Tony Ceccarelli, ricordando che all’inizio la richiesta era stata respinta dalla corte d’appello di Roma. “Altrimenti - spiega - avrebbe potuto usufruire da tempo di una misura meno restrittiva”. Anche per via della sindrome di Prader Willi, la rara malattia che lo affliggeva. “È una patologia di tipo genetico causata da anomalia cromosomica”, spiega Anna Baschirotto, presidente dell’omonima associazione di Costozza (Vicenza) che si occupa di riabilitazione, diagnosi e ricerca su malattie rare. E conclude: “Provoca ritardi mentali, problemi endocrini gravi e scatena una fame insaziabile che spinge a mangiare qualsiasi cosa oppure a rubare direttamente il cibo o ciò che può servire a comprarlo”. Giustizia: la strage dei detenuti… bilancio di un altro anno tragico da Unione Camere Penali Italiane Comunicato stampa, 30 dicembre 2010 È oggettivamente impossibile fornire numeri aggiornati sui detenuti morti quest’anno nelle carceri italiane, giacché tra la redazione e la pubblicazione di questo scritto probabilmente saranno ancora aumentati. Ad oggi le cifre sono impressionanti: 170 morti, di cui ben 65 per suicidio. Una vera e propria strage che ci deve far interrogare su un carcere non più solo luogo di limitazione della libertà personale, ma istituzione dove si rischia la vita e spesso la si perde. Il rapporto tra i suicidi delle persone ristrette in carcere e quelle libere è di 19 ad 1: una percentuale talmente sproporzionata da non essere spiegabile unicamente con la difficile situazione psicologica derivante dalla limitazione della libertà personale. Carcere significa sovraffollamento, strutture vetuste, mancanza delle minime condizioni di igiene e spesso di cure sanitarie, ma anche isolamento prolungato e luogo dove vengono meno i principi fondamentali del diritto e dell’umanità. Alcune ricerche indipendenti hanno dimostrato come via sia una correlazione fra sovraffollamento e suicidi. Nelle 9 carceri dove sono accaduti almeno 2 suicidi nell’anno, il tasso medio di sovraffollamento è del 176% contro un dato nazionale del 154%, e la frequenza dei suicidi è di 1 caso ogni 415 detenuti, mentre la media nazionale è di 1 su 1.090. Questo dimostra che là dove l’affollamento è del 22% oltre la media nazionale, la frequenza dei suicidi è più che doppia. Pare evidente che quando alla limitazione della libertà personale si sommano altre condizioni di disagio, la situazione dei detenuti diventa drammatica e spesso porta ad un tale livello di disperazione da indurre al suicidio. Un’altra ricerca ha evidenziato, a conferma dell’assunto di cui sopra, come i regimi speciali di detenzione (che riguardano il 10% della popolazione carceraria) nel 2010 siano stati interessati dal 60% dei suicidi. Una cifra impressionante che dà ragione a chi definisce il regime del 41 bis una “tortura bianca”, dove molte limitazioni, più che ai giusti criteri di sicurezza, si ispirano a criteri di applicazione disumana della pena. Se è vero che la civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri, le cifre di coloro che muoiono nelle carceri italiane dimostrano che, lungi dall’essere luoghi di rieducazione, come vuole la Costituzione, esse finiscano per diventare vere e proprie discariche sociali. L’ Osservatorio Carcere dell’Ucpi intende attuare un’attenta azione di vigilanza sul fenomeno delle morti in carcere, valutando ogni singola vicenda anche attraverso esposti e denunce ove le circostanze e le dinamiche presentino profili di rilevanza penale. Giustizia: Garante Lazio scrive a Napolitano; inviti legislatore a intervenire per carcere Adnkronos, 30 dicembre 2010 “Il presidente della Repubblica usi i suoi poteri di stimolo per invitare il legislatore ad intervenire sui problemi del carcere, iniziando dalla riforma dei codici ed individuando un sistema di pene diverse dalla carcerazione”. È quando chiede il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni in una lettera aperta inviata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Marroni - è spiegato in una nota del Garante - si è rivolto al Capo dello Stato all’indomani della morte, nel carcere di Sanremo, di un giovane detenuto 27enne, con gravi handicap psico-motori, costretto su una sedia a rotelle e con ridotte capacità intellettive. Autore di reati di lieve entità, tra cui aver rubato 3 palloni da calcio e con un suo fine pena previsto fra un anno, il giovane avrebbe avuto bisogno di un sistema protettivo, di un ambiente delicato che obiettivamente non poteva essere il carcere”. “Questo caso - scrive il Garante - probabilmente non avrà attenzione mediatica e non susciterà curiosità ed interesse così come accaduto in altre circostanze. Tuttavia la questione assume un carattere rilevante trattandosi di una vita persa che forse poteva essere salvata. Una pena diversa in una struttura compatibile con la sua situazione probabilmente avrebbe evitato la tragedia”. L’esperienza quotidiana all’interno delle carceri del Lazio permette al Garante dei detenuti di affermare che “il mondo carcerario è sempre più ingovernabile ed invivibile, con un alto rischio di turbolenze sociali. La causa principale di questa situazione è il sovraffollamento, ormai incontrollabile. I suicidi in carcere sono 20 volte più alti di quelli tra i cittadini liberi così come è alto il tasso di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria, per non parlare delle morti registrate come “arresti cardiaci” e degli atti di autolesionismo. Le attività trattamentali sono ridotte al lumicino, sempre a causa del sovraffollamento. Rispetto a tutto questo non è più rinviabile una profonda riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. Bisogna pensare a pene diverse dal carcere”. Marroni ha infine ricordato che, nella scorsa legislatura, una Commissione parlamentare presieduta da Giuliano Pisapia aveva definito una proposta “seria, articolata e ragionata” di riforma dei codici. “Occorrerebbe dare impulso al legislatore affinché riprenda quella proposta anche modificandola, ma definendola normativamente. È questa la strada per rendere più vivibili e governabili le carceri ed anche per evitare tragedie come quella accaduta nel carcere di Sanremo”. Giustizia: in Italia la pena carceraria ha sapore della vendetta; no a estradizione Battisti di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Comunicato stampa, 30 dicembre 2010 Non ci uniamo al coro unanime di sdegno contro l’eventuale decisione del Presidente Lula di non estradare Cesare Battisti in Italia. Sono trascorsi trent’anni dai fatti gravissimi per i quali Battisti è stato condannato. In questi anni Battisti ha svolto una vita normale in Francia. La pena carceraria nei suoi confronti ha sapore di vendetta. È sacrosanto che le vittime vedano riconosciuto il torto subito. Ma è sbagliato accompagnare tutto ciò con un residuo di retributivismo che individua nella sofferenza simmetrica da affliggere al colpevole un risanamento del male subito. Ha sapore di vendetta portare in carcere una persona per educarla verso un reinserimento sociale, quando questa è già da tempo positivamente reinserita. Inoltre nella vicenda delle sentenze emesse in virtù di leggi e prassi d’emergenza queste considerazioni hanno un sapore ancora più netto. Inoltre Battisti è stato condannato all’ergastolo, una pena che Aldo Moro definì contraria alla nostra Costituzione. In Brasile tale pena è stata abolita. È ragionevole quindi che il Brasile non estradi in Italia una persona per farle scontare una pena che ha ritenuto di abolire. Infine in Italia la tortura non è reato e l’Italia non ha mai ratificato il protocollo Onu contro la tortura. Il che significa che nessun organismo ispettivo Onu può visitare le nostre carceri sovraffollate per accertare che vi siano trattamenti inumani o degradanti. Il Brasile invece lo ha fatto ratificando il protocollo nel 2007. Avrebbe quindi le sue ragioni il presidente Lula per non fidarsi dell’Italia. Giustizia: Osapp; nel 2011 serve una vera riforma del sistema carcerario Agi, 30 dicembre 2010 “Il 2011 sarà importante per le sfide che la nostra categoria si appresta ad affrontare anche mediante forti rivendicazioni pubbliche, se questo Governo non darà avvio alle vere Riforme della Giustizia e del sistema carcerario: il Ministro ci dia allora rassicurazioni in questo senso”. Così Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp) che aggiunge: “è ovvio come gli ultimi fatti di morte, ci riferiamo al 65° suicidio avvenuto a Genova, non facciano altro che condizionare un clima già di per sé stesso. Peraltro, se l’assolutamente inaccettabile numero dei morti in carcere per suicidio quest’anno, è pari a quello del 2009 e, addirittura, percentualmente inferiore in rapporto alle presenze nella popolazione detenuta (69.075 alla data di ieri per non oltre 45.000 posti disponibili) nonostante la promiscuità, l’insalubrità, e il decadimento edilizio nelle attuali carceri italiane, il merito va in massima parte al maggiore sacrificio dei poliziotti penitenziari e non saranno il piano carceri o la nuova legge sulla detenzione domiciliare, da soli, a far cambiare rotta alla nave”. Ci vuole “uno scatto in più”, spiega il rappresentante dell’Osapp, che alla vigilia del nuovo anno chiede al Guardasigilli, alla politica e alla società civile “di tenere alto il livello d’attenzione. Al Ministro “chiediamo che si riprenda al più presto il dialogo con le organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria: 23mila detenuti in eccedenza, infatti, su una tollerabilità oramai non più sostenibile, condizionano comunque un bilancio, che senza l’intervento esperto degli addetti del Corpo, sarebbe stato molto più grave. Ma questo non lo dice mai nessuno. Il Ministro - esorta il segretario generale - ci faccia sapere da che parte sta. È indispensabile una forte intesa e una forte combinazione di energie - conclude Beneduci - che indichi con chiarezza, da parte di questo Esecutivo, quanto sia importante e tenuto in considerazione il punto di vista della nostra Polizia”. Giustizia: niente permessi-premio a confidente della polizia che non collabora a processo Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2010 Nessun permesso premio se la collaborazione processuale non c’è stata. E l’essere stato in passato confidente della polizia non conta. Lo precisa la corte di Cassazione con la sentenza n. 45593 della prima sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha confermato la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma che aveva respinto l’istanza di permesso premio avanzata da un detenuto sulla base di quanto stabilito dall’articolo 58 ter dell’ordinamento penitenziario, indirizzato a beneficiare i collaboratori di giustizia. Peccato però che la collaborazione non ci fosse mai stata, quando invece è principio fondamentale, ricorda la corte, che l’aiuto non deve essere generico e neppure prestato in forme e sedi non previste ed essere invece specificamente riferito ai fatti e ai reati oggetto della condanna in rapporto alla quale si chiede il beneficio. Non conta invece un’attività di informatore della polizia, che il detenuto aveva attestato attraverso una lettera del capo della polizia stessa: a essere riconosciuta è solo “la collaborazione prestata in ambito processuale, versata in atti ed utilizzata a fini probatori”. Non può invece essere riconosciuta l’eventuale collaborazione rimasta circoscritta all’ambito dell’attività di polizia, pre-processuale o extra processuale, “e non confluita in alcun contenitore giudiziario”. Si tratta infatti, in questo caso, di semplice confidenza che, per quanto ampia, è destinata a rimanere segreta e sulla quale non sarebbe possibile la verifica nel contraddittorio tra le parti. Campania: le Asl incassano 21 milioni di euro per la medicina penitenziaria Ansa, 30 dicembre 2010 Sono stati registrati all’incasso nei giorni scorsi, dalla tesoreria di Palazzo Santa Lucia, i 21,3 milioni di euro relativi alla quota del fondo sanitario nazionale attribuita alle Asl campane per assicurare i servizi assistenziali negli istituti di pena campani e in particolare per gli oneri assistenziali del personale degli istituti penitenziari trasferiti al Servizio sanitario nazionale. Il trasferimento è conseguenza del trasferimento delle strutture e delle funzioni della Sanità nelle carceri dal ministero della Giustizia al ministero della Salute. Roma: suicida a Rebibbia detenuto 24enne, avrebbe terminato la pena a maggio 2011 Il Velino, 30 dicembre 2010 Un giovane detenuto rom 24enne, Rambo Djurdjevic, si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. Lo rende noto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Si tratta del decimo decesso registrato in un carcere della Regione nel 2010, il quarto suicidio. A quanto appreso dai collaboratori del Garante, Djurdjevic era arrivato il 16 giugno scorso nel reparto G 12 di Rebibbia Nuovo Complesso dove stava scontando, insieme al fratello, una condanna per furti con un fine pena fissato a maggio 2011. A trovarlo senza vita sono stati gli agenti di polizia penitenziaria nel corso di un controllo. Il giovane era entrato per la prima volta in carcere nel 2002 all’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, quindi aveva conosciuto anche le carceri di Velletri e Arezzo. I familiari sono stati avvertiti dalle autorità di quanto accaduto. “Non sono ancora noti i motivi che hanno spinto questo giovane a pensare di non avere più alternative alla morte - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni. Ciò che posso, con certezza, ribadire è che le condizioni di vita nelle carceri sono sempre più difficili soprattutto a causa del sovraffollamento ormai non più sostenibile. E, in questo quadro, la carenza anche di supporti psicologici fa sì che i più deboli dentro il carcere vedono nella fine traumatica della loro vita la soluzione di ogni problema”. Uil-Pa Penitenziari: il 66esimo suicidio in carcere del 2010 Rambo Djurdjevic, 24enne di origine rom, era ristretto al braccio G12 del carcere romano di Rebibbia, avrebbe finito di scontare la pena a maggio 2011, ma si è suicidato nella serata di ieri, impiccandosi. Suo fratello, anch’egli detenuto a Rebibbia, è tenuto sotto stretta sorveglianza, avendo già manifestato intenzioni suicide. “Queste morti di giovani detenuti a pochi mesi dalla remissione in libertà debbono ulteriormente spingere a riflettere sul fenomeno dei suicidi in carcere”, sottolinea Sarno, aggiungendo: “Soprattutto rappresentano la più mortificante sconfitta dell’incapacità della politica a rispondere in modo adeguato alle criticità del sistema penitenziario”. “Tra suicidi in cella, sovraffollamento, degrado e decadenza delle strutture, depauperamento degli organici il nostro sistema penitenziario è un meteorite senza controllo nella galassia della mala giustizia. Basti pensare che, al netto degli impegni e delle promesse - prosegue il segretario Uil-Pa - non si è saputo mettere fine nemmeno allo scempio dei bambini detenuti”. “Auspichiamo che il 2011 - conclude Sarno - possa essere l’anno di una nuova coscienza sociale e politica per risolvere, almeno in parte, le gravi criticità delle carceri italiane”. Sappe: suicidio a Rebibbia ennesima sconfitta per lo Stato “Il suicidio in carcere è sempre, oltre che una tragedia personale, una sconfitta per lo Stato”. Lo sottolinea il segretario del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece, alla notizia del suicidio di un detenuto rom di 24 anni avvenuto nel carcere romano di Rebibbia. “La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere - sostiene Capece - argomento sul quale siamo da tempo impegnati, nonostante la colpevole indifferenza di vasti settori della politica”. Il sindacalista ricorda che Rebibbia “è un istituto penitenziario sovraffollato, dove sono presenti circa 1.700 detenuti a fronte dei 1.200 posti regolamentari”. Inoltre, “i poliziotti penitenziari in servizio nel nuovo complesso di Roma Rebibbia, che dovrebbero essere in organico 1.093 anziché gli 839 attualmente in forza, ben 254 in meno, nel solo 2009 sono intervenuti tempestivamente salvando la vita a 25 detenuti che hanno tentato di suicidarsi ed impedendo che i 67 atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti o i 90 casi di rifiuto vitto dell’amministrazione e di terapia potessero degenerare e avere ulteriori gravi conseguenze”. Larino (Cb): Sappe; muore detenuto cardiopatico, carceri sono pattumiera dell’umanità Ansa, 30 dicembre 2010 “Le carceri italiane sono diventate una pattumiera dell’umanità; si continua a mettere in galera tutti senza creare differenziazioni nei circuiti carcerari e misure alternative”. Così dichiara il consigliere nazionale del Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria (Sappe) Aldo Di Giacomo, in riferimento alla morte di un detenuto, non riconducibile a cause violente, avvenuta ieri nella struttura di reclusione di Larino (Campobasso). L’uomo, recluso per reati contro il patrimonio, era in attesa di giudizio definitivo. In cura per malattie del sistema cardiocircolatorio, era in cella insieme ad altri due detenuti. Torino: grazie al ddl Alfano 83 carcerati potrebbero ottenere la detenzione domiciliare La Stampa, 30 dicembre 2010 Grazie al disegno di legge Alfano, 83 detenuti che attualmente sono rinchiusi nella casa circondariale di Torino potrebbero presto lasciare le loro celle ed essere ammessi ai domiciliari. Il monitoraggio è stato effettuato dai vertici del penitenziario torinese sulla base delle indicazioni dello stesso ddl del ministro della Giustizia. Il disegno di legge, infatti, prevede che possano uscire i detenuti che stanno scontando pene inferiori o uguali a un anno per reati non gravi. “Secondo i nostri controlli sono appunto 83 i detenuti che rispondono a queste caratteristiche nel nostro penitenziario - dichiara il direttore del Lorusso Cutugno, Pietro Buffa - Si tratta di ospiti che ne hanno le caratteristiche dal punto di vista strettamente giuridico, ma la valutazione finale non spetta a noi, bensì ai magistrati di sorveglianza”. Il carcere di Torino sta infatti inviando in questi giorni gli incartamenti ai giudici relativi a quei detenuti che potrebbero rientrare nel ddl Alfano. “Attualmente 36 pratiche sono già in stato avanzato - fa sapere il direttore Buffa - le altre partiranno nei prossimi giorni”. Si tratta di fascicoli che sono già al vaglio del magistrato di sorveglianza o per cui c’è già stata una valutazione da parte dei servizi sociali. Ovviamente i detenuti potranno ottenere i domiciliari solo se potranno dimostrare di avere una casa che li possa ospitare, e se in passano non si sono visti revocare la detenzione domiciliare. Venezia: il Sindaco Orsoni difende la scelta del Dap di costruire un nuovo carcere La Nuova Venezia, 30 dicembre 2010 Nell’ambiente giudiziario la scelta di Campalto per costruire il nuovo carcere è stata accolta con soddisfazione. Ma anche il sindaco Giorgio Orsoni non è contrario alla scelta del sito compiuta dal Commissario per il piano carceri e direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Il primo cittadino racconta che da anni si batte per la chiusura di Santa Maria Maggiore, un carcere indegno per un paese civile contro il quale da presidente del Consiglio dell’ordine forense lagunare ha presentato ricorsi per la sua chiusura. “La scelta del luogo per il nuovo carcere - precisa - a farla è stato il Commissario assieme alla Regione e io ritengo che non ci sia grande differenza tra una caserma militare o un carcere. Inoltre, Campalto è luogo ottimale dal punto di vista logistico”. Infine, per quanto riguarda il riutilizzo di Santa Maria Maggiore, il sindaco svela che è stata sua l’idea di sistemare la Corte d’appello che, stando ai progetti iniziali, doveva finire alla Manifattura Tabacchi con un secondo lotto di lavori per il quale però non ci sono finanziamenti. “È ancora una semplice idea - spiega Orsoni - ma io ritengo che, concluso l’edificio per sistemare il Tribunale penale alla Cittadella della giustizia, noi potremmo vendere il resto della Manifattura e con quei soldi restaurare Santa Maria Maggiore per la Corte d’appello”. Sulla stessa linea del sindaco il presidente dell’Ordine degli avvocati Daniele Grasso. “Sono convinto che il carcere non debba essere necessariamente collegato agli uffici giudiziari, a mio avviso e anche a quello dei colleghi l’importante è che venga chiusa Santa Maria Maggiore, che avrebbero dovuto dismettere 30 anni fa”. Spiega che la sua struttura architettonica si è rivelata obsoleta per i percorsi di riabilitazione e poi ricorda la enormi difficoltà che crea al personale per il trasporto dei detenuti sull’acqua. Tra l’altro, tra un anno, anche il Tribunale penale di Rialto, dopo la Procura già a piazzale Roma, deve trasferirsi alla Manifattura tabacchi e, quindi, quando il carcere sarà a Campalto, per trasferire i detenuti nella aule dei processi, basterà il trasporto su gomma, facendo sparire quello con i motoscafi. Per il sovraffollamento, invece, forse non cambierà molto: ora a Santa Maria Maggiore i detenuti sono 357 (dovrebbero essere al massimo 245), a Campalto da 450 facilmente diventeranno 600. Serve una struttura più capiente e moderna Un anno fa Irene Iannucci, direttrice del carcere maschile di Santa Maria Maggiore, aveva anticipato tutti sulla Nuova di Venezia e Mestre: il nuovo carcere si farà a Campalto. Ora quella voce è ufficiale. “La decisione è fortemente auspicata - commenta. Di certo è preferibile un istituto penitenziario in terraferma piuttosto che insista in centro storico. I vantaggi sono oggettivi. La nuova struttura potrà rispondere a criteri strutturali di maggiore capienza e modernità. Anche al personale si potrà garantire una migliore sistemazione logistica, quali la caserma e i parcheggi per veicoli”. La Iannucci ribadisce che l’attuale struttura è ormai obsoleta e manca di spazi all’aperto. “Nei giorni precedenti il Natale - afferma - un tecnico del Ministero ha effettuato un sopralluogo nell’area militare di Campalto, a ridosso dell’aeroporto, per verificarne l’idoneità. Al funzionario, giunto da Roma, ho messo a disposizione i mezzi per raggiungere il sito”. La Iannucci spiega: “Mi ha illustrato una mappa e ne abbiamo parlato un pò, ma non ho partecipato al sopralluogo”. La futura destinazione del carcere che verrà dismesso potrebbe diventare la sede della Corte d’Appello o di altri uffici giudiziari. A tal proposito la direttrice esprime approvazione: “Tutto sommato ci starebbe pure. Questo istituto fa gola a tanti. La posizione è strategica. A pochi passi da qui si trova la Cittadella della Giustizia”. Intanto la situazione dei detenuti e del personale penitenziario “è disagiata. Quando per sovraffollamento una persona dorme a terra o si suicida o evade, per noi è una ferita, - prosegue la direttrice - La mia speranza è che il carcere sia luogo di crescita, la mia paura è che resti luogo di mortificazione”. Dietro le sbarre la popolazione detenuta ieri era di 357 presenze, su una capienza regolamentare di 160 (“tollerabile” di 245). Venezia: il Sindaco pronto a discutere sul luogo, non sulla necessità del nuovo carcere di Elisio Trevisan Il Gazzettino, 30 dicembre 2010 Pronto a discutere e anche a spostare il carcere. Sicuramente non a rinunciare al nuovo istituto di pena, sarebbe inciviltà. Il sindaco Giorgio Orsoni esprimerà il suo pensiero anche tra qualche giorno, quando parteciperà, lo ha promesso al presidente Ezio Ordigoni, alla riunione del consiglio di Municipalità di Favaro che si annuncia molto partecipato viste le prese di posizione di questi giorni. Tutte contrarie alla scelta dei 9 ettari in via Orlanda a Campalto, attualmente occupati dal deposito di mezzi militari. Il sindaco, dunque, si dice pronto ad affrontare “qualsiasi dibattito perché se la città ne fa un problema del dove metterlo, discutiamone”. Lei è disposto a spostare il carcere in un altro luogo? “Sono pronto a confrontarmi, non ho nessunissima preferenza per un posto piuttosto che un altro”. Il commissario al Piano carceri e la Regione, però, hanno già firmato. Il sindaco, allora, è d’accordo con il consigliere del Pd, Gabriele Scaramuzza, il quale sostiene che, leggi alla mano, il Comune può chiedere l’invalidazione dell’atto? “Non scendo nei particolari, nei prossimi giorni faremo le verifiche tecniche per capire com’è possibile intervenire, tenendo conto, comunque, che ormai di irreversibile è rimasta solo una cosa”. In attesa di sapere cosa si potrà fare, potrebbe chiarire intanto di chi è la paternità della scelta di Campalto? L’assessore regionale Renato Glisso sostiene che è stato il Comune, e che la Regione e il Commissario si sono adeguati. “Assolutamente no. La proposta è venuta dal Ministero e dalla Regione, sin da quando io sono stato convocato dal vicepresidente Marino Zorzato: già allora mi hanno detto “noi abbiamo pensato a questa soluzione”. Il Comune, dunque, si è adeguato alla proposta di Ministero e Regione, ma avrebbe anche potuto indicare un’altra località. “Sulla localizzazione, ripeto, sono pronto a discutere. Non lo sono sull’opportunità di accogliere nel territorio veneziano un nuovo carcere: è una questione di civiltà, è un’emergenza civile e umanitaria che da tempo era stata fortemente sollevata. L’attuale carcere, pur essendo stato oggetto di interventi recentemente, è indegno di un Paese civile e moderno. Sono stato, quindi, molto felice di apprendere le intenzioni del Governo, e ho dato la mia adesione”. Più di qualcuno ha detto che si poteva costruire nell’area del forte Pepe, al Montiron. “Io per primo avevo pensato che si poteva sistemare lì, anche se ricordo che circa 25 anni fa se n’era già parlato e c’era stata una sollevazione da parte delle associazioni che si occupano di queste tematiche, perché dicevano che è un luogo troppo isolato. È passato tanto tempo, però, magari oggi non è più così. Parliamone”. Perché, allora, non ne avete parlato prima con la città? “A Ministero e Regione avevo dato il mio assenso, fermo restando che comunque la città avrebbe preteso di essere in qualche modo compensata, e che si sarebbe dovuto preventivamente discutere con la popolazione, la Municipalità e le forze politiche l’ubicazione della struttura. Che avrebbero, invece, proceduto così rapidamente purtroppo nessuno me lo aveva detto”. Bollate (Mi): finanziata costruzione asilo nido per i bimbi dei dipendenti del carcere Ansa, 30 dicembre 2010 L’iniziativa per la costruzione di un asilo nido per i bimbi dei dipendenti dell’amministrazione carceraria di Bollate è stata approvata dalla Giunta provinciale. Ottantaseimila euro per garantire il rapporto tra genitori e figli anche tra le mura del carcere di Bollate. Ieri mattina la Giunta provinciale ha approvato la delibera per stanziare i primi fondi per la realizzazione di un asilo nido per i bambini dei dipendenti dall’amministrazione carceraria bollatese, ma non solo. Il nido sarà accessibili anche alle famiglie residenti nel comune di Bollate e nei comuni limitrofi con l’obiettivo di favorire un’integrazione attraverso percorsi educativi, evitando l’isolamento in cui vivono tanto il personale del carcere quanto i loro familiari. La realizzazione dei lavori del nido coinvolgerà gli stessi detenuti che hanno costituito diverse cooperative di lavoro come parte integrante del percorso di recupero e risocializzazione, che è poi la “mission” della casa di reclusione alle porte di Milano. Una parte del finanziamento messo a disposizione dall’assessorato provinciale alle politiche sociali verrà utilizzata per coprire parte dei costi del servizio educativo del progetto “La stanza degli affetti”, gestito dalla cooperativa Spazio Aperto. Il progetto è nato per offrire alcuni mesi fa, sostegno alla genitorialità, per facilitare l’incontro con i figli minorenni, all’interno di uno spazio arredato in modo da ricordare quello familiare. “Crediamo fortemente nella possibilità di salvare la relazione famigliare anche in situazioni critiche - spiega l’assessore provinciale alle Politiche sociali, Massimo Pagani -. Oggi il carcere può davvero diventare un luogo di educazione, formazione e integrazione. L’isolamento e la ghettizzazione sono il modo più sbagliato di gestire la detenzione, e le statistiche dimostrano che dove c’è attenzione per il personale e per i detenuti, si registrano meno evasioni e minor recidività. Garantire il rapporto tra genitori e figli anche in carcere deve essere una priorità. Per questo abbiamo messo a disposizione questi 86mila euro, nonostante il periodo di crisi economica che ha toccato anche noi”. Bologna: il Garante ringrazia per i contributi a sostegno dei detenuti Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2010 A seguire la nota con cui Vanna Minardi, Garante per i diritti dei detenuti, intende ringraziare fondazioni, enti, associazioni e cittadini che hanno voluto fornire un prezioso supporto sia economico che morale alle persone che si trovano private della libertà personale. In occasione delle festività di fine anno, la Garante per i diritti dei detenuti intende espressamente e pubblicamente ringraziare le Fondazioni, gli Enti, le Associazioni e i privati cittadini che con il loro aiuto e la loro solidarietà, da sempre ed in via continuativa, riescono, con il loro fattivo contributo, ad alleviare le sofferenze e le difficoltà delle persone che si trovano private della libertà personale, fornendo loro prezioso supporto sia economico che morale. Note sono infatti le criticità, che giorno per giorno, incontrano i detenuti e il personale tutto, per il sovraffollamento delle strutture e la scarsità delle risorse assegnate. Si ringraziano, nell’occasione le Aziende che, in queste festività, hanno risposto con generosità alla richiesta di solidarietà, donando vestiario, prodotti per l’igiene personale, piccoli doni per i bambini, che, grazie all’aiuto dei volontari, saranno distribuiti ai detenuti: Afm-Admenta SpA che, attraverso l’Amministratore delegato, Ing. Quagliato, ha consegnato alla vigilia di Natale cinque cartoni contenenti corsetteria per le donne, giochi per i bambini, prodotti per l’igiene personale, trucchi e disinfettanti per le mani destinati al reparto femminile; Mop magazzini di Villanova di Castenaso ha fornito per la distribuzione ai detenuti una notevole quantità di flaconi monouso di shampoo, bagno schiuma e saponi liquidi, consegnati direttamente ai volontari di Avoc per la distribuzione ai più bisognosi. Coop Adriatica che, come sempre generosa ed attenta alle condizioni di vita all’interno del carcere, ha donato 130 prodotti per l’igiene personale (sapone per le mani e l’igiene intima, bagnoschiuma, dentifrici e spazzolini da denti), oltre a vestiario di vario tipo, sia per le donne che per gli uomini, dolci per il giorno di Natale per i detenuti del giudiziario e tutto quanto fatto nel corso dell’anno, anche con l’aiuto attento e prezioso dei volontari di ausilio cultura, per i corsi scolastici e le biblioteche interne al carcere. C.I.G.A.R. S.p.A di Bologna che ha donato materiale per le attività sportive dei ragazzi dell’Istituto minorile di via del Pratello; ed anche la Camera del Lavoro di Bologna che, in occasione della Festa di Natale per le famiglie, organizzata dal 29 novembre al 4 dicembre 2010 dai volontari di Avoc e del Centro Poggeschi per il Carcere, ha finanziato l’acquisto di piccoli doni da dare ai bambini e alle bambine in visita ai genitori reclusi. Questi gesti di solidarietà e la particolare attenzione dimostrata rappresentano un esempio positivo per tutta la collettività. L’Ufficio del Garante, che ha messo a disposizione libri e pubblicazioni per le biblioteche del Carcere, per i corsi scolastici dell’Istituto penale minorile e per il CIE di Bologna, ringrazia, per la professionalità dimostrata nel dare puntuali indicazioni sui titoli da acquistare, la signora Camilla Castoldi della Sala Borsa, la dottoressa Annamaria Santoli dell’IPM e le librerie Serendipità e Melbookstore di Bologna. Oristano: interrogazione su trasferimento detenuto; a rischio il diritto alla difesa La Nuova Sardegna, 30 dicembre 2010 Un’interrogazione parlamentare forse chiarirà l’incredibile vicenda che riguarda Graziano Congiu, bracciante agricolo di Milis, finito in carcere con l’accusa di rapina, e trasferito da Oristano alla casa circondariale di Taranto. Il caso, segnalato all’associazione “Socialismo Diritti Riforme” dall’avvocato Aurelio Schirru, legale del bracciante di Milis, è stato portato all’attenzione del ministro della Giustizia Angelino Alfano dai parlamentari Amalia Schirru e Guido Melis. La vicenda è già nota all’opinione pubblica. Dopo il trasferimento da una sede di pena all’altra, il legale di Graziano Congiu aveva lamentato l’impossibilità di poter svolgere nel migliore dei modi il proprio lavoro. Argomento che è riportato anche nell’interrogazione: “Le distanze dalla Sardegna creano di fatto problemi insormontabili che ledono il diritto della difesa sancito dalla Costituzione italiana. Senza entrare nel merito della decisione sull’applicazione dell’articolo 14bis della legge sull’ordinamento penitenziario secondo cui veniva applicato il regime di sorveglianza particolare, di fatto, il detenuto è stato privato di ogni minima possibilità di difesa in ordine al procedimento penale per il quale è stato tratto in arresto”. Un trasferimento avvenuto in una fase predibattimentale che i due parlamentari definiscono “particolarmente delicata, richiede un confronto diretto tra il difensore ed il proprio cliente al fine di poter nel modo migliore possibile e senza alcuna limitazione, tutelare gli interessi dell’imputato ed approntare, in comune accordo con il difeso, tutte le migliori strategie processuali volte a preservare e garantire quel diritto alla difesa garantito dalla Costituzione”. La posizione di Congiu è peraltro delicata per quanto riguarda l’accusa: a suo carico è stata formalizzata la responsabilità di avere preso parte a una rapina. Ora si attende lo sviluppo dell’interrogazione parlamentare. Oristano: una ragazza nigeriana accusa don Usai; increduli i collaboratori del sacerdote di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 30 dicembre 2010 Lo accusa una ragazza nigeriana. È lei che don Giovanni Usai, il sacerdote che gestisce la casa di accoglienza per ex detenuti “Il Samaritano”, avrebbe ricattato costringendola a una prestazione sessuale. In cambio avrebbe offerto un posto di lavoro a tempo indeterminato: in Italia è molto più che pane per un cittadino extracomunitario. E così, di fronte a quella che viene considerata una minaccia, la ragazza non avrebbe avuto scelta. Tra l’espulsione certa e una vita migliore avrebbe scelto la seconda, accontentando però il sacerdote. Sono le accuse, non le sole, che hanno portato alla misura cautelare - il prete è ai domiciliari in un edificio della Curia - emessa nei giorni scorsi dal giudice per le indagini preliminari Mauro Pusceddu su richiesta del sostituto procuratore Diana Lecca. Sono le accuse che convincono i carabinieri, che spiegano di aver fatto un accuratissimo lavoro di indagine. Sono le accuse che lasciano più che sgomento il mondo che ruota attorno a don Giovanni Usai. È incredula la Chiesa, sono increduli coloro che sino a due giorni fa lavoravano fianco a fianco con lui nelle campagne di Arborea. Sono increduli i tanti amici e conoscenti che il sacerdote di 67 anni di Assolo ha in tutta l’isola e che l’hanno conosciuto per la sua instancabile attività in favore dei più deboli. Eppure da queste accuse - oltre quella di abuso sessuale c’è anche quella di aver permesso che il centro Il Samaritano si trasformasse in una sorta di casa d’appuntamento, don Giovanni Usai deve difendersi. Lo farà già questa mattina, assieme al cittadino nigeriano Alphonsus Eze (35 anni, arrestato martedì) accusato a sua volta di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, mentre un terzo nigeriano coinvolto nell’inchiesta e la cui identità non viene rivelata è al momento ricercato, perché su di lui pende un ordine di arresto del tribunale di Oristano. Alle dieci, i primi due saranno in tribunale per l’interrogatorio di garanzia, durante il quale è possibile che don Giovanni Usai risponda alle domande del giudice, anche perché i carabinieri che martedì mattina sono andati a prelevarlo all’aeroporto di Elmas, dove era appena sbarcato, hanno detto che si è dimostrato immediatamente collaborativo. E le domande e le spiegazioni da fornire saranno tante. I carabinieri del reparto operativo e quelli della stazione di Arborea hanno infatti avuto tempo e modo di raccogliere quelli che definiscono “elementi certi”. È infatti dalle prime settimane dell’anno che controllano i movimenti all’interno del centro Il Samaritano, dove il via vai esagerato di persone ha destato più di un sospetto e dato fiato ad una serie di voci alle quali però in pochi davano credito. E allora sono stati intensificati i controlli e sono stati fatte numerose attività di indagine, sulle quali il colonnello Giuseppe Palma comandante provinciale dei carabinieri e il tenente Claudio Mauti, non hanno fornito particolari dettagli, probabilmente per non scoprire le carte dell’inchiesta. Intercettazioni, appostamenti, probabilmente anche qualche deposizione. Tutto alla fine avrebbe combaciato, sino alla decisione della magistratura di intervenire. C’era da fermare l’attività di prostituzione che ancora sarebbe andata avanti e che vedrebbe coinvolte sei ragazze nigeriane, ospiti della comunità. Hanno tra i venti e trent’anni e proprio nelle stanze del Samaritano, nel giardino della struttura e nelle campagne circostanti avrebbero venduto il loro corpo. “Don Giovanni Usai sapeva e avrebbe lasciato fare. In ogni caso è responsabile anche dal punto di vista penale di quel che accade all’interno della struttura, dove è bene ricordare che ci sono ex detenuti”, sostengono i carabinieri. Che hanno anche riportato indietro le lancette e fatto risalire l’origine dei reati al 2005. In tutti questi anni il sacerdote avrebbe taciuto e chiuso tutti e due gli occhi per consentire agli altri due indagati di continuare a pretendere dalle ragazze i soldi pagati dai clienti. Roma: la Polverini a Rebibbia per il concerto di Max Gazzè Dire, 30 dicembre 2010 Il cantautore Max Gazzè si è esibito questa mattina nel carcere romano di Rebibbia, di fronte ad una platea di circa 60 detenuti. Il concerto si è svolto nell’ambito dell’iniziativa “è Natale per tutti” promossa dalla Regione Lazio nelle case circondariali e negli ospedali durante i giorni di festa. “Durante le festività - ha detto la governatrice Renata Polverini, presente al concerto di stamani - è necessario che le persone sentano vicine le persone. In questi giorni volevamo stare accanto a chi era impossibilitato a passare il Natale con la propria famiglia, i detenuti e gli ammalati. Per questo gli assessori Cangemi e Santini hanno messo in campo l’iniziativa “È Natale per tutti”, a cui diversi artisti hanno aderito gratuitamente. Oltre ai concerti nelle case di reclusione, proiettiamo film negli ospedali e abbiamo raccolto anche l’adesione di diversi attori. Dovremo rinnovare iniziative di questo tipo non solo per il prossimo Natale, ma anche nel corso dell’anno”. L’esibizione di questa mattina è stata presieduta da un introduzione di Stefano Ricca, direttore di Rebibbia, che ha ricordato l’importanza del ruolo della Regione per quanto riguarda la sanità e la formazione professionale all’interno delle carceri. La governatrice ha replicato dicendo di essere consapevole della “situazione critica relativa alla sanità: per questo ho dato indicazioni all’assessorato alla salute di intervenire con le Asl per risolvere i problemi di un servizio che va garantito a tutti”. “Oltre mille detenuti hanno già assistito ai concerti promossi dalla Regione - ha spiegato l’assessore regionale alla Sicurezza, Pino Cangemi - questa iniziativa si concluderà il prossimo 3 gennaio presso il carcere Mammagialla di Viterbo. Al termine della sua esibizione, Max Gazzè ha sottolineato come “una musica possa creare straordinarie alchimie anche in un luogo così insolito in cui suonare. La musica è in grado di penetrare ogni barriera culturale: mi fa molto piacere aver partecipato a questa iniziativa, un modo per trasmettere calore ed emozione”. Rossano Calabro (Cs): concerto sinfonico nel carcere, con la Banda Musicale di Cariati Quotidiano di Calabria, 30 dicembre 2010 La musica dal vivo entra nel teatro dell’Istituto di Rossano e da lì, attraverso il fiato, le percussioni e la passione di un gruppo multi generazionale di persone ben assortito e diretto dal Maestro Antonio Cirigliani, si diffonderà spaziando liberamente fino a disperdersi oltre qualunque tipo di ostacolo, oltre le mura e le grate. Infatti, nel corso della mattinata di ieri la banda musicale “Città di Cariati” si è cimentata in un concerto sinfonico dedicato ai detenuti. Il gruppo musicale, composto da ben 50 (cinquanta) elementi, ha espresso alla Direzione del penitenziario il desiderio di poter offrire uno spettacolo gratuito in occasione delle festività natalizie al fine di allietare, anche per i detenuti, un periodo particolare e significativo. La proposta è stata naturalmente accolta dal Direttore del carcere Dr. Giuseppe Carrà che attraverso l’iniziativa coglie un’ulteriore conferma dell’azione perseguita dalla Direzione del carcere finalizzata a favorire l’integrazione della comunità detenuta con il territorio. L’iniziativa proposta dalla Banda Musicale Città di Cariati è, da un certo punto di vista, motivo di soddisfazione per lo sforzo continuo prodotto dall’Amministrazione Penitenziaria, in tutte le sue articolazioni, per far concepire il carcere una struttura necessaria ed utile alla comunità e non un fattore di degrado. Infatti, al pari dei nosocomi, che hanno il compito di curare il corpo dei cittadini, il penitenziario ha sì la funzione di luogo deputato all’espiazione della pena ma, contestualmente, ha anche quello di recuperare il cittadino per renderlo alla società conformato alle regole della civile convivenza ed è questo secondo obiettivo, il più difficile ma al tempo stesso il più esaltante, che si persegue di realizzare durante il tempo della pena con l’apporto, indispensabile, della comunità esterna. L’esclusione sociale serve a poco, se vogliamo è controproducente. Non è con la segregazione fisica che si risolve il problema della devianza. Investire nel carcere conviene ed è doveroso farlo se si considera che le persone detenute prima o poi dal carcere sono destinate ad uscire per ritornare alla comunità ed allora è auspicabile che siano persone diverse, nuove, rigenerate nei valori. Sento dover ringraziare quanti, volontariato, associazioni, componenti sociali ed imprenditoriali oltre a quelli Istituzionali si prodigano insieme agli operatori penitenziari affinché si possa costruire una vita alternativa a quanti hanno conosciuto solo quella delinquenziale. Mi sia qui concesso di evidenziare come la comunità esterna, in questo caso la Banda Musicale Città di Cariati, dimostra di aver compreso e come, ancora una volta, spontaneamente, chiede di partecipare al processo di ricostruzione dell’uomo che passa anche attraverso momenti di cultura come questo e di ristoro dello spirito come è stata la recente visita di S.E. Santo Marcianò che nella circostanza ha dato tangibile segno di come, con la Parola, è possibile ristabilire vincoli di fratellanza e di condivisione con soggetti appartenenti a culture e credo religioso diverso da quello Cristiano Cattolico e percorsi di vita criminale, per potere uscire da quello che Sua Ecc. il Vescovo ha definito il carcere “reale” da cui è possibile uscire ricostruiti a differenza del carcere “morale” i cui limiti sono molto più difficili da superare. Fermo (Ap): alla Casa di reclusione note e parole con il gruppo rock Santa Cecilia Corriere Adriatico, 30 dicembre 2010 Ieri nella Casa di reclusione di Fermo si è tenuto il Concerto del gruppo rock ascolano dei Santa Cecilia. Una batteria, un basso, due chitarre e una voce che all’interno del carcere vogliono lanciare un urlo di note e parole, per sottolineare il problema del sovraffollamento e sensibilizzare i cittadini nei confronti della realtà carceraria. “Voi chiusi fuori”, il brano prodotto per l’occasione, vuole spiegare al mondo la necessità dei detenuti di relazionarsi con la realtà esterna, scontando la giusta pena, e per vincere quel senso di solitudine che annichilisce anche l’animo più forte. Un testo, quello presentato, “che riesca a stravolgere un interesse o per lo meno a risvegliare un curiosità dimenticata per questo mondo cosi ignorato”. Queste le parole del nucleo dei Santa Cecilia composti da Gianluca Di Benedetto (voce e chitarra), Wizard (chitarra elettrica, acustica ed effetti), Luca Pichinelli (batteria), Pietro Tosti (basso). Tra le iniziative proposte dalla band va sicuramente menzionata la presentazione del videoclip professionale del brano ‘Voi chiusi fuorì, al palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno, al quale parteciperanno il sindaco avv. Guido Castelli, l’assessore alle politiche sociali prof.ssa Donatella Ferretti, la direttrice della casa circondariale di Ascoli Piceno dott.ssa Di Feliciantonio Lucia accompagnata da un detenuto che lascerà una testimonianza. Da non dimenticare anche l’esibizione del 20 ottobre nella casa circondariale di Ascoli Piceno. Prossimamente si svolgeranno altri concerti dei Santa Cecilia all’interno di altre case di reclusione quali Camerino, Fossombrone e Napoli. Brasile: oggi la parola definiva di Lula sull’estradizione di Battisti, in Italia è polemica Agi, 30 dicembre 2010 Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, non si esprimerà pubblicamente sul caso Battisti se non successivamente al previsto annuncio della decisione del Presidente Lula, circa la quale è peraltro prevista una presa di posizione ufficiale della Presidenza del Consiglio. Lo rende noto un comunicato della Farnesina. Frattini ha anche precisato che “il governo italiano si riserva, sulla base della decisione del presidente brasiliano Lula, di considerare tutte le misure necessarie per ottenere il rispetto del trattato bilaterale di estradizione, in conformità con il diritto brasiliano”. La Farnesina ricorda anche che negli ultimi due anni il ministro ha direttamente e personalmente sollevato ad ogni possibile occasione di incontro con le autorità brasiliane il caso Battisti rappresentando la forte aspettativa del governo italiano affinché quest’ultimo possa essere estradato in Italia, in ottemperanza anche alla sentenza del Tribunale Supremo brasiliano del novembre 2009, che ha negato l’esistenza dei presupposti per la concessione dello status di rifugiato a Cesare Battisti. Numerosi e costanti passi sono stati svolti, su istruzioni di Frattini - prosegue la nota - in raccordo con la Presidenza del Consiglio e la Presidenza della Repubblica - presso le più alte cariche istituzionali brasiliane anche dall’ambasciatore italiano a Brasilia. Pd: governo italiano arriva all’ultima ora “Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo. Il governo italiano arriva all’ultima ora utile per fare dichiarazioni sul proprio impegno per ottenere l’estradizione dal Brasile del terrorista Cesare Battisti, mentre si susseguono agenzie, francamente deliranti, che ricordano il passato di guerrigliera della neo Presidente Dilma Rousseff - omettendo di sottolineare che si era in un regime di dittatura militare e che Dilma Rousseff combatteva per la libertà del suo Paese - o minacciano non meglio precisate ritorsioni contro un Paese amico, che sarà ospite d’onore in occasione della Conferenza Italia - America latina che si terrà proprio nel 2011. Ma la coerenza è virtù rara. Viene spontaneo chiedersi quali e quanti atti “ufficiali” il governo italiano abbia ritenuto di dover fare in questi due anni per arrivare a una conclusione positiva e favorevole della vicenda. Viene altresì spontaneo domandarsi se l’Ambasciatore del Brasile in Italia sia stato convocato solo e soltanto in data 21 dicembre 2010, forse fuori tempo massimo, o se i colloqui siano stati frequenti e intensi come la vicenda avrebbe meritato. Per evitare illazioni e cattivi pensieri, sarebbe pertanto utile che i ministri competenti illustrassero nelle sedi parlamentari a ciò deputate i fatti e gli atti ufficialmente esperiti presso il governo Brasiliano per sollecitare una conclusione positiva all’estradizione del terrorista Battisti. Lo chiede l’opposizione e lo chiedono anche i familiari delle vittime della violenza di quegli anni terribili che il nostro paese ha ormai superato, ma le cui ferite sono ancora aperte”. Lo afferma Francesca D’Ulisse, responsabile area America latina del Pd. Calderoli: no suppliche, estradizione un dovere “Col presidente Lula, nessuna preghiera, nessuna supplica o nessuna esortazione, come invece invoca il Pd, va avanzata verso il presidente uscente brasiliano perché conceda l’estradizione di Cesare Battisti, semplicemente perché è un suo dovere concedere questa estradizione ed è un suo dovere fare sì che un terrorista, o meglio un assassino pluriomocida, debba pagare fino in fondo per le sue colpe di delinquente”. Lo afferma il Ministro per la Semplificazione Normativa e Coordinatore delle Segreterie Nazionali della Lega Nord, senatore Roberto Calderoli. “Se Lula non dovesse farlo - aggiunge Calderoli - allora diventerà complice di un terrorista, o meglio di assassino, e come tale dovrà essere trattato e conseguentemente a pagare, sotto tutti gli aspetti, non dovrà essere soltanto Battisti ma anche lo stesso Lula, in quanto si renderebbe complice di un pluri omicida e impedirebbe alla giustizia ordinaria di fare il suo corso”. Russia: l’ex magnate Khodorkovsky in carcere sino al 2017 Ansa, 30 dicembre 2010 Probabilmente resterà in carcere sino al 2017 Mikhail Khorkovsky, condannato oggi assieme al suo ex socio Platon Lebedev a 14 anni di carcere per furto di petrolio e riciclaggio. I primi a fare i calcoli degli anni ancora da scontare sono stati i rappresentanti di Khodorkovsky, che annunciano ricorso in appello, contestando una sentenza “frutto di pressioni da parte degli organi del potere”. Ma il giudice Viktor Danilkin - che ha assegnato una pena di 13 anni e sei mesi di prigione, finalizzata poi in “14 anni complessivi”, non ha citato mai l’anno previsto per la fine del termine di carcere. Secondo Gazeta.ru, che afferma di avere “ottenuto precisazioni”, la pena comminata dovrebbe partire dal 2003, l’anno in cui l’ex oligarca è stato incarcerato per evasione fiscale e frode. Quindi, libertà nel 2017. La parabola dell’oligarca che osò sfidare Putin Mikhail Khodorkovski, 47 anni, ex patron del colosso petrolifero Yukos, un tempo tra gli oligarchi più brillanti e ricchi, è oggi il carcerato più celebre di Russia, per aver osato sfidare Vladimir Putin. Oggi è stato condannato a 13 anni e mezzo di carcere per furto e illecita rivendita di enormi quantità di petrolio, una condanna che lo terrà in carcere per 14 anni, fino al 2017, dopo gli otto anni che gli sono stati inflitti per evasione fiscale. Il premier Putin lo accusa di avere le mani sporche di sangue, paragonandolo a un mafioso del calibro di Al Capone e un truffatore quale l’ex finanziere americano Bernard Madoff. Per i difensori dei diritti umani e molti osservatori stranieri, Khodorkovsky è la vittima di un regolamento di conti organizzato da Putin, il simbolo della deriva autoritaria del paese, colpevole soprattutto di aver mostrato apertamente la propria indipendenza e le proprie ambizioni politiche. La carriera di quest’uomo dai sottili occhiali di metallo e dai capelli cortissimi riassume la vicenda degli oligarchi russi degli anni Novanta, i nuovi capitalisti emersi sotto la presidenza di Boris Eltsin che si sono accaparrati interi settori economici attraverso privatizzazioni opache, grazie ai buoni rapporti con il potere. Nato in una modesta famiglia di ingegneri moscoviti, Khodorkovsky studia chimica ed economia prima di lanciarsi negli affari. In epoca sovietica fa parte dei Komsomol, la gioventù comunista, e allaccia relazioni all’interno del partito. Prima ancora della caduta dell’Urss, a 26 anni, fonda la banca Menatep, che gli consente di acquisire la maggioranza del gruppo petrolifero Yukos, di cui acquisirà il controllo in circostanze poco chiare. Nel 1993 occupa brevemente, all’età di 30 anni, la poltrona di ministro dell’Energia. All’inizio del nuovo millennio l’oligarca dai metodi controversi cambia strategia e diventa il primo russo a optare per una gestione trasparente, all’occidentale. Assume consulenti stranieri e diventa il preferito degli investitori esteri. Khodorkovsky pensa addirittura al matrimonio tra Yukos e la major americana ExxonMobil. Offre sostegno finanziario all’opposizione liberale e dona milioni di dollari a programmi per la società civile. Spinto dal boom del mercato petrolifero, Yukos diventa il numero uno russo del settore e Khodorkovsky l’uomo più ricco del paese, con una fortuna stimata da Forbes in 15 miliardi di dollari. All’inizio del 2003 un incontro al Cremlino tra Putin, allora presidente, e una ventina di oligarchi, segna l’inizio della fine. Khodorkovsky, il solo a presentarsi con un pullover a collo alto, cosa che irrita in modo particolare Putin, afferma che è arrivato il momento di agire contro la corruzione ai vertici dello Stato e cita nomi vicini al presidente. Che replica: “signor Khodorkovsky, lei è sicuro di essere in regola con il fisco?”. “Assolutamente!” risponde l’interessato. “Vedremo”, commenta Putin in un silenzio glaciale. Il 25 ottobre del 2003 Khodorkovsky viene arrestato nel suo aereo privato all’aeroporto di Novosibirsk, in Siberia, accusato di frode su vasta a scala ed evasione fiscale e incarcerato. Due anni più tardi l’ex oligarca, sposato e padre di quattro figli, viene condannato a otto anni in campo di prigionia. Sconta la sua pena al confine con la Cina, a oltre 6.000 chilometri di Mosca. Nel 2007, Khodorkovsky è oggetto di nuove accuse di riciclaggio e furto di beni che gli costano un secondo processo. Oggi il tribunale distrettuale di Khamovnichesky, a Mosca, lo ha dichiarato colpevole infliggendogli una condanna a 13 anni e mezzo di carcere, che porta il conto complessivo della pena da scontare a 14 anni: l’ex oligarca uscirà nel 2017, a 55 anni. “Non voglio morire in prigione, ma le mie convinzioni valgono la pena di rischiare la vita”, ha detto l’ex oligarca nella sua ultima dichiarazione davanti al tribunale. Svizzera: detenuto morì in incendio cella, archiviato procedimento per omicidio colposo Agi, 30 dicembre 2010 L’inchiesta inerente al decesso di un detenuto al penitenziario di Bochuz (Ch) in marzo è sfociata in un non luogo a procedere. Vi sono stati degli errori, ma nulla di rilevanza penale può essere rimproverato al personale medico, ai guardiani e alla direttrice di picchetto quella notte. Skander Vogt, uno svizzero di 30 anni con una personalità “profondamente turbata” detenuto nel reparto di alta sicurezza, era morto per asfissia l’11 marzo dopo aver dato fuoco al suo materasso. I guardiani spensero le fiamme ma lo evacuarono dalla sua cella solo 90 minuti più tardi. Nella sua ordinanza di archiviazione del procedimento il giudice istruttore Daniel Stoll descrive in maniera approfondita il comportamento dei guardiani e del personale medico. “In nessun momento” vi è stata l’intenzione di lasciar morire il detenuto, scrive Stoll. Anche se è stata commessa una serie di errori, l’omicidio colposo è fuori questione. In seguito a questi errori, cinque dei sei coinvolti dovranno assumersi una quota simbolica delle spese del procedimento, ossia complessivamente 3.500 franchi. Esentato dal pagamento è soltanto un medico, in quanto giunto nella prigione appena cinque minuti prima del decesso del detenuto. L’avvocato della sorella di Vogt, Nicolas Mattenberger, ha già annunciato che ricorrerà contro la decisione di non luogo a procedere.