Rassegna stampa 21 aprile

 

Giustizia: 67.452 detenuti, quasi in 30mila in attesa di giudizio

 

Agi, 21 aprile 2010

 

Sono 67.452 i detenuti nelle carceri italiani, di cui quasi 30mila - 29.791 - in attesa di giudizio definitivo. Sono i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornati ad oggi, elaborati dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti. Poco più di 35mila i detenuti condannati, 1.812 gli internati.

Situazione critica (il dato si riferisce al 28 febbraio scorso) nei penitenziari della Lombardia (9.067 i ristretti in cella in questa Regione), della Sicilia (con 8.043 detenuti), Campania (7.913) e Lazio (6.060). Alla fine di febbraio, su 66.692 detenuti, erano 63.814 gli uomini, soltanto 2.878 le donne; gli stranieri, a quella data, erano 24.768. Il 28 febbraio scorso, infine, erano 839 i detenuti in regime di semilibertà.

Giustizia: tortura dietro l’angolo, nelle nostre carceri affollate

di Rossella Anitori

 

Terra, 21 aprile 2010

 

Maltrattamenti fisici e un uso eccessivo della forza. Nel suo rapporto il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa denuncia l’Italia.

Di casi di violenza da parte delle forze dell’ordine, l’Italia, ne ha conosciuti tanti. C’è chi l’ha giustificata, ritenuta "necessaria". E chi l’ha subita e basta. Poi c’è chi non smette di denunciarla, dalle vittime dell’assalto alla scuola Diaz alle madri dei giovani morti in carcere. Stavolta però a dare l’allarme non sono manifestanti, detenuti né immigrati.

A puntare il dito contro il nostro Paese è il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa, che ha pubblicato ieri il rapporto relativo alla quinta visita periodica effettuata sul territorio italiano tra il 14 e il 26 settembre 2008. E tra l’eccessivo uso della forza da parte delle forze dell’ordine, il sovraffollamento delle carceri e le cattive condizioni all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, l’Italia non ne viene fuori come il paese dei diritti.

Nel rapporto si parla di "pugni, calci e manganellate somministrate nel corso di arresti o in alcuni casi durante il periodo di custodia cautelare". Il consiglio d’Europa ha tenuto conto di un cero numero di denunce di presunti maltrattamenti fisici, testimonianze che avrebbero trovato riscontro nell’esistenza di certificati medici attestanti i fatti denunciati. Il Comitato ha espresso anche la più viva preoccupazione per il livello di violenza registrato all’interno delle carceri di Brescia-Mombello e di Cagliari-Buoncammino, dove episodi di violenza tra detenuti nel corso del 2008 hanno causato lesioni gravi e, in un caso, la morte di un carcerato.

E se l’arresto o la permanenza in un centro di detenzione, esporrebbero i malcapitati al rischio dell’incolumità fisica, chi è trattenuto in un ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) non se la passa meglio. Sotto accusa quello di Aversa. La delegazione avrebbe infatti trovato alcuni reclusi legati al letto seminudi, 24 ore su 24 anche per dieci giorni consecutivi, sdraiati su un materasso con un foro al centro sotto al quale c’era un secchio in cui finivano gli escrementi.

La delegazione ha inoltre riscontrato che alcuni pazienti erano stati trattenuti nell’Opg più a lungo di quanto non lo richiedessero le loro condizioni e che altri erano trattenuti nell’ospedale anche oltre lo scadere del termine previsto dall’ordine di internamento. Sotto la lente d’ingrandimento comunitaria sono finiti anche i Centri di identificazione ed espulsione, in particolare il Cie di Via Corelli a Milano.

Il Comitato ha infatti raccomandato che siano garantiti, agli immigrati irregolari trattenuti nei Centri, maggiori e più ampie possibilità di attività. Dai maltrattamenti subiti al momento dell’arresto, alla vita dietro le sbarre, la "preoccupazione" del Comitato per la mancanza di tutele per chi è fermato dalle forze dell’ordine è "grande". Le autorità italiane dal canto loro hanno assicurato che sono state "già" emanate delle direttive specifiche per prevenire e punire il comportamento indebitamente aggressivo delle forze dell’ordine. Non rimane che sperare il meglio.

Giustizia: "manicomio Italia" internati seminudi e legati al letto

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 21 aprile 2010

 

Lo chiamano "ergastolo bianco". Colpisce "persone che non devono scontare una pena né essere rieducate", come spiega Alessandro Margara, ex magistrato e capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria dal 1997 al 1999.

"Si tratta di individui che sono stati prosciolti perché malati e quindi devono essere curati", per questo finiscono negli ospedali psichiatrici giudiziari, gli Opg. Ex "manicomi criminali"sopravvissuti alla riforma Basaglia varata trentadue anni fa. In Italia ne esistono ancora sei: quello di Aversa in provincia di Caserta, Napoli sant’Eframo, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Malgrado il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 1° aprile 2008 ne disponga la chiusura, la loro fine è ancora lontana. Attualmente vi si trovano rinchiusi 1.535 persone, tra cui 102 donne, contro una capienza regolamentare di 1.322 posti. Secondo i dati, aggiornati al 31 marzo, forniti dall’amministrazione penitenziaria, la quasi totalità dei presenti, 1.305, non è composta da detenuti in attesa di giudizio né da condannati in via definitiva ma da "internati".

Che cosa è un internato? Non è un detenuto e nemmeno un condannato, ma una persona ritenuta "pericolosa socialmente". Nei suoi confronti il giudice dispone una misura di sicurezza che può arrivare all’internamento. Provvedimento che "si protrae fino a quando il magistrato di sorveglianza ritiene che la persona sia pericolosa", sottolinea Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all’università Cattolica di Piacenza. Ma avviene lo stesso anche quando l’internato non ha nessuno che possa prendersi cura di lui. L’internamento può essere prorogato all’infinito, lo decide sempre il magistrato di sorveglianza in base alle valutazioni mediche. Per questo lo chiamano "ergastolo bianco".

Oltre i 1.735 presenti negli Opg, ci sono ancora 484 internati rinchiusi nelle cosiddette case lavoro o case di custodia e cura. Si tratta di persone che stanno scontando una "pena accessoria". Che cosa è una pena accessoria? Una punizione supplementare che viene scontata dopo aver terminato la condanna penale. Per le persone etichettate dalla magistratura come "delinquenti abituali o professionali", una volta usciti dal carcere subentra la misura di prevenzione: tra queste la più estrema è l’internamento in una casa lavoro, di fatto un prolungamento della reclusione in una struttura che non si differenzia in nulla da un normale carcere, anche perché il lavoro non esiste e l’internato resta chiuso in cella. L’illegittimità di questo doppio circuito penale è denunciata da tempo da molti operatori del settore e dalle associazioni di volontariato. Prima che andassero di moda il viola, il giustizialismo e il populismo, la critica delle istituzioni totali era anche uno dei caratteri distintivi dei comunisti e della sinistra.

L’ultima denuncia arriva dal rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa redatto dopo un’ispezione effettuata nel settembre 2008. Nelle 84 pagine del testo si segnalano le pessime condizioni in cui versano gli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma si riferisce anche di una diffuso ricorso alle percosse da parte delle forze dell’ordine nei confronti delle persone fermate o arrestate, oltre a rilevare il grave stato di sovraffollamento delle prigioni. Sotto accusa in particolare la situazione in cui versa l’Ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito di Aversa.

Una struttura scadente. La delegazione ha riscontrato che alcuni pazienti erano stati trattenuti più a lungo di quanto non lo richiedessero le loro condizioni e che altri erano mantenuti nell’Opg anche oltre lo scadere del termine previsto dall’ordine d’internamento. Le autorità italiane hanno risposto che la struttura è in corso di ristrutturazione e che la legge non prevede un limite per l’esecuzione di misure di sicurezza temporanee non detentive.

Per Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone Campania, "Il giudizio del Cpt evidenzia le condizioni di inumanità e degrado che vivono gli internati dell’Opg di Aversa. Un problema che non deriva solo dalle condizioni di sovraffollamento ma dal meccanismo manicomiale in sé e dalle sue dinamiche di annullamento sociale del sofferente psichico". Nel rapporto sono state evidenziate numerose situazioni di criticità: condizioni igieniche e di vivibilità minime, carenza di personale civile, assenza di attività di reinserimento sociale, insufficienza del livello di assistenza sanitaria, uso dei letti di contenzione. Solo pochi mesi fa è stato registrato il decesso di un internato morto per il proprio rigurgito e di un altro deceduto per tubercolosi.

Per quanto concerne il trattamento delle persone private di libertà da parte delle forze dell’ordine, il rapporto riferisce che la delegazione del Comitato ha ricevuto un certo numero di denunce di presunti maltrattamenti fisici e/o di uso eccessivo della forza da parte di agenti della polizia e dei carabinieri e, in minor misura, da parte di agenti della Guardia di finanza, soprattutto nella zona del Bresciano. I presunti maltrattamenti consistono essenzialmente in pugni, calci o manganellate al momento dell’arresto e, in diversi casi, nel corso della permanenza in un centro di detenzione. In alcuni casi, inoltre, la delegazione ha potuto riscontrare l’esistenza di certificati medici attestanti i fatti denunciati.

Il rapporto, inoltre, verifica il rispetto delle garanzie procedurali contro i maltrattamenti e constata la necessità di un’azione più incisiva in questo campo, per rendere conformi la legge e la pratica alle norme stabilite dal Comitato. Nella loro risposta, le autorità italiane hanno indicato che sono state emanate delle direttive specifiche per prevenire e punire il comportamento indebitamente aggressivo delle forze dell’ordine.

Inoltre, rileva il rapporto, sono state esaminate le condizioni di detenzione presso il Centro di identificazione e di espulsione di Via Corelli a Milano. A questo proposito il Comitato raccomanda che siano garantiti agli immigrati irregolari che vi devono essere trattenuti maggiori e più ampie possibilità di attività. Sul fronte delle carceri, invece, la relazione pone l’accento sul sovraffollamento delle prigioni, sulla questione delle cure mediche in ambiente carcerario (la cui responsabilità è stata ora trasferita alle regioni) e sul trattamento dei detenuti sottoposti al regime di massima sicurezza (il "41-bis").

Giustizia: stop ai giustizialisti, serve una riforma copernicana

di Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro

 

Liberazione, 21 aprile 2010

 

La Lega e Di Pietro si stanno scagliando con argomenti giustizialisti contro il disegno di legge in discussione in commissione giustizia alla camera che prevede la messa in prova per chi rischia di scontare tre anni e la detenzione domiciliare per chi deve scontare 1 anno di carcere.

Esso ha invece il merito di rompere con una visione monoteistica della pena come sinonimo di carcere (e, tutto al più, di misure alternative). Tanto più di fronte ai suicidi quotidiani che fanno della condizione carceraria uno stillicidio di morti (un morto ogni due giorni da inizio anno). Purtroppo, aldilà del merito astratto, il ddl nasce già inapplicabile a causa delle leggi liberticide prodotte dalla fabbrica della paura che è ormai egemone nella azione di governo come nella cultura di massa.

Dunque, ancor prima della sua discussione parlamentare, il ddl esce monco dalle scrivanie di via Arenula, dove si ha la consapevolezza che il dilemma carceri non si risolve se non abrogando le leggi targate Bossi-Fini, Fini-Giovanardi ed ex-Cirielli che oggi producono processioni nelle patrie galere di microcriminali ma anche di poveri cristi con atteggiamenti non conformi e senza soldi per pagarsi la difesa (o, come nel caso Cucchi, che sono uccisi prima di essere giudicati).

Come ha il merito di svelare il libro "In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili" - di Carlo Nordio e Giuliano Pisapia, rispettivamente incaricati dal governo (di destra il primo, di sinistra il secondo) di riscrivere i codici penali - il vero segreto di pulcinella nell’amministrazione della giustizia degli ultimi 30 anni è rappresentato dal paradosso che i tecnici delle riforme di destra come di sinistra condividono la medesima idea di fondo, ovvero, l’unica soluzione del dilemma carcere è una riforma (copernicana) di sistema che abroghi le leggi spot "riempi carceri", riduca l’azione penale ad intervenire sui comportamenti davvero lesivi dei diritti dei consociati e riduca il carcere ad extrema ratio . Con immediato effetto positivo anche e soprattutto delle vittime di reato e dei cittadini, oltre che di chi è sottoposto a giudizio ed è eventualmente ristretto nella libertà, che vedrebbero soddisfatte le loro aspettative di diritto in tempi ragionevoli.

Ma la destra non segue Nordio e produce e legittima paure ed insofferenze. Il centro sinistra, dal canto suo, produce due tipi di reazione, l’una che insegue populisticamente la destra nel promettere "più forca pei poveracci", l’altra che continua a gridare numeri e pratiche che testimoniano come una giustizia più equa ed efficace nei confronti e a vantaggio di tutti i suoi attori sia possibile.

La complessità della dicotomia del centro sinistra rispetto alla giustizia è che l’ideale securitario e quello garantista pervadono tutti i singoli partiti, in una liquidità baumiana dove il tramonto definitivo della promessa di un welfare state che renda i cittadini uguali e felici è sostituito da chi emula la destra e chi (come chi scrive) grida numeri impopolari che però testimoniano ancora l’utilità sociale di una riforma copernicana, strutturale, della giustizia.

Ma la magra consolazione di avere dalla nostra la ragione scientifica di certe proposte (ad es., le misure alternative abbattono la recidiva al 20% mentre chi esce dal carcere torna a delinquere 7 volte su 10) deve fare i conti con il magrissimo consenso che tali proposte hanno. Altrimenti, saranno (le proposte) e saremo (noi) eterna minoranza e finiremo col parlare ai nostri ombelichi. E mentre da buoni giacobini continuiamo a parlarci addosso, le carceri sfonderanno le 70.000 quote in estate (l’estate dell’indulto del 2006 erano 63.000).

"Pasqua di Resurrezione, cominciamo anche dal carcere e dai detenuti", scriveva l’altro giorno Adriano Sofri su Repubblica. E Claudia Fusani sull’Unità a fare da coro: "Il contatore dei decessi in cella corre veloce. Muoiono per disperazione. Dovrà intervenire di nuovo la Chiesa. Era già successo nel 2006". La riscossa culturale del paese è ormai delegata dalla politica ai media (o ad altri), nel bene (vedi sopra) e nel male (vedi il paese).

Una riscossa culturale organizzata da attori, come i giornalisti, i comitati di lavoratori o di cittadini, che hanno come comune denominatore il fatto che non sono promossi o coadiuvati dalla politica e che il nostro partito, al pari degli altri, non riesce a traghettare, nella giustizia come in altri settori.

Occorre, quindi, anche qui un cambio di passo da parte nostra. Sfidando la demagogia populista securitaria. Insieme a qualche giornalista democratico, ad alcuni intellettuali, a comitati di lavoratori e cittadini che sinora il sistema politico ha lasciato soli.

Per questo motivo ci appelliamo a tutte le forze di centro sinistra (e, prima ancora, alla società civile) perché partecipino allo sciopero del prossimo 24 aprile indetto dai lavoratori giudiziari (Fp Cgil, Uilpa, RdB ed Flp) per imporre il nostro no ai tagli e all’accordo al ribasso firmato dalla minoranza delle organizzazioni sindacali in spregio delle regole della democrazia. Il sistema dei valori che vogliamo rifondare non può prescindere dalla condizione della giustizia e dalla condizione carceraria, che è cartina al tornasole della civiltà giuridica di un paese, come scriveva già Voltaire.

Giustizia: Garanti dei detenuti; giudizio positivo sul ddl Alfano

 

Comunicato stampa, 21 aprile 2010

 

Coordinamento nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale: "Giudizio positivo sulla proposta Alfano su detenzione domiciliare e messa alla prova e su decreto legge per ridurre il sovraffollamento carcerario".

Il Coordinamento Nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale istituti a livello comunale e provinciale auspica che il Ddl Alfano, che prevede l’esecuzione presso il domicilio di pene detentive non superiori ad un anno, venga approvato al più presto per far fronte alla ormai insostenibile situazione carceraria o ancor meglio che il Governo adotti un decreto legge, stante l’urgenza imposta dal numero di persone detenute, che vivono da troppo tempo in una condizione che è inumana e degradante.

Il provvedimento da una parte consentirebbe l’uscita dal carcere di migliaia di persone ormai a fine pena o con pene irrogate modeste attraverso la concessione di misure alternative, dall’altra consentirebbe di introdurre l’istituto della messa alla prova anche nel giudizio ordinario, dopo avere ben figurato in quello minorile.

In realtà è solo l’istituto della detenzione domiciliare che potrebbe allo stato avere effetto deflattivo, essendo la messa alla prova prevista per i reati con pena fino a d anni tre, per i quali è più difficile prevedere una effettiva carcerizzazione, soprattutto perché il nuovo istituto verrà applicato per lo più a persone alla prima esperienza giudiziaria.

Il testo del DDL Alfano non è immune da censure, ma va comunque sostenuto perché può rappresentare una inversione di tendenza rispetto alla riduzione significativa di misure alternative alla detenzione applicate dai Tribunali di Sorveglianza e perché "riammette" anche i recidivi al beneficio della detenzione domiciliare con pena inferiore ad un anno.

Il provvedimento non è un indulto, come da qualche parte si continua a sostenere, perché la pena è effettiva, ma ne consente lo svolgimento in luogo diverso, che sia una abitazione o comunque un luogo di cura, di ospitalità, la cui esistenza dovrà essere previamente verificata. Peraltro è previsto un significativo aumento di pena per il delitto di evasione.

Importante anche il ruolo delle direzioni carcerarie, chiamate ad una vera e propria indicazione al giudice di sorveglianza di tutti coloro che si trovino nelle condizioni richieste per usufruire della detenzione domiciliare. Tutto ciò nella speranza che gli uffici competenti si adoperino per adottare i provvedimenti in tempi rapidi.

C’è invece da chiedersi come mai un istituto già esistente, ed in limiti più ampi, essendo la detenzione domiciliare già presente nell’Ordinamento penitenziario per pene comminate o residue inferiori ad anni due, a prescindere dalle ipotesi speciali, non abbia trovato sufficiente applicazione, se il Ministro di Giustizia ha ritenuto di presentare un disegno di legge per una ipotesi che è già ricompresa nell’istituto già esistente.

In ogni caso, anche se è evidente che da solo questo intervento non risolve il problema del sovraffollamento, va sostenuto non solo come strumento utile per dare respiro a migliaia di persone che vivono in carcere e alle molte che vi lavorano, ma come auspicabile cambiamento di rotta nella politica criminale di questo Paese.

 

Avv. Desi Bruno

Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna

Coordinatrice Nazionale dei Garanti territoriali

Giustizia: Favi (Pd); Alfano dica chiaramente quale il suo piano

 

Ansa, 21 aprile 2010

 

Dichiarazione di Sandro Favi, Responsabile Carceri del PD. "Il Rapporto del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti ha riscontrato, anche nei nostri istituti penitenziari, al ripetersi di episodi di violenze tra detenuti e contro i detenuti. Questo, in un sistema carcerario con quasi 70 mila reclusi, potrebbe avere epiloghi inimmaginabili e drammatici.

Da un anno e mezzo il Ministro Alfano annuncia l’esistenza di un Piano Carceri, per il quale sono state richieste e adottate, a più riprese, misure legislative che consentissero l’accelerazione dei tempi e procedure in deroga alla normativa vigente. Questo Piano Carceri deve ora uscire dalla nebbia della propaganda ed indicare la localizzazione delle nuove strutture, i tempi certi di realizzazione delle opere, il programma di adeguamento del personale di Polizia Penitenziaria e di tutte le altre figure professionali di sostegno alle persone detenute. Se si vogliono far funzionare le misure alternative alla detenzione, se si vuol fermare il dramma dei suicidi, se si vogliono aprire nuovi istituti servono assistenti sociali, educatori, psicologi, tecnici ed operatori amministrativi.

Il Ministro Alfano chieda al suo collega Tremonti di autorizzare almeno l’assunzione di 1000 figure professionali di questo tipo".

Giustizia: Osapp; la capienza tollerabile? aumenta di continuo

 

Agi, 21 aprile 2010

 

"La capienza tollerabile delle carceri italiane è stata aumentata nell’ultimo mese di 1.220 posti ma, in quanto a vivibilità effettiva, di detenuti ce ne sono 23.000 in più: 67.500 per 44.559 posti". A lanciare l’ennesimo allarme è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), secondo cui anche "l’eventuale decreto legge proposto dal ministro Alfano per gli arresti domiciliari di chi deve scontare una pena residua inferiore ad un anno potrebbe riguardare, nel massimo, non oltre 3.500-3.700 soggetti".

"Nel frattempo - lamenta - i dati delle regioni in affanno continuano ad essere sempre più preoccupanti, con il 14% di detenuti più del tollerabile in Emilia-Romagna ed in Veneto, il 9% in Puglia e in Liguria e il 5% in più in Sicilia, Lombardia e Friuli". Per Beneduci, "i dati dimostrano come il piano carceri che deve essere consegnato dal capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta entro il prossimo 29 aprile al ministro Alfano ed al Comitato da questi presieduto, oltre che assai oneroso, inadeguato per l’attuale sovraffollamento e per opere che potrebbero non funzionare mai in mancanza di addetti, potrebbe comportare gravi disagi per la funzionalità e la sicurezza penitenziaria, soprattutto in concomitanza con la stagione estiva, per il massiccio andirivieni di imprese e di operai, ben oltre la capacità di tutela e di controllo dei poliziotti penitenziaria in gran parte degli attuali istituti di pena".

Ecco perché "alle proteste della polizia penitenziaria già in corso nel Lazio e in Campania, si aggiungeranno le ulteriori prime iniziative a Firenze con un volantinaggio a piazza della Signoria, a Milano con un volantinaggio davanti a Palazzo Marino ed a Palermo con un manifestazione regionale il prossimo 23 maggio".

Giustizia: la triste storia di Vito, morto dopo 50 anni in un Opg

 

Ansa, 21 aprile 2010

 

Entrato nel manicomio criminale di Napoli a 17 anni. Uscito da quello stesso luogo, nel frattempo ribattezzato ospedale psichiatrico giudiziario, cinquant’anni dopo, E solo per grazia ricevuta nel 2003 dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Vito De Rosa è il simbolo della devastante solitudine di chi ha trascorso una vita intera in un opg. La libertà Vito l’ha conosciuta solo per tre anni, prima di spegnersi nel 2006, all’età di 79 anni, affidato alle cure dei sanitari di un centro Asl di Salerno.

Condannato all’ergastolo per aver ucciso il padre negli anni Cinquanta a Olevano sul Tusciano, piccolo centro agricolo alle falde dei monti Picentini, Vito è rimasto solo una vita intera.

Col padre aveva un rapporto fortemente conflittuale. A scatenare la rabbia, come emerse poi al processo, fu l’accusa mossa dal genitore di vendere in proprio l’olio prodotto nel fondo di famiglia. Il ragazzo attese che il padre tornasse dal bar, dove aveva giocato a carte con gli amici. Lo colpì alle spalle con una delle asce che utilizzava per tagliare la legna.

Poi gettò il cadavere in un dirupo. Confessò tutto e in aula si parlò anche dei rimproveri, delle vessazioni e dei pestaggi ai quali sarebbe stato sottoposto il ragazzo. I giudici furono però inflessibili e lo condannarono al massimo della pena.

Rinchiuso in carcere, dopo un lungo periodo, a causa di disturbi mentali, fu trasferito in una struttura psichiatrica giudiziaria. Un calvario durato fino a quando Antigone ed esponenti politici nel 2003 riuscirono a far arrivare il caso sul tavolo dell’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli, che inoltrò la richiesta di grazia al Capo dello Stato.

In mezzo secolo di permanenza nell’opg di Napoli Vito ha scandito le sue giornate con immutabile ripetitività. Sveglia, colazione, rifacimento del letto fissato al pavimento con dei bulloni per evitare atti di autolesionismo, attesa del pranzo.

Ha sempre mangiato solo in cella, seduto sulla branda. Nelle stagioni calde anche per terra, senza mai usare né coltello né forchetta. Mangiava con le mani, Vito. E quando dopo mezzo secolo è arrivato quell’atto di grazia che a 76 anni lo ha fatto uscire dall’esilio dei dimenticati, non era di certo preparato alla libertà parchè non poteva conoscerne il senso.

Per questo venne affidato all’Asl di Salerno. Ma l’aiuto di esperti medici e psicologi difficilmente potevano sanare un vuoto così grande. Vito preferiva mangiare solo e non venire a contatto con gli altri ospiti della struttura Asl. Certo, il lento programma di recupero qualche frutto l’aveva pur dato, tanto che un rapporto con i familiari superstiti era riuscito a stabilirlo. Ma il ritorno a Olevano sul Tusciano, il paese d’origine dove osò ribellarsi ad un padre violento, quello no. Vito è morto prima.

Giustizia: il Sen. Di Girolamo; "qui dentro condizioni inumane"

 

La Repubblica, 21 aprile 2010

 

L’incontro a Rebibbia con l’ex senatore, indagato per essere stato eletto all’estero con i voti della ‘ndrangheta. "Quando uscirò mi occuperò dei problemi dei detenuti. Manca anche il barbiere. A chi entra in cella per la prima volta mi sento di consigliare il kit del detenuto".

"Quando uscirò di qui, mi occuperò del problema dei detenuti. E in particolare insegnerò a chi sta per entrare in cella come si deve preparare, come deve farsi la valigia. Una sorta di kit del novello detenuto. A me nessuno mi aveva detto nulla, e così in prigione mi sono trovato in difficoltà perché mi mancavano le cose più importanti per sopravvivere in condizioni dignitose. Sono entrato in carcere con una borsa di oggetti inutili". Il 3 marzo scorso Nicola Di Girolamo 1 è passato da Palazzo Madama, quando rassegnò le dimissioni da parlamentare ("E per questo - spiega - conservo il titolo di senatore della Repubblica"), al carcere di Rebibbia, dov’è stato ristretto in quanto indagato per essere stato eletto all’estero coi voti della ‘ndrangheta. E perché accusato dalla procura di Roma di essere uno dei personaggi chiave della maxi inchiesta su un presunto riciclaggio di 2 miliardi di euro che sarebbe ruotato, tra l’altro, attorno ad operazioni commerciali fittizie riconducibili agli operatori telefonici Fastweb e Teleccom Sparkle.

La deputata radicale Rita Bernardini ieri, al suo sesto giorno di sciopero della fame "per porre l’attenzione sul drammatico problema del sovraffollamento delle carceri", s’è recata al carcere romano di Rebibbia per un’ispezione. Ha incontrato Massimo Papini, l’amico di Diana Blefari (la neobrigatista condannata per concorso nell’omicidio Biagi, suicidatasi in cella 2 lo scorso primo novembre) che, urlando la sua innocenza dopo sei mesi di isolamento, le ha chiesto aiuto "per avere un fornelletto e libri da leggere". Quindi, dopo la visita a un detenuto malato di Tbc e Aids (che per la deputata radicale "dovrebbe stare in ospedale per essere curato: chiederò spiegazioni al ministro della Giustizia con un’interrogazione perché prima di rimanere solo sia stato messo insieme ad altri detenuti rischiando di infettarli"), l’onorevole Bernardini è entrata nella cella del senatore Di Girolamo.

Ancora in isolamento, l’ex politico s’è presentato quasi irriconoscibile, la barba incolta e i capelli lunghi. E s’è lamentato infatti per prima cosa della mancanza del barbiere in prigione. "Sono tre settimane - ha detto Di Girolamo all’onorevole Bernardini - che non posso tagliarmi i capelli e sistemarmi la barba perché il barbiere non c’è". Ispettore e vicedirettrice presenti alla visita confermano, la persona che si occupava di questo reparto, dicono, se ne è andata e in generale c’è una penuria di barbieri in tutte le sezioni. "Ma in questo modo - aggiunge l’ex senatore - ne va della dignità della persona! Come posso presentarmi ai colloqui con i familiari o con l’avvocato in modo così trasandato?". I familiari, la moglie e i figli, sono il pensiero che ossessiona Di Girolamo. "Sono rimasti senza soldi - si sfoga - mi hanno sequestrato tutti i conti, compreso quello del Senato sul quale veniva accreditato lo stipendio da parlamentare e attraverso il quale pagavo le bollette e il mutuo. In casa ero io a occuparmi di queste cose, come faranno ora a vivere mia moglie e i miei figli se non hanno la possibilità di accedere ad alcun conto corrente?". "Come farò - si dispera - a fare la dichiarazione dei redditi?".

Di Girolamo è l’ombra dell’uomo dal fare spavaldo che era dopo la sua elezione a Palazzo Madama con i voti degli italiani all’estero dove però, secondo gli investigatori, lui non aveva mai risieduto. Indossa una tuta e, sopra una felpa, un gilet blu imbottito. "In carcere - ricorda alla parlamentare - ci sono arrivato nel modo peggiore, in giacca e cravatta. La prima cosa che la polizia penitenziaria ha fatto, al mio ingresso, è stata sequestrarmi la cravatta. Dopodiché mi sono reso conto che quel che mi ero portato da casa era inservibile. Oggi, con l’esperienza che ho maturato a mie spese, mi sento di poter consigliare, agli incensurati che stanno per fare il loro ingresso in carcere, il kit del detenuto. Mettete per prima cosa in borsa una tuta da ginnastica, non portatevi la schiuma da barba perché qui è proibita, essendo permessa solo la crema".

Il tempo, si sa, non passa mai in una cella, soprattutto se si è soli. Di Girolamo se n’è accorto subito. "Conto ogni minuto della giornata che passo chiuso qui dentro - dice - sono 1.440 al giorno, in attesa di conoscere il mio destino, senza sapere cosa mi accadrà e quando, perché nessuno mi dice nulla". Inganna quei 1.440 minuti leggendo le carte processuali, un mucchio di 1.800 pagine impilate sul letto. "Ogni mattina leggo quattro quotidiani, li divoro, poi un libro e mezzo al giorno. Ma non scrivo mai, non ci riesco neppure a mia moglie. Mi angoscia scrivere dal luogo in cui mi trovo, nella condizione in cui sono. Imprigionato in questa cella, pensando ai quegli indimenticabili giorni passati al Senato".

Giustizia: potevo morire... come Cucchi, Aldrovandi o Bianzino

di Silvio Messinetti

 

Il Manifesto, 21 aprile 2010

 

"Potevo finire come Aldrovandi o Bianzino, non è accaduto e vi racconto come sono stato torturato". La storia di Antonio Argentieri Piuma, tifoso del Catanzaro finito in carcere dopo una trasferta con scontri ad Arezzo, nel 2004. "Mi misero una pistola in bocca, mi pestarono e insultarono ripetutamente. Ho denunciato tutto alla magistratura con tanto di foto e certificati medici, ma invano. Se parlo ora è solo per aiutare a scoprire la verità su casi come quelli di Stefano Cucchi"

Oltrepassata la cinta muraria, nei pressi di Porta S. Spirito, la strada si inerpica dolcemente. È un antico acciottolato, ornato da cipressi e faggi. Le finestre dei palazzi intorno sono tinte dai vessilli delle contrade: la Giostra del Saracino, di cui Arezzo mena vanto, si terrà di lì a un mese. In cima al Poggetto del Sole, il palazzo della Questura lo trovi a destra, valicando questa collina che si erge intorno alla stazione centrale.

Antonio Argentieri Piuma, le bellezze e le vestigia medievali di Arezzo, quella lontana sera di maggio di cinque anni fa, non ebbe modo di ammirarle. Perché una brutta storia, la sua storia, di ordinaria tortura, lo vide protagonista, e vittima suo malgrado. Una storia che ha inizio proprio in quelle stanze anguste e buie del palazzo in vetta al Poggetto del Sole.

 

La partita di Supercoppa

 

È il 23 maggio del 2004 e Antonio, Totò per gli amici, si muove alla volta di Arezzo. È un tifoso dell’U.S. Catanzaro 1929, Antonio. Un tifoso accanito, un ultrà. Che segue la sua squadra del cuore ovunque e comunque. Anche a costo di sacrifici. Come quello di arrivare in Toscana dalla Calabria per una partita apparentemente inutile. Il campionato di serie C il Catanzaro lo ha già vinto. E quella che si gioca nella città del Petrarca è poco più che un’amichevole. Anche se, ufficialmente, mette in palio un trofeo, la Supercoppa di Lega, tra le due squadre, l’Arezzo e il Catanzaro, che hanno vinto i rispettivi gironi.

Tra le opposte tifoserie i rapporti sono pessimi a causa dell’antico gemellaggio tra i catanzaresi e i fiorentini. Dante definiva gli aretini "i botoli ringhiosi". E la rivalità tra aretini e fiorentini è, come noto, plurisecolare. Nel dopogara scoppiano cruenti tafferugli. Il bilancio finale è da prima pagina: 19 arresti e numerosi feriti. Tra gli arrestati c’è anche Antonio Argentieri Piuma, Totò per gli amici. Tutti vengono condotti al palazzo della Questura.

 

Il fermo e l’arresto

 

"Mi tremano i polsi, ho la bocca secca, lo sguardo inebetito. Mi trascinano per il corridoio, mi colpiscono alle braccia, alle gambe, sulla testa. Non sento più nulla ormai, dopo le botte subite dalla polizia al momento dell’arresto:la calibro 9 puntata in bocca e poi sbattuta sul cranio. La disperata difesa finita in un pestaggio barbaro, la terrificante stretta alla gola che provocò la perdita dei sensi". Argentieri, a quasi 6 anni di distanza, rompe il silenzio e ripercorre per il manifesto quei drammatici momenti vissuti insieme ai suoi amici. Una decisione lenta e sofferta, solo per dare sostegno alla famiglia di Stefano Cucchi e per amore di verità.

Ma il peggio, dopo le ore passate in Questura, doveva ancora arrivare. Perché le tante ore di fermo erano solo l’antipasto di una giornata nera, un incubo maledettamente vero. "Tutto incomincia intorno alle due del mattino. Il lunghissimo fermo di polizia si tramuta in arresto - continua Argentieri - e così, tre per volta, veniamo tradotti in prigione regolarmente ammanettati". Il carcere di Arezzo di via Garibaldi 259 sorge in un palazzo antico. È una prigione dalla cattiva fama e dalla brutta nomea. Lo scorso Ferragosto i detenuti hanno manifestato all’interno per protestare contro le negazioni dei loro diritti, sventolando fuori dalle sbarre un lenzuolo che bruciava, sbattendo con forza le pentole in un interminabile e rumorosissimo cacerolazo. Il giorno prima, il 14 agosto, la senatrice Donatella Poletti del Partito radicale si era recata in visita ispettiva, denunciando sovraffollamento, carenza di organico, una struttura antica e fatiscente, "una situazione in cui anche una partita di pallone tra detenuti diventa un miraggio".

Cinque anni prima, la casa circondariale di Arezzo fu teatro di violenze, pestaggi ed umiliazioni. "Mi trascinano dentro una cella, il cancello rimane aperto. Davanti a me una scrivania, un agente della polizia penitenziaria. "Svuota le tasche, stronzo" mi grida "fai vedere cosa nascondi". Ecco che ricevo il primo pugno sul viso, a freddo, e il secondo di dietro alla nuca. La gamba del secondino che mi sta alle spalle si infila tra le mie e perdo l’equilibrio mentre lui mi colpisce sulla testa con la suola degli anfibi".

È un racconto duro e crudo quello di Argentieri, che descrive nei minimi particolari quegli attimi in cui una rabbia mista ad incredulità lo pervade. "Ora dammi il portafogli, terrone di merda, poggia tutto qui e spogliati che ti diamo una bella ripassata. Fai in fretta, calabrese di merda, pantaloni scarpe, mutande, tutto". Argentieri non risponde ad alcuna provocazione perché è consapevole che i suoi aguzzini non aspettano altro. Esegue le indicazioni, si spoglia e lascia cadere gli abiti sul freddo pavimento della cella di sicurezza. Nel mentre, un agente della polizia stradale si gusta la scena all’ingresso della cella con un ghigno di soddisfazione: "Prima di essere investito da una lunga serie di manganellate che faranno di me un corpo di piaghe e dolori".

 

"L’ubriacone"

 

"Cerco di proteggere il capo e le tempie con le braccia e lascio più scoperti i fianchi. Resistere è dura. Non so dove trovare la forza per non urlare, per non reagire: un’umiliazione terrificante. Torturato così da due sconosciuti in una prigione dello Stato italiano. Chi è stato a Genova, l’anno del G8, sa di cosa parlo". Nel volgere di qualche minuto, Argentieri riceve una cinquantina di manganellate, intervallate da ceffoni, pugni, calci, spintoni, pugni, di tutto. "Ho le costole rotte, la testa che mi scoppia, le braccia livide, le gambe piene di ferite. I vestiti sono laceri, la faccia arrossata e gonfia. Emetto qualche gemito di dolore ma l’unica cosa che temo veramente è di essere sodomizzato, sì sodomizzato. Sono due mostri assetati di violenza. Sento la puzza dell’alcool uscire dalla bocca di uno dei due, quello che stava dietro la scrivania".

Nei giorni seguenti, infatti, Argentieri conobbe le gesta infami di quel secondino, noto come "l’ubriacone", dalla voce di alcuni detenuti. "Ma l’altro, quello coi baffetti, non era da meno, ma per fortuna si fermano lì e non vanno oltre. Entrambi li rividi poi il giorno della scarcerazione, incrociando i loro sguardi". Dopo il pestaggio Argentieri si riveste e viene condotto in cella, la sua prima notte da detenuto. "Il corridoio è buio, vedo poco ma continuo a camminare. Salgo una rampa di scale, la seconda, la terza, fino ad arrivare all’ultimo piano. Nel tragitto ricevo calci e spintoni. "Ecco la tua cameretta" mi urlano "entra, stronzo, ora sei a casa" spingendomi in cella con un calcione sulla schiena. Sono all’incirca le quattro del mattino".

All’indomani, dinanzi al Gip, Argentieri non raccontò nulla di quella barbara notte appena vissuta, per paura di ritorsioni all’interno dell’istituto penitenziario. "Ma quando riabbracciai la libertà denunciai tutto alla magistratura, allegando una corposa documentazione costituita da certificazioni mediche e materiale fotografico relativo alle ferite riportate sul corpo". Di quella denuncia non si saprà più nulla. Andrà avanti, invece, il procedimento penale a carico di Argentieri e dei suoi amici che sinora ha prodotto in cifre: 4 giorni di carcere, 14 giorni ai domiciliari, un mese di obbligo di dimora, una condanna in primo grado ad un anno e dieci mesi di reclusione (per chi come Argentieri ha seguito il rito ordinario) con la pena condonata perché coperta da indulto. Tutti gli imputati hanno annunciato ricorso in appello.

Questa che avete letto è la storia di Totò Argentieri Piuma, che oggi ha trentacinque anni, è giornalista, dirige la rivista telematica www.terramara.it, vive la sua vita normalmente ma non ha dimenticato una virgola di quei drammatici momenti: "A me andò bene ma a Stefano Cucchi, ad Aldo Bianzino, a Federico Aldrovandi no. In un Paese civile e democratico che rifiuta a parole qualsiasi forma di violenza e discriminazione questo non è accettabile. La violenza e la tortura sono bandite dalla Costituzione a prescindere dal capo d’imputazione e dal tipo di condanna inflitta. Per questo è sacrosanta la ricerca di tutta la verità. La magistratura ha il dovere di fare giustizia".

Sicilia: per "Giornata del libro" 500 volumi alle carceri regionali

 

Agi, 21 aprile 2010

 

Cinquecento volumi di narrativa italiana e di poesia saranno distribuiti a partire da domani mattina ai detenuti di cinque carceri di Palermo, Agrigento e Ragusa nell’ambito di un progetto promosso dalla Commissione per la vigilanza sulla biblioteca dell’Ars in occasione della Giornata mondiale del libro e del diritto di autore che si celebra venerdì. Domani a partire dalle 10 la distribuzione interesserà il Pagliarelli di Palermo e successivamente l’Ucciardone e il minorile Malaspina. I volumi offerti, cento per ogni carcere, che trattano anche di folklore e costume, sono prevalentemente di autori italiani e siciliani. Una cinquantina di testi, selezionati e donati dal dipartimento di Storia araba dell’Università di Palermo, sono arabo o in francese, destinati ai numerosi detenuti dei Paesi del Maghreb.

"È una delle numerose iniziative che l’Ars ha intrapreso in occasione della giornata mondiale del libro organizzata dall’Unesco - ha detto Pino Apprendi (Pd) presidente della Commissione di vigilanza - un’iniziativa che tutti e tre i deputati della Commissione hanno voluto lanciare in un contesto di avvicinamento delle culture in cui si trovano oggi gli istituti penitenziari".

Bari: Sappe; sezione carcere "chiusa per degrado"... ma in uso

 

Ansa, 21 aprile 2010

 

La seconda sezione del carcere di Bari, che ospita 270 detenuti a fronte di un centinaio di posti, è in precarie condizioni igienico-sanitarie, ma continua a funzionare nonostante già nel settembre del 2009 il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avesse deciso di chiuderla. È quanto denuncia in una nota il segretario nazionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), Federico Pilagatti.

Secondo l’esponente sindacale, la situazione del carcere di Bari sarebbe simile a quella di altri istituti penitenziari pugliesi, compresi quelli di più recente costruzione a Lecce e Taranto. Nel capoluogo salentino la pioggia invaderebbe i padiglioni più alti, compresi i corridoi e i box in cui sostano i poliziotti penitenziari, mentre a Taranto sarebbero state chiuse intere sezioni per motivi di sicurezza a causa di problemi strutturali.

Il Sappe chiede quindi che venga costituita una commissione parlamentare che si occupi di capire perché, pur essendo stati spesi in decenni oltre tre miliardi di euro, le carceri italiane versino in condizioni precarie, e segnala nuovamente il problema del sovraffollamento delle strutture. In Puglia sono ospitati 4.350 detenuti, a fronte di una disponibilità di 2.200 posti.

Pisa: "verità una, giustizia nessuna", con madri detenuti morti

 

Asca, 21 aprile 2010

 

Niki Aprile Gatti, Manuel Eliantonio, Marcello Lonzi, Francesco Mastrogiovanni, Riccardo Rasman, Giuseppe Uva, Stefano Frapporti, Aldo Bianzino, Simone La Penna, Bledar Vukaj, Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, e Stefano Cucchi.

Nomi che non appartengono solo alla cronaca, ma alla memoria del presente per essere "i nomi di ragazzi morti". Gli stessi nomi sono emersi nella presentazione che ieri, presso il Circolo Utopia, ha introdotto l’iniziativa "Verità Una, Giustizia Nessuna", in programma presso la Terrazza Leo Caffè alla Stazione Leopolda in piazza Guerrazzi, nella giornata di sabato 24 aprile. I familiari, e soprattutto le madri dei ragazzi nominati incontreranno la città per raccontare la lunga attesa di una verità che nella maggior parte dei casi citati non è mai arrivata, e per ricordare insieme le lotte quotidiane perché questa verità emergesse chiara, senza zone d’ombra.

Solo meno di un mese fa il caso di Marcello Lonzi è stato oggetto di una seconda richiesta di archiviazione, arrivata proprio pochi giorni prima della presentazione della contro-perizia che avrebbe fornito nuovi elementi alle indagini in corso sulla morte in carcere del giovane livornese. Dopo l’annuncio del procuratore capo di Livorno De Leo sulla richiesta di archiviazione, Maria Ciuffi era intervenuta all’Università di Pisa per parlare di suo figlio, durante la discussione sul libro a fumetti "Zona del silenzio" (di Antonini e Spataro, Minimum Fax), sul caso Aldrovandi. La madre di Marcello si disse delusa ma non amareggiata. "Non mi aspettavo niente di diverso - spiegò - già da tempo ho smesso di aver fiducia nella giustizia".

Ecco, quelle che sabato si incontreranno sulle terrazza della Leopolda sono storie e battaglie per avere giustizia: "Anche se ormai - ha spiegato Maria Ciuffi durante la conferenza stampa di ieri - non crediamo più nel lavoro dei magistrati. Quando qualcuno muore in carcere o in altre strutture italiane si cerca sempre di insabbiare. Un esempio? Il 19 maggio a Livorno si terrà l’udienza davanti al Gip che dovrà decidere sulla nuova richiesta di archiviazione del caso di Marcello avanzata dalla procura. E il giudice è lo stesso che ha già archiviato una volta il caso di mio figlio".

Il gruppo "Zone del Silenzio" (composto da Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud, Collettivo Aula R, Coordinamento antifascista antirazzista pisano, Gruppo discussione carcere Pisa, Osservatorio antiproibizionista-Canapisa crew, Associazione Aut-Aut) è nato proprio dalla necessità di mettere in contatto queste storie di quotidiana lotta, ma anche di dolore troppo spesso senza voce, con la cittadinanza, con l’opinione pubblica. L’iniziativa di sabato tratterà di tutti i morti nelle cosiddette istituzioni "totali", quali carceri, ospedali psichiatrici giudiziari, ospedali psichiatrici. Anche se non potrà essere presente quel giorno, anche Haidi Giuliani ha aderito all’iniziativa.

"Stiamo preparando un blog - ha raccontato Sebastiano Ortu di Zone del Silenzio - che verrà presentato proprio il 24 aprile. Sarà uno spazio dedicato alla vicenda di Marcello Lonzi e a tutte le storie di cui parleremo sabato, un luogo di ricerca necessario a sollecitare un maggior movimento di opinione pubblica".

Dopo la presentazione del lavoro di Antonini e Spataro, il gruppo che aveva organizzato l’evento si è consolidato, dando vita a un’entità articolata come Zone del Silenzio. "Dei casi noti alla cronaca - continua Sebastiano - l’unico che ha avuto un esito giudiziario certo è stato quello di Aldovrandi. Ma purtroppo si tratta di un’eccezione. Sulle altre morti pesa il sospetto che nessuno riuscirà mai a far emergere una verità definitiva"

"L’iniziativa di sabato - conclude Sebastiano - vorrebbe far raccontare a tutti i familiari la loro storia, facendo emergere le diverse esperienze di ciascuno. Da parte sua, infatti, Zone del Silenzio raccoglie in sé competenze che vanno dalla psichiatria all’antiproibizionismo, fino allo studio sui media, i quali hanno avuto sempre un ruolo di primo piano, nel bene e nel male, nel concorrere a stabilire o meno una verità su queste vicende".

L’appuntamento è dunque per le 15.00 di sabato 24, quando si terrà una conferenza stampa convocata insieme alle madri delle vittime. L’iniziativa invece avrà poi inizio per le 16.00, e si chiuderà con un aperitivo a partire dalle 19.

Cinema: il film "Cella 211"... con il commento di Luigi Manconi

 

www.innocentievasioni.net, 21 aprile 2010

 

Questo "Cella 211" di Daniel Monzón (Spagna 2009), ora distribuito in Italia dalla Bolero è un gran bel film: quello che un tempo - quando si era piccini - avremmo definito "all’americana".

Trama intensa, talvolta mozzafiato e action, molta action. Nonostante le apparenze, non è un film sul carcere: è, piuttosto, una bella storia criminale, ambientata in un penitenziario. E fa venire in mente un formidabile e inquietante thriller di qualche tempo fa, Il fine ultimo della creazione di Tim Willocks (Mondadori, 1995). In Cella 211, tanta azione, come si è detto, una violenza sempre immanente e sottilmente avvertita e talvolta dispiegata; e, soprattutto, un clima costante e soffocante di sopraffazione tra custodi e custoditi e tra custoditi e custoditi. Un vero e proprio prison movie, dove tutti i fattori si ritrovano perfettamente combinati, ma dove, accanto all’impronta "americana", la sceneggiatura e la regia sono capaci di ricorrere alla finezza psicologica e alla complessità dei caratteri, proprie del cinema europeo. Prendete un film come The Castle (2001) con Robert Redford, una vera e propria battaglia medievale dentro una prigione militare, e affidate la regia non a Rod Lurie ma, che so, a Mimmo Calopresti: e avrete Cella 211. L’ambientazione carceraria spiega e legittima l’efferatezza di atti e comportamenti, ma consente allo stesso tempo di vedere come in quel microcosmo da incubo si riverbino le tensioni e le lacerazioni che attraversano la società esterna, quella dei liberi.

In Spagna, il film ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e ciò si deve, in primo luogo, a quanto si è detto a proposito della forza drammaturgica del racconto. Ma forse c’è una ragione più profonda. Mentre in quel paese l’esperienza della detenzione politica è durata fino alla metà degli anni ‘70 e continua per la minoranza basca, rendendo il carcere per così dire familiare, in Italia non è così da sessant’anni.

E qui la popolazione detenuta è oggetto di un processo di rimozione: viene sottratta allo sguardo pubblico, direi occultata, perché la sua eventuale visibilità può turbare. E può turbare proprio perché ricorda a chi è (momentaneamente) libero che il male e il bene non sono nettamente separabili l’uno dall’altro, col semplice ricorso a un muro che si vorrebbe invalicabile. E intanto, proprio nelle ore in cui a Roma si presentava il film spagnolo, nel locale carcere di Rebibbia il diciannovesimo detenuto, dall’inizio dell’anno, si toglieva la vita.

Teatro: "Nobile si nasce" uno spettacolo nel carcere di Pescara

 

Agi, 21 aprile 2010

 

Sabato 24 aprile alle ore 20.00, presso la sala cinema teatro della Casa Circondariale di Pescara, si terrà lo spettacolo "Nobile si nasce" realizzato dall’Associazione teatrale "La Ginestra" di Cepagatti. Lo scopo della manifestazione - spiega una nota - è quello di ringraziare il personale dell’Istituto penitenziario ed i detenuti che, in occasione dell’Epifania, hanno donato ai bambini ricoverati presso il reparto pediatrico di ematologia dell’Ospedale Civile di Pescara, dei lettori dvd portatili in modo che possano vedere film e cartoni anche quando sono costretti a rimanere a letto in Reparto. Alla manifestazione, parteciperanno autorità civili e religiose, il direttore del Carcere di Pescara, dott. Franco Pettinelli, il magistrato di sorveglianza, dott. Grimaldi ed il Garante dei detenuti del Comune di Pescara e Presidente del Comitato Provinciale della Croce Rossa Italiana, Avv. Fabio Nieddu.

Droghe: Giovanardi; basta ex-Cirielli, fuori i tossicodipendenti

 

Ansa, 21 aprile 2010

 

Il Dipartimento nazionale antidroga ha inviato oggi una proposta di emendamento al ddl (o probabile decreto legge, come annunciato dal premier Berlusconi pochi giorni fa) sulla "messa alla prova", contenente modifiche per i tossicodipendenti condannati per spaccio di lieve entità. Lo ha reso noto all’Ansa il sottosegretario Carlo Giovanardi, che ha la delega delle politiche antidroga. Il congestionamento delle carceri - per risolvere il quale il governo ha pensato a un provvedimento che preveda la detenzione domiciliare per chi deve scontare un anno di pena - è infatti dovuto in buona parte dall’ingresso di detenuti tossicodipendenti condannati per spaccio di lieve entità.

"Persone che essendo malate hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione" afferma Giovanardi. Ecco cosa chiede l’emendamento: innanzitutto, rivedere la legge ex Cirielli sulle recidive (i tossicodipendenti piccoli spacciatori infatti ripetono spesso i loro reati) dando la possibilità al giudice di far prevalere le attenuanti sulle aggravanti.

Poi, portare da due a tre volte la possibilità di avere l’affidamento in comunità, con l’obbligo di scontarvi la pena. Ancora, si chiede un monitoraggio dei posti disponibili nelle comunità terapeutiche, in modo che il piccolo spacciatore tossicodipendente al quale resta da scontare un anno di pena, invece di uscire semplicemente dal carcere o di terminare la pena agli arresti domiciliari lo faccia in comunità.

Infine, spiega Giovanardi, visto che il provvedimento governativo prevede la sospensione del processo e la messa in prova per condanne fino a tre anni, si chiede che per i tossicodipendenti si faccia un’eccezione e che questa misura alternativa possa essere applicata anche per pene superiori ai tre anni (per il piccolo spaccio la legge 309 prevede da uno a sei anni). "Una misura che, in casi come quello di Stefano Cucchi, avrebbe consentito al povero ragazzo di andare in comunità invece che in carcere" spiega il sottosegretario. "Riteniamo - conclude Giovanardi - che queste siano misure intelligenti, sia per la salute del tossicodipendente che per decongestionare le carceri".

Droghe: Corleone; da Giovanardi segnale è giusto, ma parziale

 

Ansa, 21 aprile 2010

 

"L’emendamento Giovanardi accoglie solo parzialmente le proposte del mondo delle comunità e delle associazioni, ma è un segno di attenzione che va colto": così Franco Corleone, segretario di Forum droghe e Garante dei detenuti di Firenze, commenta l’annuncio del sottosegretario di un emendamento al dl sulla "messa alla prova" che riguardi i tossicodipendenti detenuti.

"Cinque giorni fa - spiega Corleone - una delegazione del Cartello di associazioni che ha promosso l’appello "Le carceri scoppiano, liberiamo i tossicodipendenti" ha incontrato il capo del Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni e ha illustrato varie proposte per risolvere il sovraffollamento carcerario, facendo uscire dal carcere almeno diecimila detenuti tossicodipendenti e non facendone entrare più in galera".

"Le modifiche alla ex Cirielli e alla Fini-Giovanardi - continua - sono indispensabili per un piano che veda coinvolte le Comunità, le Regioni e i Sert. Deve essere chiaro che i progetti di inserimento e trattamento territoriale o l’inserimento in comunità devono avere una valenza sociale ed educativa e non essere basate sul ricatto della cura invece del carcere. Infine, deve essere sancito nei fatti che anche i detenuti stranieri hanno il pieno diritto alle misure alternative".

"Siamo soddisfatti di essere riusciti a far capire che la scelta punitiva contro i consumatori di sostanze stupefacenti provoca effetti dannosi e perversi. Il tavolo tra Cartello e Dipartimento tornerà a riunirsi nei prossimi giorni, per approfondire le soluzioni più efficaci e coinvolgere tutti i soggetti, compresa la magistratura di sorveglianza per il successo di una ipotesi di decarcerizzazione" conclude Corleone.

Usa: detenuto messo a morte, ma era allergico al cocktail letale

 

Ansa, 21 aprile 2010

 

Darryl Durr è stato messo a morte, nonostante fosse allergico ad una delle sostanze usate dal boia dell’Ohio. Negli Stati Uniti avevano respinto tutti i ricorsi presentati dai suoi legali alla Corte Suprema contro l’esecuzione.

Secondo gli avvocati la reazione del condannato alla sostanza a cui era allergico, l’elemento tranquillante del cocktail, avrebbe potuto causare dolori "inumani" al carcerato. L’afro-americano di 46 anni, era stato condannato a morte nel 1988 per avere stuprato e ucciso una ragazza di sedici anni nascondendo poi il cadavere in una scarpata. Ma la Corte Suprema dell’Illinois ha respinto la richiesta e Durr è stato messo a morte alle 10.36 locali. Le esecuzioni con iniezione erano state rimesse in discussione in Ohio l’anno scorso dopo che un boia non era riuscito a trovare la vena del condannato Romell Broom, che era così uscito vivo dalla camera della morte. Quella di Durr è stata la tredicesima esecuzione effettuata quest’anno negli Stati Uniti.

 

 

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