Giustizia: noi Garanti dei diritti dei detenuti. svuotati di poteri Intervista di Tilde Napoleone a Giorgio Bertazzini www.linkontro.info, 13 dicembre 2010 Si è tenuto lo scorso venerdì a Roma presso la sala ex Hotel Bologna del Senato della Repubblica il convegno organizzato dall’associazione Antigone dal titolo “L’Italia e gli Human Rights Defenders: una brutta storia”. Molte le inadempienze italiane con riguardo all’apparato internazionale di protezione dei diritti umani. Per quanto concerne in particolare le persone private della libertà personale, una delle mancanze più evidenti è quella di un meccanismo indipendente di controllo dei luoghi di detenzione, imposto dalle Nazioni Unite in un protocollo aggiuntivo alla Convenzione contro la tortura, protocollo che l’Italia si è affrettata a firmare senza peraltro mai portare a ratifica. Alcune amministrazioni regionali e locali, come è noto, hanno nel tempo supplito all’assenza di un garante dei diritti dei detenuti con proprie nomine, benemerite nelle intenzioni ma evidentemente limitate nei poteri. La brutta storia italiana rispetto agli Human Rights Defenders ha tuttavia investito - come durante il convegno è stato sottolineato - anche le modalità di nomina di queste figure, che ha più volte risposto a logiche partitiche e spartitorie. Di tutto questo abbiamo parlato con Giorgio Bertazzini, che ha vissuto in prima persona l’esperienza di garante dei detenuti. Giorgio Bertazzini, dal 2006 garante delle persone private della libertà personale nella Provincia di Milano, il 5 novembre 2010 ha presentato le sue dimissioni dall’incarico. Giorgio Bertazzini, quali sono i problemi emersi dalla tua esperienza in relazione alla mancanza di una legge istitutiva di un garante nazionale che gli conferisca pieni poteri? Una legge nazionale servirebbe ad unificare le prassi che in questo momento sono molto differenti tra di loro. Per esempio ci sono realtà locali in cui c’è stato l’accorpamento tra il garante dei detenuti e il difensore civico, ma il difensore civico è una figura completamente diversa. Anche sulle nomine dei garanti ci sono troppe differenze tra i territori. Per noi garanti sarebbe ottimale l’elezione da parte del consiglio. Invece nella maggioranza dei casi c’è la nomina da parte dei sindaci o del presidente della provincia. Inoltre, una legge nazionale potrebbe rendere il garante una figura che tutela chi è ristretto in altri luoghi “di privazione della libertà”. Adesso, infatti riusciamo, e con fatica, ad entrare solo negli istituti di pena, ma ancora non abbiamo alcun potere ispettivo nei Cie, né nelle camere di sicurezza di polizia e carabinieri. È dal 1997 che, a partire da un convegno di Antigone, si puntava sul garante nazionale; poi, dato che i tempi non erano maturi per una legge a carattere nazionale, si decise di sperimentare figure locali che poi però, con il tempo, sarebbero dovute andare a convergere in un garante nazionale. Ora la situazione è un po’ perversa; ci sono sovrapposizioni, garanti regionali, provinciali, comunali, anche qui con delle differenze inaccettabili e con il rischio che alcuni garanti siano dei carrozzoni. Per esempio il garante della regione Sicilia ha un budget di 500.000 euro e uffici funzionanti e ben dotati; altre situazioni sono invece insufficienti e rischiano di vanificare il compito del garante. Una legge nazionale coprirebbe tutto il territorio: adesso ci sono zone dove i detenuti non hanno a disposizione uffici di questo tipo e questo è un’ingiustizia inaccettabile. Nonostante tutte le difficoltà e le ambiguità, credi ancora nell’importanza di figure regionali e locali per la tutela dei diritti delle persone private della libertà? Io ci credo, ma a determinate condizioni. Per esempio, non si deve assolutamente perdere di vista l’istituzione del garante nazionale. Inoltre gli enti che lo istituiscono devono crederci effettivamente, devono eleggerlo e dotarlo di un ufficio che gli garantisca di lavorare con dignità. Il garante deve riuscire ad essere efficace, deve pungolare l’amministrazione, promuovere attività e buone prassi e prevenire i conflitti. Il garante adesso ha il dovere di entrare in carcere e deve poter svolgere un potere ispettivo reale. Ma se non gli viene consentito di fare tutto questo, diventa una figura solo formale. Il carcere in questo momento in Italia è fuori legge. Una sentenza della corte europea ha condannato l’Italia perché ha tenuto in carcere a Rebibbia un uomo in uno spazio con meno di tre metri a disposizione, mentre lo standard della Corte Europea è tre metri. Quindi c’è molto da fare, ma bisogna avere i mezzi per farlo. In base alla tua esperienza, in quali settori l’azione del garante è più necessaria? Le insufficienze maggiori riguardano la sanità, poi ci sono i problemi legati all’istruzione, alle mercedi e soprattutto le condizioni di detenzione in generale. In alcuni casi le condizioni igieniche sono davvero drammatiche. In questi casi si vanno a visitare i reparti, le condizioni delle docce e delle sezioni ma si può fare poco di concreto. Puoi denunciare, scrivere un articolo per sollecitare l’attenzione e questo può spronare l’ amministrazione a ridurre il danno. Oppure si possono sollecitare i volontari a fornire beni di prima necessità lì dove accade che viene a mancare del tutto la dignità dell’uomo, come quando scarseggia la carta igienica o addirittura il cibo. A volte il compito del garante è più facile perché lì dove c’è una Direzione che ascolta, può bastare una telefonata o un fax per risolvere il problema, ma altre volte ci si scontra con problemi più grandi che richiedono tempo ed energia e soprattutto la collaborazione con altre figure. Ripeto, i problemi da affrontare sono tanti, ma nelle condizioni in cui eravamo era impossibile agire efficacemente. Come è iniziata la tua esperienza di Garante? L’esperienza di garante dei diritti delle persone private della libertà è iniziata per me nella Provincia di Milano nel settembre 2006, a seguito dell’istituzione di questa figura da parte dell’ente Provincia di Milano. L’ente si è dotato di un regolamento che prevedeva, e prevede tutt’oggi, l’elezione del garante da parte del consiglio provinciale e non la nomina da parte del Presidente della provincia. Questo è un vantaggio: essendo il Consiglio ad eleggere si presume sia garantita una maggior terzietà, autorevolezza e indipendenza da parte della figura eletta. Cosa ha portato alle tue dimissioni? Nel 2009, io sono “scaduto” perché il regolamento prevede che il garante rimanga in carica fino al termine della consiliatura. Nel 2009, ci sono state appunto le elezioni e quindi si sarebbe dovuto eleggere un nuovo garante. Il regolamento, però, prevede anche la possibilità di una proroga, ma solo fino alla nomina del nuovo garante. Io, invece, sono andato avanti di prorogatio in prorogatio per tutto il 2009. Poi c’è stata una nuova proroga sino a giugno 2010 che ha provocato numerose polemiche da parte delle Associazioni del terzo settore, della Camera penale di Milano, dell’Associazione carcere e territorio. Tutto il mondo che ruota attorno al carcere si è mobilitato e ha chiesto alla Provincia di emanare un bando perché la proroga non poteva durare sine die. Ma questo non è avvenuto. Io ero molto combattuto se accettare o meno l’ultima proroga, poi ho deciso di accettare nella speranza che a giugno succedesse qualcosa di nuovo. Inoltre c’era il periodo estivo, il più difficile per le carceri. Nella delibera di giugno era scritto, però, che la provincia avrebbe dovuto “riconsiderare” la figura del garante entro il 31 ottobre. Coincidenza, ma lo dico con ironia, il 31 ottobre scadeva anche la figura del difensore civico. E questo fa capire in che direzione sta andando la Provincia. Entro ottobre, comunque, la Provincia non ha deliberato niente; il consiglio provinciale non si è neanche riunito. A quel punto mi sono dimesso proprio perché non c’erano più le condizioni per proseguire. In tutto il mondo, se esiste una figura istituzionale, esiste anche un ufficio con delle condizioni di operatività. Qui, nel corso del tempo, questo è venuto meno. I tagli che hanno subito gli enti locali hanno colpito, tra gli altri, anche l’ufficio del Garante. Ritengo che la Provincia abbia qui fatto una scelta ben precisa e quindi se fino a novembre 2009 l’ufficio, oltre a me, aveva un direttore, Patrizia Ciardiello, e una segretaria factotum, a giugno 2010 il Garante è rimasto solo. Questo è inammissibile se si vuole svolgere il lavoro con un minimo di rigore e di dignità. Invece non c’erano più le condizioni per incidere realmente. Faccio poi presente che tutto questo accade proprio ora che i garanti sono stati inseriti nell’Ordinamento penitenziario in due articoli. A febbraio 2009, l’articolo 18 dell’O.P è stato modificato nella parte in cui dice che “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, nonché con il garante dei diritti dei detenuti, anche al fine di compiere atti giuridici”. L’articolo 67, invece, ha incluso i garanti tra coloro che possono visitare gli istituti senza autorizzazione. Cosa credi succederà adesso? Formalmente questa amministrazione non ha mai negato l’importanza della figura del garante. Si è parlato più volte dell’ottimo lavoro da lui svolto, però poi nei fatti non ci sono stati comportamenti conseguenti ad una dichiarazione solenne, formalizzata. Dopo le mie dimissioni non ho avuto risposte; c’è stata una delibera in cui si prende atto delle mie dimissioni, si ringrazia per tutte le azioni effettuate e si decide che entro novembre il consiglio avrebbe deciso. Ma ancora una volta non è successo niente. La situazione adesso è in stand by, non posso dire che sia in evoluzione. Io sono costretto a sospendere il giudizio, vedremo quello che succede. Spiace, comunque, che la Provincia di Milano, che è stata la prima provincia in Italia a istituire il garante, (quelli comunali sono molti di più), stia per abbandonarlo, mentre in altri luoghi sta nascendo. Credo, anzi sono certo che il garante sarà assorbito nel difensore civico. Qualche giorno dopo le mie dimissioni, il consiglio provinciale ha presentato una mozione che va in questa direzione. Questo è stato l’ultimo atto sull’argomento. Non c’è ancora una delibera ufficiale, né un bando però il solco è quello. Giustizia: entro Natale 300 internati negli Opg torneranno in libertà 9Colonne, 13 dicembre 2010 “Il Presidente Berlusconi e il Ministro Alfano hanno accolto le mie pressanti richieste, ribadite nel dibattito sulla fiducia, di un Natale di libertà ad oltre 300 persone detenute negli ospedali psichiatrici giudiziari, giudicate sicure a fine pena, da riabilitare nel territorio, e di 5 milioni di euro per attuare l’accordo Stato-Regioni per il trasferimento alla sanità regionale degli ammalati psichiatrici con pena da scontare. Due richieste per una speranza, prima approvate unanimemente dal Parlamento, ora accolte per un cambiamento epocale nella cultura di civiltà che mira all’applicazione della pena ad ammalati che conservano dignità e diritti costituzionali. “Lo afferma il senatore Michele Saccomanno, capogruppo Pdl in Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale. “Sono grato per la sensibilità del Presidente del Consiglio - conclude - per avere incluso nel suo programma di legislatura un impegno a favore di pochi che vivono nell’estremo disagio e abbandono. Una scelta sociale che qualifica il governo del fare”. Giustizia: a Natale regali “made in carcere”, tra iniziative solidali e sovraffollamento Adnkronos, 13 dicembre 2010 Cartoline natalizie dai detenuti di Enna. Panettoni classici e alla birra, ma soprattutto solidali, dalle mani dei detenuti-pasticceri di Padova, che sfornano ormai da anni i famosi dolci di Giotto. Il Natale arriva anche negli oltre 200 penitenziari italiani, tra proteste e malcontento per i problemi sempre crescenti del sovraffollamento, e partecipazione alla vita della comunità locale attraverso il lavoro dietro le sbarre. Tante iniziative, di beneficenza o semplicemente per permettere ai reclusi di passare qualche ora con le proprie famiglie, ma soprattutto, idee regalo “made in carcere”. Iniziative che conquistano sempre di più i cittadini, tanto che anche il ministro della Giustizia Angelino Alfano, ha annunciato di voler acquistare tutti i suoi regali di Natale dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che organizza il lavoro dei detenuti. Prodotti giudicati “eccellenti” dal Guardasigilli, che recentemente ha elogiato le “realizzazioni di artigianato in pelle, articoli di abbigliamento, tra i quali anche dei cappelli che vengono venduti nei negozi Borsalino, ma anche dolci squisiti, come quelli cucinati dalla pasticceria Giotto di Padova, o creme di bellezza fatte dalle detenute di Venezià. Così, tra la mancanza degli affetti più cari e il disagio crescente dovuto al sovraffollamento, i detenuti partecipano al Natale. A Enna, i detenuti dei corsi professionali organizzati dall’Associazione nazionale famiglie emigrati (Anfe) regionale, in vista delle prossime festività natalizie hanno realizzato una cartolina che verrà distribuita a tutti i detenuti per mandare un messaggio ai familiari. Ma l’idea è quella di distribuirla anche in città a chi ne facesse richiesta, come biglietto di auguri per enti, associazioni e privati cittadini. La cartolina, che ritrae un gruppo di detenuti insieme al cappellano del carcere, don Giacomo Zangara, è stata realizzata, sotto la guida del filmografo Paolo Andolina, con la tecnica del photoshop su un disegno donato dal fumettista Corrado Cristaldi. I detenuti hanno progettato il lavoro curandone tutti gli aspetti, dall’allestimento scenografico alla realizzazione della foto, dalla stesura dei testi alla stampa. Le detenute veneziane che lavorano nel laboratorio di cosmetica naturale del carcere della Giudecca invece, propongono un’idea regalo destinata soprattutto alla platea femminile. A Natale dal carcere della Giudecca usciranno le classiche creme di bellezza delle linee “Santa Maria degli Angeli” e “Rio Terà dei pensieri”, che hanno già spopolato, ma soprattutto una nuova crema antirughe, e aromi da usare nell’idromassaggio. Alcune piante aromatiche, come la menta, vengono coltivate negli stessi orti del carcere, mentre altre essenze vengono ordinate dai Paesi d’origine: è il caso del coriandolo per i profumi d’ambiente che viene dalla Russia, della mirra, dall’Iran, e dell’incenso, dall’India. Tra i prodotti realizzati ci sono anche candele profumate, e un recentissimo profumo d’ambiente, “Aria di B”. A Padova invece, non è Natale se non si sfornano i famosi panettoni del Due Palazzi. Il catalogo dei dolci dei detenuti-pasticceri è uscito in largo anticipo: qui compare un lungo elenco di prodotti ormai noti, ma anche di alcune novità. Prima tra tutte, il panettone alla birra, o nella variante cioccolato e fichi. Se poi si aggiunge che l’acquisto di questi dolci è abbinato a progetti di solidarietà, gli ingredienti per rendere speciale il Natale ci sono tutti. Non mancherà neppure la Noce del Santo, il dolce con cui la pasticceria del carcere ha ottenuto a giugno di quest’anno il premio Dino Villani dall’Accademia italiana della cucina. I prodotti italiani “made in carcere” saranno esposti anche all’ombra della Tour Eiffel. Grazie all’iniziativa proposta da Ethicando - Gusto e Stile 100% Made in Social, prima piattaforma commerciale di design, fashion e prodotti enogastronomici di alti standard di qualità realizzati interamente da cooperative sociali italiane, che esporrà nel ristorante parigino la Madonnina e nelle stanze della boutique La Ruche, tra gli altri, i prodotti enogastronomici di Libera Terra (associazione contro la mafia), i corpetti dell’Antica Sartoria ROM (cooperativa di donne Rom), e le T-Shirt di Made In Jail, cooperativa di detenuti del carcere di Rebibbia. Si va dai prodotti dei detenuti, alle iniziative, molto spesso legate a progetti benefici, come quella del carcere milanese di Opera, dove andrà in scena un musical il cui ricavato andrà a sostenere l’attività della Fondazione Rava ad Haiti. Lo spettacolo, dal titolo “La luna sulla capitale” è diretto da Isa Beau, e vedrà la partecipazione come attori dei detenuti del carcere. Il ricavato verrà destinato alla costruzione di una casa di accoglienza per bambini rimasti orfani dopo il terremoto dell’anno scorso. I cancelli di Opera saranno aperti alle 19 del 15 dicembre e il costo del biglietto sarà di 20 euro. Risate, divertimento e note invece, nelle carceri napoletane per queste festività. È la ricetta proposta dalla Music Live di Clemente Menzione: l’associazione di Torre del Greco (Napoli) ha deciso di proporre una serie di spettacoli all’interno degli istituti penitenziari in vista del Natale e di fine anno. Obiettivo, quello di concedere qualche ora di spensieratezza ai reclusi. E ancora, un’iniziativa dal sapore ecologico. “Differenziamo il Natale, trasformiamo il mondo”. Si chiama così il concorso organizzato dal Comune di Liveri (Napoli) rivolto agli alunni delle scuole elementari e medie del comprensorio nolano. Il concorso prevede la messa in opera di un presepe artistico realizzato con oggetti e materiali riciclati. ‘Un modo per sensibilizzare le nuove generazioni al rispetto per l’ambiente e alla corretta differenziazione dei rifiuti”, spiega il sindaco Raffaele Coppola. La finalità dell’iniziativa è, dunque, quella di legare il tema del Natale “a quello della salvaguardia del creato”. Vivere il Natale - aggiunge il sindaco - significa anche ricordarsi di rispettare il proprio territorio. Non avrebbe senso pensare di buttarsi nei festeggiamenti dimenticando l’emergenza che stiamo vivendo. Ecco perché abbiamo pensato ai presepi con materiale riciclato. Il concorso rientra nell’ambito delle attività proposte dalla “Consulta delle Città amiche dei bambini e delle bambine dell’area nolana”, costituitasi a Liveri su impulso dell’Unicef. Da Nord a Sud, insomma, non mancano le iniziative per trascorrere il Natale dietro le sbarre, anche se la lontananza da casa e le precarie condizioni di vivibilità sono due ingredienti che nel corso delle feste può amplificare il forte disagio vissuto da molti detenuti. Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, non nasconde la sua preoccupazione sullo stato dei penitenziari: “176 carceri su 206 - fa notare il segretario generale Donato Capece - hanno superato la capienza regolamentare e ben 116 anche quella tollerabile. E la polizia penitenziaria subisce i comportamenti isterici della politica”. Troppi detenuti, secondo Capece, sono costretti a vivere in spazi ridottissimi, “dove crescono le tensioni anche in relazione all’approssimarsi delle Feste natalizie. Tensioni continue nelle carceri. Vi sono, insomma, tutte le condizioni per sostenere che nelle carceri italiane a pochi giorni dal Natale non vi sarà proprio nulla da festeggiare”. Il segretario del Sappe ricorda che il totale delle persone detenute è di 69.225, oltre 22.500 in più, tra uomini e donne di quelle previste dai posti disponibili. “Tutto ciò - continua Capece - viene ormai comunemente riassunto con la parola sovraffollamento ed è un termine talmente inflazionato che questi numeri non fanno più notizia”. Nonostante quello che appare dal di fuori, tra prodotti e iniziative che mostrano l’aria della festa, quello che si vive dietro le sbarre può essere molto diverso. Provocatorio l’invito dell’Organizzazione sindacale di polizia penitenziaria Osapp al mondo politico: “I parlamentari - dice il segretario Leo Beneduci - trascorrano il giorno di Natale con i detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria, così come fecero il giorno di Ferragosto visitando le sovraffollate carceri italiane”. Il periodo delle feste natalizie oramai alle porte, aggiunge Beneduci, “è un momento delicato per 40 mila uomini e donne del Corpo di polizia penitenziaria, in servizio per lo più fuori sede, che si vedranno costretti a stare lontano dalle rispettive famiglie con l’obbligo di festeggiare in caserma, o peggio ancora, a stare nelle sezione assieme ai detenuti che nel frattempo sono arrivati a quota 69mila. La visita dei parlamentari significherebbe una ricognizione approfondita della difficilissima situazione in quello che si sta rivelando l’anno più duro. Almeno, per qualche volta - conclude Beneduci - si lasceranno a casa i festini, a beneficio dei cittadini che credono ancora nel nostro Paese”. Giustizia: poliziotti, polizia penitenziaria e pompieri protestano davanti alla Camera Apcom, 13 dicembre 2010 A Roma tornano in piazza i sindacati del comparto sicurezza per chiedere al governo maggiori investimenti nel settore e informare i cittadini sulla situazione in cui lavorano poliziotti, polizia penitenziaria, vigili del fuoco e forestale. Dopo il presidio ad Arcore di venerdì scorso e il volantinaggio in diverse città italiane, questa mattina i sindacati del cosiddetto “cartello” della sicurezza (22 sigle) si sono riuniti in piazza Montecitorio, davanti la Camera dei Deputati, dove svolgeranno una manifestazione fino al pomeriggio. “Scendiamo oggi in piazza contro il Governo Berlusconi per le stesse ragioni per cui nel passato contestammo pubblicamente il Governo Prodi: e cioè che sulla sicurezza si fanno solo annunci e promesse ma poi concretamente si tagliano fondi e risorse”, dice in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). Capece (Sappe): Oggi a Roma manifestano i poliziotti italiani Governo e Parlamento non ignorino la manifestazione, che denuncia la profonda delusione delle donne e degli uomini delle Forze di Polizia sulle politiche della sicurezza del Paese”. Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione della Categoria, a margine della manifestazione odierna dei Sindacati di Polizia che si sta tenendo Roma in piazza Montecitorio commenta: “Nessuno può strumentalizzare la nostra legittima protesta. Scendiamo oggi in piazza davanti a palazzo Montecitorio dopo il vergognoso voltafaccia del Governo e della maggioranza che hanno ritirato alla Camera un emendamento al decreto sicurezza sulla specificità delle Forze di Polizia e dei Vigili del Fuoco, mettendo così a rischio l’operatività e l’efficienza dei servizi di ordine e sicurezza pubblica dal primo gennaio 2011. Scendiamo oggi in piazza contro il Governo Berlusconi per le stesse ragioni per cui nel passato contestammo pubblicamente il Governo Prodi: e cioè che sulla sicurezza si fanno solo annunci e promesse ma poi concretamente si tagliano fondi e risorse. Quando contestavamo il centro-sinistra c’erano al nostro fianco illustri esponenti di centro-destra. Questi ultimi, una volta arrivati al governo dimenticano le proteste fatte e tagliano pure loro i fondi alle Forze di Polizia. E con noi manifestano i politici di centro-sinistra. È semplicemente paradossale: quando sono all’opposizione, tutti si dicono sconcertati dai tagli alla sicurezza. Quando però sono al governo del Paese, ai tagli ne aggiungo altri! E questo è inaccettabile, qualunque sia il colore politico di chi governa. Quella di oggi è una giornata di mobilitazione nazionale degli appartenenti alle Forze di Polizia semplicemente straordinaria. Portare in piazza le donne e gli uomini impegnati tutti i giorni in prima linea sul fronte della sicurezza dimostra quanto sono delusi i poliziotti italiani da questo Governo Berlusconi e dalle politiche sulla sicurezza del Paese. Le carceri ospitano oggi 70mila detenuti a fronte di 42mila posti letto e questo pesante sovraffollamento condiziona gravemente le già difficili condizioni di lavoro delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, che hanno carenze di organico quantificate in più di 6mila unità. Sarebbe allora grave e irresponsabile se l’intero esecutivo guidato da Silvio Berlusconi e la maggioranza politica che lo sostiene non tenesse nel debito conto questa manifestazione di protesta.” Sarno (Uil-Pa): protestiamo per presa in giro del governo “Oggi, per l’intera giornata, le nostre bandiere torneranno in Piazza Montecitorio ad accompagnare la nostra protesta contro un Governo che non ha mantenuto fede ai patti ed agli impegni assunti con i rappresentanti delle forze di polizia. Il premier ed il Governo hanno tradito, quindi, la fiducia e le aspettative degli operatori della sicurezza. Di fronte a tale vergognosa presa in giro auspichiamo che gli onorevoli - poliziotti eletti nelle fila del Pdl possano avere un sussulto di orgoglio e dignità, negando la fiducia ad un Governo che ha certificatamente disatteso promesse, impegni e patti”. Lo dichiara Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa penitenziari. “A Settembre - ricorda - abbiamo chiuso l’accordo economico del biennio 2008-2009 per il Comparto Sicurezza e Difesa solo per senso di responsabilità ed anche perché abbiamo voluto dare credito al Governo, che si era formalmente impegnato a salvaguardare la specificità del Comparto attraverso l’esclusione dal blocco triennale le indennità stipendiali per poliziotti e militari. Invece, inopinatamente, in sede di conversione del pacchetto sicurezza, è stato ritirato un emendamento della maggioranza che rendeva concreti gli impegni assunti dallo stesso Governo”. Per i prossimi tre - continua Sarno - se non si modificano le attuali norme, gli appartenenti al Comparto Sicurezza e Difesa saranno i lavoratori che pagheranno il più alto prezzo della politica economica del Governo Berlusconi. Ci saranno poliziotti e militari che nel prossimo triennio potrebbero pagare, per l’articolazione degli stipendi e per gli avanzamenti di carriera, un tributo sino a tremila cinquecento euro annui. Altro che attenzione e specificità. Questo governo non solo vampirizza i nostri stipendi quanto rende concreto il rischio che nel prossimo triennio anni si debbano prestare servizi straordinari e missioni gratuitamente, in ragione dei tetti contributivi previsti da Tremonti”. “Oggi - conclude Sarno - portiamo in piazza la delusione, la rabbia e la frustrazione di uomini e donne che sacrificano la propria vita per assicurare giustizia, sicurezza e legalità e che debbono subire l’oltraggiosa indifferenza di un Governo sempre pronto ad appropriarsi indebitamente di successi, che non gli appartengono, nel mentre nega alle forze di polizia i mezzi, le risorse e gli uomini necessari per garantire la lotta al crimine organizzato e all’evasione fiscale nonché una rigorosa, puntuale e civile custodia dei criminali detenuti”. Da La Russa giudizi frettolosi e incauti “In relazione ai fischi che i poliziotti manifestanti hanno riservato in piazza Montecitorio al ministro La Russa e al suo commento (sono tutti comunisti) intendo precisare allo stesso ministro che la manifestazione indetta quest’oggi dalle organizzazioni sindacali dalle forze di polizia ad ordinamento civile (polizia di stato, polizia penitenziaria e corpo forestale) è contro il governo che non ha mantenuto i patti e gli impegni solenni e formali che più volte ha assunto”. Lo dichiara Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, che aggiunge: “Pertanto il suo commento non solo è fuori luogo quanto manifesta la sua insofferenza alle critiche. Diciamo a La Russa che in piazza, quest’oggi, sono a manifestare anche quelle organizzazioni sindacali che non hanno mai nascosto la vicinanza al governo e che dalle proprie fila hanno eletto deputati Pdl che oggi, evidentemente, ragionano più da onorevoli che da poliziotti. La Russa farebbe meglio a mantenere ai patti ed agli impegni che industriarsi in improbabili giudizi su operatori che ogni giorno sono impegnati a garantire ordine, sicurezza e legalità a prescindere dalla propria appartenenza politica. Il ministro della Difesa farebbe bene a chiedere scusa ai poliziotti manifestanti per i frettolosi, ingenerosi ed incauti giudizi espressi. Di fatto dopo i poliziotti panzoni di Brunetta ora siamo ai poliziotti comunisti di la Russa. Adesso la nostra protesta trova ancora più valide ragioni nello sprezzo che i politici mostrano avere nei nostri confronti e che trasuda dalle loro dichiarazioni e giudizi”. Giustizia: da Strasburgo ancora cinque condanne per l’Italia sui processi troppo lunghi di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2010 Indennizzi insufficienti e in ritardo. La legge Pinto, adottata per rimediare alla durata eccessiva dei processi e per fornire un indennizzo alle vittime, causa nuove condanne all’Italia. Il 7 dicembre, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha depositato cinque condanne (alcune riunite) che hanno coinvolto tredici ricorrenti, incluse alcune società. Una debacle, con l’obbligo per l’Italia di risarcire 62mila euro in totale, malgrado quanto già accordato dai tribunali interni. Senza dimenticare che la Corte ha concesso anche rimborsi per le spese processuali. I ricorsi provenivano da privati e società i cui processi erano durati troppo. In un caso, solo in primo grado, oltre 11 anni. Di qui l’avvio del procedimento interno che aveva portato a un indennizzo ritenuto insufficiente dalle vittime e rimpinguato dalla Corte. In altri casi, invece, i giudici interni avevano respinto le richieste poi accolte da Strasburgo. Non solo. Gli importi erano stati versati dalle autorità italiane con gravi ritardi, oltre i sei mesi fissati dalla legge. Chiara la posizione della Corte che ha respinto la debole difesa italiana. Il governo, infatti, sosteneva che i ricorrenti non potevano essere considerati vittime di una violazione dell’articolo 6 della Convenzione proprio perché era stata accertata la violazione dai giudici nazionali ed era stato disposto un indennizzo sufficiente. Posizione respinta dalla Corte che ha condannato l’Italia non solo a versare indennizzi integrativi, ma ne ha imposti di nuovi derivanti dalla durata eccessiva dei processi instaurati in base alla legge 89/2001. Una situazione paradossale perché 0 rimedio alla durata eccessiva dei processi è causa di nuove condanne a Strasburgo. Detto questo, la Corte europea non ritiene che l’insufficienza degli indennizzi sia prova della mancanza di efficacia della legge Pinto. Che, però, nei fatti fa aumentare il numero delle condanne. E, certo, non accelera i processi. Lettere: legge “svuota-carceri”; l’Osapp replica all’articolo di Travaglio Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2010 Più che indulto occulto, la legge ed. “svuotacarceri”, caro dott. Travaglio, ci sembra una delle poche soluzioni praticabili nell’attuale e del tutto incerto momento politico. Le critiche costruttive che lei si prende la briga di fare ogni tanto raccontando un Pianeta Giustizia che pare non esistere sulla faccia della Terra, non sono però, come al solito, seguite da proposte fattive. Lei si limita a scoprire o evidenziare ciò che c’è da scoperchiare, esaltando le magagne con toni apocalittici, ma per anni la classe dirigente che ci governa si è nutrita, a discapito degli altri - e quindi anche nostro - anche di atteggiamenti consimili: di chi è abituato solo a criticare, senza per nulla sottolineare le problematiche vere, considerando negative quelle proposte per il solo fatto che provengono dalla parte considerata sbagliata. Le consigliamo di soffermarsi un po’ più a lungo a riflettere su quanto di positivo può essere preso in considerazione in questa legge. Lei parla di effetti, indugiando giustamente sulle cause del degrado sociale che una “scarcerazione in massa” potrebbe produrre. Ma non si è mai parlato di una cifra determinata e già il fatto che le previsioni vadano da un minimo di 2 mila a un massimo di 7 mila persone da scarcerare fino al 2013, con un carcere che già oggi ospita 69.200 detenuti in 44.800 posti-letto, la dice lunga sui reali effetti che produrrà questa normativa, senza considerare che contemporaneamente vi è un inasprimento della pena per il reato di evasione. Come poliziotti penitenziari, a venti anni dalla riforma del Corpo del tutto incompiuta e che ha messo il funzionamento del sistema penitenziario italiano quasi completamente sulle nostre spalle notevolmente immiserite, pur avendo pieno titolo di criticare aspramente ogni governo succedutosi in tale periodo, continuiamo a rilevare il lato positivo delle cose. Guardiamo così al fatto che la recidiva aumenta nei casi in cui c’è un accanimento del trattamento penitenziario, diminuendo laddove il sistema di affidamento dello Stato permette un meccanismo premiale attraverso la scarcerazione del singolo: in parole povere più il detenuto rimane in carcere e più è portato e delinquere di nuovo una volta rimesso in libertà. Questo perché - forse lei non lo sa - il carcere, frutto di venti anni di politica penitenziaria del tutto erronea, produce solo altro carcere. Come forza sindacale, una delle più rappresentative del Paese, siamo sempre stati critici con questo esecutivo e soprattutto con questo ministro della Giustizia, ma non possiamo non considerare che la “svuota-carceri”, come la chiama lei, permetterà, tra le altre cose, l’assunzione di nuovi agenti penitenziari - laddove la mancanza di personale è, forse, la maggiore causa della disfunzione, dell’insicurezza e dell’assenza di prevenzione del sistema carcerario. Riepilogando, caro dott. Travaglio, cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno, anche perché con questi bui all’orizzonte, c’è il sospetto che non farà mai giorno. Leo Beneduci, Segretario generale dell’Osapp Cari amici dell’Osapp, più che il bicchiere mezzo pieno, ci tocca spesso vedere il carcere mezzo vuoto, fra indulti, amnistie, condoni e indultini più o meno mascherati (una trentina in 60 anni di storia repubblicana, uno ogni due anni). Sono felice di apprendere che questa legge farà assumere nuovi agenti penitenziari, anche se per farlo non era affatto necessario scarcerare anzitempo migliaia di detenuti (le stime del ministero dell’Interno e del vertice della Polizia, a maggio, parlavano di 10-11 mila scarcerati). Fu il ministro Maroni a parlare di “indulto mascherato”, salvo poi dimenticarsene. Il resto è questione di punti di vista: quello che voi definite “accanimento del trattamento penitenziario” io lo chiamo “certezza della pena”. E spero che vi rendiate conto dell’aspetto paradossale di una legge che, con una mano, scarcera migliaia di delinquenti, e con l’altra inasprisce le pene per il reato di evasione: di questo passo non ci sarà più bisogno di evadere, visto che le porte del carcere le apre gentilmente lo Stato: basta aspettare. Voi chiedete a me proposte costruttive. Vi accontento subito: abolire le leggi che producono più detenuti del dovuto (ex Cirielli, Bossi-Fini sull’immigrazione, Fini-Giovanardi sulle droghe leggere, reato di clandestinità, pacchetti sicurezza) e costruire quelle nuove carceri che tutti i ministri della Giustizia regolarmente annunciano senza mai metter su un mattone. Se poi vorrete gentilmente indicarmi un solo altro paese del mondo che risolve il sovraffollamento carcerario mandando fuori migliaia di detenuti ogni due anni, vi chiederò umilmente scusa. Marco Travaglio Lettere: sovraffollamento fuori legge di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2010 Da alcune settimane il ddl Alfano sulla detenzione domiciliare è Legge. In sintesi il Magistrato di Sorveglianza dispone l’esecuzione domiciliare degli ultimi 12 mesi di pena, ma di fatto vengono esclusi la stragrande maggioranza dei detenuti. E quindi, a mio parere, è come se si levasse una goccia di acqua salata in un oceano. In 206 istituti di pena ci sono 68 mila detenuti per 44 mila posti letti regolamentari (…) risulta che tutte queste carceri sono fuori legge dal punto di vista socio-sanitario. I semiliberi sono 887, sono 7.800 i detenuti ammessi all’affidamento in prova, mentre sono 4.692 le persone in detenzione domiciliare. (Fonte: Ansa, 22 ottobre 2010) Secondo me, invece di questo ddl Alfano, sarebbe molto meglio che i Magistrati di Sorveglianza non avessero paura dei mass media e applicassero le leggi che ci sono per mandare a lavorare e, perché no, a togliere la spazzatura dalle strade, tutti i detenuti, boss compresi, che possono farlo. Dovrebbe far riflettere che su 68.000 detenuti siano solo 877 i detenuti semiliberi che escono dal carcere al mattino per lavorare e rientrano la sera per pernottare nella cella. Pensando con la forza della ragione dovrebbero essere molto di più, all’incirca 20.000. Secondo me per eliminare il sovraffollamento, l’inumanità degli istituti e l’illegalità costituzionale, basterebbe mandare a lavorare di giorno i detenuti che lo desiderano e se non ci sono i soldi, compensadoli anche con soli sconti di pena. Lasciare delle persone dieci, venti, trenta anni, e a volte per sempre, chiusi in una cella, è demenziale. Può servire solo a vincere le elezioni a qualche partito forcaiolo, ma non a risolvere il sovraffollamento nelle carceri. Il carcere così com’è, fa diventare criminali i detenuti e delinquenti chi li mette dentro e li tiene in una situazione d’illegalità. I detenuti si rieducano con il perdono, l’amore, l’istruzione e il lavoro e non con il regime di tortura del 41 bis, l’ergastolo e il sovraffollamento. Se non fosse così, l’umanità non ha ancora capito nulla. Le carceri inizieranno a svolgere il loro compito costituzionale quando i nostri guardiani e i nostri governanti saranno più umani dei detenuti. E non dimentichiamoci che in carcere ci può entrare chiunque, ma chi è forte, potente e ricco esce subito, mentre i poveracci ci rimangono. Sempre con il ddl Alfano, per fronteggiare l’emergenza in atto, è stata autorizzata l’assunzione di 2.000 agenti di Polizia penitenziaria. Spesso i nostri politici non truffano solo i detenuti, ma riescono a truffare anche la Polizia penitenziaria, perché queste 2.000 unità non superano neppure il numero degli agenti che sono andati in pensione in questi anni. Il carcere è il peggiore nemico di se stesso. Lettere: ciò che è capitato a Mirco non deve più accadere Il Corriere delle Alpi, 13 dicembre 2010 In televisione è stata data la notizia di un uomo morto in ospedale a Padova con ben due tumori, detenuto in carcere e da un anno richiedeva visita. In questi casi il detto “di carcere si muore” è azzeccato. Queste cose non dovrebbero succedere, perché non siamo nel medioevo o in un campo di concentramento. A quanto pare le cose nel nostro paese non cambiano, la vita delle persone una volta in carcere, non interessa più a nessuno. È giusto che chi sbaglia paghi, ma in maniera umana e dignitosa. Non è la stessa cosa successa al nostro Mirco, ma simile. Sono passati quasi tre mesi e ancora di come siano andate le cose si sa niente. Si sono fatte due manifestazioni e una cena, prossimamente un concerto in memoria di Mirco: le cose sono passate un po’ in sordina, ma non ci siamo dimenticati di lui. Andiamo avanti per non dimenticare, perché non accada più e per chi in carcere c’è ancora. Mirco vivrà sempre nei nostri cuori, ci manchi tanto. Per Mirco Sacchet, la tua cuginetta. Brescia: 36enne senegalese muore in caserma dei carabinieri poche ore dopo l’arresto di Daniele Bonetti Brescia Oggi, 13 dicembre 2010 La vittima è Saidou Gadiaga, fermato venerdì notte senza permesso di soggiorno. Aveva 36 anni. L’uomo si è sentito male nella cella di sicurezza ieri mattina Inutile corsa in ambulanza al Civile È stata aperta un’inchiesta. Venerdì notte è salito su un’auto dei carabinieri per essere portato nella cella di sicurezza della caserma di piazza Tebaldo Brusato: pensava di uscirne, da clandestino già espulso, solo per essere processato per direttissima ed essere accompagnato al confine. Invece ieri mattina Saidou Gadiaga, 36 anni, cittadino del Senegal, ha lasciato a sirene spiegate piazza Tebaldo Brusato: ad attenderlo una breve, ultima, disperata corsa verso il Civile. Pochi minuti, le cure che non sono bastate, il decesso poco prima delle 9. Due ore dopo il malore che lo aveva colpito nella struttura dei carabinieri. Dopo l’arresto nella notte tra venerdì e sabato, nell’ambito di una serie di controlli sul territorio, Gadiaga era stato accompagnato in cella di sicurezza. Necessario, dal momento che era privo di documenti, attendere l’esito della segnalazione Afis per stabilirne l’identità e la sua posizione sul territorio italiano. Nel tardo pomeriggio di sabato da Roma il risultato arriva fino a Brescia: il senegalese, 36 anni, è risultato essere irregolare sul territorio italiano e colpito, solo qualche mese fa, da un decreto di espulsioni emesso dalla questura cittadina. In casi del genere, la prassi è sempre la stessa: processo per direttissima prima dell’espulsione “forzata” dal territorio; questa mattina, attorno alle 11, si sarebbe dovuto presentare davanti al giudice per sentirsi raccontare un futuro che probabilmente già conosceva, sia per coscienza personale, sia per sentito dire da tanti connazionali con cui in Italia ha condiviso sogni, esperienze, speranze e delusioni prossima a naufragare dopo il secondo fermo imposto dalle forze dell’ordine per la propria clandestinità. L’altra sera, secondo quanto si apprende dal comando dei carabinieri, il senegalese godeva di ottima salute: ha regolarmente cenato e ha passato la notte nella cella di sicurezza senza accusare alcun problema. Niente che potesse lasciare presagire un epilogo così rapido e così imprevedibile. Ieri, attorno alle 6.30, la tragica svolta: Gadiaga rivela di non sentirsi bene e attira l’attenzione dei militari, che cercano di capire quale possa essere il problema. Bastano pochi minuti per capire che la situazione è grave: l’uomo si accascia al suolo, grida, dice di aver bisogno urgente di un medico. Immediatamente scatta la chiamata al 118, che in pochissimi minuti manda un’ambulanza. I medici arrivano alle 7.50 e ripartono in pochissimi minuti. Al Civile provano, invano, a salvargli la vita. Alle 8.45 viene constatato il decesso del cittadino senegalese. SULLA MORTE dell’immigrato è stata aperta ufficialmente un’inchiesta da parte della Procura della Repubblica: il pm Francesco Piantoni ha disposto l’autopsia sul corpo di Gadiaga per stabilire esattamente cosa possa essere stato a causare il peggioramento e la conseguente morte dell’uomo. La sensazione è che si possa trattare di un decesso dovuto a una patologia pregressa, anche se al momento non si esclude alcuna ipotesi. Per questo servirà far luce su quanto accaduto nelle ore che venerdì hanno preceduto il fermo del senegalese. Forse lì si nasconde la causa della morte. Solamente dopo aver risolto ogni dubbio, le autorità italiane si metteranno in contatto con il consolato senegalese in Italia per mettere in moto la procedura per il rimpatrio della salma nello Stato africano. Nel frattempo, passeranno sicuramente parecchi giorni: necessari a rispondere a ogni domanda su una morte avvenuta in circostanze anomale. Trento: i detenuti saranno trasferiti nel nuovo carcere prima di Natale Il Trentino, 13 dicembre 2010 Si fanno serrati i tempi per il trasferimento del carcere nella struttura di Spini. Il termine ultimo che è stato imposto da Roma è quello di Natale ma probabilmente i 160 detenuti saranno spostati prima. Forse già la prossima settimana. Un’accelerazione che è come un fulmine a ciel sereno per la polizia penitenziaria che non è assolutamente serena davanti a questa novità. I problemi che vengono sottolineati sono molti e ad elencarli è Andrea Mazzarense, responsabile locale del Sinappe. “Il trasferimento viene fatto in un momento in cui non c’è la direttrice Antonella Forgione - spiega - visto che il 18 si sposa ed è quindi in permesso matrimoniale”. A sostituire la donna che per due anni a seguito passo passo la costruzione e l’allestimento di Spini, arriverà molto probabilmente il direttore della struttura carceraria di Padova. Non solo. “Manca anche il comandante della polizia penitenziaria - prosegue Mazzarese - visto che il nostro è in missione a Bolzano ed è sostituito da un ispettore”. Insomma il vertice della struttura è monco in un momento delicato come quello del trasferimento di un intero carcere in una nuova struttura. Ma non è ancora finita. Sono arrivati sono 23 nuovi agenti che si aggiungo agli ottanta che già lavorano a Trento. “Siamo pochi - tuona ancora il sindacalista - ne servirebbero almeno il doppio ma se arriveranno, lo faranno solo fra mesi”. Il trasloco nel periodo natalizio, poi, è fonte di un altro problema. “Già ad ottobre - spiega Andrea Mazzarese - era stato predisposto il piano ferie degli agenti per il periodo natalizio. Ferie che erano state richieste ed accordate e ora con il trasferimento alle porte c’è l’effettiva possibilità che le vacanze vengano revocate. In alternativa gli agenti in servizio sarebbero veramente pochi”. Insomma i problemi sono tanti e non solo di tipo organizzativo ma insistono anche sulla questione sicurezza. “C’è anche il rischio - conclude il rappresentante del Sinappe - che vengano lesi i diritti dei detenuti. Se gli agenti sono pochi non è detto che si riesca a mantenere i diritti alle visite che sono già stata calendarizzate”. La certezza è che i detenuti saranno a Spini per Natale. Ivrea (To): condannato contabile del carcere, rubò 447mila euro dai conti dei detenuti La Repubblica, 13 dicembre 2010 I soldi, quelli per anni sottratti alla grande dalla cassa del carcere di Ivrea, se li è bruciati tutti al casinò e ai tavoli da poker, una malattia. Perché per lui, il contabile della casa circondariale di provincia, il gioco d’azzardo era diventato una ossessione patologica, fonte di crisi ansioso-depressive. Il giudice penale nel 2007 gli ha riconosciuto il vizio parziale di mente durante il processo celebrato con il rito abbreviato e gli ha inflitto una pena di 3 anni e 4 mesi per peculatoe falsità ideologica, gli ammanchi quantificati in 447mila euro. La Corte dei conti adesso lo considera pienamente responsabile del “buco”, creato spillando contanti dal fondo detenuti, dalla gestione dei tabacchi e dei francobolli per i carcerati, dalle mercedi per i “lavoranti” e dai sussidi, dai versamenti contributivi e da altre voci di spesa ancora, tappando le falle con pezze giustificative false o alterate. Ha condannato il ragioniere infedele, Gabriele B., a restituire il maltolto da aggiornare con gli interessi e a rifondere il danno d’immagine provocato all’amministrazione penitenziaria e al ministero di Giustizia. “I gravi e plurimi comportamenti illeciti” contestati al contabile infedele - in sede penale non arrivato in tempo per ottenere un processo di secondo grado - sono stati ritenuti dalla magistratura contabile “particolarmente riprovevoli e lesivi” perché messi in atto “in un ambito, il carcere, alla cui cura è demandato il dedicato compito di rieducare i detenuti condannati”e “per l’intuibile perdita di fiducia che si è venuta a determinare nella collettività, con particolare e grave compromissione del valore della legalità”. La notizia delle pesante sentenza, appellabile, al carcere non ha sorpreso più di tanto. E le considerazioni sono le stesse di quando scoppiò lo scandalo. “Possibile che nessuno, in istituto, si sia accorto delle continue ruberie e delle manipolazioni della contabilità?”. Altra osservazione. “La Corte dei conti è andata giù dura, con un provvedimento esemplare. Ma una cosa è sancire sulla carta l’obbligo di rifondere in danni, una cosa è recuperare davvero i soldi: l’ex contabile non ha nulla, dopo l’estromissione dall’amministrazione penitenziaria si è trovato un lavoro modesto che non gli porta in tasca più di 600-700 euro al mese”. Brescia: incontro con Don Gallo; “il carcere è un metodo pedagogico criminogeno” Brescia Oggi, 13 dicembre 2010 “A Ghedi avete missili atomici sotto il culo e avete paura di questi qua?”, chiede indicando i quattro ragazzi della gru presenti sul palco al suo fianco don Andrea Gallo, della Comunità di San Benedetto al porto di Genova, a Brescia sabato, in una giornata dedicata “alla necessità di liberarsi dal carcere”, come lui stesso ha voluto intitolare l’incontro serale. Un momento conclusivo di una giornata trascorsa al carcere di Verziano e sotto quello di Canton Mombello, organizzata dalla Rete Antifascista di Brescia e dal Centro Sociale 28 maggio di Rovato. Ospite d’onore il prete “angelicamente anarchico”, come è stato definito questo uomo di chiesa fuori dagli schemi, nei comportamenti, nel linguaggio, nelle idee. “Angelico non perché non pecco, perché come farei a conoscere la misericordia di Dio se non fossi peccatore?”, precisa in uno dei tantissimi momenti di ironia che con brio e un’energia da giovincello l’ottantaduenne don Gallo ha offerto alle centinaia di persone che gremivano la sala Buozzi della Cgil. Aneddoti al vetriolo, inviti alla resistenza e alla lotta, battute e frecciate contro tutti i potenti, dai cardinali ai governanti, senza escludere i politici del centrosinistra; il tutto con parole nette, chiare, senza falsi pudori, per colpire al cuore e alla mente degli ascoltatori: “A Verziano ho detto che se fossi carcerato evaderei, perché il carcere è una malattia sociale, una devianza, un metodo pedagogico criminogeno”, denuncia riprendendo le parole del garante per i detenuti Mario Fappani, che lo aveva preceduto nel dibattito, e di Angelo Canori, presidente dell’associazione Vol.Ca di volontari che operano in carcere. Entrambi avevano sottolineato le condizioni inumane di Canton Mombello, dove sono rinchiuse 546 persone su 206 posti: “Così non è possibile alcun recupero, che invece dovrebbe essere il fine del carcere. Così esprime solo la parte vendicativa della pena”, insiste Canori. E Fappani rincara la dose: “Da anni chiedo che sia istituita in Italia la figura del garante nazionale, affinché denunci con autorevolezza e sensibilizzi tutta l’opinione pubblica. Il carcere lede l’articolo 27 della Costituzione che prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. COSTITUZIONE CHE don Gallo si porta sempre appresso, “perché i primi dodici articoli sono la mia preghiera”, spiega, in una concezione del verbo divino molto originale, se si considera che don Gallo conosce cinque e non quattro Vangeli: “Il quinto è quello di De Andrè, perché la sua frase “in direzione ostinata e contraria” è la sintesi stessa del Vangelo”. Parole che il prete genovese ripete da una vita, da quando era partigiano a 16 anni, da quando ha preso i voti per stare con gli ultimi, i drogati, le prostitute, i carcerati, subendo spesso attacchi dai vertici della chiesa ai quali don Gallo ha sempre risposto con rispetto e decisione, come racconta nel suo appassionato, spumeggiante, eclettico discorso. Ed è senza ombre il messaggio di solidarietà di questo prete, che invita tutti, non da ultimo la sua chiesa al coraggio di schierarsi, perché “io non posso conoscere la natura di Dio, come mi si chiese durante un convegno con tanti professoroni: quando mi rivolsero la domanda su Dio risposi: a me basta che sia antifascista”. E su questa frase il minuto ma massiccio prete intona Bella Ciao, in chiusura di una serata emozionante e intensa. Roma: il calendario 2011 realizzato dai detenuti di Rebibbia di Marga Esposito Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2010 Calendario 2011: primo esperimento come prodotto pubblico-commercializzabile di questo tipo in Europa (nel 2010 già brevettato come prodotto a diffusione privata all’interno). È stato realizzato interamente nella Casa di Reclusione di Rebibbia con 43 dei suoi detenuti, sostenuti da una loro insegnante (Maria Falcone), dall’editore di Infinito Edizioni ed altri collaboratori; con l’ausilio di illustri patrocini (tra cui: Ministero della Giustizia, Provincia di Roma, Garante Diritti Detenuti del Lazio), senza alcuno scopo di lucro ma a favore dei 20 bambini circa che vivono in carcere con le madri detenute in Rebibbia. Il titolo “Schegge di Vita”, ben manifesta la realtà di persone che, in detenzione, non hanno più la libertà per cui, la vera vita, si manifesta unicamente attraverso momenti di socialità proficua, momenti ricchi di quel contatto, di quello scambio umano, vera essenza di ogni esistenza. Il calendario, si propone di divulgare il più possibile la realtà carceraria alle persone comuni che ne sono inconsapevoli o non sono sensibili alla questione. Sappiamo che circa l’80% della popolazione non detenuta ignora o vuole ignorare una fetta cospicua , affatto trascurabile, della nostra società: circa 70mila reclusi adulti nel 2010, mentre la capienza regolare per adulti è di 43.327 posti tra tutti gli Istituti Penitenziali d’Italia. Le immagini del “lunario” ritraggono momenti e situazioni auspicabili e costruttive, costruite con impegno e costanza. Motore principe: l’assoluta volontà nel creare strutture, risorse e possibilità per fornire un speranza di dignità umana; oggi completamente defraudata dalla difficile e/o grave, condizione in cui versa la categoria. I contesti delle carceri non sono simili al mondo che appare nelle immagini: le attività e le strutture riprese sono praticate ed utilizzate non sempre e non da tutti; inoltre, lo sforzo per questa sperimentazione, avviene nell’Istituto Penitenziario di Rebibbia che costituisce quasi un’isola felice nel panorama delle detenzione. Nello stato italiano i detenuti: si ammalano, non sono curati adeguatamente, si suicidano, a volte non hanno spazi sufficienti per il minimo decoro consentito all’espletamento dei bisogni primari. Noi persone comuni, dovremmo definitivamente comprendere che, il carcere non deve essere punitivo ma unicamente rieducativo. Nonostante sia abolita la pena di morte in Europa e recentemente l’Italia sia stata promotrice della moratoria contro la pena di morte nel mondo, la maggior parte della gente vive nella convinzione che la vendetta appaghi o che faccia giustizia. La vendetta non serve a nulla, tanto quanto la punizione afflittiva. Unico fine della detenzione dovrebbe essere quello di rendere innocuo, internandolo, un individuo pericoloso per la comunità, risanarlo, reintegrarlo. Come lo squilibrio mentale, il delinquere è il sintomo di una malattia sociale; bisogna curare soprattutto (certamente retorico ma reale) prevenendo attraverso la cultura della legalità con un investimento che si insinui nel tessuto delle strutture educative e rieducative. La maggior parte dei cittadini si deresponsabilizza di fronte a chi delinque come fosse avulso dal sistema sociale. Il più frequente pensiero comune consiste nell’accusare il sistema giudiziario affermando che il delinquente esce troppo spesso e/o troppo presto: la vera dinamica è opposta, ossia il fermo inquisitorio, per mancanza di fondi, può essere lunghissimo prima di stabilire se il sospettato sia colpevole o meno; i colpevoli attendono e gli innocenti sono discolpati, entrambi dopo un tempo sempre troppo lungo in cui, ormai, hanno già subito il trauma e impressi i segni indelebili della detenzione. Il calendario è in definitiva l’espressione di chi ha vissuto l’esperienza in questione, di chi vuole comunicare all’esterno e testimoniare anche attraverso i propri scritti. Vi sono inoltre dati e informazioni di interesse sociale e civile in ambito penale. Spesso si scatena la caccia al Mostro da sbattere in prima pagina: questa volta sono i mostri che ci “hanno messo la faccia”, hanno creduto e soprattutto permesso, la diffusione di un prodotto in cui trovare in ogni mese, la motivazione. Giarre (Ct): mostra-mercato prodotti artigianali realizzati dai detenuti dell’Icatt La Sicilia, 13 dicembre 2010 Nella Sala Messina è stata allestita la mostra-mercato dei prodotti artigianali realizzati dai detenuti dell’istituto a custodia attenuata (Icatt) di Giarre che hanno realizzato nell’ambito del progetto di formazione per ceramisti finanziato dalla Provincia, grazie ad un emendamento sul bilancio 2010, presentato dal consigliere Salvo Patanè. All’inaugurazione erano presenti, tra gli altri, il direttore dell’Icatt Aldo Tiralongo, il dirigente sanitario dott. Sebastiano Russo, il presidente della Provincia Giuseppe Castiglione, il sindaco Teresa Sodano, l’assessore comunale Giuseppe Cavallaro, e i consiglieri provinciali Salvo Patanè e Raffaele Strano. Sono otto i detenuti che hanno partecipato al corso, circa un centinaio gli oggetti esposti che vanno dai vasi agli svuota tasche. Il ricavato della vendita degli oggetti servirà per finanziare le famiglie di detenuti bisognose. Due detenuti hanno anche dato una dimostrazione di sagomazione e decorazione di vasi. “Questa esperienza - ha rilevato il consigliere provinciale Salvo Patanè - costituisce una costante: anche quando sono stato assessore comunale ho organizzato delle iniziative con l’Icatt. Questa volta i detenuti hanno la possibilità di imparare un lavoro. Deve esserci un rapporto propositivo tra l’istituto penitenziario e le città vicine”. La mostra resterà aperta sino a oggi. Libri: “Viaggio nel silenzio imperfetto”, di Giacomo Cavalcanti di Rosaria Capacchione Il Mattino, 13 dicembre 2010 A mezza strada tra la ricostruzione letteraria e l’ipotesi personale, tra la finzione e la docu-fiction, con il supporto di ricordi, testimonianze e narrazioni raccolti nel corso della sua lunga militanza criminale. È il suo pensiero sull’omicidio di Giancarlo Siani, collocato nel contesto camorristico e sociale di venticinque anni fa, quello che Giacomo Cavalcanti ha affidato alle pagine del “Viaggio nel silenzio imperfetto”. È la verità liberamente, però interpretata, ha spiegato in Procura dove è stato interrogato nei giorni scorsi nella veste di persona informata sui fatti. Ai pm che lo hanno sentito, alla presenza del procuratore aggiunto Sandro Pennasilico, ha detto proprio così, parola più parola meno: non una ritrattazione ma una ricollocazione, dunque, delle sue rivelazioni sull’omicidio del giovane giornalista del Mattino, per il quale sono stati condannati in via definitiva mandanti ed esecutori diversi da quelli indicati nel libro dall’ex boss di Fuorigrotta. È stato lo stesso Cavalcanti, ieri, alla presentazione del volume, a raccontare dell’interrogatorio, più volte preannunciato, praticamente scontato, ma che si è svolto nella massima segretezza. Dalle parole del camorrista-scrittore, che hanno prodotto la riapertura del fascicolo sul caso Siani, la Procura partenopea non si aspettava molto di più, in verità. Ma qualche traccia ulteriore, se non altro per indirizzare i nuovi accertamenti in direzione investigativa, sarebbe comunque stata fornita. Tracce tutte da verificare e da riscontrare con il materiale raccolto negli anni passati durante le indagini, spunti che indicherebbero una differente causale del delitto e un altro mandante o, in alternativa, causale e mandante sovrapponibili a quelli emersi durante il processo chiuso con sentenze che hanno stabilito la responsabilità di Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante nella veste di mandanti e di Ciro Cappuccio e Armando Del Core quali esecutori materiali. La condanna a morte di Giancarlo Siani, è scritto nelle motivazioni, fu decisa dopo un suo articolo, pubblicato il 10 giugno 1986, nel quale rivelava che l’arresto del boss Valentino Gionta era stato possibile grazie a una soffiata dei suoi alleati di Marano, i Nuvoletta. Cavalcanti, invece, ha spostato la scena dall’hinterland napoletano al cuore della città, a Forcella, reindirizzando il contesto sul versante economico, sulla politica affaristica dei clan. Nel suo libro ha raccontato, confermando il particolare ai magistrati, di aver incontrato nel carcere di Bellizzi Irpino uno dei veri assassini del cronista napoletano. Sarebbe stato lui a spostare l’asse a Forcella, riattualizzando la pista delle coop degli ex detenuti già percorsa, con insuccesso, ai tempi della prima istruttoria. Il giudice Guglielmo Palmeri, infatti, fece arrestare Giorgio Rubolino, Ciro Giuliano e Giuseppe Calcavecchia, scarcerati un anno dopo le manette. Nel racconto del compagno di carcere di Giacomo Cavalcanti comparirebbero altri personaggi, uccisi nel 1986, e che sarebbero stati coinvolti direttamente nell’agguato. Uno di essi, Vincenzo Cautero, sarebbe stato a conoscenza di una truffa organizzata dal boss di Forcella e avrebbe provato a ricattare i Giuliano, rivelando tutta la storia a Giancarlo Siani che conosceva da tantissimi anni. Ma di questi fatti Salvatore Giuliano, che dell’omicidio sarebbe stato il mandante, pur essendo un collaboratore di giustizia da diversi anni, non ha mai detto nulla. Anche lui dovrà essere nuovamente interrogato, come Cavalcanti nella veste di testimone, nell’ambito del fascicolo conoscitivo aperto quale atto d’obbligo dopo la pubblicazione del libro e che fino a oggi contiene, sostanzialmente, solo pagine di giornale. Per una eventuale svolta, fanno capire negli uffici del Centro direzionale, c’è ancora molto da aspettare. La cronaca di Emanuela Sorrentino Jeans, felpa blu e cappellino in lana. Si presenta così Giacomo Cavalcanti, l’ex detenuto con la passione per la scrittura che ha trascorso 14 anni in carcere con l’accusa di associazione camorristica. Napoletano di 58 anni, l’autore del libro “Viaggio nel silenzio imperfetto” arriva poco dopo le 11 alla casa editrice Pironti in piazza Dante, con i suoi amati disegni sotto braccio. Sorseggia caffè e ascolta il ritratto che fanno di lui il cronista Roberto Paolo e Samuele Ciambriello, l’amico giornalista che ha curato la prefazione del libro e che nel 1985 da sacerdote frequentava il carcere di Bellizzi Irpino incontrando lui ed altri detenuti. Sarà Ciambriello, qualche anno dopo, a farlo trasferire in Veneto. Sposato con tre figli, Cavalcanti lavora lì per una ditta che distribuisce ricariche telefoniche ma poi il nuovo arresto nel 2009 - 10 mesi dietro le sbarre perché un pentito lo accusa di essere il mandante di un omicidio, poi verrà l’assoluzione dei giudici - lo costringe a terminare l’attività. “Ho dimostrato la mia innocenza. I pentiti sono una massa di bugiardi”, tuona Cavalcanti. Tra racconti di avventura, confidenze di detenuti e sue deduzioni, fiabe per bambini - come l’amicizia tra l’ippopotamo e la farfalla - ci sono anche tre fatti di cronaca della Napoli degli anni Ottanta come l’omicidio del giornalista Giancarlo Siani, del fratello del giudice Imposimato e la vicenda dei cosiddetti “mostri di Ponticelli”. Proprio il racconto sull’uccisione, 25 anni fa, del cronista del Mattino ha catalizzato l’attenzione sul volume. Nel racconto, che apre il libro, Cavalcanti riporta la confidenza di un suo compagno, ai tempi della detenzione nel carcere di Bellizzi Irpino, ad Avellino, che gli “confessa” di essere l’esecutore dell’omicidio del giornalista e chi abbia deciso la sua morte. Una “verità” alternativa a quella giudiziaria finora emersa (il processo si è concluso con le condanne definitive per i mandanti, Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante, e i sicari, Ciro Cappuccio e Armando Del Core). Nelle scorse settimane la riapertura del caso. Ieri Cavalcanti ha affermato di essere stato ascoltato dai pm: “Ho spiegato loro tutto, sottolineando che sono uno scrittore e sta a loro sforzarsi per andare oltre”. Poi c’è la storia dell’omicidio del sindacalista Franco Imposimato, fratello del giudice Ferdinando; e la storia e di quelli che definisce “i ragazzi che mi hanno spezzato il cuore”: i giovani detenuti per lo stupro e l’uccisione di due bambine a Ponticelli. Tra le pagine del libro emerge che secondo voci del carcere a commettere quel delitto sarebbe stato uno psicolabile poi suicidatosi. “La scrittura - ha concluso Cavalcanti - mi ha salvato dal suicidio in carcere. Il libro è nato proprio all’ombra dei suicidi di un ragazzo e di un imprenditore che erano nella mia stessa cella...”. Immigrazione: Ismu; nel 2009 meno denunce, ma tra gli irregolari reati molto frequenti Asca, 13 dicembre 2010 Diminuiscono gli stranieri denunciati in Italia, gli irregolari delinquono di più mentre un terzo dei detenuti nelle carceri nostrane è straniero. È quanto emerge dal XVI Rapporto nazionale sulle migrazioni 2010, elaborato dalla Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) e presentato oggi. Nel 2009 (ultimi dati disponibili del ministero dell’Interno) il numero dei denunciati stranieri dalle forze di polizia, si legge nel rapporto, è diminuito del 13,9% rispetto al 2008. Nel 2009 i denunciati stranieri sono 260.883 (su un totale di 823.406) e corrispondono a circa un terzo del totale dei denunciati (31,7%). Per tutti i reati considerati, a eccezione dei furti in esercizi commerciali, dal 2008 al 2009 si nota una diminuzione dei denunciati stranieri in numero assoluto: alta per i furti in abitazione (-31,9%) e le rapine in banca (-24,4%), media per le rapine in abitazione (-18,9%), i delitti contro la persone (-14,5%) e il totale delle rapine (-13,9%), più contenuta, ma sempre rilevante, per le altre categorie. Al 31 luglio 2010 gli stranieri nei penitenziari italiani sono il 36,2% dei presenti, 24.675 su 68.121. Le nazionalità più numerose sono: la marocchina (21,2% dei detenuti stranieri), la rumena (13,4%), e la tunisina (12,8%). Le categorie di reato più rappresentate in valore assoluto sono: i reati contro il patrimonio (31.893 detenuti stranieri, il 25,5% del totale dei detenuti per questo reato), la violazione della legge sugli stupefacenti (28.154, 45,1%) e i reati contro la persona (22.610, 29,9%). Gli irregolari presentano tassi di delittuosità molto superiori a quelli dei regolari e degli italiani. Nel 2008 e nel 2009, infatti, gli stranieri regolari hanno registrato tassi di delittuosità totale superiori, ma prossimi, a quelli degli italiani. Gli irregolari invece hanno avuto tassi di delittuosità decine di volte superiori. Il problema della delinquenza straniera continua a riguardare principalmente l’immigrazione irregolare (nel 2009 il 25,3% dei denunciati è irregolare, contro il 6,3% che è regolare). Mentre i tassi di delittuosità dei regolari sono superiori, anche se prossimi, a quelli degli italiani (il quoziente di sovraesposizione, cioè il rapporto tra il loro tasso e quello degli italiani, oscilla infatti tra l’1,3 per il totale dei reati nel 2009 e un massimo di 2,7 per i furti), i tassi di delittuosità stimati degli irregolari sono superiori: nel 2008 per il furto per omicidio superano di 11,7 quelli degli italiani e nel 2009 per furto arrivano ad essere di 45,6 volte maggiori. Il rapporto sottolinea che “l’affermazione che gli irregolari sono criminali è falsa”. I dati su esposti, infatti, non avallano quest’affermazione. I dati indicano che l’irregolarità in Italia aumenta la probabilità del verificarsi di un evento criminale. Il che non significa che tutti gli irregolari siano delinquenti o che tra essi non ci siano in maggioranza persone oneste e tanti sfruttati nel lavoro nero. In questo quadro è anche vero che più immigrati non vuol dire più delinquenza. Non è vero, sottolinea ancora l’Ismu, che più immigrati vogliono dire tout court più delinquenza. Non c’è una relazione diretta tra aumento dei permessi di soggiorno e delinquenza degli stranieri. Nel 2005 le province italiane con tassi più alti di soggiornanti regolari non sono quelle che hanno tassi di stranieri denunciati più alti. All’aumentare del tasso di permessi, diminuisce quello di stranieri denunciati. Nel rapporto vengono poi esaminate le cause che portano gli stranieri a delinquere. Tra le cause principali di delinquenza totale degli stranieri nelle province italiane si trovano: condizioni economiche di disagio (bassi salari), presenza di criminalità organizzata straniera, e irregolarità lavorativa di basso livello. Non è quindi l’immigrazione di per sé che reca criminalità, ma sono le caratteristiche di certa immigrazione che, in determinati casi, possono farlo con riferimento ad alcune tipologie di criminalità. Rispetto alla criminalità in Italia gli stranieri hanno molti fattori di rischio e pochi di protezione. Sono le condizioni in cui spesso vivono gli stranieri che aumentano la probabilità che alcuni commettano atti criminali o altri diventino vittime di criminalità. Gorizia: si aprono le porte del Cie di Gradisca per il consigliere regionale Pustetto http://bora.la, 13 dicembre 2010 Questa mattina, alle 9.30, si sono aperte finalmente le porte del Cie di Gradisca Stefano Pustetto. Saranno passati esattamente 20 giorni da quando (il 23 novembre scorso), il consigliere regionale di SA-Sinistra ecologia libertà ha inoltrato formale richiesta alla Prefettura di Gorizia per poter visitare il Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca. Dopo 20 giorni, innumerevoli telefonate, rimpalli di responsabilità tra Prefettura e Viminale, chiamata in causa del presidente della Regione, finalmente è arrivato il via libera da parte della Prefettura. “Non si capisce questo atteggiamento degli organi dello Stato e del presidente della Regione visto che esibendo semplicemente il tesserino, ho già visitato il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Perché per il Cie vige un’assoluta discrezionalità quasi godessero dello status di extraterritorialità? Questo è un problema politico che uno Stato deve saper risolvere, si tratta di una scelta di civiltà”. “Il controllo democratico deve poter essere esercitato in tempi brevi, non a distanza di settimane. Quella in cui ci troviamo è una situazione inquietante, perché accettare questa discrezionalità vuol dire rendersi corresponsabili di quanto accade tra quelle mura sigillate. In democrazia non è pensabile che esista un luogo di detenzione sottratto al controllo democratico delle istituzioni”. “Le notizie che il 23 novembre filtravano dal Cie raccontavano di atti di autolesionismo perpetrati da alcuni internati che si sarebbero cuciti le labbra per denunciare la loro condizione e gli inaccettabili e ingiustificati tempi di detenzione. In realtà, l’interesse non è di questi giorni, ma è nato dalle notizie di abusi, maltrattamenti e discrezionalità che riguardano non solo il Cie di Gradisca, ma un po’ tutti i Cie sparsi per l’Italia ove le rivolte, sia individuali che collettive, sono decisamente aumentate da quando il periodo di detenzione è passato dagli iniziali 30 giorni agli attuali 6 mesi”. “Ho sentito come mio preciso dovere - ha dichiarato Stefano Pustetto - dettato dalla carica pubblica che ricopro e dal mio trascorso di medico, accertare la veridicità di tali notizie e lo stato di salute dei detenuti”. Viste le considerazioni in premessa si ritiene quanto mai urgente l’istituzione di un Osservatorio permanente su quanto avviene nel Cie a Gradisca, come già richiesto dalla Rete dei Diritti del Friuli Venezia Giulia. Iran: Sakineh, l’incubo continua; la pratica della lapidazione in molte parti del mondo Famiglia Cristiana, 13 dicembre 2010 L’euforia è durata poco. Giusto il tempo perché il canale iraniano in lingia inglese, Press Tv, precisasse che Sakineh Mohammadi Ashtiani, 43 anni, la donna condannata nel 2006 a 99 frustate per adulterio, nel 2007 alla morte per lapidazione per adulterio e complicità nell’assassinio del marito e da allora detenuta in carcere, era tornata nella sua città (Tabriz) e nella sua casa non perché finalmente libera ma solo per l’ennesimo sopralluogo. Un segnale difficile da interpretare: nel mcomplesos sistema giudiziario iraniano, strettamente dipendente dalle autorità politico-religiose, potrebbe rappresentare una concessione alla campagna internazionale per la liberazione della donna come pure un inasprimento del suo caso. Il sopralluogo, infatti, è nstato deciso anche per realizzare una trasmissione televisiva sulla sua vicenda. Dovrebbero invece aver ritrovato la libertà suo figlio Sajjad Qaderzadeh e l’avvocato Javid Hutan Kian, oltre a due giornalisti tedeschi ch’erano stati arrestati il 10 ottobre di quest’anno per averli intervistati. La speranza, naturalmente, è che l’Iran, dopo mesi di mobilitazione internazionale, si dimostri non insensibile né invulnerabile alle pressioni esterne. Un caso, questo, che in qualche misura ricorda quello della cristiana pakistana Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia e “salvata” proprio dalla campagna internazionale animata, per l’Italia, da Asia News. Anche se il “caso Sakineh” dovesse dimostrarsi in effetti risolto, però, altrettanto non si può dire per la pratica della lapidazione, tornata in vigore in molti Paesi: oltre all’Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Nigeria, Pakistan, Sudan, Yemen, Somalia e Afghanistan. L’unico ad averla applicata con una certa regolarità e frequenza, però, è stato proprio l’Iran. Amnesty International ha più volte denunciato che le autorità di Teheran, pur avendo dichiarato una moratoria alla lapidazione nel 2002, hanno poi consentito l’esecuzione di almeno 4 persone. Altre 11 persone (3 uomini e 8 donne, tra le quali fino a ieri anche Sakineh) attendono l’esecuzione capitale per lapidazione nel braccio della morte delle carceri iraniane. In Afghanistan una coppia di giovani fidanzati è stata messa a morte per lapidazione, nel Nord del Paese, nell’agosto del 2010. Notizie di pali dazioni sono arrivate anche dalla Somalia (dove la situazione generale impedisce, però, un censimento preciso) e dal Pakistan. Il caso più clamoroso, però, è forse quello della provincia di Aceh in Indonesia: lì la pena di morte per lapidazione è stata reintrodotta addirittura nel 2009. In Nigeriala lapidazione è stata recuperata come misura punitiva negli Stati del Nord con l’introduzione della sharìah, la legge islamica. Nel 2002 la Nigeria è finita sotto osservazione per due casi. Il primo, e più famoso, riguardava Amina Lawal Kurami, condannata per adulterio. Anche nel suo caso la campagna internazionale portò a una revisione della condanna. Nello stesso anno, però, fu condannato a morte per lapidazione anche un uomo nigeriano, Yunusa Rafin Chiyawa, che aveva confessato di aver avuto rapporti sessuali con la moglie di un amico. Yunusa è ancora in carcere e la condanna non è stata revocata. Anche in Iraq è stato segnalato almeno un caso di lapidazione. Una ragazza di 22 anni è stata messa a morte ad Al Qaim, un piccolo centro al confine con la Siria. Iran: occhio per occhio… detenuto sarà accecato con l’acido Messaggero Veneto, 13 dicembre 2010 Un uomo è stato condannato in Iran ad essere accecato in entrambi gli occhi con l’acido in base alla “legge del taglione”, per avere fatto lo stesso al marito della sua amante. Il caso, reso noto ieri dal quotidiano governativo Iran, sembra destinato ad aprire nuove controversie sulle applicazioni di certi tipi di pene previste dalla legge islamica, e considerate da molti sorpassate anche in Iran. Il condannato all’accecamento, che si chiama Mojtaba e ha 25 anni, è stato riconosciuto colpevole di avere gettato acido in faccia al rivale, Ali Reza, anch’egli di 25 anni, un conducente di taxi della città di Qom che in seguito all’aggressione ha perso la vista. Ali Reza ha chiesto e ottenuto dai giudici l’applicazione della Qesas, termine arabo usato nella giurisprudenza islamica che sta a indicare appunto la legge dell’occhio per occhio. Il giornale scrive che la sorella dell’amante di Mojtaba, Mina, la quale aveva anch’essa una relazione extraconiugale, aveva pensato a un piano per uccidere i rispettivi mariti. “Dapprima avevo pensato di simulare un incidente stradale - ha confessato - ma poi ho pensato che invece che morire sarebbero potuti rimanere paralizzati e quindi ci saremmo dovute occupare di loro”. La scelta è quindi caduta sull’acido, che però ha provocato solo l’accecamento di Ali Reza. Anche questo piano è quindi stato accantonato e tutti i protagonisti sono stati arrestati. Mina, 28 anni, è stata condannata ad essere frustata e a tre anni di reclusione, così come il suo amante, Abuzar. Nel febbraio del 2009 un altro uomo, Majid Movahedi, di 27 anni, era stato condannato all’accecamento dopo che aveva confessato di avere gettato dell’acido in faccia ad una ragazza, che lo aveva respinto. Iran: cresce il numero dei giornalisti in carcere Ansa, 13 dicembre 2010 La detenzione di altri cinque giornalisti in Iran dimostra come la Repubblica Islamica abbia superato la Cina per il numero di reporter catturati. Al momento, 35 sono i giornalisti trattenuti nelle carceri del paese. Pochi giorni fa, all’ombra dei colloqui sul nucleare a Ginevra, tre reporter del quotidiano Shargh sono stati arrestati: Farzaneh Roostaei, Keyvan Mehrgan e Ahmmad Gholami. Il manager del giornale, Ali Khoda Bakhsh, è stato anch’egli arrestato in vista del suo passato da corrispondente economico e della sua collaborazione con giornalisti riformisti tra i quali, Amir Hadi Anvari. Nel frattempo, una sentenza di 16 anni grava su Mashallah Shamsol Vaezin, capo dell’Associazione per la Protezione dei giornalisti iraniani. L’uomo è stato accusato di insultare il Presidente e di tentare di indebolire il sistema. Iraq: nelle carceri 835 detenuti in attesa di essere giustiziati = Aki, 13 dicembre 2010 Nelle prigioni dell’Iraq ci sono 835 detenuti in attesa di essere giustiziati. Lo ha rivelato il ministro dell’Interno iracheno, Jawad al-Bolani, nel corso di una conferenza stampa incentrata sulle misure adottate dal governo per combattere il terrorismo. Secondo al-Bolani, i tribunali iracheni “hanno finora emesso 14.500 sentenze per il reato di terrorismo, di queste 835 sono condanne a morte e altre all’ergastolo”. Le dichiarazioni del ministro dell’Interno giungono all’indomani dell’invito ad abolire la pena di morte che l’inviato Onu, Adrianus Melkert, ha rivolto al governo iracheno. In Iraq sono state giustiziate 230 persone tra il 2005 e il 2009, stando a quanto ha riferito a luglio il portavoce del governo, Ali al-Dabbagh. Baghdad ha reintrodotto la pena di morte nel 2004, dopo una breve moratoria entrata in vigore l’anno precedente, in concomitanza con l’intervento delle truppe Usa.