Giustizia: visite “a sorpresa” negli Opg, così la Commissione Marino ha scoperto l’orrore L’Unità, 9 agosto 2010 Detenuti legati al letto, buche per raccogliere gli escrementi, macchie di umido alle pareti, muffe, odore di urina. È il quadro, agghiacciante, che emerge dal rapporto preparato dalla Commissione sul Sistema sanitario guidata da Ignazio Marino. E che tra giugno e luglio ha visitato a sorpresa sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg): Barcellona Pozzo di Gozzo, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Aversa e Napoli. “Un viaggio nell’Ottocento”, come lo ha definito il senatore del Pd, dove i detenuti vengono spogliati, non solo dei propri vestiti ma anche di ogni dignità umana. Le foto che vedete in queste pagine sono state raccolte durante le visite della Commissione e accompagnano il resoconto dettagliato che i componenti hanno fatto di ogni singolo istituto e di cui l’Unità diede notizia lo scorso 16 luglio. La disponibilità delle immagini e alcuni sviluppi della vicenda impongono tuttavia di tornare sull’argomento. Tra questi ultimi, la sorprendente decisione del ministero della Giustizia di ricorrere contro la decisione del sindaco di Montelupo Fiorentino che, ancora prima delle visite della commissione guidata da Marino, aveva chiesto l’immediata chiusura dei padiglioni più fatiscenti dell’Ospedale. Gli Opg, come spiega Marino nella sua relazione, sono strutture che negli anni Settanta hanno sostituito i manicomi criminali e che oggi ospitano 1500 internati. “Tra il profilo sanitario e penitenziario - dice Marino - negli Opg visitati prevale l’approccio carcerario ed è pressoché assente, anche nelle realtà più virtuose, l’impostazione terapeutica”. Le condizioni più intollerabili sono state riscontrate nell’ospedale di Barcellona Pozzo di Gozzo, in provincia di Messina: in una cella, un paziente nudo, sedato, coperto da un lenzuolo, veniva tenuto legato mani e piedi “agli assi metallici del letto” e, proprio sotto, un buco centrale per “feci e urine a caduta libera in una pozzetta posta in corrispondenza del pavimento”. Nei bagni, bottiglie d’acqua da bere legate con una cordicella e calate nello sciacquone del water, per mantenerle fresche. Quando il carcere si trasforma in tortura Budget dimezzato, terapie psichiatriche obsolete, personale ridotto all’osso: così lo Stato abbandona gli ultimi. È la denuncia lanciata dal direttore di Barcellona Pozzo di Gozzo, uno dei sei ospedali psichiatrici giudiziari visitati dalla Commissione sul Sistema sanitario nazionale guidata dal senatore Marino e di cui l’Unità diede notizia lo scorso 16 luglio insieme ai dati sul sovraffollamento raccolti in un dossier delle associazioni A Buon Diritto e Antigone. Giustizia: Giulietti (Pd); la Rai accenda i riflettori sul "Ferragosto in carcere" Adnkronos, 9 agosto 2010 "Trovo l'iniziativa dei Radicali straordinaria, perché richiama l'attenzione sulle carceri e dunque riguarda tutti. Mi permetto di chiedere, come Articolo 21, i mezzi di comunicazione, perché seguano questa iniziativa di ferragosto". Lo ha detto a Radio Radicale il parlamentare ed esponente della associazione Articolo 21, Giuseppe Giulietti, che è tra le decine di parlamentari che hanno aderito alla iniziativa del Ferragosto in carcere promossa dai Radicali Italiani. "La Rai - ha detto Giulietti - potrebbe abrogare qualcuna delle inutili repliche e dedicare qualche spazio al pianeta carcere, una serata magari, non tanto per far parlare i parlamentari, ma per raccontare quel che accade nelle carceri italiane. Accendere i riflettori, per far capire cosa accade in questi luoghi. Si capirà meglio che riguarda tutti noi", ha concluso Giulietti. Giustizia: Orlando (Idv); rispettare livelli essenziali assistenza sanitaria anche in carcere 9Colonne, 9 agosto 2010 Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari e i disavanzi sanitari regionali, Leoluca Orlando (Idv), a seguito della notizia di un detenuto nel Carcere dell’Ucciardone finito in coma dopo un infarto, ha disposto richiesta di relazione al Direzione nazionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e all’assessore alla Sanità della Regione Siciliana Massimo Russo per fare piena luce su quanto accaduto e per conoscere ogni eventuale elemento utile per accertare ritardi, lacune e responsabilità professionali, funzionali e organizzative. La richiesta da parte del presidente Orlando si collega al filone di inchiesta deliberato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari e i disavanzi sanitari regionali e avente a oggetto la tutela, all’interno delle strutture penitenziarie, del diritto alla salute costituzionalmente previsto. “La condizione di vita all’interno delle carceri, già di per sé pesante, non può e non deve essere aggravata dal mancato rispetto dei livelli essenziali di assistenza e tutela del diritto alla salute” ha spiegato Orlando. “Per questo, - ha aggiunto - l’Ufficio di presidenza della Commissione ha programmato una serie di ispezioni in numerose carceri italiane e, tra queste, è prevista anche una specifica visita nel penitenziario dell’Ucciardone”. Giustizia: se Graziano Mesina diventa “uomo immagine” della Polisportiva di Orgosolo La Stampa, 9 agosto 2010 Pomeriggio torrido e aria che sembra sabbia; oltre al silenzio carico di scirocco in piazza dei Caduti si sentono il ronzio di un moscone e le voci provenienti da un bar. Don Antonello, viceparroco di Orgosolo, dà un’occhiata all’orologio, parla veloce. Poi, davanti a un murale mette in fila le ragazzine del softball, che a settembre giocheranno i playoff per risalire in A2, l’allenatore cubano Luis Garcia Rodriguez, “El Pollo”, e tutta la Polisportiva. Un minuto dopo si mette in posa anche lui: alla sinistra di Grazianeddu, “la primula rossa del Supramonte”. Graziano Mesina: trent’anni di galera, la metà scontati in isolamento, venti evasioni tentate e nove riuscite. La prima che aveva 16 anni da una caserma di Nuoro, infinite latitanze e decine di sequestri attribuiti, molti dei quali attribuiti a caso. Da qualche giorno Mesina è l’uomo immagine della Polisportiva. Uomo immagine perché paura e buio affascinano e il male è un intrattenimento forte. Di questi dettagli Mesina se ne frega. Ma non è scemo, e come Buffalo Bill cavalca l’onda. Il Supramonte ha preso forma 300 milioni di anni fa, ma da quando Grazianeddu è rientrato a Orgosolo, l’altopiano è una delle mete più gettonate dai turisti. Gente a cui non affideresti un cocker da portare a spasso che si converte alla “balentia”, impiegati, ragionieri, manager che sfoderando mascelle grintose aspirano allo stato brado e bramano la boscaglia, purché tra lecci e ginepri, il rosso delle peonie, i canyon e i corsi d’acqua ci si avventuri in compagnia del bandito. Perché se non esistesse il bandito per loro non esisterebbe neanche il Supramonte. Don Antonello guarda il fotografo. Venti scatti contro sole. Difficile immaginare cosa verrà fuori, ma non è così importante. Per espresso desiderio di Grazianeddu si contano altri dieci clic, stavolta il fondale sono i vigneti e le capre conficcate nel granito lunare dell’altopiano. Tra un miserere e un’estrema unzione don Antonello non ha mai avuto retro pensieri. Da quando Mesina è rientrato il vice parroco ha reso pubblica solo questa sintesi: “In un Paese come il nostro, parlo dell’Italia, dove le indagini non si compiono e i processi non si concludono, Mesina è uno dei pochi a non avere conti aperti con la giustizia. Ora, dopo decine di anni trascorsi nelle patrie galere, è un uomo libero. Ha pensato di darci una mano, e Dio solo sa di quante mani avremmo bisogno, la polisportiva si fa carico di 230 adolescenti. Che in un paese che conta 4500 anime sono un esercito”. Il verbo di don Antonello, a Orgosolo è condiviso con il disincanto di chi fatica a distinguere tra un destino annunciato e sfuggente, l’epica del latitante con alle costole uno Stato percepito come un’assenza feroce e punitiva, e la ferocia lecita del codice scolpito nella pietra. Una versione che non starebbe in piedi in nessuna altra parte della Sardegna, ma sta in piedi in Barbagia. “Attenzione a dire che il latitante non ha una ideologia - dice Grazianeddu. Questa è una stupidaggine. Con la legge sulle chiudende, spagnoli e Savoia oltre ai pastori hanno trasformato in latitanti e banditi anche piccoli nobili e proprietari terrieri. Il fatto è che il mondo non è giusto e quando sei alla macchia lo percepisci ancora più ingiusto. La galera ti porta via tutto, ma se ne esci vivo ti regala la furbizia per continuare a tenerti vivo, la volontà di riaprire un varco per farti riconoscere”. Dice queste cose Mesina, anche se molte di queste cose, pasolinianamente è lui a non riconoscerle più: “Alla Polisportiva mi hanno chiesto una mano. Gliela darò, chiamerò giornali e televisioni, il mio grande amico Gigi Riva, quelli del Cagliari e della Torres. Io ho cominciato a correre presto, a 12 anni ero in montagna a seguire il gregge di famiglia, era uno sport molto individuale il mio. Come “presidente del Cagliari”, nel supercarcere di Spoleto ho anche vinto lo scudetto degli ergastolani. Darò una mano, ma i ragazzini devono rigare dritti. Orgosolo non sarà mai Palau, ma se non apriamo gli occhi i bambini di Orgosolo diventeranno come quelli di Palau e Olbia, o peggio ancora come i bambini continentali, che dentro gli occhi non hanno più luce”. Lettere: coppia in carcere per il rapimento del figlio… ma sarebbe quasi un loro diritto di Camillo Valgimigli (psichiatra) La Gazzetta di Modena, 9 agosto 2010 “Quando un bambino viene tolto ai suoi genitori”: Sanità e Dintorni della prima domenica d’agosto, che affrontava il tema dei figli “rubati” alle famiglie dai giudici e dai servizi e dell’inadeguatezza dei vari centri in cui vengono collocati questi minori - grazie anche alla distribuzione di quotidiani locali nei vari luoghi di villeggiatura - ha suscitato reazioni le più diverse dai vari contesti familiari, sociali, di addetti ai lavori e non. Manifestazioni di solidarietà ma soprattutto di sdegno per la reclusione della coppia in due carceri diversi e per il ritorno della piccola A.G. nello stesso centro, in cui non solo non riceveva da più di un anno e mezzo alcun sostegno psicologico ma, in cui sono stati segnalati disagi non presi neppure in considerazione dalle istituzioni preposte a sorveglianza e controllo. Concorde la critica e il dissenso per le mie dichiarazioni di fiducia e di stima nei confronti del ministro della Famiglia e del presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, colpevoli di aver disatteso le aspettative. Si sta verificando addirittura un fenomeno pericoloso: gli stessi compagni di cella di mamma e papà, che hanno scritto una lettera per la liberazione della coppia, la sta proponendo come “eroe positivo” al punto che gran parte dell’opinione pubblica non solo giustifica il rapimento della bambina, ma lo considera addirittura un diritto. La gente fa fatica ad ipotizzare reati di questo tipo e veder finire in carcere due genitori che, solidali e pienamente d’accordo, si riprendono la figlia strappata loro da una giustizia che prolunga immotivatamente i suoi tempi, che non coincidono col loro tempo del cuore. E quando, come in questo caso, i giudici nominano addirittura una tutrice matrigna, al posto di quei servizi sociali del Comune che avevano ritenuto ricco e affettivo il rapporto della bambina con la famiglia, viene addirittura spontaneo sostenere che “rapire un figlio” in casi simili, è quasi un “diritto”. É opinione diffusa infatti tra addetti ai lavori e non, che prima di allontanare da casa un bambino, si debba agire sostenendo con educatori e operatori il suo territorio familiare e affettivo. L’unica ragione che i giudici in questione potrebbero accampare è che questi genitori siano del tutto incapaci, dannosi per la bambina: irrecuperabili insomma. Se così è, che senso hanno i due anni di osservazione in orfanotrofio, le perizie, i prolungamenti dei tempi della decisione, se non quello di coltivare inutili aspettative sia nei genitori che nella bambina? Sono queste le incongruenze che fanno invocare addirittura lo smantellamento dei Tribunali dei minori. Le famiglie inadeguate o bisognose d’aiuto come questa vanno prese in cura e sostenute, se vogliamo evitare di avere troppi figli senza genitori e troppi genitori senza figli. Brindisi: Mohamed si sarebbe impiccato in cella perché non gli facevano vedere i figli Senza Colonne, 9 agosto 2010 L’autopsia, atto dovuto, ha confermato: Mohamed Hattabi è morto per asfissia dovuta a impiccamento. L’esame è stato eseguito ieri mattina dal medico legale Antonio Carusi su disposizione del pm di turno, Raffaele Casto. La procura di Brindisi ha avviato un’inchiesta sulla morte del tunisino di 43anni che si è suicidato nel carcere di via Appia nella notte tra giovedì e venerdì dopo aver tentato di tagliarsi le vene in mattinata. L’uomo era sotto stretta sorveglianza: aveva già cercato, in passato, di togliersi la vita, senza però riuscirci. Era disperato, a quanto pare, per via della lontananza dai due figlioletti di nove e sei anni che ancora non sanno nulla della triste fine del papà. Non era stato possibile incontrarli, come ogni mese, perché alla fine di luglio la moglie dell’uomo era stata arrestata su ordine di carcerazione per un vecchio furto di bottiglie in un supermercato. La donna deve scontare una condanna a tre mesi di reclusione, sarebbe presto uscita, perché può beneficiare della sospensione condizionale della pena, ma nel frattempo i due bimbi sono stati affidati a una coppia di amici che li avrebbero ospitati fino al momento del ritorno a casa della madre. Il 43enne non sapeva nulla di quanto era accaduto fuori dalla casa circondariale in cui era detenuto per scontare la pena che gli era stata inflitta: era stato condannato per droga e armi, sarebbe uscito nel 2012. Probabilmente sarebbe stato trasferito in un penitenziario, lontano da Brindisi e dai suoi bambini che hanno continuato a vivere con la madre, brindisina, e che frequentano la scuola dalle suore. È stato forse il timore di non rivederli per lungo tempo, la sofferenza dovuta al regime carcerario, l’insostenibile dolore provocato dalla distanza dai figli. Ha più volte spiegato le sue ragioni, Mohamed. Nonostante il pericolo per la sua vita, l’uomo continuava a soggiornare in una cella di via Appia. Già un mese fa aveva cercato di togliersi la vita impiccandosi in cella. Le sue condizioni di salute erano pessime ma non aveva potuto beneficiare di soluzioni alternative alla detenzione. Non era stata forse presentata alcuna istanza, non erano state disposte perizie medico legali in grado di attestare l’incompatibilità del suo stato mentale e fisico con la vita che si conduce dietro le sbarre. Giovedì mattina i primi segnali di sofferenza si sono tramutati in autolesionismo. Con un rasoio l’uomo si è tagliato le vene e si è procurato lesioni su tutto il corpo. È stato medicato nell’infermeria, gli hanno fasciato i polsi e hanno disinfettato le ferite che continuavano a sanguinare. Nella notte, poi, la tragedie si è compiuta. Mohamed ha chiesto di andare in bagno. Anche a chi viene tenuto sotto costante controllo è concessa un pò di solitudine: c’è una parete di cartongesso che garantisce la privacy ai detenuti. L’uomo si è appartato, è rimasto lì dietro qualche minuto. Troppo per gli agenti penitenziari che immediatamente si sono recati a verificare che non gli fosse accaduto nulla. Caserta: Opg Aversa; cadavere detenuto lasciato per due giorni nell’ufficio dell’ispettore Adnkronos, 9 agosto 2010 Il cadavere di un detenuto, deceduto di infarto, è rimasto per due giorni nell’ufficio di sorveglianza dell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa, nel casertano, refrigerato solo con un ventilatore. È la denuncia dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp). “I familiari - spiega il segretario generale del sindacato, Leo Beneduci - non avendo disponibilità economica per prelevare la salma e celebrare il rito funebre, lo hanno lasciato nell’istituto. All’opg di Aversa non c’è una sala mortuaria e così il corpo è stato sistemato nell’ufficio di sorveglianza generale, dove lavora l’ispettore. Per raffreddarlo è stato usato un ventilatore, ma naturalmente non è che abbia funzionato molto, si può immaginare l’odore, l’ispettore non è più entrato nel suo ufficio”. Il detenuto è morto martedì e solo giovedì è stato portato via dall’ospedale. “C’è un tale sfascio del sistema - sottolinea Beneduci - che si verificano anche situazioni incredibili come questa. Se la famiglia per qualsiasi motivo non può venire a prendere il corpo, lo Stato deve avere le risorse per provvedere. Invece la polizia penitenziaria si ritrova a fare anche da polizia mortuaria. La politica - conclude - continua a parlare di carceri e dalle carceri non si esce nemmeno da morti”. Palermo: “morte celebrale” per il detenuto in coma dopo un infarto, il caso in Parlamento La Repubblica, 9 agosto 2010 Dopo il caso raccontato da Repubblica sul detenuto finito in coma per un infarto in cella, da più parti arriva la richiesta di fare piena luce sulla vicenda di Dino Naso. Le condizioni dell’uomo ricoverato nell’ospedale Buccheri La Ferla, intanto, sono peggiorate. Ieri è sopraggiunta la morte cerebrale. “Lo Stato ha il dovere di assicurare a tutti i detenuti sicurezza e condizioni di vita umane”, dice Pino Apprendi, vice presidente della commissione attività produttive all’Ars, che ha anche richiesto una commissione di inchiesta parlamentare. Sul caso è intervenuto anche Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti: “Chiederò sia una relazione ufficiale al carcere Ucciardone sia che vengano sentiti i compagni di cella di Naso”. Naso aveva chiesto con insistenza di uscire dalla sua cella, che condivideva alla settima sezione con altri otto compagni, per il troppo fumo da sigaretta. Gli agenti, secondo quanto ha riferito radio carcere, avrebbero ignorato le sue proteste. All’improvviso Naso è caduto per terra in preda ad un attacco cardiaco. In ospedale è arrivato già in coma. La moglie - assistita dall’avvocato Enrico Tignini - ha presentato denuncia alla Procura. Nei giorni scorsi Apprendi aveva lanciato un appello al ministro della giustizia Alfano per accendere i riflettori sul grave sovraffollamento delle carceri. E proprio venerdì si è registrato l’ennesimo tentato suicidio in un istituto della Sicilia. Un recluso al Petrusa di Agrigento ha tentato di impiccarsi. L’intervento di un agente di polizia penitenziaria lo ha salvato. Udine: nessuna speranza per detenuto che si è impiccato, si aspetta ok per espianto organi Messaggero Veneto, 9 agosto 2010 A pochi minuti dalla mezzanotte di mercoledì, approfittando del cambio della guardia, Ramon Berloso si impicca nella sua cella. Lo salva un agente della penitenziaria. Aveva da pochi giorni confessato di avere ucciso due escort a colpi di balestra: la 28enne mestrina Ilenia Vecchiato, l’11 marzo, e la 24enne romena Diana Alexiu, il 20 maggio. Sulle sue tracce da giorni, agenti della Squadra mobile e carabinieri del Nucleo investigativo lo hanno fermato alla stazione di Padova, nella notte tra il 19 e il 20 luglio. “Quadro clinico stazionario: disperato, ma invariato rispetto a venerdì”. Di più, il “bollettino medico” filtrato ieri dalla Clinica di anestesia e rianimazione dell’Azienda ospedaliero-universitaria, dove Ramon Berloso, il 35enne goriziano reo confesso dell’omicidio di due escort, si trova ricoverato da mercoledì notte, non dice. Qualcosa di più, comunque, è quantomeno intuibile sia dalle condizioni stesse in cui versa il paziente-detenuto - che dopo aver tentato il suicidio, impiccandosi in carcere, mercoledì notte, da venerdì è stato dichiarato dai medici in stato di coma profondo -, sia dalle scelte operate ieri tanto in ospedale, quanto in Procura. Verso lo stato vegetativo? La situazione è precipitata venerdì mattina, quando i medici hanno avviato le procedure di risveglio pilotato di Berloso dal coma farmacologico, nel quale era stato tenuto fin dal suo arrivo in ospedale. Invece di riprendere coscienza, l’uomo ha manifestato i sintomi dell’ipossia, cioè di un ridotto apporto di ossigeno al cervello (conseguenza del soffocamento che si era procurato legandosi un lenzuolo attorno al collo), causando in tal modo l’edema cerebrale evidenziato dalla Tac eseguita nel pomeriggio. Privato del supporto farmacologico, il paziente è piombato in uno stato di coma profondo. Ebbene, è proprio questa condizione ad aprire ora un doppio scenario: il coma profondo può evolvere nella morte cerebrale, oppure nello stato vegetativo, cioè in una condizione di incoscienza che, come insegna il caso Eluana, può permanere immutata per anni. L’ipotesi del dono degli organi. In caso di morte cerebrale, invece, potrebbe prendere corpo l’ipotesi dell’espianto degli organi. Un’eventualità che, a quanto appreso, l’ospedale avrebbe già preventivato e della quale i medici avrebbero cominciato a parlare con la madre di Berloso, Gloria, sua congiunta più prossima. Spetterà a lei, infatti, autorizzare l’operazione e mettere così in moto il protocollo per l’espianto. Una procedura lunga quasi 48 ore. Considerati l’età e il buono stato di salute di cui il paziente godeva prima di tentare il suicidio, dal suo corpo potrebbero essere prelevati tutti gli organi presenti sotto il tronco encefalico: dai reni al fegato, al cuore. Esclusa l’autopsia. A favorire la strada dell’espianto, intanto, ci ha pensato la magistratura: ieri, il procuratore aggiunto Raffaele Tito ha incaricato il medico legale Lorenzo Desinan di effettuare un’ispezione esterna sul corpo di Berloso. La visita ha confermato la compatibilità delle lesioni presenti sul tronco encefalico con il tentativo dell’uomo di impiccarsi, escludendo in tal modo l’ipotesi di ricondurre ad altre possibili cause il soffocamento del detenuto e rendendo superfluo, in caso di decesso dell’indagato, disporre l’autopsia sul suo corpo. Ma spianando anche la strada a un eventuale espianto di organi, altrimenti impraticabile. L’ultimo esame. Non è stato eseguito neppure ieri, intanto, l’elettroencefalogramma annunciato dai medici già per la serata di venerdì. Dall’esame, che registra l’attività elettrica del cervello, sarà possibile stabilire la gravità delle alterazioni riportate dal paziente durante i pochi secondi nei quali il suo corpo è rimasto sospeso nel vuoto, nella cella d’isolamento nella quale ha tentato di uccidersi. Un elettroencefalogramma piatto potrebbe significare la dichiarazione dello stato di morte cerebrale del paziente. Dietro il rinvio dell’esame, a quanto pare, ci sarebbe una “ripresa” o, quantomeno, la registrazione di una seppur timida attività elettrica. I medici, comunque, non si sbilanciano: stando a quanto riferito agli inquirenti, la situazione dovrebbe rimanere invariata almeno per le prossime 24 ore. Sassari: San Sebastiano è un “carcere-lager”, nuova interrogazione dei Radicali La Nuova Sardegna, 9 agosto 2010 La grave e annosa situazione del carcere di San Sebastiano è al centro di un’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini a conclusione di una visita fatta nei giorni scorsi con Irene Testa, segretaria dell’associazione “Il detenuto ignoto” e l’esponente radicale Isabella Puggioni, nell’istituto penitenziario di via Roma. Copia della circostanziata relazione, da cui emerge una situazione di estremo degrado, è stata trasmessa anche alla procura della Repubblica di Sassari “Per valutare - spiega la deputata radicale - se nelle segnalazioni contenute nell’atto di sindacato ispettivo siano ravvisabili eventuali ipotesi di reato”. “La gravissima carenza di personale, in un carcere in cui il numero dei detenuti è il doppio di quello consentito - scrive Rita Bernardini - è prodromo di pericolose conseguenze, anche lei, signor procuratore, come i parlamentari, ha la prerogativa di poter visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione. Immagino che in passato lo abbia fatto. Oggi, mi creda, la situazione è divenuta davvero insostenibile per un Paese che intenda definirsi democratico”. “A mio avviso l’attuale situazione di degrado e fatiscenza del carcere San Sebastiano di Sassari - dice ancora la deputata radicale - produce e/o rischia di produrre gravi e perduranti ricadute sulla salute e sulla incolumità psico-fisica dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria e, dunque, uno stato di forte avvilimento nelle persone recluse, atteso che le stesse sono soggette a continue sofferenze morali e psico-fisiche dovute alla impossibilità di poter esercitare i più elementari diritti (a partire da quello alla salute) garantiti dalla Costituzione, dagli ordinamenti giuridici e dalle Convenzioni internazionali”. Sotto la guida del comandante Fusco Cataldo, la delegazione radicale ha potuto parlare con i detenuti e con gli agenti, verificando le condizioni in cui si trova il carcere sassarese. Dal durissimo report stilato qualche giorno dopo la visita, presentato il in parlamento in forma di interrogazione e trasmesso, come esposto, al procuratore generale di Sassari, emerge un quadro di estremo degrado che presenta caratteri da vera emergenza. Ecco alcuni tra i passaggi più significativi: “A fronte di 95 posti letto disponibili nelle celle sono accalcati 208 detenuti di cui 43 in attesa di giudizio, 32 appellanti, 9 ricorrenti, 121 definitivi, 1 scarcerato “senza uscita fisica”, delle 54 celle dell’istituto, 20 sono interessate da lavori perciò nelle 34 celle disponibili, per un totale di 552 metri quadrati, si trovano a vivere i 208 detenuti che hanno in media 2,65 metri quadri a testa, 144 detenuti sono tossicodipendenti e anche le diagnosi psichiatriche sono decine. A fronte di un quadro sanitario così compromesso, il personale medico ed infermieristico è del tutto insufficiente e, ad aggravare la situazione, c’è da sottolineare il fatto che ancora non è stato effettuato il passaggio dalla sanità penitenziaria a quella del servizio sanitario nazionale”. “Fa parte dello sfascio gestionale dell’istituto anche la sensibile carenza dell’organico degli agenti di polizia penitenziaria, degli educatori e degli psicologi”. “Nel quadro sopra descritto, un nuovo carcere che dovrebbe rimpiazzare l’utilizzo del vetusto carcere San Sebastiano di Sassari (costruzione risalente al XVII secolo) è in costruzione dal 2005 nel vicino comune di Bancali”. “Attualmente i lavori sulla struttura sono però sospesi, né se ne prevede la ripresa da parte della stessa ditta o di altra debitamente incaricata”. Una situazione preoccupante per la quale la deputata radicale ha chiesto, con forza, al Governo, quali provvedimenti intenda adottare per far fronte al problema. Firenze: sindaco di Montelupo contro ministero della Giustizia, chiede chiusura dell’Opg di Maria Vittoria Giannotti L’Unità, 9 agosto 2010 Nel marzo del 2009 gli ispettori della Asl varcarono per la prima volta la soglia dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Ne uscirono con una dettagliata relazione in cui erano evidenziate tutte le criticità della struttura che, all’epoca, ospitava 196 internati. Una situazione di sovraffollamento inaccettabile. Aggravata dal fatto che le celle erano fatiscenti e in precarie condizioni igieniche. Il documento, come prevede la legge, finì sul tavolo del sindaco del paese. Rossana Mori, del Pd, si prese due giorni di tempo. Poi, come massima autorità in fatto di salute pubblica sul territorio, emanò un’ordinanza nei confronti del ministro Alfano. “Chiedevo - spiega Rossana Mori - l’immediata chiusura di alcune celle che venivano in parte utilizzate, in caso di necessità, per l’isolamento, ma anche il ripristino di un numero accettabile di internati e lavori di ristrutturazione e di pulizia di alcune parti dell’edificio”. La risposta del Ministero non si fece attendere: l’ordinanza del sindaco fu impugnata davanti al Tar. E il Tribunale concesse la sospensiva. “Non me lo sarei mai aspettato - spiega il primo cittadino - anche perché il mio unico scopo era quello di agire nell’interesse della comunità. Mentre nel ricorso del Ministero si sosteneva, tra le righe, che la situazione all’interno dell’opg non era di mia competenza. Ma credo che il primo cittadino di un comune non possa permettere che vi siano zone franche sottratte alla propria giurisdizione, soprattutto quando sono in gioco elementi fondamentali come la libertà, la salute e la dignità della persona. Da allora non abbiamo saputo più niente”. Rossana Mori non ha comunque mai abbandonato la speranza. “La battaglia per l’opg è sempre stata un punto di forza di tutte le amministrazioni che si sono succedute negli anni. Il primo atto ufficiale dell’impegno del Comune per la struttura risale al 2004, quando venne istituito un laboratorio, La casa del drago, che attivò un dialogo anche con le associazioni che si occupavano degli internati. Poi, due anni dopo, organizzammo un convegno all’interno dell’ospedale in cui fu lanciata la proposta di regionalizzazione di tutti gli opg d’Italia. Proposta che fu raccolta da un decreto del primo aprile 2008. Fu l’ultimo atto del governo Prodi e rappresentò un grande passo in avanti, in parte annullato dal successivo governo Berlusconi. Da allora, però, le Asl cominciarono a lavorare per prendere in carico i propri internati. E così fu possibile effettuare quell’ispezione che portò all’emissione dell’ordinanza, unica in Italia. Se ogni regione si facesse carico dei propri internati, per noi di Montelupo sarebbe finalmente possibile ridurre sensibilmente il numero degli ospiti: dai 170 attuali a circa 50-60”. Quello del sovraffollamento resta uno dei problemi più impellenti. Il dato è emerso anche nel corso dell’ispezione a sorpresa che il senatore Ignazio Marino, in qualità di presidente della commissione di inchiesta sull’efficacia del servizio sanitario, ha effettuato lo scorso luglio, all’interno della struttura alle porte di Firenze, così come negli altri Opg italiani, alla presenza degli specialisti del Nas. I punti dolenti evidenziati a suo tempo dalla Asl sono rimasti tali. “Due padiglioni - si legge nella relazione - si presentano con evidenti carenze strutturali. Si notano estese macchie di umidità ai soffitti e alle pareti, intonaci scrostati e carenti, celle anguste e i servizi igienici di alcun celle sono risultati sporchi, con urine sul pavimento e cattivo odore. In una cella, nel reparto Pesa, ci sono sei internati”. “Nella sezione maschile - denuncia il senatore Marino - c’è l’unico transessuale internato in Italia. La sua cella è quasi sempre chiusa”. “Credo che questo coraggioso e meritorio sopralluogo - conclude il sindaco, che ha scritto al senatore per raccontare la storia della sua battaglia - rappresenti un’ulteriore presa di coscienza del problema”. Napoli: detenuto di Poggioreale ustionato da esplosione bomboletta, è in terapia intensiva Il Velino, 9 agosto 2010 Ieri alle 14,15 un detenuto che si trova ristretto nella casa circondariale di Poggio Reale, è rimasto ferito gravemente. L’incidente è avvenuto mentre l’uomo, Maurizio Lutricuso, di vent’anni, stava cambiando la bomboletta nel fornellino. La bombola è esplosa e il detenuto si è ustionato quasi tutto il corpo. Immediatamente soccorso dagli agenti di polizia penitenziaria, attualmente Lutricuso si trova in terapia intensiva al Cardarelli di Napoli. Volterra: dalle cene galeotte la possibilità di un lavoro esterno, don Ciotti all’anteprima Il Tirreno, 9 agosto 2010 In tavola “la speranza”. La possibilità di un reinserimento. L’occasione per un lavoro. Dietro le sbarre del Maschio, tra una portata griffata dallo chef Del Duca e un detenuto-cameriere all’opera, si leva alto il senso più profondo delle cene galeotte. Uno spirito amplificato dall’ospite dell’anteprima estiva della kermesse tutta volterrana, don Luigi Ciotti. “Questa sera, abbiamo tutti sotto gli occhi la vera applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. Oggi in Italia molto spesso non accade, ma a Volterra siamo fortunati, perché ci sono state e continuano ad esserci persone illuminate, che interpretano il precetto costituzionale della riabilitazione nel migliore dei modi”, è il pensiero del presidente di Libera, associazione di nomi e numeri contro le mafie, a cui è stato devoluto l’intero incasso della serata. Questo sodalizio, un coordinamento di oltre 1.500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate, nasce proprio con l’intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie promuovendo legalità e giustizia. Facilmente possiamo assimilare il progetto del carcere di Volterra ad una messa in opera dei precetti di questa associazione. Le prime parole di don Ciotti sono state di ringraziamento; ringraziamento verso la polizia penitenziaria e verso Maria Grazia Giampiccolo, direttrice della casa penale. Lo chef della serata, scelto oltre che per la qualità delle preparazioni, anche perché simbolo dell’impegno sociale del progetto, è stato Genuino Del Duca, dell’enoteca Del Duca di Volterra. Proprio nel suo ristorante, infatti, lavorano 2 dei 12 detenuti che grazie all’iniziativa di Slow Food e a queste cene, sono riusciti ad avere la possibilità di un lavoro esterno, e quindi un’occasione in più di riabilitazione. Come ricordato dall’ispettore Iantosca, uno degli organizzatori di questi eventi, da novembre prossimo, fino a giugno 2011, ci sarà nuovamente la possibilità di degustare i piatti dei circa 30 detenuti che partecipano al progetto. L’impronta non si discosterà molto da quella dell’anno passato, dato l’ampio successo. “i sono molti importanti nomi previsti - dicono - per adesso stiamo aspettando le conferme per preparare il calendario”. Monza: Osapp; ieri pomeriggio una maxi rissa tra detenuti albanesi e marocchini Ansa, 9 agosto 2010 Era appena cominciata l’ora d’aria quando nei cortili di passeggio della casa circondariale di Monza, alle 13 di ieri, è scoppiata una maxi rissa tra detenuti albanesi e marocchini, che ha portato alcuni di loro in infermeria. Lo rende noto Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). “Gli agenti hanno avuto alcune difficoltà a sedare la rissa visto - spiega Beneduci - l’esiguo organico in servizio”. Pare che la rissa sia scoppiata per futili motivi, ma per il segretario generale dell’Osapp il vero problema è che “Monza è arrivata a 850 detenuti, quando la massima capienza tollerabile è di 600, ormai è la seconda San Vittore. Due anni fa i detenuti erano 400 e nel frattempo la casa circondariale non si è ingrandita, questa - stigmatizza - è la situazione delle carceri italiane”. Torino: detenuto all’Ipm Ferrante Aporti, è l’erede dei boss di Torre Annunziata di Massimo Numa La Stampa, 9 agosto 2010 L’erede designato dalla famiglia Gionta di Torre Annunziata, uno dei clan della Camorra più feroci e sanguinari, è da qualche tempo a Torino, in una cella del Ferrante Aporti. Il 2 settembre 2009 ha compiuto diciotto anni ma ha diritto di restare nell’istituto per minori sino ai ventuno. È stato condannato a tre anni di carcere, per estorsione e altri reati, assieme ai boss della sua famiglia. Si chiama Valentino Junior, nipote di quel Valentino che fu uno dei numeri uno del sistema criminale. Sposato con una donna dei Chierchia, i Fransuà, il suo destino rischia di essere già segnato. I pm dell’Antimafia considerano la lettera del padre, Aldo Gionta, uno dei boss della camorra di Torre Annunziata, al figlio un breviario criminale. Sembrerebbe allontanarlo per sempre da ogni possibile recupero, dall’ipotesi di una vita finalmente normale, lontana dalla stragi, dai narcotraffici e dalle estorsioni. Simbolo dell’avvenuta trasmissione dal padre al figlio dei poteri di controllo di uno dei racket più sanguinosi e feroci: “Caro figlio, non permetterti più di fare qualcosa senza il mio permesso. Poi giura su tuo figlio. Per adesso pensi a fare i soldi. Anzi, digli a Tatore che io avanzo 26 mila euro per gli avvocati”. Fai tredicimila tu e tredicimila lui e li dai a tua madre. Perciò diglielo a Tatore. Poi ti voglio dire state attenti dove parlate tu, Tatore e tuo cognato che ci sono microspie dappertutto. Poi tutti e tre imparate a sparare mitra, fucili e kalashnikov. Imparatevi in posti dove non vengano sbirri, cioè le guardie. Poi quando sapete usarli bene vi dirò io cosa fare. Fatti furbo non parlare con nessuno che ci sono microspie e poi la gente se la canta. Ascoltami, non fare nulla per adesso. Ti bacio forte a te, Gaetano e Tatore”. Valentino aveva 17 anni, davanti ai suoi occhi erano già sfilati decine di morti. Tatore è il soprannome di Salvatore Paduano, considerato uno dei luogotenenti di Aldo Gionta, pure lui in carcere. Valentino, arrestato dalla squadra mobile di Napoli per tentato omicidio ed estorsione ad alcuni imprenditori della zona, è stato condannato a tre anni di reclusione. Qundo fu condotto in carcere a Napoli, nella tarda primavera del 2009, Valentino jr ebbe l’onore di essere atteso e accompagnato da tutto il clan nell’istituto per i minori di Nisida. Lì era troppo facile mantenere i contatti con la famiglia; lui che è stato prescelto per riprendere le redini della cosca dopo la spaventosa catena di arresti dal 2007 ad oggi. Da qualche è tempo è recluso nell’istituto Ferrante Aporti di Torino. “È un detenuto modello - spiega una giovane agente della polizia carceraria - non dà nessun tipo di problema. Legge molto, ascolta la tv, partecipa alle attività sociali e ricreative. Il problema non è lui...”. E qual è? “È che sappiamo bene quali sono i suoi rapporti con la camorra, lo sanno anche gli altri ragazzi che, in un certo senso, sembrano ammirarlo, forse invidiarlo. Ha già carisma, per la sua età”. Valentino Junior è già padre di un bimbo. Un ragazzo calmo, rispettoso con gli agenti e gli operatori, dagli psicologi agli insegnanti. Si vede che è diverso dal mini-rapinatore marocchino che usa le bottiglie rotte per strappare il cellulare o la catenina alle vittima, un po’ il prototipo del detenuto del Ferrante Aporti, assediato dai media solo quando ha accolto nelle sue mura dall’aspetto rassicurante, più una scuola che un carcere, i protagonisti di efferati delitti. Come Erika e Omar, come la ragazza che uccise una suora nel profondo Nord, tanto per divertirsi, assieme alle sue amiche sataniste. “Valentino, se riuscisse a tagliare ogni contatto con Torre Annunziata, a partire dai genitori, dai cugini, dai fratelli, dagli zii, forse ce la farebbe. Ha tutte le qualità per farcela davvero. Questa è solo una speranza”. Al Ferrante Aporti ci sono i soliti problemi dell’universo carcerario. Manca il personale, mancano i mezzi. “La custodia di un soggetto del genere, cioè l’erede designato di una delle famiglie più importanti del sistema camorristico, non può essere esercitata con i mezzi comuni. Non si tratta solo di impedire che evada, possibilità remota, visto che la fine della pena si va avvicinando, ma di avere contatti, dare e ricevere ordini da chi dei suoi è già in carcere o ancora fuori. Anche per proteggerlo. La vita di queste persone è in parte giù segnata, prigioniera di copioni già scritti, spesso appesa a un filo”. Gli agenti, il termine di una sorta d’umana pietà, la pietas latina, non lo usano mai. Ma traspare dall’espressione del viso, dal tono di voce, dalle sfumature dei loro discorsi. Un ragazzino che deve imparare in fretta a usare i Kalashnikov, a ritirare e a dividere il pizzo con i complici. E forse anche ad uccidere. Immigrazione: nuovi sbarchi in Puglia e a Linosa, ma il Governo nasconde la notizia L’Unità, 9 agosto 2010 Sessantasei extracomunitari (40 uomini, 15 donne e 11 bambini), di varia nazionalità, sembra ad esempio afghani e kurdi, sono stati bloccati stamani dalla guardia di finanza sulla costa adriatica salentina tra Torre Sant’Emiliano e Porto Badisco dopo essere sbarcati clandestinamente. Gli immigrati sono stati condotti nel centro di prima accoglienza don Tonino Bello di Otranto per l’identificazione. Indagini sono in corso per stabilire con quale mezzo gli extracomunitari abbiano raggiunto il litorale. Fra le ipotesi, che possano essere giunti in acque territoriali italiane a bordo di una nave e successivamente trasportati a riva su gommoni. “Continuano ad arrivare centinaia di immigrati in Italia, 350 ne sarebbero sbarcati sulle coste siciliane solo nell’ultimo mese, ma su questi sbarchi è calato un silenzio colpevole: pochissimi media, pochissimi telegiornali ne parlano e nessuna immagine di disperazione viene più mostrata da mesi.” Lo affermano in una nota il responsabile Informazione Matteo Orfini e il responsabile Comunicazione del Pd Stefano Di Traglia. “Come affermano oggi su Repubblica il procuratore e il questore di Agrigento, il traffico verrebbe ora gestito da bande ben organizzate che riescono ad eludere i controlli. Un vero e proprio salto di qualità rispetto agli anni passati nell’organizzazione delle carrette del mare. C’è addirittura il rischio che riescano a entrare nel silenzio totale anche soggetti pericolosi. Evidentemente la questione degli sbarchi di clandestini non è stata, nonostante i roboanti annunci del governo, purtroppo risolta come il mutismo di alcuni media lascerebbe invece immaginare. E oscurare la realtà non aiuta di certo a risolvere il problema come oggi sembra ammettere il ministro della difesa La Russa che chiede (a chi? a se stesso? al governo?) norme più dure contro l’immigrazione dimenticando di dire che da sette anni negli ultimi nove governa la destra. Almeno ammetta il fallimento della sua maggioranza nelle politiche di integrazione.” “Se fosse vero che i clandestini continuano a sbarcare a Lampedusa e il governo ne occultasse la notizia, ci troveremmo di fronte a un fatto gravissimo”. Lo denuncia il presidente dei senatori dell’Italia dei Valori, Felice Belisario. “Sono mesi che Berlusconi, La Russa e Maroni ci sventolano davanti i risultati del contrasto all’immigrazione clandestina e dichiarano che gli sbarchi sono finiti. I respingimenti, invece, secondo quanto denunciato oggi da Repubblica, continuano e, in barba a ogni rispetto dei diritti umani e del diritto di asilo, non sappiamo che fine fanno i passeggeri di quei barconi della speranza. Ora scopriamo anche che gli sbarchi sono ripresi e che qualcuno avrebbe ordinato di non darne notizia. Altro che governo della sicurezza - conclude Belisario - questo è il governo delle menzogne”. 40 fermati a Linosa dopo lo sbarco Quaranta immigrati sono stati rintracciati la notte scorsa dai carabinieri sull’isola di Linosa (Agrigento). Gli stranieri, tutti uomini e tutti nordafricani, sono stati trovati a terra nei pressi di contrada Pozzolana. Non è stata rinvenuta alcuna imbarcazione lungo le coste e si presume perciò che gli stranieri siano stati lasciati a riva da un natante che si è poi allontanato. Al termine dei controlli di rito, per le quaranta persone è stato organizzato il trasferimento a Porto Empedocle col traghetto di linea. Immigrazione: la Libia ha già riaperto le carceri-lager per migranti e profughi di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 9 agosto 2010 Alcuni tra gli eritrei scarcerati sono ancora là, a Sebah. Molti sono nella capitale. Tutti tra 90 giorni saranno di nuovo clandestini. L’appello: l’Italia li accolga. Finiti nel dimenticatoio. In attèsa di essere trattati di nuovo come migranti illegali e quindi ricacciati nei lager da cui erano stati “liberati”. Lager che, a quanto risulta a l’Unità, continuano a funzionare, e che tornano a riempirsi di “migranti illegali”, eritrei, somali... È la storia degli oltre duecento eritrei finiti nelle carceri libiche. Una tragedia che si vorrebbe archiviare in un silenzio distratto. Un silenzio complice. La maggior parte dei 205 eritrei è riuscita a raggiungere Tripoli, ma una ventina di loro è ancora a Sebah, nel deserto libico, condannati a una vita di stenti, a dormire per strada, a essere assistiti solo da un missionario. E fra poco più di novanta giorni scadrà per tutti loro il permesso temporaneo concesso dal Governo libico; se in questo arco di tempo non avranno presentato la necessaria documentazione, concessa dall’ambasciata eritrea, Paese dal quale i 205 sono fuggiti, saranno ricacciati in carcere, trattati come migranti illegali. Una condizione contro cui si ribella don Mussie Zerai, il coraggioso sacerdote eritreo responsabile dell’associazione Habeshia che si occupa dei migranti africani in Italia: “Rinnoviamo il nostro appello a favore dei richiedenti asilo politico bloccati in Libia - scrive don Zerai - chiediamo che venga trovata una reale soluzione al problema, con un progetto di reinsediamento dei rifugiati e bisognosi di protezione internazionale in Europa. La situazione attuale dei 400 eritrei e di circa 3.000 tra somali, sudanesi, etiopi ed eritrei bloccati dal muro di gomma voluto dall’Europa, è una condizione di totale abbandono, gente che sopravvive accettando lavoro che gli riduce a nuovi schiavi, donne costrette a prostituirsi, situazioni non più tollerabili di degrado della dignità umana. “È la sorte che - rimarca l’appello - ha toccato gli Eritrei “liberati” dal carcere di Al-Braq, quella di vivere la vita da barboni con un permesso di soggiorno per tre mesi in mano. Tra pochi mesi torneranno clandestini, perché non potranno presentare un documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità del paese di origine. Ecco perché chiediamo una soluzione vera al problema di questi richiedenti asilo politico eritrei, somali, sudanesi, etiopi. Torniamo a chiedere all’Italia di fare il primo passo offrendo a queste persone un’accoglienza nel suo territorio, almeno a quelle persone a cui è stato negato l’ingresso in Italia, che sono state riconsegnate dalle autorità italiane a quelle libiche come ha confermato lo stesso ministro libico, 250 eritrei sono state riconsegnate dai militari italiani a quelli libici. “Sappiamo - rileva ancora don Zerai - che l’Italia può mostrare il suo volto più umano, lo ha già fatto anche in passato accogliendo circa 130 eritrei con il programma di reinsediamento dalla Libia. Questa esperienza positiva che dà un ingresso legale, protetto ai richiedenti asilo politico, così non sono costretti ad affidarsi nelle mani dei trafficanti rischiando la vita nel mare. Il Mediterraneo è già un cimitero a cielo aperto per centinaia di migranti, ricordiamo quello accaduto un anno fa quando 73 eritrei morirono nell’indifferenza totale dei Paesi che si affacciano nel Mediterraneo, in particolare di quelli che hanno il compito di pattugliamento congiunto, in primis Frontex che dovrebbe prevenire rischi del genere, non ha fatto nulla per salvare quelle vite umane. Un anniversario doloroso per noi che abbiamo visto morire i nostri connazionali giovanissimi, con tanta voglia di vivere, di speranza in una nuova vita da costruire in Europa, sognando libertà, democrazia e benessere. Aprite una porta. Chi è disperato, chi fugge da persecuzioni, guerre, catastrofi naturali possa entrare a trovare rifugio”. Olanda: teme estradizione in Usa ed ergastolo, italiano 77enne accusato di aver stuprato figlia Il Gazzettino, 9 agosto 2010 Di lui si sta occupando l’Anveg, ovvero l’Associazione per la difesa delle vittime di errori giudiziari, di cui è presidente l’avvocato romano Luciano Faraon. Pino Lo Porto, 77 anni, imprenditore di successo in America, rifugiatosi poi a Cortina dopo le accuse dell’ex moglie americana di aver stuprato la figlia adottiva, chiede aiuto alla Procura di Belluno, autodenunciandosi per evasione. Ma si rivolge anche al Capo dello Stato chiedendo che interceda, per motivi umanitari, a favore della richiesta di revoca del provvedimento di estradizione presentata al Ministro di giustizia. Si ritiene vittima di una persecuzione, non solo personale dell’ex moglie, ma anche del sistema politico-giudiziario che, alla vigilia di un’importante consultazione elettorale, lo avrebbe fatto arrestare esattamente il giorno dopo la presentazione della denuncia da parte della donna, in totale assenza di prove. Questa la cronologia dei fatti. Arrestato il 2 agosto 2005 a Cortina su ordine di cattura della Fbi, Lo Porto riesce a lasciare il carcere solo nel febbraio 2006, ottenendo l’obbligo di firma a Cortina, anche in considerazione della sua età. Ma nel frattempo arriva dal ministero il via libera all’estrazione. Lo Porto fugge così in Olanda. E proprio qui, da due mesi, si trova nuovamente in carcere, nel penitenziario di Middlelburg, in attesa che il governo olandese risponda alla nuova richiesta di estradizione dell’Alabama, paese dove vige ancora la pena di morte e dove i reati non conoscono l’istituto della prescrizione. Alle accuse di violenza, stupro e sodomia nei confronti di una minore, si aggiunge ora anche l’accusa di evasione, reato che da solo è sufficiente per ottenere l’ergastolo. Unitamente all’avvocato Faraon, che proprio ieri l’altro è andato a trovarlo in Olanda, grazie ad un contributo di un bellunese che si è offerto di pagare le spese, stanno cercando di fermare la macchina giudiziaria statunitense. Due le strade intraprese: un appello al presidente della Repubblica e l’autodenuncia alla Procura di Belluno per evasione, commessa omettendo di presentarsi al Commissario di Cortina per l’obbligo di firma trisettimanale. Ma soprattutto, spiega Faraon, speriamo che l’Olanda non conceda l’estradizione e se proprio dovesse farlo l’auspicio è che si pronunci solo per il reato di violenza sessuale. “Ci sono elementi nuovi di difesa - afferma il presidente Anveg - in grado di dimostrare l’infondatezza delle accuse. Per l’evasione, invece, non ci sono attenuanti e solo questo gli costerebbe l’ergastolo”. La situazione di Lo Porto è praticamente disperata. Il termine del pronunciamento per l’estradizione è il 27 agosto. “Il mio assistito - spiega l’avvocato - è una persona molto malata, che ha già subito due interventi al cuore. Inoltre non ha alcun reddito a disposizione. L’ex moglie gli ha portato via tutto”. Nel caso si dovesse realmente arrivare a processo in America, non ci sarebbero soldi per la difesa. Nemmeno l’Anveg ha fondi a disposizione per sostenere un processo così importante. L’Appello è lanciato. Iran: allarme per condizioni arrestati e seguito alle proteste di piazza contro il governo Apcom, 9 agosto 2010 Il regime di Teheran applica condizioni molto dure contro le persone arrestate e i legali che si occupano della loro difesa. In seguito alle proteste di piazza contro il governo, avvenute a Teheran nel giugno del 2009, le autorità del regime hanno arrestato oltre duecento manifestanti con l'accusa di aver commesso reati politici. Tra questi ci sono diciassette detenuti che da giorni ormai sono in sciopero della fame e per i quali si è mobilitato Mir Hossein Mousavi, il leader dell'opposizione che, preoccupato per le loro condizioni di salute, li ha esortati a porre fine alla protesta. Attraverso il suo sito web, Mousavi ha diffuso la notizia per sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale. La forma di protesta da parte dei detenuti è nata come opposizione alle condizioni di isolamento e le umiliazioni in cui sono tenuti. Le numerose persone arrestate chiedono poi, oltre a un migliore trattamento, di avere accesso a una difesa legale. Il regime di Ahmadinejad è infatti molto rigido riguardo a questa questione. Risale a ieri la notizia della fuga dall'Iran dell'avvocato Mohammad Mostafaei, il legale che si occupa del caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna imprigionata a Teheran con l'accusa di adulterio e per cui è prevista la pena della lapidazione. La vicenda della Ashtiani ha avuto risonanza internazionale dopo che il suo avvocato ha reso noto che la donna avrebbe confessato il reato dopo aver subito 99 frustrate e che, in seguito, avrebbe ritrattato la confessione negando l'accaduto. La sentenza è stata così sospesa in attesa di essere rivista. Durante questa sospensione Mostafaei è stato convocato dalle autorità e convocato per numerosi interrogatori, all'ennesimo dei quali non si è presentato provocando la reazione del regime che ha arrestato la moglie con l'intenzione di mettergli pressione. Il legale ha così deciso di lasciare il Paese recandosi in Turchia e chiedendo asilo politico alla Norvegia per il quale ha ottenuto un visto di un anno. Il ministro degli Esteri norvegese ha espresso soddisfazione per la conclusione della vicenda ma ha espresso la sua preoccupazione per le condizioni di coloro che si occupano di difesa dei diritti umani e per i loro clienti che si trovano ancora in Iran.