Giustizia: serve subito una riforma copernicana delle pene di Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro Liberazione, 10 dicembre 2010 È interessante il dibattito sulla legge Alfano (“disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”) apparso nei giorni scorsi sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, perché mette a nudo il vero senso dello scontro culturale esistente tra chi sostiene in maniera kantiana l’ideale della certezza della pena sempre e comunque e chi sostiene, seguendo l’insegnamento di Bobbio, che la dignità della persona, anche se detenuta, rappresenta una pre-regola del vivere democratico. Per dirla breve, da una parte Marco Travaglio e la tesi secondo cui la legge Alfano è l’ennesimo indulto - insulto, con migliaia di delinquenti scarcerati a scapito delle persone offese dal reato e della cittadinanza onesta, dall’altra Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che parla di legge inefficace perché riguarderà pochissime persone e dunque non risolverà il dramma del sovraffollamento carcerario ma comunque necessaria per attenuare le sofferenze di chi in cella vive in uno spazio medio di tre metri quadri. Ciò che colpisce è in primo luogo la convergenza, aldilà delle apparenze, tra i due interlocutori sulla analisi della “situazione vergognosa delle carceri e sulla composizione classista della loro popolazione. So bene che in cella risiedono solo i poveracci” (così testualmente Marco Travaglio). Così come in parte i due condividono l’idea che la soluzione del problema passa anche e soprattutto attraverso la depenalizzazione del possesso di droghe leggere e dell’immigrazione clandestina. D’altronde anche Noberto Nordio e Giuliano Pisapia, incaricati il primo dal governo di destra il secondo da quello di centro sinistra di riscrivere il codice delle pene raggiungono la medesima conclusione: il diritto penale per essere efficace deve riguardare esclusivamente condotte realmente lesive dei diritti dei consociati e l’ordinamento penale italiano non funziona principalmente a causa della sua ipertrofia legislativa. Dunque, una prima proposta che avanziamo al prossimo governo democratico che verrà, aldilà della sua connotazione politica, è di avere il coraggio di varare una riforma copernicana del sistema delle pene volto alla depenalizzazione delle condotte inoffensive, perché questo chiedono all’unisono i tecnici della giustizia, la società civile e gli intellettuali. Ciò posto, veniamo ora all’unico punto di divisione tra Travaglio e Gonnella che rispecchia un pò la divergenza che attraversa, trasversalmente, tutti o quasi i partiti della seconda repubblica, compresa la FdS: il primo ritiene improponibile qualsivoglia provvedimento di clemenza o di ampliamento del ricorso alle misure alternative al carcere mentre il secondo ritiene non solo costituzionalmente dovuti provvedimenti emergenziali per situazioni eccezionali ma anche auspicabili provvedimenti che potenzino il ricorso alle misure alternative. Inutile dire che chi scrive aderisce alla tesi di Gonnella, anche perché, rispetto al tema del carcere e delle misure alternative, in termini di efficacia queste ultime garantiscono di gran lunga maggiore sicurezza ai cittadini, in quanto abbattono la recidiva quattro volte di più rispetto al carcere. Così come ci preoccupa il linguaggio adottato, sicuramente in buona fede, da Travaglio che tende però in parte a legittimare la cultura forcaiola contro i poveracci adottata dall’attuale governo (ma anche da tutti i governi precedenti alternatisi dagli anni novanta in poi) e che sul piano culturale ha prodotto un arretramento vertiginoso, tanto che di recente la gente comune ha scambiato per gesta l’uccisione per mano di un ventenne italiano di una straniera alla metro. Dimenticando la reazione opposta avuta a parti invertite, con(tro) Doina Matei. Di contro, per quel che riguarda i provvedimenti di clemenza, non può sottacersi il fatto che Travaglio ha ragione nel preoccuparsi sulla sfiducia nelle istituzioni che tali provvedimenti ingenerano. Ma di essi non avremo più bisogno quando funzioneranno, in una logica costituzionale, le istituzioni repubblicane. Concludendo (si fa per dire), crediamo che il confronto tra le due tesi sopra esposte vada ripreso e approfondito istituendo un tavolo sulla giustizia tra tutte le forze democratiche del paese che, senza pregiudizi, vogliano confrontarsi per approdare ad una proposta di riforma della giustizia alternativa alla fabbrica della paura ormai egemone nella azione di governo come nella cultura di massa. Giustizia: Casellati; sistema va rivoluzionato, tutti i detenuti devono studiare e lavorare Ansa, 10 dicembre 2010 “C’è un sistema che va rivoluzionato”. Lo ha detto il sottosegretario alla giustizia Maria Elisabetta Casellati a Radio Vaticana durante una trasmissione dedicata all’emergenza del sovraffollamento nelle carceri italiane, alla luce della tragedia di Santiago del Cile. “Per tentare di risolvere questo problema - ha spiegato la Casellati - bisogna rovesciare il concetto di carcere. I detenuti debbono poter stare in cella solo nelle ore notturne mentre in quelle diurne dovrebbero potersi dedicare ad attività che aiutino il loro reinserimento nella società: lavorare, studiare, impegnarsi in progetti socialmente utili”. Per Casellati, inoltre, “i tossicodipendenti che non si siano macchiati di altri reati dovrebbero poter essere destinati alle comunità”. Così, da un lato, “gli si assicurerebbe un corretto e pieno recupero; dall’altro, si otterrebbe una diminuzione della popolazione carceraria”. “Quello dell’emergenza sovraffollamento - ha aggiunto - è un problema che da tempo questo governo sta affrontando. Abbiamo messo mano alla ristrutturazione edilizia che ci ha permesso di aumentare di 2.200 i posti disponibili, abbiamo approvato una legge che consente di scontare l’ultimo anno di pena ai domiciliari - quest’anno saranno circa 8.000 i detenuti che beneficeranno di questo provvedimento - e stiamo trattando con alcuni nazioni europee ed extracomunitarie affinché i cittadini stranieri che commettono un reato in Italia possano scontare la pena direttamente nel proprio Paese”. “Insomma, il problema c’è ed è grave - ha concluso la Casellati - e la politica ha il dovere di fare la propria parte. Non possiamo nasconderci dietro ad un dito”. Giustizia: i direttori penitenziari accanto alle Forze di polizia nella civile protesta contro il Governo Ansa, 10 dicembre 2010 Il Si.Di.Pe., maggiore sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari, è accanto e condivide la protesta di tutte le forze di polizia e delle OO.SS. rappresentative delle stesse in ordine all’indegno trattamento riservato agli operatori della sicurezza. A tal proposito, però, si vuole ricordare che i direttori penitenziari sono privi di contratto da oltre 5 anni, gli stessi, inoltre, operano in condizioni di costante precarietà e pericolo, costretti a governare le carceri senza risorse finanziarie sufficienti e con organici ben al di sotto di quelli previsti dalla stessa amm.ne, sia che si tratti di personale di polizia che dei ruoli amministrativi e del trattamento. Sono circa tre lustri che non vengono banditi concorsi per direttori penitenziari. Così come va denunciato il sistema sanitario rivolto ai detenuti, indegno di un paese civile e che costituisce esso stesso un rischio per gli operatori penitenziari, costretti ogni giorno a confrontarsi con persone detenute malate di aids, epatiti c, tubercolosi, etc. Così come occorre ricordare che il personale penitenziario è spesso costretto ad operare all’interno di carceri fatiscenti, dove la manutenzione ordinaria degli impianti è praticamente inesistente, dove i detenuti stanno ormai arrivando, paurosamente, al numero di 70 mila unita: molti di essi soffrono di patologie psichiatriche, tantissimi sono i tossicodipendenti, numerosi sono gli stranieri. Praticamente giornalieri sono i tentativi di suicidio e numerosi sono stati i suicidi dei detenuti, nonché le aggressioni verso i poliziotti penitenziari. Finora si sono registrati solo roboanti proclami “sul fare” ma poco o nulla è stato concretizzato: dopo che il 19 marzo 2010 è stato proclamato, urbi et orbi, lo stato d’emergenza delle carceri nessuna risorsa effettiva, di soccorso, risulta essere realmente pervenuta ai direttori delle carceri, alimentando nei dirigenti la rabbia e la delusione per la fiducia tradita. Mai in passato erano state fatte tante promesse a vuoto. Il piano carceri, abortito ancora prima di essere nato, ne rappresenta la più scandalosa prova. Si è, infine, stanchi di assistere alla pantomima degli incontri e delle manifestazioni ufficiali, alle celebrazioni del nulla:il ministero della giustizia non può continuare ad essere governato esclusivamente dall’eloquio forbito e volpesco di chi, solo con le parole, confondendo le carceri con le piazze dei comizi, asserisce di essere impegnato nel garantire la sicurezza dei cittadini, la certezza della pena e l’organizzazione delle carceri nel rispetto della costituzione. Le prigioni italiane sono divenute luoghi di assoluta sofferenza sia per le persone detenute che per quanti ancora si sentono operatori penitenziari e non ridotti a guardiani di incivili serragli. Al governo, al ministro della giustizia ed al capo del Dap, vogliamo ricordare che non c’è cosa più pericolosa e deflagrante, all’interno del mondo delle carceri e dell’esecuzione penale esterna, del raccontare frottole sia ai detenuti che al personale. Giustizia: l’ex Ministro Martelli, appena mi sono dimesso hanno iniziato a pasticciare Adnkronos, 10 dicembre 2010 Subito dopo le dimissioni di Claudio Martelli da ministro della Giustizia, incarico che mantenne dal 1991 al 1993, si iniziò ad ipotizzare una revisione del regime carcerario previsto dal 41bis. E in questa circostanza l’ex Guardasigilli intravede “lo zampino, se non della mafia, degli amici della mafia. Appena tolto di mezzo me, hanno cominciato a pasticciare”. Lo afferma lo stesso Martelli, nell’appuntamento di stasera di “L’ultima parola”, il programma condotto da Gianluigi Paragone, in onda alle 23.40 su Rai2. “In una riunione tenutasi 48 ore dopo le mie dimissioni - afferma Martelli nell’intervista - già si avanzò in modo esplicito e documentato, dal direttore dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato (come da lui stesso riconosciuto) e in modo per me davvero sorprendente, da parte del ministro degli Interni e del capo della Polizia, la richiesta o il suggerimento di ridurre, revocare, riformare il 41bis, e cioè quel regime cui venivano sottoposti i più pericolosi boss mafiosi, che precludeva loro ogni possibilità di comunicazione con l’esterno”. “Toccare il 41bis, o chiedendone una revoca in termini di legge, o in un certo senso, peggio ancora - continua Martelli - sottraendo coloro che erano stati ascritti al 41bis (i boss più pericolosi) a questo regime duro, dava un segnale di segno esattamente opposto”. “La cosa più stupefacente - prosegue Martelli - è che è l’argomento con il quale Conso ha giustificato questa sua scelta, e cioè per fermare le stragi; ma in realtà il 41bis era stato introdotto dopo le stragi, le più gravi, quella di Falcone, quella di Borsellino, proprio per colpire i responsabili delle stragi, e arrivare alla loro individuazione e alla loro cattura”. “Quindi - conclude Martelli - come si fa a sostenere che togliendolo si sarebbero bloccate le stragi? Così non è andata, o in ogni caso, se così fosse successo, si sarebbe aperta non una trattativa, ma addirittura un vero e proprio scambio strage contro attenuazione o sottrazione del responsabile al regime di carcere duro: cessiamo le stragi se voi cessate il 41bis. Cioè si riconosceva a Cosa Nostra uno statuto da potenza combattente con la quale venire a patti”. Giustizia: la strana caccia al “nero” assassino di Valter Vecellio L’Opinione, 10 dicembre 2010 Hanno retto poche ore, le accuse contro Mohammed Firki, il giovane marocchino accusato del sequestro e dell’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazza d Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre scorso. Gli indizi che avevano portato al suo fermo, mentre era a bordo di una nave diretta in Marocco, a meno di 48 ore di distanza non bastano e ora le indagini ripartono da zero. La frase “Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io”, finita nel faldone dell’accusa è stata mal tradotta, ha spiegato il marocchino davanti al giudice per le indagini preliminari. Si tratta, sottolinea l’accusato, di un imprecazione. Inoltre, non ha tentato la fuga quel biglietto per il Marocco era stato acquistato da tempo. Così l’impianto accusatorio è crollato, ed è stato lo stesso Pubblico Ministero Letizia Ruggeri, durante l’interrogatorio di garanzia, a chiedere la convalida del fermo, ma allo stesso tempo a chiedere che il 22enne lasci il carcere. Capita di prendere abbagli; il problema è quando a questi abbagli non si pone rimedio e ci si accanisce; e capita, purtroppo, che a sbagliare siano anche gli investigatori. Quello che non dovrebbe capitare è che qualche compiacente “gola profonda” si incarichi di raccontare ai giornalisti la frase che, estrapolata dal suo contesto, e per di più tradotta male, costituiva un inequivocabile atto d’accusa nei confronti di Mohammed Firki. Ma al ministero della Giustizia non, credono che sarebbe il caso di attivarsi per capire di chi sia la responsabilità per quanto accaduto? In questi giorni si è detto e scritto di tutto, e non è da credere che tutto sia solo frutto di giornalisti privi di scrupoli che in qualche modo dovevano riempire la pagina bianca e corrispondere alle sollecitazioni di direttori e capiredattori “affamati” di notizie su questa vicenda. L’agenzia “Adnkronos” si è divertita a riassumere le “farfalle” cui si è dato corpo in questi giorni: è stato il marocchino, insieme a un complice italiano; no gli italiani sono due, no anzi c’è un intero branco di molestatori su un furgone bianco; anzi no su un’auto rossa ammaccata... Non è la prima volta che accade, e non sarà neppure l’ultima, purtroppo. L’esperienza non insegna nulla, ogni volta è lo stesso copione. Nulla ha insegnato il caso della strage di Erba: ricordate, anche allora venne indicato in un nordafricano il responsabile del “fattaccio”. Abbiamo poi visto che la strage era stata commessa da una coppia italianissima. Per fortuna - anche se molti in cuor loro lo desideravano - ci è stata risparmiata la campagna razzista e xenofoba; anzi, proprio da coloro che ci si aspettava che non avrebbero perso l’occasione per cavalcare la vicenda - i leghisti - sono giunte parole caute e inviti alla prudenza: dal sindaco di Brembate al presidente della provincia di Bergamo. È l’unico motivo di consolazione in una vicenda che lascia amaro in bocca e che a volerla qualificare si rischia di scivolare nel turpiloquio. Giustizia: nazionalità e reati, il paradosso svedese di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 10 dicembre 2010 Un lettore solleva una questione importante. “Non credi che i nostri media si dovrebbero allineare al resto del (primo) mondo, smettendo di definire “uomo di xx anni” un italiano che commette un reato (o è sospettato d’averlo commesso) e “marocchino/tunisino/romeno/rom/etc.” chi italiano non è? Non pensi che i mezzi di Informazione abbiano una grave responsabilità nella creazione di un certo brutto clima?”. “Qui in Svezia - scrive Franco Paillette (franiko@libero.it) - non compare mai la nazionalità del sospettato o del reo. Anche i ladri, o i sospetti, sono uomini e basta”. Certo, Franco: il pericolo della condanna etnica preventiva esiste. È il primo passo verso la xenofobia, la via maestra al razzismo. Lo si è visto appena s’è diffusa la voce del fermo di un muratore marocchino, Mohamed Fikri, in relazione alla scomparsa di Yara Gambirasio, a Brembate di Sopra. Subito, s’è annusata un’aria da giustizia sommaria. Gian Antonio Stella, ieri, ha giustamente criticato l’uscita improvvida del leghista Matteo Salvini, che ha commentato un’ipotesi. Male. Meglio si sono comportati i concittadini della ragazza, come ha sottolineato, sempre sul Corriere, Claudio Magris. Un plauso che si può estendere ai bergamaschi in genere. Da quelle parti lo so, siamo vicini-sono consapevoli che i giovani magrebini, ro meni e albanesi sono la spina dorsale di tante imprese di costruzioni. Senza manodopera straniera, crollerebbero. Non solo in provincia di Bergamo specializzata nel settore edilizio. In tutta la Lombardia e - sospetto - in buona parte d’Italia. Mi chiedo però, e ti chiedo, Franco: aggiungere la nazionalità in cronaca - sempre, anche quando si tratta di cittadini italiani - è un’informazione inutile? Siamo sicuri che tacere l’origine di chi commette/è accusato di un reato sia sufficiente per combattere il razzismo? Non comincerà invece il lavorio di deduzione sui nomi pubblicati dai giornali, e lo sguardo lombrosiano sui volti apparsi in tv? Certo, in Svezia si tace la nazionalità del reo; ma si sta affermando Sverige demokraterna, un partito xenofobo. Solo una coincidenza? Trovo vergognosi certi discorsi italiani sugli immigrati. Spesso escono dalla bocca di chi ha bisogno di loro (se le badanti straniere incrociassero le braccia, l’Italia si fermerebbe in 48 ore). Trovo rischioso, però, rifiutare l’evidenza (alcune minoranze commettono, proporzionalmente, più reati di altre). La reticenza produce infatti fastidio; il fastidio diventa rabbia; la rabbia produce intolleranza; e l’intolleranza trova, prima o poi, un partito che le dà voce. Meglio essere franchi e ammetterlo: troppi rom, purtroppo, vivono di espedienti e furti; moltissimi marocchini e tunisini lavorano onestamente in Italia, ma la percentuale di magrebini nelle nostre carceri resta pericolosamente alta. Non facciamo gli struzzi. Cerchiamo di capire perché certe cose accadono, invece. Giustizia: parla Fikri; le mie ore in cella da innocente, adesso l’Italia mi ridia l’onore di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 10 dicembre 2010 “Mi chiamo Mohammed Fikri, sono un ragazzo di 23 anni che vive e lavora onestamente, in Italia, da tempo. Con la scomparsa di Yara Gambirasio non c’entravo proprio nulla. Ho vissuto un incubo. Spero tanto che la ritrovino immediatamente. Sana e salva”. Inizia così il racconto del ragazzo marocchino, residente in Veneto, che è stato scarcerato il 7 dicembre. Dopo l’uscita dalla casa circondariale nessuno sa dove va. Molti pensano nel Trevigiano, a casa di parenti. Ma nessuno lo vede. Poi, è lui a decidere di parlare. Il messaggio arriva tramite i suoi familiari. “Concederà l’intervista ma a patto di non chiedere in quale città si andrà”. Si parte. Imboccata l’autostrada, si percorrono centinaia di chilometri. A tarda sera, viene chiesto di uscire ad un casello vicino. Pbchi chilometri ed ecco Mohammed. Siamo vicini al mare. Lui è in strada accompagnato da alcune persone. Il volto è scarno, pallido e anche il fisico è molto asciutto. Parla e per la prima volta si fa fotografare. “Quando ti accade una cosa del genere è difficile anche solo mangiare o prendere sonno perché, purtroppo, ti cambia la vita”, n ragazzo è teso. Fissa, dritto negli occhi, il suo interlocutore. Poi si apre. “Se non ho parlato sino ad ora l’ho fatto perché ero molto provato da questa brutta esperienza. Non c’era nessun altro motivo in questa mia decisione”. Per questo motivo, ha scelto lui il luogo e l’ora dove incontrarsi. “Cercate di capirmi, credo che sia umano dopo tutto quello che mi è successo”. Durante l’incontro controlla sempre l’esattezza delle sue parole fissarsi nel bloc notes. Anche i parenti, comunque, gli stanno accanto. Vigilano sulle sue parole. È una famiglia numerosa e molto unita. Ognuno cerca di fare qualcosa per aiutarlo. Ad esempio, era stato il cugino Abderrazaq il primo a capire che forse le sue parole, nell’intercettazione che sembrava inchiodarlo, potevano essere state, invece, fraintese. Che cos’è successo il 4 dicembre scorso? “Mi ero imbarcato sul traghetto che mi avrebbe finalmente riportato in Marocco. A casa. Come avevo concordato con il mio datore di lavoro stavo ritornando dalla mia famiglia per un periodo di riposo”. Sulla data della sua partenza si erano creati equivoci? “Non c’era nessun equivoco per me. Inizialmente dovevo andare via il 20 dicembre ma poi, visto che con il maltempo il nostro lavoro si ferma, avevo deciso di chiedere l’aspettativa e imbarcarmi il 4 dicembre”. Una visita alla famiglia, la voglia di chiacchierare con gli amici d’infanzia e magari raccontare di come si era integrato bene in Italia. Perché Mohammed, in fin dei conti, con impegno e fatica aveva conquistato ciò che, magari, molti suoi coetanei italiani non hanno saputo fare: un posto, forse l’amore e soprattutto il rispetto e la stima del suo “principale”. Come lui stesso ha raccontato nei giorni scorsi. Il ritratto di Mohammed è quello di “uno preciso e con tanta voglia di imparare”. Una vacanza, al caldo, sarebbe stata ideale dopo mesi trascorsi a lavorare su e giù lungo tutto il Nord Italia. Torniamo a quella partenza. “Ero molto felice dopo essermi imbarcato a Genova. Sapevo che avrei rivisto la mia famiglia alla quale sono molto legato. Ero andato a cena e stavo parlando con dei miei connazionali. Tutto tranquillo. Poi, all’improvviso, si sono avvicinati due ufficiali della nave e mi hanno chiesto i documenti. Glieli ho dati senza batter ciglio. Mi hanno chiesto di seguirli nella cabina di comando. Ho trovato dei militari italiani che mi hanno fatto delle domande. Non avevo mai sentito neanche il nome di Yara. Poi mi hanno pure mostrato la foto. Niente. Non l’avevo mai vista. Mi hanno detto che avrei dovuto seguirli. Siamo rientrati in porto. Mi sono ritrovato in cella, a Bergamo, e da quel momento è iniziato il mio incubo. Mi è crollato il mondo addosso. Sono passato dalla gioia di pensare a riabbracciare i miei genitori alla paura delle ore trascorse da solo in una cella”. A Bergamo, in carcere, cosa le è passato per la testa? “Milioni di cose. Ma volevo dimostrare subito la verità e cioè che io non c’entravo nulla. Più passava il tempo e più volevo urlarlo al mondo. Ad un certo punto, però, ho avuto anche paura di non essere creduto. L’idea di trascorrere tanti anni da innocente in cella mi toglieva il respiro. Ho pensato al peggio. Ho sperato anche che la notizia non fosse arrivata ai miei genitori”. Come li ha convinti a liberarla? “Con la forza della verità. Ho risposto a tutte le domande. Mi dovevano credere. Poi meno male che hanno riascoltato la telefonata ed hanno capito bene le parole che avevo pronunciato nel mio dialetto”. Man mano che procede con il racconto i tratti del viso si rilassano. La maschera di tensione si allenta. Serba rancore nei confronti di qualcuno? “No. Io sono musulmano e la mia religione m’impone di chiedere perdono anche per chi ha sbagliato. Io ho già perdonato”. Cosa la conforta oggi? “I miei familiari. Non so davvero come ringraziarli per l’aiuto che mi hanno dato. Poi Roberto, il mio “principale” che ha fatto tanto per me in questi anni. Presto voglio tornare a lavorare e magari il tempo mi aiuterà a superare questi brutti giorni”. Se potesse esprimere un desiderio, cosa vorrebbe ora? “Vorrei che l’Italia mi restituisse la dignità”. Campania: denuncia del Pd; nelle carceri condizioni sanitarie inadeguate Il Velino, 10 dicembre 2010 “Dalle visite effettuate nelle ultime settimane negli istituti penitenziari della provincia di Salerno e dalle audizioni con tutti gli operatori che da anni svolgono ogni tipo di attività in tali strutture, sono emerse sempre più le preoccupanti condizioni socio - sanitarie in cui sono costretti a vivere i detenuti”. Questa la denuncia mossa dai consiglieri regionali del Pd Donato Pica (presidente IV Commissione speciale regionale - Per la prevenzione del fenomeno del mobbing sui luoghi di lavoro e di ogni forma di discriminazione sociale, etnica e culturale) e Anna Petrone (vicepresidente V Commissione permanente regionale - Sanità e Sicurezza Sociale), che sarà rappresentata nel corso di una conferenza stampa indetta per lunedì 13 dicembre alle 11 al Grand Hotel Salerno (via Lungomare Clemente Tafuri 1 a Salerno). All’incontro parteciperanno: Eleonora Amato (Presidente dell’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria), Massimo D’Andrea (Dirigente Asl Salerno Resp. Sanità Penitenziaria), Adriana Tocco (già Garante dei detenuti Regione Campania), i Direttori dei Distretti sanitari e i referenti sanitari degli Istituti penitenziari di Salerno, Eboli, Sala Consilina e Vallo della Lucania. Toscana: la Regione punta alla chiusura dell’Opg di Montelupo entro il 2011 Asca, 10 dicembre 2010 La Regione Toscana sta lavorando per arrivare alla chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, e a questo scopo ha sottoscritto un protocollo d’intesa con le autorità giudiziarie. Lo ha spiegato l’assessore regionale al Welfare, Salvatore Allocca, rispondendo in commissione Sanità a un’interrogazione presentata dalla consigliera Daniela Lastri (Pd). Lastri aveva chiesto quali fossero le intenzioni della Giunta riguardo a Montelupo dopo che un’ispezione della Commissione d’inchiesta sull’efficacia del servizio sanitario aveva riscontrato gravi carenze strutturali. Allocca, alla cui risposta si è poi aggiunta quella dell’assessore al Diritto alla salute, Daniela Scaramuccia che ha integrato alcuni numeri e dati, ha ricordato che la normativa regionale prevede la dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari e il lavoro in questo senso, che è già cominciato, dovrebbe prevedibilmente concludersi entro il 2011. L’intesa stipulata prevede che Montelupo venga sostituito con una struttura a sorveglianza attenuata, che sarebbe stata identificata nell’attuale Solliccianino. La struttura di Scandicci verrebbe così a ricoprire una funzione prettamente sanitaria. I pazienti attualmente ricoverati a Montelupo sono 170, provenienti da varie regioni italiane. La procedura prevede il rinvio dei non toscani alle regioni di origine, nonché la dimissione di coloro che possono essere presi in carico dal territorio, o possono essere seguiti dal sistema sanitario. Rimarrebbero in carico coloro che hanno bisogno di essere sottoposti a misure di stretto controllo. “Ribadisco - ha concluso Allocca - che la Regione ritiene il superamento degli Opg un atto dovuto, e un atto di civiltà”. Roma: ai detenuti anche un Garante del Comune? il nome è Lillo Di Mauro di Massimiliano Raffaele Non Solo Chiacchiere, 10 dicembre 2010 Da più parti si chiede che sia (giustamente e “inevitabilmente”) affidato a Lillo Di Mauro l’incarico di Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma, qualora - anche in considerazione dell’inarrestabile aumento dei detenuti nelle carceri romane - non fosse più considerato sufficiente il protocollo tra l’Assessorato alle Politiche Sociali e l’Ufficio del Garante Regione Lazio. Da circa trent’anni Di Mauro è impegnato nel sociale. Ha curato e organizzato numerosi e innovativi progetti per il reinserimento sociale di particolare categorie di cittadini in svantaggio sociale come i detenuti, i minori a rischio di devianza, anziani e diversamente abili. Docente sul tema dei diritti in numerosi corsi di formazione e aggiornamento del Ministero della Giustizia, del Ministero dell’Interno e degli Enti Locali, relatore in convegni di studio locali nazionali e internazionali su servizi sociali, immigrati, giovani devianti e l’esecuzione penale. Ma non basta! Ha organizzato e curato work shop, convegni e seminari di studio sui temi dei diritti, dei servizi sociali, dei giovani e dei detenuti. Presiede da 13 anni la Consulta Permanente per i problemi Penitenziari del Comune di Roma ed è stato il curatore e coordinatore del Piano per il carcere del Comune di Roma e del Piano permanente per l’inserimento in lavori di pubblica utilità decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274 per i condannati dal Giudice di pace dal 2003 al 2008, Responsabile dell’Area Giustizia della Cooperativa Cecilia, Direttore del Centro Giovani la Bulla per il recupero di minori sottoposti a provvedimenti penali, cofondatore e Vice Presidente del “Forum Nazionale per la tutela della salute dei detenuti”. Nel dicembre del 2007 ha ricevuto l’Onorificenza del Comune di Roma per i 10 anni della Consulta Penitenziaria. Ha ricoperto incarichi politici come responsabile carcere nella federazione romana e per l’Area Tematica Aequa Giustizia nazionale per il partito dei D,S. dal 1998 al 2007. Da pochi giorni è il nuovo responsabile politiche per il carcere e i migranti dei Verdi all’interno della Costituente Ecologista. Questo lungo elenco, tratto dalle notizie pubbliche che si hanno su di lui, confermano che sia l’unico ad avere tutti i requisiti e la pluriennale esperienza per occupare l’oneroso incarico di Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma, anche in virtù dei suoi antichi e ottimi rapporti con il Garante Angiolo Marroni. Senza trascurare la stima da parte delle istituzioni carcerarie e soprattutto dai detenuti e dall’associazionismo laico e cattolico. Non si comprendono, pertanto, le strambe ricerche di un nome da parte dei competenti (?) del Comune di Roma, che erano riusciti addirittura a individuare la persona giusta in un Ispettore di Polizia Penitenziaria. Accettando il recente incarico all’interno della Costituente Ecologista, Lillo ha rilasciato un’ampia dichiarazione che riportiamo parzialmente (Il testo integrale è riportato da “Terra” del 20 novembre scorso). “Gli scenari ambientali sono cambiati, i territori hanno negli anni modificato bisogni e necessità, modi di vita e di convivenza. Cambiamenti di cui dobbiamo avere conoscenza e informazione, escogitando una nuova dimensione d’intervento politico che non solo necessita di modifiche strutturali e organizzative ma principalmente di un modo di fare politica e cultura, più improntato alla riflessione e osservazione dei fenomeni sociali e alle dinamiche e bisogni che li caratterizzano. Dobbiamo ripartire da dove le concentrazioni di gente sono più alte, perché qui esplodono le contraddizioni e le difficoltà a convivere, a trovare punti d’incontro, a comunicare le diversità. Dobbiamo dare una risposta al bisogno di giustizia sociale, dobbiamo saperlo interpretare. L’affermazione di nuove realtà sociali, nel campo del lavoro, dei servizi, il protagonismo di nuove figure di cittadini provenienti dai paesi più poveri del mondo, la multietnicità e la ricchezza delle differenze nelle culture e nei modi di vivere, fanno della nostra società una realtà naturalmente diversa da quella che abbiamo conosciuto fin qui. L’Italia è una nazione senza confini aperta alle differenze. Diventa per noi importante promuovere subito azioni dal basso per decostruire il piano politico - burocratico voluto dalla legge “Bossi - Fini” che introduce il disvalore sociale e culturale dell’esclusione. Le carceri come del resto tutto il sistema penale italiano, sono sottoposte ad emergenze che hanno fatto perdere alla popolazione detenuta le garanzie di legalità del trattamento nella fase della detenzione, annullando il dettato costituzionale che individua nella pena il mezzo per il recupero del condannato. Il nostro impegno deve essere volto a stimolare gli enti locali a farsi carico di svolgere questo compito ritenendolo un dovere etico e un servizio alla città che, nel recupero della persona e nella accoglienza, trova la propria vocazione e la propria sicurezza. In questa visione, la funzione della pena, la cultura professionale dei servizi alla persona e gli interventi orientati al reinserimento devono essere sempre più un patrimonio civile e politico del territorio che ambisce a perseguire giustizia, sicurezza e legalità per la comunità che rappresenta”. Volterra (Si): sciopero del vitto dei detenuti-studenti, contro i tagli all’istruzione Il Tirreno, 10 dicembre 2010 Clamorosa iniziativa dei carcerati - studenti di Volterra contro i tagli all’istruzione. Anche loro “presenzieranno” infatti alla grande manifestazione di protesta prevista per il 14 dicembre. Non potendo ovviamente uscire dal carcere, gli studenti della sezione per geometri “Graziani” dell’Itcg “Niccolini” di Volterra, hanno deciso di effettuare uno sciopero pacifico di due giorni, il 13 e 14 dicembre, con il rifiuto del vitto dell’amministrazione. “Facciamo presente - affermano gli studenti - carcerati - che questo sciopero non è nel modo più assoluto rivolto verso la direzione della casa di reclusione. Lo sciopero ha come motivazioni la paventata chiusura o il ridimensionamento delle scuole carcerarie che saranno inserite nei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, con una perdita notevole di personale docente”. Forlì: da Elisa Petroni (Fli) un appello al ministro Alfano e il sostegno ai sindacati Sesto Potere, 10 dicembre 2010 “Le condizioni materiali della vecchia costruzione del carcere di Forlì della Rocca sono precarie e le condizioni igienico - sanitarie e ambientali che devono essere sopportate da reclusi che scontano un tasso di sovraffollamento oltre i limiti e personale di custodia penitenziaria sotto organico sono ormai invivibili. Incombono le relazioni dei due sopralluoghi dell’Ausl completate il 28 aprile scorso e il 15 maggio e notificate all’amministrazione comunale che delineavano la necessità di un’immediata bonifica da topi, zecche, scarafaggi, guano di piccione e altri parassiti. E si parlava addirittura di “struttura completamente inadeguata dal punto di vista igienico - sanitario! Anche i sindacati hanno chiesto a fine ottobre di risolvere il problema in maniera risolutiva. Ma ad oggi purtroppo dobbiamo ravvisare un silenzio assordante da parte delle istituzioni locali e nazionali!”. Questa la denuncia lanciata da Elisa Petroni, coordinatrice provinciale di Forlì - Cesena di Futuro e Libertà. “L’informazione che entro la fine dell’anno (ma erano state promesse dal governo già dall’estate scorsa) cinque unità di polizia penitenziaria dovrebbero essere assegnate al carcere non risolvono la grave carenza di personale di sorveglianza - aggiunge l’esponente locale dei “finiani” - e quanto allo stato dei lavori del nuovo carcere di Forlì in zona Quattro (è stata completata solo la recinzione dell’area, una parte degli alloggi di servizio e del block - house di ingresso) si parla di una scadenza lontana nel tempo, addirittura il 2013. Come dire che già dai prossimi mesi tutti i problemi torneranno a galla, soprattutto in estate quando con esplosione del turismo in riviera si moltiplicano i reati e i trasferimenti in carcere. Inoltre, c’è il problema dovuto al trasferimento delle detenute: considerato che il carcere femminile della Rocca copre, infatti, anche i distretti di Ravenna e Rimini, obbligando il personale a funzioni di servizio fuori mura”. “E allora mi chiedo, perché non è stato costituito un tavolo di concertazione? Perché le istituzioni territorialmente competenti (in primis Ausl e Comune) non hanno risposto all’appello dei sindacati (la Fp/Cgil) e/o richiamato duramente all’ordine non soltanto il provveditore regionale, il capodipartimento e il sottosegretario alla Giustizia ma il titolare stesso del dicastero, ovvero: il ministro Alfano? Forse perché non lo si vuole distrarre troppo dalla sua frenetica attività pro - Berlusconi?”: ironizza Elisa Petroni. “Ma è evidente che se si dovessero verificare nuove emergenze nella sezione dei detenuti con carcerazione attenuata (tetto sfondato e pericolante, infestazione di piccioni e ratti) o altri casi di autolesionismo o tentato suicidio tra i detenuti, soprattutto di extracomunitari, dovuto proprio alle condizioni di angustia e degrado in cui versa la struttura , il sindaco , come massima autorità di tutela della salute pubblica, non si potrebbe sottrarre , allora sì, all’obbligo di predisporre una celere ordinanza di sgombero, ma non vorremmo che in quel caso fosse troppo tardi”. Chieti: buone pratiche … buoni esempi, l’inserimento di un detenuto in azienda di Stefania Ortolano (Voci di Dentro) Ristretti Orizzonti, 10 dicembre 2010 È stato presentato ieri mattina alla stampa il progetto pilota sull’inserimento di un detenuto della Casa Circondariale di Chieti presso la Walter Tosto, azienda leader nel settore della caldareria. Il progetto rappresenta la tappa finale di un percorso iniziato nell’Associazione Onlus Voci di dentro, dove tramite una borsa lavoro del Comune di Chieti, il detenuto ha lavorato per quindici mesi alla redazione della rivista, assieme ad altri due persone. “La nostra attività di volontariato - ha spiegato il presidente di Voci di Dentro Francesco Lo Piccolo - è nata dentro il carcere, si è spostata fuori con l’apertura della redazione di Voci di dentro, dove un detenuto ha lavorato con una borsa del Comune assieme un altro che ha usufruito di una borsa dell’Università D’Annunzio e a un terzo, affidato dalla Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna). Naturalmente il lavoro trattamentale non basta, la tappa successiva è l’inserimento nel mondo del lavoro, che grazie all’impegno di tutti oggi possiamo celebrare qui. La Walter Tosto ha risposto positivamente, ora ci aspettiamo che anche altre aziende e industrie partecipino a questa iniziativa, tenendo in considerazione anche gli sgravi fiscali permessi dalla Legge Smuraglia”. “Tale percorso - ha spiegato l’assessore Politiche Sociali ed Assistenziali, Emilia De Matteo - sviluppatosi all’interno dell’Area Inclusione Sociale del Comune di Chieti, ha visto il prezioso apporto di tutor, educatori, polizia penitenziaria e naturalmente di Voci di dentro, permettendo appunto l’assunzione con contratto di formazione di sei mesi, con la dichiarata intenzione di rinnovo, in una delle imprese più importanti del nostro territorio”. “Spesso - ha aggiunto l’assessore - c’è un timore reverenziale da parte delle aziende a fare un’azione di questo tipo. Definisco quello della Walter Tosto un atto di coraggio”. L’Amministratore delegato della Walter Tosto, il dottor Luca Tosto, ha così commentato l’iniziativa: “Ho visto lo sforzo e la passione dell’Associazione, e dopo aver letto il giornale Voci di dentro, e i testi scritti dagli stessi detenuti, testi dal contenuto disarmante, ho subito espresso la volontà dell’azienda di essere vicina a questo progetto. Non posso promettere che la cosa si ripeterà per un certo numero di volte perché siamo in un periodo critico, ma, almeno per questo caso, una grande ditta come la nostra si sta impegnando per dare la possibilità a chi ha sbagliato di reinserirsi”. Piena soddisfazione a nome dell’ Istituto penitenziario di Chieti è stata espressa dal suo direttore, la dottoressa Giuseppina Ruggero: “Questo è un riconoscimento del lavoro quotidiano che facciamo e denota grande sensibilità verso persone con problemi, in questo caso un detenuto rumeno che proveniva dal Carcere San Vittore di Milano, dove era considerato solo un numero. Oggi si è attuato il principio costituzionale del reinserimento di chi ha sbagliato, principio che senza la sensibilità e la disponibilità delle imprese e delle associazioni è destinato a rimanere lettera morta”. ““Si è instaurata una rete - ha concluso il commissario il comandante Valentino Di Bartolomeo - abbiamo riconosciuto il valore della società e ci siamo aperti all’esterno. Un detenuto che lavora in un’impresa della zona significa che anche noi stiamo entrando nell’ambiente”. Cuneo: imparare un mestiere per cambiare vita, la speranza viene dalle misure alternative di Diego Motta Avvenire, 10 dicembre 2010 La prima volta che esci, ti sembra tutto diverso”. Eder, albanese, 26 anni, aspetta con ansia il primo permesso premio. È un detenuto “ articolo 21”, ammesso cioè a un regime alternativo che prevede il lavoro esterno per chi è stato condannato. Eder sa di aver commesso degli errori, ma ha la fortuna di scontare la pena in un carcere dove, dice, “mi stanno mettendo alla prova per vedere se sono cambiato: lavoro sei ore al giorno e faccio un po’ di tutto, dalla manutenzione ai piccoli lavoretti. È qualcosa che serve non solo per sentirmi impegnato, ma anche per tornare in contatto col mondo esterno”. Con lui c’è il connazionale Victor, che già da qualche tempo passa ogni tanto qualche giorno a casa con la famiglia. “E intanto mi danno qualcosa per mantenermi e per mantenere i miei figli” spiega. Per il tunisino Chekr, il più giovane dei tre coi suoi 22 anni, “la scoperta più grande è stata capire che non ero un ragazzo finito, nonostante i miei sbagli. Gli educatori mi hanno aiutato molto in questi mesi e, seguendo i loro consigli, oggi riesco a sentirmi un po’ più pulito”. Scene di vita dall’interno di un carcere, quello di Cuneo, che sta vivendo una metamorfosi silenziosa. Da istituto di massima sicurezza, che ha visto passare centinaia di detenuti provenienti dalle Br e che tuttora “ospita” oltre 90 persone in regime di 41 bis, la Casa circondariale punta a diventare un istituto a gestione ordinaria, in cui la scommessa del lavoro per i reclusi e dell’alfabetizzazione soprattutto per gli stranieri diventa la cartina di tornasole di una nuova vocazione. “Sono due scommesse vinte, anche in un contesto in cui le risorse economiche sono sempre più limitate” racconta il direttore Claudio Mazzeo, che da poco meno di un anno sta tentando di rivoluzionare il profilo della struttura. “Quando arrivano da noi, i detenuti dicono ancora: questo è un carcere punitivo - prosegue. In parte questo è vero, perché il 40% della popolazione carceraria resta sottoposto a un regime di massima sicurezza. Nel frattempo, però, l’obiettivo è riuscire a integrare sempre di più questa struttura col territorio”. Le strade intraprese sono diverse: le convenzioni con gli istituti tecnici e professionali della zona, con specializzazioni che vanno dall’alberghiero all’edile, i percorsi di alfabetizzazione avviati con gli immigrati, le attività di reinserimento lavorativo gestite grazie agli accordi con ditte e - sterne, in collaborazione col Comune e la Provincia. “L’altra grande ricchezza è rappresentata dalle associazioni dei volontari” aggiunge Mazzeo, che in alcune fasi hanno mostrato di poter coprire un ruolo complementare a quello svolto dall’ente pubblico. Prendete il caso di Ariaperta, nata dall’idea di un gruppo di giovani in collaborazione con la Caritas diocesana. “C’è un bisogno crescente di relazioni, soprattutto per chi vive dietro le sbarre” spiega il presidente di Ariaperta, Paolo Romeo. Che insieme a un’altra ventina di persone organizza l’insegnamento di diverse materie scolastiche, si occupa dell’erogazione di contributi economici per i nullatenenti e organizza colloqui individuali settimanali, facendo “rete” con le famiglie. Suor Caterina: fu Peppino ad aprirmi gli occhi Ricordo come fosse ieri il primo detenuto che ho conosciuto in carcere. Si chiamava Peppino: ha vissuto dietro le sbarre per 17 anni. E pensare che era entrato solo per dei furtarelli. Il primo colloquio avuto con lui è stato un dono di Dio”. Suor Caterina Galfré andrebbe avanti per ore a raccontare dei suoi incontri nel carcere di Cuneo e nelle altre tre case circondariali di questa provincia piemontese. Eppure questa è solo una delle tante vite vissute da questa religiosa delle Suore di San Giuseppe. “Mio papà era un ragazzo del ‘99, uno che ha gustato e vissuto la Liberazione. Io avevo 11 anni quando finì la Seconda guerra mondiale e per molto tempo respirai l’aria buona della grande apertura al mondo, grazie a una famiglia con mamma, papà e sette fratelli”. Poi la vocazione religiosa durante l’adolescenza, il cammino di preparazione e la professione definitiva. La decisione di consacrarsi completamente a Dio. “Ho insegnato 12 anni nelle scuole paritarie di San Giuseppe e 21 anni negli istituti statali, quando a un certo punto mi chiesero, tramite la Caritas di Cuneo, di preparare insieme ad altri professori un gruppo di detenuti”. Il primo ricordo? “I 7 - 8 cancelli che si incontrano prima di poter salutare o abbracciare chi è rinchiuso dentro. Non osavo alzare gli occhi, anche se le mani che si alzavano dalle celle come richiesta d’aiuto le ho bene fisse in mente”. Vent’anni dopo, ha deciso che quello è e resterà il suo mondo per sempre. Senza fare cose straordinarie, visto che per quello ci pensa il Vangelo. Basta la straordinaria normalità di tanti volontari che, come lei, hanno iniziato ad accompagnare i cammini, a volte disperati a volte no, di centinaia di persone. Ascoltando, confortando, scrivendo. Non sapete quante lettere scriva suor Caterina. Scrive sempre, continuamente. Ai detenuti, alle loro famiglie, alle guardie carcerarie. A chi entra e a chi esce da quella prigione. Fino a 50 lettere alla settimana. “Sono diventata la mamma di tutti - dice - . D’altra parte, quando non hai niente, basta niente per darti speranza”. La speranza di questa suora in realtà è molto concreta e si basa su una grande voglia di vivere e su un’umanità contagiosa che trasmette a tutti, anche per telefono. “Vedo bene i problemi che ci sono - spiega. Le carceri sono troppo piene e gli stranieri e i più giovani sono aumentati tantissimo rispetto a quando ho cominciato. Ho notato però quali trasformazioni possono esserci in chi viene valorizzato, nonostante tutto, attraverso il lavoro e le piccole attività quotidiane”. Suor Caterina non è si accontenta, anzi rilancia. “Da qualche tempo lavoro con un’associazione di laici che si chiama Ariaperta e preparo dei momenti di formazione religiosa, sia per i detenuti che per i volontari: vengono italiani, albanesi, macedoni. Ci interroghiamo sulle Scritture e condividiamo un po’ di riflessioni: cos’è il male e il peccato, quale percorso insieme possiamo fare per recuperare. La mia preghiera per loro è povera, ma so che il Signore fa cose grandi”. Genova: il Sappe denuncia; tre episodi di violenza in poche ore a Pontedecimo Ansa, 10 dicembre 2010 Tre episodi di violenza in poche ore riportano l’attenzione sulla casa circondariale di Pontedecimo dove il numero dei detenuti è quasi il doppio rispetto a quello consentito e quello degli agenti di polizia penitenziaria appena la metà. Ieri mattina intorno alle 12 un detenuto tossicodipendente italiano di 30 anni, già in passato al centro di vicende di intolleranza nel carcere al punto da essere stato già allontanato più volte dall’istituto, ha colpito con un pugno al volto un agente impegnato nella sorveglianza mandandolo in ospedale. Poco più tardi un detenuto sempre italiano ha tentato di uccidersi prima ferendosi volontariamente al collo e poi inghiottendo una lametta. È stato salvato da un agente e ora è ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Martino. In serata un marocchino ha aggredito violentemente e ferito a colpi di lametta due connazionali attirati nella sua cella con la scusa di un caffè. Entrambi sono stati feriti e trasportati al San Martino nel reparto detenuti. Roberto Martinelli, segretario aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, denuncia una situazione insostenibile nel carcere genovese: “Oltre ai problemi di sovraffollamento e di carenza di personale - attacca - gli agenti sono mal considerati dal comandante di reparto che li demotiva con continui rapporti disciplinari e non li fa lavorare nella condizione ideale con gravi rischi per la sicurezza degli stessi poliziotti ma anche dei detenuti. Per rendersene conto basta pensare che ieri a guardia di tre piani c’era un solo agente”. Nel carcere di Pontedecimo sono rinchiusi alcuni detenuti “eccellenti” tra cui Luca Delfino, Ivan Bogdanov e altri tifosi slavi arrestati per i disordini di Italia - Serbia. Campobasso: detenuta vuole vedere padre morente; scortata in ospedale, ma lui sta morendo a casa Ansa, 10 dicembre 2010 Per Valeria D’Egidio, trentenne detenuta nel carcere di Torino e per suo padre, Giovanni, malato terminale di tumore ai polmoni che aveva chiesto di poterla riabbracciare ancora una volta, non c’è davvero pace. Stamani, grazie all’interessamento del direttore del carcere torinese Le Vallette, Pietro Buffa, e del magistrato di sorveglianza di Torino, la ragazza è stata trasferita, con un viaggio in un furgone blindato di oltre 10 ore, da Torino all’ospedale Cardarelli di Campobasso dove il papà Giovanni era ricoverato ma dove non c’era più. I medici, infatti, in considerazione del suo stato, lo hanno dimesso alcuni giorni fa per consentirgli di passare le ultime ore di vita a casa, a San Polo Matese, ma il trasferimento non era stato comunicato. Così la ragazza, che sta scostando un anno di pena per furto, non ha potuto vedere il padre in quanto il blindato che la scortava, ovviamente non ha potuto cambiare destinazione e ha portato la ragazza nel vicino carcere di Foggia. “Domani presenteremo istanza al magistrato di Foggia - hanno spiegato i due legali della giovane, Anna Orecchioni e Giacinto Canzona - e ci auguriamo che avvenga anche nel Molise quanto accaduto a Torino, dove, con grande solerzia e umanità, il direttore del carcere e il magistrato di sorveglianza insieme si sono dati da fare per permettere subito il viaggio di Valeria. I tempi sono sempre più stretti in quanto, ci hanno detto oggi i medici, le condizioni dell’anziano padre sono in peggioramento”. Napoli: arrestata Rosa Russo, latitante per cinque mesi dopo l’evasione dal carcere di Trani Ansa, 10 dicembre 2010 È finita la fuga di Rosa Russo. La donna, originaria di Melfi, finita in carcere 22 anni fa per un efferato delitto commesso nella città federiciana, non faceva più ritorno nel carcere di Trani dallo scorso giugno. Alla donna era stata riconosciuta la misura della semilibertà e qualche settimana prima del mancato rientro in carcere aveva chiesto un permesso per lavorare nel ristorante della sorella in Campania, che però le era stato negato. Le indagini era partite da qui ma la donna era stata cercata anche a Melfi dove spesso faceva ritorno. È qui che la donna nel 1988 si era resa responsabile di un terribile omicidio: con 18 coltellate aveva ucciso la nipote quattordicenne Lucia Montagna, insieme con le sorelle Maria Altomare e Filomena, anche esse condannate all’ergastolo. A Melfi mai nessuno ha dimentica quel tragico fatto. Ieri la donna è stata fermata da agenti della polizia penitenziaria sotto la direzione investigativa del Comando di reparto di Trani. Brescia: “Ripuliamo le strade cattive”, progetto dell’associazione Carcere e Territorio Ansa, 10 dicembre 2010 Si intitola “Ripuliamo le strade cattive” il progetto che l’associazione “Carcere e territorio” e il Centro servizi volontariato, in collaborazione con il garante dei diritti dei detenuti, hanno ideato per offrire ai detenuti un’opportunità di riscatto e di rieducazione attraverso attività di volontariato. Una possibilità offerta a chi, sbagliando, ha danneggiato la collettività oltre che i singoli e che si profila come un’occasione, parziale magari, ma concreta, di rifondere il debito con la giustizia prestando gratuitamente la propria capacità lavorativa al servizio della comunità. Dalla manutenzione del verde alla cura di animali, dalle biblioteche ed enti culturali al sostegno di anziani e adulti disagiati sono molti gli ambiti in cui i detenuti possono dare il proprio contributo. Le associazioni di volontariato e le cooperative interessate ad offrire questa possibilità devono contattare il Centro servizi volontariato telefonando allo 0302284900. L’associazione “Carcere e territorio” provvede poi a mettere in contatto associazione e detenuto occupandosi dell’assicurazione e dell’attività di tutoraggio. Chi può accedere al progetto? I carcerati che hanno ottenuto l’idoneità da parte dell’amministrazione penitenziaria e dalla magistratura, come ha spiegato Carlo Alberto Romano, presidente di Act. Per Mario Fappani, garante dei diritti dei detenuti, l’obiettivo è uno solo: “Contrastare la ricaduta nella delinquenza”. Varese: laboratorio dell’Uisp, tre detenuti creano dei murales per il carcere Varese News, 10 dicembre 2010 La programmazione pedagogica della casa circondariale, in collaborazione con l’associazione Uisp Varese, ha previsto per il 2010 la realizzazione di due murales nella sala colloqui e nella sala d’aspetto del carcere. Al laboratorio hanno partecipato 3 detenuti, rispettivamente di nazionalità italiana, senegalese e marocchina, con la supervisione di un istruttore decoratore messo a disposizione da Uisp Varese. La valenza pedagogica dell’iniziativa è evidente, soprattutto in un contesto come quello del carcere dove l’espressione dell’affettività subisce delle limitazioni dovute alla struttura e al contesto. I colloqui familiari sono l’unico momento per i detenuti di manifestare la loro emotività. In particolare, i colloqui con i figli rappresentano momenti speciali e unici che vanno assolutamente tutelati sia nell’interesse della persona detenuta che, privato della libertà, mantiene diritti e doveri verso i figli, sia di quest’ultimi che hanno il diritto di mantenere un buon rapporto col genitore. Verranno posti inoltre nelle sale, giochi, libri di fiabe e materiali per disegnare. Tale iniziativa dunque ha l’obiettivo di migliorare gli incontri delle famiglie creando un ambiente più confortevole e adatto ai bambini e aiutando il genitore a comportarsi nel modo più naturale possibile. L’iniziativa è inserita all’interno di un progetto più ampio promosso a livello centrale dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Roma dal nome P.E.A 16/2007, “Trattamento penitenziario e genitorialità - percorso e permanenza in carcere facilitati per il bambino che deve incontrare il genitore detenuto”. L’Uisp (Unione Italiana Sport Per tutti) è l’associazione di sport per tutti che ha l’obiettivo di estendere il diritto allo sport a tutti i cittadini. Lo sport per tutti è un bene che interessa la salute, la qualità della vita, l’educazione e la socialità. Uisp Varese da anni collabora con le case circondariali di Varese e Busto Arsizio anche in virtù del protocollo nazionale di intesa stipulato con il Ministero di Grazia e Giustizia. Uisp, infatti, considera lo sport e le diverse forme artistiche ed espressive da una parte un ponte di collegamento importante tra il dentro e il fuori le mura, dall’altra un canale di reinserimento sociale privilegiato per rispondere all’esigenza che la pena non deve e non può assolvere solo le funzioni retributive e di difesa sociale, ma deve, innanzitutto, mirare alla rieducazione e riappropriarsi di una funzione risocializzante, attraverso l’adozione di metodologie alternative alla pura e semplice detenzione. Roma: borsa di studio per tre detenuti minori, con Premio Internazionale “Sciacca” Adnkronos, 10 dicembre 2010 Tre minorenni reclusi in un carcere minorile, sabato prossimo, almeno per qualche ora usciranno dalla detenzione per entrare nell’Aula magna della Pontificia Università Urbaniana e ritirare personalmente una borsa di studio nell’ambito della IX edizione del Premio Internazionale “Giuseppe Sciacca”. I minori, spiega una nota degli organizzatori del premio Sciacca, hanno risposto al bando inviando i propri lavori artistici e artigianali: due salvadanai in terracotta policromi (realizzati da I.D.P., primo premio), un Vangelo in terracotta adornato da fiori secchi (di D.M., secondo) e un’opera miscellanea di scrittura, pittura e design realizzata con materiali di recupero (di A.A., terzo classificato). Il premio nasce da un protocollo d’intesa che lega da anni il Premio Sciacca e il Dipartimento Giustizia Minorile del ministero della Giustizia, diretto da Bruno Brattoli, coadiuvato dal direttore generale Serenella Pesarin. Treviso: detenuti minori e poeti, concorso al via La Tribuna di Treviso, 10 dicembre 2010 Scrivere poesie mentre ci si trova in situazioni di detenzione non dev’essere un esercizio semplice. Per questo assume particolare valenza il progetto di Aiaf di Asolo e Ctp di Treviso che coinvolge l’istituto penale minorile e del Centro di recupero femminile di villa Regina Mundi, che hanno sollecitato i carcerati a scrivere delle poesie. Adesso il progetto è diventato un concorso pubblico, che ha prodotto 32 poesie, esposte in questi giorni sulle vetrine delle botteghe del centro storico di Asolo, a disposizione di clienti e turisti che potranno votare la più bella. A coordinare il progetto il professor Roberto Franzin. La cerimonia di conclusione si svolgerà l’8 gennaio, al teatro Eleonora Duse, quando le poesie saranno interpretate dagli studenti dell’Itas Mazzini di Treviso. L’iniziativa sarà presentata domani alle 17,30 nella Sala della Ragione di Asolo dal sindaco di Asolo e da Franzin. Porto Azzurro (Li): un concerto di Natale all’interno della Casa di reclusione Il Tirreno, 10 dicembre 2010 Un giorno di festa per i carcerati di Forte San Giacomo e un importante momento non solo di svago ed intrattenimento ma anche l’occasione per la consegna delle borse di studio. Quelle finanziate dalla Coop Toscana Lazio che andranno ai reclusi - studenti che si sono particolarmente distinti durante l’anno scolastico. E proprio la Coop Toscana Lazio che ormai da dieci anni sostiene l’iniziativa che verrà proposta domani a partire dalle 10.30. Prima il concerto quello con il gruppo musicale composto da Linda e Marcello Cardoli e Massimo Paoli e poi la consegna delle borse di studio. Un riconoscimento legato a un percordo didattico legato alla Casa di Reclusione dove è presente un Polo scolastico che comprende classi di ogni ordine e grado, in particolare il corso di Liceo Scientifico, unico in tutti i penitenziari d’Italia. Le attività scolastiche sono frequentate da circa 110 detenuti e rappresentano una delle attività trattamentale più importanti offerte ai detenuti presenti. Numerosi sono anche i detenuti che frequentano corsi di laurea in diversi indirizzi, con buoni risultati. Mondo: rapporto dell’Ong Acat; tortura è pratica “endemica e regolare” in metà paesi Onu Apcom, 10 dicembre 2010 La tortura - che si tratti del “waterboarding” statunitense o della “falaqa” (bastonatura delle piante dei piedi) dei Paesi arabi - è consuetudine “endemica e regolare” in tutto il mondo: lo afferma l’ong Acat (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura) nel suo primo rapporto annuale sulla questione. L’ong constata come in base a “una stima ragionevole” oltre la metà dei Paesi membri dell’Onu ricorre alla tortura, non solo regimi totalitari, teocrazie e dittature, ma anche Paesi “segnati dalla fragilità e dalla violenza politica”: tra le pratiche segnalate la crocifissione in uso in Eritrea (sotto la denominazione “Gesù Cristo”) e il lavaggio forzato con acqua e pepe introdotto di recente in Uzbekistan. Quanto alle vittime - sebbene in casi più pubblicizzati riguardino giornalisti, politici o sindacalisti - la maggior parte appartiene alla categoria dei sospetti o detenuti comuni, parte delle comunità “maggiormente sfavorite o vulnerabili tra ogni popolazione”. Cile: rogo nel carcere, solo cinque guardie al momento del disastro Ansa, 10 dicembre 2010 Non hanno ancora un nome diverse delle vittime dell’incendio nella prigione di Santiago del Cile. Le condizioni in cui il fuoco ha ridotto i corpi rendono difficoltoso il riconoscimento ufficiale. L’incendio è scoppiato all’alba di ieri mattina, provocando 83 morti e portando alla ribalta le pessime condizioni di detenzione nel paese sudamericano. Mario Apablaza, il Direttore della Polizia di stato, ammette: “Sfortunatamente al momento, per i turni di notte, ci sono solo 5 guardie carcerarie per circa 1950 detenuti”. La prigione di San Miguel era stata costruita per accogliere al massimo 1100 detenuti. Nelle celle ce n’erano dunque quasi il doppio. Sarà l’inchiesta a stabilire se e in che misura tale circostanza abbia condizionato i soccorsi, aggravando il bilancio delle vittime. Cina: oggi consegna del Premio Nobel a Liu Xiaobo… ma con sedia vuota, lui è in carcere Apcom, 10 dicembre 2010 Ci sarà una sedia vuota, oggi nella sala delle feste al palazzo del Municipio di Oslo, dove si sarebbe dovuta tenere la cerimonia di consegna del premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo. L’assente sarà proprio il dissidente cinese, insignito del prestigioso riconoscimento, rinchiuso in un carcere dove sconta una pena di 11 anni di reclusione per “incitamento alla sovversione”. Nelle settimane scorse, il presidente del comitato Nobel norvegese, Thosbjorn Jagland, ha fatto sapere che, a causa della mancata presenza di Liu e di un suo familiare, non ci sarà la consegna formale del premio e dell’assegno da 1,5 milioni di dollari. L’organizzazione ha previsto un discorso dello stesso Jagland, la lettura di un messaggio di Liu da parte dell’attrice norvegese Liv Ullmann, e l’esibizione di un coro di voci bianche. Alla cerimonia non prenderanno parte oltre alle autorità cinesi, i rappresentanti di 19 Paesi che hanno aderito all’invito lanciato da Pechino di boicottare la manifestazione. Tra questi ci sono Russia, Arabia saudita, Egitto, Serbia e Venezuela. L’Italia, come gran parte dei Paesi Europei e degli Stati Uniti, sarà rappresentata dal proprio ambasciatore a Oslo. Iran: Sakineh non è stata liberata, ma solo condotta nella sua casa per un’intervista televisiva Aki, 10 dicembre 2010 Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e per complicità nell’omicidio del marito, non è stata liberata, ma solo condotta nella sua casa a Tabriz per essere intervistata dalla tv nazionale “sulla scena del delitto”. È quanto scrive questa mattina il sito di Press Tv, dopo che ieri sera il Comitato internazionale contro la lapidazione aveva diffuso la notizia della sua liberazione, pubblicando sul web alcune foto della donna e di suo figlio - anche lui arrestato - nel giardino di casa. Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e per complicità nell’omicidio del marito, non è stata liberata, ma solo condotta nella sua casa a Tabriz per essere intervistata dalla tv nazionale “sulla scena del delitto”. È quanto scrive questa mattina il sito di Press Tv, dopo che ieri sera il Comitato internazionale contro la lapidazione aveva diffuso la notizia della sua liberazione, pubblicando sul web alcune foto della donna e di suo figlio - anche lui arrestato - nel giardino di casa. “Contrariamente a una campagna molto pubblicizzata dei media occidentali l’omicida confessa Sakineh Mohammadi Ashtiani non è stata rilasciata. Invece una squadra televisiva in accordo con le autorità iraniane ha accompagnato la donna presso la sua casa in modo da poter ricostruire la scena del delitto”. Le immagini che riprendono Sakineh e il figlio, quindi, sarebbero spezzoni del programma “Iran today” che vuole ricostruire il caso di omicidio con una serie di riprese e interviste alle persone coinvolte nel caso. L’Iran, riporta sempre il sito della Tv, “vede dietro la propaganda occidentale sul caso giudiziario relativo alla Mohammadi - Ashtiani un tentativo politico di minare la repubblica islamica”. Il programma Iran Today dedicato al caso Ashtiani è in programma per la sera di oggi dieci dicembre, alle 21,35 e andrà in replica domani alle 2,25 di notte, alle 7,35 e alle 15,35. Un caso simbolo della lotta per i diritti civili Il suo caso è diventato uno dei simboli della battaglia per i diritti civili. Sakineh Mohammadi Ashtiani è la donna iraniana di 43 anni condannata alla lapidazione, perché colpevole di adulterio e concorso nell’omicidio del marito. In seguito alla campagna internazionale intrapresa in favore di Sakineh, di cui si è discusso anche davanti alle Nazioni Unite, l’esecuzione è stata inizialmente sospesa. Ieri la notizia della presunta liberazione (smentita oggi). La notizia era stata data da Commissione internazionale, una Ong con sede in Germania. Secondo la Ong la donna era stata liberata assieme al figlio, all’avvocato e a due giornalisti tedeschi arrestati in connessione con il caso. L’11 ottobre infatti la vicenda si era complicata con l’arresto del figlio di Sakineh, Sajjad Ghaderzadeh e del suo avvocato Houtan Kian, nonché di due giornalisti tedeschi: le forze di sicurezza iraniane hanno fatto irruzione nello studio del legale nel corso di un’intervista. Questo ha portato anche la Germania a esercitare forti pressioni su Teheran per la liberazione dei suoi cittadini (un falso allarme c’è stato il 4 novembre quando Amnesty International ha annunciato la liberazione, poi smentita, del figlio e dell’avvocato). Il 16 novembre scorso una donna, identificata come Sakineh dalla tv iraniana, era comparsa in video chiedendo “perdono” per i suoi peccati; immagini che avevano allarmato il mondo facendo pensare a una esecuzione imminente. Sakineh Mohammadi Ashtiani, madre di due figli, è stata condannata nel maggio 2006 per aver avuto una “relazione illecita” con due uomini ed è stata sottoposta a 99 frustate, come disposto dalla sentenza. Successivamente è stata condannata a morte per “adulterio durante il matrimonio” e per complicità nell’omicidio del marito. Nel 2007, però, una corte d’appello iraniana aveva commutato la pena all’impiccagione per complicità nell’omicidio del marito in dieci anni di reclusione, confermando invece la lapidazione per il reato di adulterio. La donna è rinchiusa dal 2006 nel braccio della morte della prigione di Tabriz, nella zona nord - occidentale dell’Iran. Diversi Paesi, tra cui anche Stati Uniti e Brasile, avevano offerto asilo alla donna per tentare di salvarle la vita; offerta respinta dall’Iran, secondo cui gli altri Paesi “non hanno gli elementi per giudicare la vicenda”. Grande il coinvolgimento nella vicenda anche di diversi paesi europei fra cui in prima fila l’Italia e la Germania. Stati Uniti: la Camera blocca chiusura Guantanamo, Casa Bianca contraria Apcom, 10 dicembre 2010 La Casa Bianca si oppone al progetto di legge finanziaria per il 2011 approvato ieri dalla Camera poiché nelle 400 pagine del testo c’è un paragrafo in cui di fatto si proibisce la chiusura del carcere di Guantanamo. La legge è passata per 212 voti contro 206. Il testo impedisce alla Casa Bianca di utilizzare i fondi per trasferire i prigionieri di Guantanamo sul suolo americano, e in questo modo blocca ogni possibilità di sottoporre i detenuti al giudizio di una corte civile. In particolare la finanziaria proibisce “l’utilizzo di fondi per trasferire o liberare sul suolo americano Khaled Sheik Mohammed”, mente dell’11 settembre, “e qualunque altro prigioniero di Guantanamo”. Se il testo dovesse essere approvato anche dal Senato tutti i fondi federali per il trasferimento di prigionieri da Guantanamo agli Stati Uniti saranno bloccati fino al prossimo ottobre. Un duro colpo per l’amministrazione Obama, che aveva fatto della chiusura di Guantanamo uno degli obiettivi principali del suo mandato. Secondo la Casa Bianca però il Congresso non ha diritto di interferire con le intenzioni dell’amministrazione di sottoporre a giudizio i detenuti. “Il Congresso non dovrebbe limitare gli strumenti a disposizione del ramo esecutivo per portare i terroristi davanti alla giustizia e far progredire i nostri interessi in materia di sicurezza nazionale”, ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Giustizia, Matthew Miller. In passato il governo federale era in grado di trasferire in America i detenuti per sottoporli a processo. I repubblicani si oppongono con più fermezza da quando il mese scorso Ahmed Ghailani, il primo detenuto di Guantanamo ad essere giudicato da un tribunale civile, è stato ritenuto colpevole di un solo capo d’accusa su 300 riguardo gli attacchi a due ambasciate Usa nel 1998. Dopo quasi dieci anni passati nel limbo giuridico, l’amministrazione Obama sta cercando di far rientrare i 174 prigionieri di Guantanamo in un sistema giuridico riconosciuto. I repubblicani restano contrari e sostengono che i prigionieri debbano essere giudicati a Guantanamo da tribunali speciali militari. Commissione europea molto preoccupata per voto che blocca chiusura La Commissione europea si è detta “molto preoccupata” per il voto del Congresso degli Stati Uniti che blocca la chiusura del carcere di Guantanamo, promessa dal presidente americano Barack Obama. In una dichiarazione ai giornalisti, Michele Cercone, portavoce del commissario europeo agli Affari interni, Cecilia Malmstroem, ha commentato: “La Commissione è molto preoccupata per la possibilità che Guantanamo non venga chiuso come previsto”. Il portavoce ha ricordato “i molti sforzi fatti dai Paesi membri dell’Ue e dalla Commissione per il trasferimento in Europa degli ex detenuti, in modo da facilitare la chiusura” del campo di detenzione americano a Cuba. “Noi speriamo che il Senato non abbia la stessa linea del Congresso”, ha poi auspicato Cercone, secondo cui, “soprattutto alla luce dei tanti sforzi che sono stati fatti, sarebbe un danno non chiudere Guantanamo, che rappresenta una pagina nera della lotta al terrorismo”. Islanda: Palma (Cpt); qui le carceri migliori d’Europa, contatti con l’esterno e rispetto dei detenuti Ansa, 10 dicembre 2010 Le migliori carceri europee sono quelle islandesi: è il giudizio espresso da Mauro Palma, presidente del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), in occasione della presentazione del rapporto annuale al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. “Il sistema penitenziario in Islanda responsabilizza i detenuti attraverso diverse misure e concede loro spazi per condurre una vita normale”, spiega Palma aggiungendo che in questi penitenziari i detenuti possono vedere il mondo esterno. “Quando si è in carcere è importante poter vedere un albero che cresce, ma in alcuni Paesi chi è in carcere non vede altro che mura di cemento per tutto il periodo della detenzione”, dice il presidente del Cpt. Queste accortezze come quelle di permettere ai detenuti di tenere i loro effetti e personalizzare la propria cella, secondo Palma, sono misure a costo zero e soprattutto non vanno a scapito della sicurezza, come dimostra il caso islandese. Spesso, dice Palma, si dimentica che “la pena è la privazione della libertà e basta”, e che ogni misura di sicurezza che viene presa deve avere solo lo scopo di prevenire il crimine e deve essere giustificata. “Sottoporre qualcuno a una perquisizione corporale dopo ogni colloquio con i familiari quando questo avviene attraverso una parete divisoria non ha senso” sottolinea Palma. Hong Kong: la prima prigione “green” di scatena le polemiche tra i cittadini www.casaeclima.com, 10 dicembre 2010 La prima prigione ecologica di Hong Kong ha suscitato un acceso dibattito in una delle città più densamente popolate del mondo, dove molti vivono in palazzi popolari sovraffollati. Presentato come il carcere del futuro, l’edificio da 200 milioni di dollari americani è stato costruito sulla base di un progetto sostenibile, che promuove l’openspace con caratteristiche “green” ad alta efficienza energetica. Il nuovo carcere è stato aperto nel mese di agosto e si chiama Lo Wu. È un istituto di detenzione femminile che mira a fornire condizioni di vita più umane per circa 1.400 detenute, e ad alleviare il sovraffollamento delle altre 16 prigioni presenti in città. Il nuovo edificio, 53.000 metri quadrati, vanta caratteristiche avanzate come un tetto “verde” per ridurre la temperatura, pannelli solari, un sistema di illuminazione naturale, spazi ad alta dinamica e grandi dormitori che facilitano la ventilazione. Nonostante abbia ottenuto un premio Green Building, o forse proprio per questo, molti hanno criticato il governo di non promuovere interventi simili anche per i sette milioni di abitanti di Hong Kong, e non solo per i frequentatori delle carceri cittadine. Il fatto è che il sistema di giustizia penale mira a riabilitare i criminali durante la loro permanenza nelle carceri in modo che possano contribuire in modo costruttivo alla società dopo il loro rilascio. E un ambiente ecologico e tecnologicamente avanzato aiuta a raggiungere tale obiettivo. D’altro canto molti cittadini rispettosi della legge vivono in complessi residenziali pubblici con appartamenti estremamente piccoli, lunghi corridoi bui e senz’aria. E accusano il governo di non avere una strategia a lungo termine per la pianificazione urbana. I prezzi del residenziale a Hong Kong sono alle stelle e spesso la domanda supera l’offerta. Addirittura il costo degli immobili ha dato origine al fenomeno delle cosiddette “case gabbia”: in vecchi edifici popolari si affittano gabbie di metallo grandi abbastanza per un materasso, in modo che più persone possano vivere nello stesso appartamento, occupando esclusivamente lo spazio necessario per dormire. L’Architectural Services Department, che ha realizzato il nuovo carcere, ha difeso il progetto, assicurando che è in linea con la politica del governo nel promuovere gli edifici sostenibili. Inoltre il costo complessivo per le tecnologie verdi è inferiore all’uno per cento del costo del progetto complessivo. Anche Amnesty International ha difeso l’edificio, è d’accordo con coloro che chiedono una casa al governo perché non se la possono permettere, ma ricorda che non bisogna confondere le due questioni, e garantire ai detenuti un ambiente di vita appropriato è comunque un diritto fondamentale.