Rassegna stampa 1 aprile

 

Giustizia: l’abuso di galera preventiva è "sequestro di persona"

di Adriano Sofri

 

Il Foglio, 1 aprile 2010

 

Certo che si fa un abuso di galera preventiva. Lo si fa a tappeto, per un pregiudizio inveterato, per abitudine, per distrazione, nei confronti della massa senza nome di detenuti tipici, schiuma della terra. Lo si fa a ragion più voluta nei confronti delle persone di rango e reddito medio alto che di tanto in tanto un’onda anomala travolge provvisoriamente.

Allora entrano in gioco vanità e pubblicità, predilezioni politiche - che non vuol dire partitiche, e possono anche essere il colpo al cerchio e alla botte che passi per equanimità - e aspirazioni di carriera. L’abuso della galera preventiva è di norma frutto di un cinismo senza ambizioni, di routine. È il caso più penoso e meno grave.

Non sanno quello che fanno, e comunque non se lo chiedono. Fanno come tutti o quasi, lasciano che passi il tempo che li separa dalla sera, dalla promozione e dalla pensione. I peggiori giudici stanno fra i migliori; non è un gioco di parole. I migliori credono in quello che fanno, o cercano di fare, andando contro una corrente impetuosa.

Perseguono la giustizia, e quando gli ostacoli si fanno troppo forti per essere superabili attraverso il diritto, a volte, piuttosto che cedere, forzano il diritto quel tanto che basta se non alla giustizia, al suo parziale risarcimento di fatto. Così la galera preventiva, che vale così spesso un terribile sequestro di persona, ai loro occhi diventa la caparra trattenuta su un debito che non sarà mai saldato: almeno quella.

I giudici migliori sono insidiati dalla tentazione di diventare i peggiori: mestiere non invidiabile. Meglio esser giudicati. Ad accrescere la loro tentazione sta il confronto fra i privilegi delle persone di notorietà e di reddito medio alto che ogni tanto incappano nella rete e il mucchio dei pesci piccoli, boccheggianti senza qualità.

Si esita a spendere parole per i privilegiati su cui vengono compiuti abusi, di fronte allo spettacolo dell’abuso universale e impassibile. Esitano soprattutto coloro che all’abuso universale assistono impassibili, salvo prenderlo a pretesto quando, con entusiasmo incattivito o con una pigra viltà, vogliono cavarsi lo sfizio di infierire contro il privilegio degli altri. Quando mi è capitato - rarissimamente - di imbattermi in qualche compagno di galera dal colletto bianco o dalle mezze-maniche, ho desiderato che ne uscisse il più presto possibile (succedeva) per il fastidio, né nobile né ipobile, che si prova quando nel proprio scompartimento salgono dei viaggiatori di cui si intuisce che rovineranno la compagnia.

Giustizia: Agnoletto; Opg, recupero di internati al primo posto

 

Redattore Sociale, 1 aprile 2010

 

Per l’ex parlamentare europeo, gli ospedali psichiatrici giudiziari dovrebbero dipendere dal ministero della Salute e non dal ministero della Giustizia: "È il primo passo da compiere se vogliamo affrontare poi tutti gli altri problemi".

Mettere al primo posto "il recupero terapeutico degli internati" e far dipendere gli Ospedali psichiatrici giudiziari dal ministero della Salute e non dal ministero della Giustizia. Questo il parere di Vittorio Agnoletto, medico ed ex-parlamentare europeo. "Occorre sfondare questo muro - spiega. È il primo passo da compiere se vogliamo affrontare poi tutti gli altri problemi legati a agli Opg". Fino a quando la gestione della sanità penitenziaria era affidata al ministero della giustizia, infatti, la direzione degli Opg era in mano a medici psichiatri. "Questo - sottolinea Agnoletto - era un vantaggio perché faceva prevalere, almeno nelle gerarchie, il ruolo sanitario rispetto a quello detentivo". Una situazione che rendeva più agile e snello anche l’avvio di processi di reinserimento sociale e lavorativo.

Oggi, con il passaggio della sanità penitenziaria al Sistema sanitario nazionale (che garantisce per tutti i detenuti gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini) "si è creato un paradosso tipicamente italiano. Un passo indietro non voluto, provocato da un vuoto legislativo", spiega Vittorio Agnoletto: gli psichiatri passano alle dipendenze del ministero della Salute e non possono, quindi, dirigere una struttura che dipende dal ministero della Giustizia. Si arriva così a una doppia direzione all’interno degli istituti. "Gli psichiatri restano in Opg ma come dipendenti da un altro ministero e quindi subalterni al direttore", conclude Agnoletto.

Giustizia: bambini in carcere? quello che può fare la Polverini

di Riccardo Arena

 

Pagina di Radiocarcere su Il Riformista, 1 aprile 2010

 

Nel carcere Rebibbia di Roma ci sono rinchiusi oggi 19 bambini con le loro madri. Si tratta di bambini detenuti del tutto particolari. Detenuti senza motivo. Non hanno commesso alcun reato, ma si trovano in carcere solo perché "colpevoli" di essere figli di mamme che hanno commesso un reato.

E sono davvero piccoli i bambini detenuti a Rebibbia. Hanno un età inferiore ai tre anni. Infatti la legge del nostro civilissimo Paese, non solo consente la carcerazione dei bambini, ma prevede che, una volta compiuto il terzo ano di età, siano separati dalla mamma detenuta. Come dire: prima una barbara detenzione e poi una barbara separazione.

I bambini detenuti a Rebibbia vivono come gli altri carcerati. Dormono in celle sovraffollate, subiscono i ritmi, la puzza e i rumori del carcere e poi, alla fine della giornata, vengono di nuovo rinchiusi in una cella. Bambini detenuti che, pur essendo così piccoli di età, patiscono il trauma della carcerazione. Una volta liberi, alcuni hanno un ritardo nella parola, altri si mostrano insofferenti quando si trovano in spazi chiusi o quando vedono persone in divisa, altri ancora ripetono ossessivamente frasi imparate in carcere.

Ma il carcere romano di Rebibbia non è un’eccezione italiana. Sono circa una sessantina i bambini detenuti nelle patrie galere. Bambini che restano in carcere nonostante che nel 2000 la legge Finocchiaro abbia previsto misure alternative alla detenzione per le mamme condannate. Una legge che evidentemente, anche a causa della normativa sulla recidiva introdotta dalla ex Cirielli, non è riuscita ad evitare che ancora oggi un bambino varchi la porta di un carcere.

A Milano, e soltanto lì, nell’aprile del 2007 hanno trovato una soluzione, senza scomodare il Parlamento. Con un semplice atto amministrativo, Regione, Comune e Provveditore delle carceri della Lombardia hanno istituito una casa protetta, chiamata Icam, dove far stare i figli di quelle donne detenute che non possono ottenere una misura alternativa. Si tratta di un’abitazione, e non di un carcere, che ospita 13 donne e altrettanti bambini. È sempre una sezione distaccata del carcere San Vittore e le donne sono sempre detenute, ma è ubicata in un normale appartamento. Senza sbarre, con i vetri blindati, e con gli agenti in borghese. Una struttura che garantisce sicurezza e adeguato trattamento per i bambini detenuti, che di giorno vengono portati in un asilo nido.

Un’esperienza positiva quella di Milano, che potrebbe essere fatta anche a Roma con il contributo della neo governatrice della regione Lazio, Renata Polverini. Anzi oggi è ancora più facile far uscire quei bambini dal carcere di Rebibbia.

Infatti, su iniziativa del Presidente del V Municipio Ivano Caradonna, già nel 2008 sono iniziati i lavori di ristrutturazione di un casale ubicato nel Parco di Aguzzano, alle porte di Roma. Un casale destinato proprio alle mamme detenute e ai loro bambini. A gennaio del 2010 i lavori sono stati ultimati, ma tutto resta fermo e i bambini restano a Rebibbia, perché manca l’accordo tra Regione, Comune e Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria. Ora, a elezioni fatte, sarebbe bello un domani dire "brava" al Presidente Polverini per aver contribuito a far uscire dal carcere quei bambini detenuti a Rebibbia.

Giustizia: Osapp; sul piano carceri con Alfano incontro al buio

 

Ansa, 1 aprile 2010

 

È stato rinviato al 7 aprile, ma è "ancora al buio perché privo di informazione, l’incontro tra il Ministro Alfano e i sindacati sul piano-carceri". A lamentare la mancanza di notizie "sulla ingente e costosissima mole di interventi di edilizia penitenziaria programmati", di cui peraltro riferisce "un organo di informazione interno", è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), che giudica ben strano questo silenzio del ministro e del capo del Dap. Il segretario Leo Beneduci definisce una beffa il fatto che la spesa prevista non vada in favore né del personale né dei detenuti e sottolinea che per ogni nuovo padiglione, per ogni contingente di 200 detenuti occorrerebbero 60 agenti in più che non ci sono..

Nel far presente che intanto in alcune carceri, e in particolare in quelli di Trani, Torino e Milano-Bollate, la protesta dei poliziotti penitenziari serpeggia contro la mancanza di fondi e l’assenza di trasparenza e di legittimità nelle decisioni degli organi dell’Amministrazione, l’Osapp invita il ministro a scegliere se privilegiare le nuove carceri e null’altro, continuando a dare fiducia all’attuale capo dipartimento Ionta, oppure dare priorità al personale, ai detenuti e alla funzione risocializzante e di recupero della pena.

Lettere: Iglesias; Amalia Schirru (Pd) scrive al ministro Alfano

 

Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2010

 

Gentile Ministro, le scrivo in riferimento alla notizia del detenuto della casa circondariale di Sa Stoia di Iglesias che lunedì mattina ha lamentato forti dolori ed ha dovuto attendere circa otto ore prima di poter essere ricoverato in ospedale, come disposto dalla guardia medica intervenuta su richiesta degli agenti.

Nell’istituto, dalle ore 20 alle ore 8 non è presente nessun medico: un’assenza che va a sommarsi alle più volte sottolineate carenze d’organico. Gli agenti di polizia penitenziaria di turno notturno erano solo quattro: troppo pochi perché due, come da prassi, potessero distaccarsi e trasportare il detenuto in ospedale. La situazione si è risolta soltanto in tarda mattinata.

In una nota del Dap si esplicitava che "nella prassi, anche a causa delle note carenze, le figure professionali istituzionalmente deputate all’assistenza psicologica del detenuto risultano (nelle ore pomeridiane, serali e notturne in cui più di frequente si verificano gli eventi a maggiore criticità) per lo più assenti o, comunque, non prontamente reperibili".

L’attuale assetto normativo, definito in base all’allegato A del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri inerente il trasferimento delle funzioni di assistenza sanitaria in carcere dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, prevede che l’assistenza sanitaria sia assicurata in tutti gli istituti penitenziari nelle 24 ore, mentre in molti istituti sardi la presenza di un medico o un infermiere non è affatto garantita durante molte ore della giornata (così come accade a Iglesias, Oristano, Isili, Is Arenas, Macomer, Tempio, Lanusei, Quartucciu, ecc.).

Tali mancanze, determinate dalle ristrettezze economiche conseguenti agli esigui budget assegnati alle singole direzioni da parte del Ministero della giustizia, possono dare origine a gravi negligenze non solo per la tutela della salute dei detenuti, ma anche per la stessa sicurezza nelle strutture penitenziarie.

Risulta poi che, in molti istituti, dove un elevato numero di persone detenute è sofferente di gravi patologie che necessitano di particolare assistenza sanitaria (tossicodipendenti, patologie psichiatriche anche in doppia diagnosi, HIV positivi, epatopatici cronici, cardiopatici, donne in stato di gravidanza e talvolta anche bambini figli di detenute...), non vengono corrisposti gli emolumenti al personale sanitario in quanto risultano esauriti già dal mese di settembre gli esigui fondi a disposizione provvisoriamente assegnati dal Ministero della giustizia in attesa del transito definitivo delle competenze in materia di sanità penitenziaria alla Regione Sardegna (istituti di Cagliari, Sassari, Alghero ecc.). Il personale è continuamente sotto pressione, con avvisi di garanzia in seguito alle denunce dei familiari dei detenuti e minacciati dai gruppi di azione locali anarchici.

Tali inefficienze e carenze d’organico sono state denunciate in diversi atti parlamentari di cui sono prima firmataria, a cui però non è stata data risposta.

Al fine di evidenziare la necessità di un intervento immediato affinché nell’Isola venga assicurata un’adeguata assistenza sanitaria nelle strutture penitenziarie, si chiede di convocare la Commissione paritetica Stato-Regione per affrontare la questione e concordare con la Regione misure adeguate alla soluzione del problema.

Inoltre, ritengo opportuno chiedere che venga esaminata urgentemente la situazione carceraria sarda e che si risponda con carattere d’urgenza alle interrogazioni presentate.

Certa di una sua cortese, quanto celere risposta, la saluto cordialmente.

 

Amalia Schirru

Parlamentare Pd, Camera dei Deputati

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

Pagina di Radiocarcere su Il Riformista, 1 aprile 2010

 

San Vittore: siamo indotti al suicidio. Caro Arena, le scrivo anche a nome dei 161 detenuti di San Vittore che hanno formato questa lettera con me. La nostra è una lettera che vuole essere un grido di allarme per le condizioni disumane in cui siamo costretti a vivere. Pensi che qui a San Vittore siamo rinchiusi in 5 o in 6 detenuti, dentro celle che al massimo potrebbero ospitare 2 persone, mentre in quelle un po’ più grandi ci stiamo rinchiusi in 11 ed anche in 12! Lo spazio per poterci muovere è pochissimo e siamo costretti a mangiare a turno e a dormire su letti a castello a tre piani, letti da cui spesso qualcuno cade e si rompe una gamba.

Qui la disperazione ha ormai superato il limite e la verità è che stare a San Vittore non può che portare una persona al suicidio. Si preferisce morire che sopportare ancora il sovraffollamento, la violenza e il degrado di questo posto. Le diciamo solo che qualche giorno fa un detenuto per uccidersi ha dato fuoco alla cella ed ora è ancora in coma. Infine vorremo evidenziare che moltissimi di noi sono detenuti sottoposti a misura cautelare. Presunti innocenti che scontano mesi e mesi di carcere come se fossero condannati in attesa di essere giudicati, il che non ci sembra giusto. La salutiamo con tanta gratitudine

 

Sebastiano ed altre 161 persone detenute nel carcere San Vittore di Milano

 

Foggia: ho 21 anni e una pena senza futuro. Carissima Radiocarcere, ho 21 anni, non sono mai stato in carcere, ma purtroppo mi trovo qui per scontare una pena di 3 anni e 4 mesi. Ormai è dal 2008 che sono detenuto e nonostante la mia giovane età e il fatto che non ho precedenti, ancora non riesco ad ottenere una misura alternativa. Quanto al carcere di Foggia devi sapere che si tratta di una struttura che potrebbe contenere circa 400 detenuti, ma oggi noi siamo più del doppio.

Il risultato è che in celle minuscole ci dobbiamo vivere in 4 detenuti e ti assicuro che qui dentro lo spazio è talmente poco che non possiamo fare nulla e neanche riusciamo a magiare tutti e 4 insieme, figurati il resto! Io ho solo 21 anni e non sono esperto di carcere, ma non mi sembra normale che gli educatori non ci chiamino mai per capire come sta procedendo la nostra detenzione, né mi sembra normale che il Tribunale di sorveglianza non riesca a decidere sulle nostre istanze solo perché manca la relazione dell’educatore.

È vero, ho sbagliato. Ma, visto che ho 21 anni, vorrei almeno scontare la mia pena imparando qualcosa di utile e non restando ad oziare in cella per tutto il giorno. La verità è che, anche per un giovane incensurato come me, il carcere è solo attesa di finire la propria pena. Un’attesa inutile e basta. Ciao e grazie per quello che fate per noi.

 

Giovanni, dal carcere di Foggia

Lecce: muore detenuto di 71 anni, già 50 decessi da inizio anno

 

Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2010

 

Con la morte di Emanuele Carbone salgono a 50 i detenuti morti in 3 mesi nelle carceri italiane, di cui 15 per suicidio (l’ultimo in ordine di tempo a Reggio Emilia domenica scorsa, vittima un detenuto italiano di 47 anni). Lo scorso anno i decessi furono ben 175 (massimo storico), dei quali 72 per suicidio.

Si tratta del secondo decesso in meno di 2 mesi nel carcere di Lecce: il 13 febbraio scorso è morto Giuseppe Nardella, di 45 anni (per quell’episodio due medici in attività presso il carcere sono iscritti nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo, perché si suppone che possa esservi stato un ritardo nel ricovero).

Emanuele Carbone, 71enne originario di Castellana Grotte (Lecce), era detenuto presso il carcere "Borgo San Nicola" di Lecce. Ieri sera, un malore improvviso, poi il decesso. Cause da accertare: il pm dispone l’autopsia.

Pare che abbia iniziato a tossire con una certa insistenza, le prime avvisaglie del malore in arrivo che di lì a poco l’avrebbe stroncato. Condotto dalla sua cella presso l’infermeria, si è spento a causa di una crisi respiratoria. Il personale sanitario del carcere, probabilmente, ha potuto fare poco. Ma le cause scatenanti del malessere che ha portato al decesso sono ancora tutte da accertate, come da referto medico. S’indaga, dunque, sulla morte di un anziano detenuto originario di Castellana Grotte, spirato la notte scorsa presso il carcere leccese di Borgo San Nicola. Emanuele Carbone aveva 71 anni.

Il referto è giunto presso l’ufficio del pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Lecce, Stefania Mininni, la quale ha disposto l’autopsia per accertare i motivi della morte. L’esame necroscopico sul corpo di Carbone è fissato per domani mattina. La Procura ha incaricato a tale proposito il medico legale Roberto Vaglio.

Teramo: detenuto pestato; archiviazione pesa più di condanna

di Diana Pompetti

 

Il Centro, 1 aprile 2010

 

Nessun colpevole per il detenuto pestato in carcere. Ma è un’archiviazione che pesa quanto e forse più di una condanna quella che il sostituto procuratore David Mancini ha chiesto dopo aver concluso le indagini su una vicenda dalle molte ombre. A cinque mesi dall’audio shock finito sulle prime pagine di tutti i giornali il pm, titolare del caso insieme al procuratore Gabriele Ferretti, ha firmato la richiesta di archiviazione per i quattro agenti di polizia penitenziaria, il comandante e il detenuto indagati per abuso, omissioni e lesioni. Ora sarà il gip a decidere se chiudere o rinviare gli atti al pm per fare nuove indagini.

È un atto d’accusa quello che Mancini mette nero su bianco sottolineando un’omertà carceraria che, di fatto, avrebbe impedito di raccogliere prove indispensabili per arrivare al processo. Il magistrato parla di un silenzioso codice di comportamento carcerario in vigore tra i detenuti che impone di non riferire alle autorità quello che succede in cella. E, scrive Mancini, nessuno ha detto nulla di utile sui fatti avvenuti a settembre né in un senso né in un altro. E ancora. Per il pm il clima generale che c’è stato in carcere, limitatamente all’episodio contestato, è stato un clima di ansie e paure che hanno creato sofferenza non solo tra i detenuti ma anche tra gli agenti di polizia penitenziaria costretti a fronteggiare turni estenuanti.

Un discorso a parte merita il ritratto che, nella richiesta di archiviazione, il pm delinea del comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Luzi, sospeso dal ministro di giustizia Alfano proprio per questi fatti. È di Luzi la voce nel cd registrato. E lui che dice: "Il detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto".

Il testimone Uzoma Emeka è morto un mese dopo in carcere, stroncato da un tumore al cervello che nessuno ha diagnosticato. Luzi, sentito dal magistrato, ammette i colloqui registrati, ma sostiene che quelle frasi vanno interpretate in un contesto di forte tensione. Respinge ogni accusa di violenza sul detenuto e nega di averne tollerato l’utilizzo nei confronti di tutti i reclusi. Nega l’aggressione all’uomo in un ufficio e sostiene che in sua presenza nessun agente abbia mai alzato le mani.

Ma Mancini sottolinea l’esistenza di lacune nella difesa del comandante. Secondo il pm il linguaggio usato da Luzi denota una considerazione del detenuto lontana dal rispetto minimo che si deve alla dignità di tutti gli esseri umani. Per Mancini le parole del comandante evidenziano, invece, attitudini al comando poco apprezzabili se per dirigere il proprio personale quando la tensione era alta doveva fare ricorso a un linguaggio che il pm definisce "esecrabile". Nella richiesta di archiviazione il magistrato sostiene che le dichiarazioni del comandante danno l’idea del clima di agitazione esistente in quei giorni e del fatto che egli sia intervenuto per evitare che la vicenda degenerasse.

Ma il pm sottolinea come questa affermazione contrasti con la negazione di ogni violenza sul detenuto. Anche gli altri indagati, gli agenti, hanno respinto ogni accusa. Secondo Mancini le contraddizioni evidenziate sia dagli agenti e sia da Luzi farebbero dubitare della veridicità delle loro versioni.

Restano le accuse di Mario Lombardi, il detenuto che al magistrato ha raccontato di essere stato picchiato dagli agenti come atto di ritorsione per una sua resistenza nei confronti di un poliziotto (caso per cui per l’uomo c’è una richiesta di rinvio a giudizio in un’altra indagine affidata ad altro magistrato). Lombardi, subito dopo i fatti, è stato medicato nell’infermeria del carcere per delle escoriazioni. Dopo l’esplosione del caso Mancini lo ha fatto sottoporre a visite mediche e radiografie che hanno escluso la frattura di una costola inizialmente diagnosticata all’ospedale di Teramo e che poteva essere una conseguenza dell’aggressione. Per il pm le accuse si reggono solo sul racconto del detenuto, che però non possono essere confermate da nessuna certificazione medica. Poi ci sono le impressioni, le tante impressioni. Ma queste nel codice di procedura penale non ci sono.

Gorizia: progetto per reinserire detenuti in condizioni di disagio

 

Messaggero Veneto, 1 aprile 2010

 

Il Comune conferma il proprio sostegno alle persone a rischio di esclusione sociale: la giunta, ieri, ha approvato il progetto "Dalla reclusione alla reinclusione socio lavorativa", volto a contrastare i fenomeni di marginalizzazione dalla società civile di ex detenuti. L’iniziativa sarà, come negli anni passati, portata avanti insieme alla Comunità Arcobaleno, con una spesa complessiva di 28mila euro, a sua volta coperta da un finanziamento della Regione. "Si tratta di un progetto a cui lavoriamo con il ministero dell’interno.

Ci permette di rispondere a una delle necessità della nostra realtà territoriale, venuta alla luce grazie ai Piani di zona", spiega l’assessore comunale ai servizi sociali e assistenziali, Silvana Romano. In sostanza l’iniziativa garantisce un supporto alle persone che escono dal carcere, sia sul fronte lavorativo che su quello del loro inserimento nella società, per far fronte alle difficoltà determinate dal loro percorso di vita. In questo modo il Comune intende dare una risposta concreta a coloro che si trovano in condizioni di disagio, fornendo interventi per assicurare il raggiungimento dell’autonomia.

Ora l’amministrazione presenterà richiesta di contributo alla Regione, in qualità di ente gestore dei servizi sociali dei Comuni dell’Ambito Alto Isontino, secondo quanto stabilito recentemente dalla rappresentanza ristretta dell’assemblea dei sindaci, in modo da poter contare sui finanziamenti destinati ai progetti a sostegno di coloro che corrono il rischio di essere penalizzati ed emarginati. Inoltre nella delibera approvata dalla giunta è specificato che con un altro atto sarà formalizzata la convenzione con la Comunità Arcobaleno di via San Michele.

A proposito delle critiche legate al mancato rinnovo dei Piani di zona, l’esponente della giunta prosegue: "Nei giorni scorsi si è svolta la conferenza dei sindaci, da cui è emerso siamo comunque riusciti a dare risposte agli utenti sul territorio, soddisfacendo le loro esigenze. Nella stessa occasione abbiamo approvato il bilancio consuntivo 2009 e il previsionale per il 2010 dell’Ambito Alto isontino.

Quest’ultimo è risultato pari a oltre sei milioni di euro, così come quello precedente. Un dato importante è che entrambi i documenti sono passati all’unanimità dei quindici sindaci". L’assessore Romano aggiunge un’altra considerazione importante legata alla riunione dei giorni scorsi: "All’incontro è intervenuto anche il direttore dell’Azienda sanitaria, Cortiula, che si è presentato ai sindaci dell’Ambito. Ha avuto modo di confermare che stiamo collaborando su vari fronti, per esempio per la questione delle camere mortuarie di via Tuscolano. Ha colto l’occasione per ribadire che è sua intenzione collaborare con il territorio". Francesca Santoro

Pescara: quattro detenuti impiegati in lavori di pubblica utilità

 

Agi, 1 aprile 2010

 

Quattro detenuti del carcere di Pescara saranno impiegati per lavori di pubblica utilità sulle strade provinciali e per la cura del verde, della segnaletica stradale e delle piste ciclabili su cui ha competenza l’amministrazione provinciale di Pescara. Lo hanno annunciato questa mattina il presidente della Provincia, Guerino Testa, l’assessore alle Politiche sociali Valter Cozzi, il direttore del carcere, Franco Pettinelli, e il responsabile della Fondazione Caritas, don Marco Pagnello, firmatari di un protocollo d’intesa che fissa i termini di questa iniziativa.

Il protocollo ha la durata di un anno e i detenuti che saranno impiegati per lavori di pubblica utilità non saranno pagati, ma riceveranno solo un rimborso spese. Testa ha sottolineato che l’iniziativa, promossa già lo scorso anno dalla precedente amministrazione, ha una grande valenza sociale perché favorisce la reintegrazione del condannato nella società e consente a queste persone di acquisire delle competenze specifiche, favorendone l’inserimento occupazionale nelle aziende private una volta fuori dal carcere. La gestione del progetto è assicurata dalla Caritas e durante il periodo di svolgimento dello stesso sarà realizzato un reportage fotografico, accompagnato da testi, che sarà curato da Giorgia Tobiolo.

Trento: nuovo carcere con 240 posti dovrebbe aprire a giugno

di Luca Petermaier

 

Il Trentino, 1 aprile 2010

 

Forse non avrà la fama di "Alcatraz", ma a vederlo dall’esterno il nuovo carcere di Spini di Gardolo ha tutta l’aria di essere a prova di evasione. Mura di cinta alte - a occhio - almeno una ventina di metri, inferriate con punte acuminate, tre torrette di controllo su ogni lato con vetri antiproiettile. Insomma, un fortino impenetrabile che dovrebbe essere consegnato il 14 giugno. E il capocantiere giura: "Noi rispetteremo quel termine".

Il cantiere più blindato che il Trentino ricordi procede spedito a nord della città. L’agente di sorveglianza dentro la guardiola scruta insospettito noi ospiti inattesi e poco desiderati. La soglia del cancello d’entrata non può essere varcata da nessuno che non sia stato preventivamente registrato. Succede così anche per gli operai e le maestranze, quattro volte al giorno, mattina e pomeriggio. In questo cantiere protetto niente può essere lasciato al caso. "Disposizioni del ministero" - taglia corto la sorveglianza. Il capocantiere non dà molta più soddisfazione: "Ogni notizia che riguarda questo posto è riservata". Vana ogni speranza di ficcare il naso all’interno, figuriamoci scattare qualche foto.

Veniamo respinti con perdite: "Se vi va di perdere un po’ di tempo - consiglia con un sorriso ironico stampato sulle labbra il capocantiere - provate a chiedere un’autorizzazione al ministero. Arrivederci". Per capire come sarà il nuovo carcere di Spini, dunque, bisogna accontentarsi di una vista esterna. La struttura è impressionante ma - pur trattandosi di un carcere - anche elegante. Edifici giallo canarino si alternano a strutture bianche, adornate con grandi finestre. Gli spazi sono ampi, ariosi. Il muro di cinta si staglia in tutta la sua possenza come a dire: "Non provateci neanche". Tre torrette su ogni lato offrono una visuale perfetta su tutto il perimetro. Vetri blindati offrono protezione totale per i futuri "guardiani". Sull’esterno, ogni cinque metri, è stato installato un faro a fianco al quale è stata montata una telecamera a circuito chiuso. Non c’è un metro - sia dentro che fuori dal muro di cinta - che non venga coperto dall’occhio umano o da quello digitale.

La Paganella scruta dall’alto questa fortezza inespugnabile. Su circa dieci ettari di terreno sorgerà un carcere all’avanguardia sia per gestione degli spazi sia come tecnologia. Ospiterà la struttura carceraria vera e propria, ma anche edifici residenziali per il personale e strutture di servizio. Dopo la consegna dei lavori ci vorrà ancora qualche mese prima del materiale spostamento dei detenuti: "È necessario - spiega Benedetto Caldaralo, agente di polizia penitenziaria a Trento e sindacalista del Sinappe - che tutto sia pronto nella nuova struttura. Il trasferimento dei detenuti è l’ultima operazione che faremo".

La struttura di Spini potrà ospitare fino a 240 detenuti insieme ai quali dovranno convivere (a regime) 300 agenti. Queste le proporzioni, ma nel vecchio carcere di via Pilati già si scommette sul futuro della struttura: "Noi siamo un centinaio di agenti che controllano 180 detenuti - afferma Caldaralo - e non ci sono segnali che il ministero abbia intenzione di assumere in tempi brevi i 200 agenti che mancano all’appello. Sarà un carcere a mezzo servizio".

Milano: fumogeno e petardi lanciati dentro mura di San Vittore

 

Ansa, 1 aprile 2010

 

Un fumogeno e un petardo sono stati lanciati ieri sera da cinque giovani incappucciati dentro la cinta del carcere milanese di San Vittore. L’allarme, da quanto è stato riferito, è scattato attorno alle 21.30 per il gran rumore provocato dall’esplosione del petardo come quelli usati a Capodanno, che insieme al fumogeno è stato ritrovato in quella che gli agenti di polizia penitenziaria chiamano intercinta (vicino al terzo reparto), cioè una delle zone del carcere maggiormente presidiata che si trova tra il muro di cinta esterno e quello delle sezioni.

Secondo alcune testimonianze a lanciare il fumogeno e il "botto" sarebbero stati cinque persone col volto travisato dal cappuccio della felpa che indossavano e che si sarebbero avvicinati all’ingresso provenienti da piazza Aquileia che poi sono fuggiti dalla stessa parte da cui sono arrivati. Ieri sera sono intervenuti oltre agli agenti di polizia penitenziaria, la polizia e la Digos. Quest’ultima sta effettuando le indagini con la visione anche dei filmati delle telecamere. Al momento non c’è stata nessuna rivendicazione né è stata ritrovata alcuna scritta sul muro del carcere o degli edifici vicini.

 

Sappe: mettere i militari a presidio dei penitenziari

 

"Quello avvenuto ieri sera a Milano, dove un fumogeno e un petardo sono stati lanciati da cinque giovani incappucciati dentro l’intercinta del carcere di San Vittore, è stato probabilmente il gesto sciocco di qualche sconsiderato ma è comunque un episodio che deve fare riflettere. Se a questo aggiungiamo che davanti alle carceri - obiettivi istituzionali sensibili per eccellenza - sono sempre più frequenti le manifestazioni di protesta di gruppi attigui al mondo dell’antagonismo politico, riteniamo sia il caso di sollecitare le Istituzioni a tenere alta l’attenzione, intensificando le misure di sicurezza, al fine di garantire l’incolumità di quanti operano all’interno del carcere ma anche dei cittadini. Credo anzi che l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe attivarsi presso gli Organi competenti affinché, considerata grave la carenza di oltre 6mila agenti di Polizia Penitenziaria negli organici del Corpo che si ripercuote inevitabilmente e principalmente sui servizi di sentinella sulle mura di cinta delle carceri, fino alle annunciate assunzioni di 2mila Baschi Azzurri previste dal Piano carceri del Governo, si arrivasse ad impiegare i militari per i servizi di vigilanza esterna degli istituti penitenziari."

È quanto dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria -, sull’episodio avvenuto nella serata di ieri presso il carcere milanese di San Vittore.

Spiega ancora Capece: "Proprio nei giorni scorsi, nel corso del XXI Consiglio Nazionale del Sappe che si è tenuto ad Abano Terme, sono emerse dai colleghi provenienti da tutta Italia quali e quante difficoltà operative determino le gravi carenze di organico nel Corpo di Polizia penitenziaria nelle oltre 200 carceri del Paese. Difficoltà che si traducono in nuovo impiego operativo del poliziotto nelle carceri che non deve essere più fisso e statico ma il più possibile dinamico. Ben vengano anche i militari impiegati nella sorveglianza esterna dei maggiori penitenziari italiani nelle more dell’assunzione straordinaria di nuovi Agenti per la Polizia penitenziaria. Ci auguriamo che si inizi proprio da Milano San Vittore a destinare i militari a presidio delle strutture penitenziari più grandi del Paese: è una soluzione certamente provvisoria e tampone, ma utile e necessaria a tutela delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria impiegati nella prima linea delle sezioni detentive oggi sovraffollate da oltre 6/mila detenuti presenti a fronte di 42mila posti letto e con 6mila Agenti di Polizia penitenziaria in meno. I militari davanti alle carceri e sulle mura di cinta delle carceri, dunque possono essere una delle soluzioni d’emergenza possibili nell’attuale critica situazione penitenziaria".

Porto Azzurro: la scrittrice Silvia Avallone, incontra i detenuti

 

Il Tirreno, 1 aprile 2010

 

Domani Silvia Avallone entrerà nel carcere di Porto Azzurro. L’autrice del libro "Acciaio", edito da Rizzoli, è ospite del "Progetto Samarcanda 2010". L’idea dei responsabili è di mantenere una certa continuità con le iniziative proposte dal circolo l’anno passato, realizzate in quel caso con il sostegno del Cesvot. All’interno del progetto attuale ha già preso il via un torneo di scacchi, giocato da squadre esterne e da un paio di formazioni composte da detenuti. L’incontro con la scrittrice, che presenterà ufficialmente il libro a Piombino nella seconda metà di aprile, è il primo appuntamento di una serie che prevede la partecipazione di altre figure impegnate nel settore letterario.

Agli autori che aderiranno sarà chiesto di far dono di una copia del proprio testo per la biblioteca del Forte San Giacomo, attualmente ancora chiusa per lavori all’impianto elettrico e per la definizione conclusiva dell’inventario, ma presumibilmente a breve pronta per l’apertura, secondo anche le dichiarazioni del direttore del carcere, Carlo Alberto Mazzerbo, che ha portato avanti l’impegno, d’intesa con l’associazione "Dialogo".

Sarà quindi Silvia Avallone con "Acciaio", ormai giunto alla settima edizione, a inaugurare gli incontri interculturali: "È la prima volta che ho un’esperienza del genere. Sono molto contenta. Credo sia importantissimo portare la letteratura in luoghi di disagio e sofferenza, come il carcere", spiega la giovane scrittrice.

Bergamo: il Vescovo con detenuti; speranza alimenta il futuro

 

L’Eco di Bergamo, 1 aprile 2010

 

"Siamo coscienti di avere sbagliato, ma siamo altrettanto sicure che Dio nella sua immensa misericordia ci accoglie con amore di Padre che per salvare l’uomo ha sacrificato suo figlio. Tutte vogliamo convertirci e cambiare la nostra vita, per questo Le chiediamo una preghiera per ciascuna di noi". Le detenute del carcere di Bergamo hanno accolto mercoledì pomeriggio il vescovo Francesco Beschi con queste parole.

Il vescovo ha ascoltato e poi ha salutato e benedetto le donne della sezione femminile con l’augurio di tornare a casa, ma soprattutto di tornare a una vita serena. Un tornare a casa che non sia un tornare al passato, ma un ritorno "alla speranza che si alimenta di futuro". Il vescovo è poi passato alla sezione maschile accompagnato dai cappellani don Fausto Resmini e don Virgilio Balducchi e dal direttore della casa circondariale di via Gleno, Antonino Porcino, il quale ha ringraziato monsignor Beschi per il suo intervento.

Nella chiesa, davanti a oltre trecento detenuti, il vescovo ha celebrato la Messa, in apertura il saluto dei detenuti che hanno detto fra l’altro: "Sa, qui spesso si perdono la voglia, la forza e la speranza di andare avanti, ma poi arrivano giornate come queste e allora lo stare insieme ci fa uscire da qui con un filo di speranza in più".

Immigrazione: Cie Crotone; dopo pacchetto sicurezza è peggio

 

Redattore Sociale, 1 aprile 2010

 

Uno squarcio profondo nel muro esterno. Un buco grande alcuni metri da cui si vedono diverse file di mattoni in muratura. Lo hanno fatto la settimana scorsa i detenuti del centro di identificazione e di espulsione di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto. Hanno sfondato il muro esterno di una delle due palazzine verdi, ex alloggi del personale della vecchia base aeronautica, che costituiscono il Cie. Secondo il personale del centro, hanno usato le reti dei letti su cui dormono. Reti di metallo lanciate a ripetizione e con violenza contro il muro fino a creare un grosso squarcio, quasi un’altra finestra. È un segnale inequivocabile della tensione all’interno del centro.

Della disperazione e della sofferenza di chi ha la prospettiva di rimanerci per sei mesi di seguito, di proroga in proroga, secondo quanto stabilito dal pacchetto sicurezza. "Sono persone che soffrono, sfociano in atti di autolesionismo. Sfasciano le televisioni. In poco tempo ne abbiamo cambiate 17", dice il coordinatore Salvatore Petrocca, delle Misericordie d’Italia, ente gestore del contiguo Centro di accoglienza per richiedenti asilo e da agosto scorso anche del Cie. Hanno vinto il bando di gestione in estate, dopo che la riapertura delle palazzine dell’ex Cpt era già avvenuta a febbraio del 2009 in fase di emergenza dopo la rivolta e l’incendio al centro di Lampedusa. Il coordinatore precisa che "è l’unico centro in Italia dove non ci sono stati tafferugli".

Ma la situazione psicologica e ambientale dei detenuti è difficilissima. "Ogni giorno è una guerra, abbiamo spesso feriti anche tra i poliziotti e gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno", dice un ispettore di polizia in servizio nel centro. Tante manifestazioni di malessere. "I maggiori dissensi li abbiamo avuti quando sono entrati in vigore i 180 giorni con il pacchetto sicurezza", spiega la direttrice Rosa Viola, che prima di svolgere questo ruolo era da cinque anni parte del servizio psicosociale dei precedenti Cpt e Cda.

Tutti, personale e forze dell’ordine, dicono che con i sei mesi previsti dal pacchetto sicurezza la situazione è peggiorata. "Non accettano un tempo così lungo per l’identificazione" racconta la mediatrice culturale Auatif. "Al Cpt c’erano i primi arrivi, ora l’utenza è cambiata. Nel Cie ci sono persone in Italia anche da tempo che conoscono la legge italiana ma non capiscono parchè debbano stare nel centro per sei mesi", continua la direttrice. In media si tratta di persone che vivono nel nostro paese da circa dieci anni. Quasi tutti sono alla prima espulsione. C’è chi ha precedenti penali per spaccio o per furto. Ma anche chi è praticamente italiano, avendo vissuto metà della vita nella zona. È stato il caso di un ambulante, cittadino marocchino di 60 anni, sposato e con figli che viveva a Isola Capo Rizzuto da 25 anni. Lo conoscevano tutti come "il marocchino di Isola". Fermato per la vendita di Cd falsi, ha passato tre mesi nel Cie ed è uscito a settembre per motivi di salute con l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni.

Quanto possa essere psicologicamente devastante un’esperienza del genere così lunga traspare dagli occhi verdi impauriti di Maher. Ha appena 23 anni, parla arabo. Dell’Italia ha conosciuto solo la detenzione nel Cie. Arriva tremando nella saletta della direzione e si sente a disagio perché a fare le domande è una giornalista, donna e sconosciuta. Ha pagato duemila euro per un viaggio dalla Tunisia alla Sicilia, passando per la Libia. È arrivato a novembre e da allora è detenuto a Sant’Anna. Con l’aiuto della mediatrice culturale spiega che ha rifiutato di chiedere asilo, perché la meta del suo viaggio è la Germania.

L’Italia era solo un luogo di passaggio per andare a lavorare dal fratello. Non si capacita di come il suo programma sia potuto finire così. "Anche moralmente non ho più la forza di prima. Mi sembra tutto un’illusione" sono le uniche cose che riesce a dire.

Attualmente sono 48 gli stranieri nel Cie. La struttura composta da due palazzine di colore verde è divisa in quattro moduli abitativi, due per edificio. Al momento solo la metà sono occupati. Sono in corso i lavori di ristrutturazione che dovrebbero essere completati a fine aprile. A quel punto il centro avrà la capienza massima di 124 posti. In totale, in un anno dall’apertura del Cie, da febbraio 2009 a marzo 2010, sono state detenute 631 persone.

Yemen: esplosione in carcere, fuggiti trenta detenuti separatisti

 

Asca, 1 aprile 2010

 

Almeno trenta detenuti sono riusciti a scappare dopo un’esplosione avvenuta all’interno di una prigione nella città yemenita di Daleh. Lo ha fatto sapere la polizia sottolineando che i fuggitivi sono tutti simpatizzanti di un movimento separatista. Secondo la polizia, una rissa è esplosa davanti ad un posto di blocco nei pressi del carcere tra agenti e simpatizzanti del movimento secessionista che erano stati arrestati nel corso di una manifestazione a Daleh. Per le forze di sicurezza, i manifestanti, approfittando della confusione, hanno scagliato una bomba. Opposta versione sarebbe stata data dal movimento separatista del sud dello Yemen, secondo il quale, sarebbe stata proprio la polizia ha lanciare la bomba. Nonostante non sia ancora chiara la dinamica, è certo che i detenuti fuggiti sono almeno una trentina.

 

 

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