Giustizia: il ddl Alfano sulla detenzione domiciliare diventerà legge forse ad ottobre Asca, 3 agosto 2010 Il forcing fatto la scorsa settimana dalla Commissione Giustizia, con varie sedute in sede deliberante, ha permesso di chiudere il lungo iter del ddl 3291-bis riguardante la esecuzione domiciliare per i residui di pena non superiori ad un anno. Il progetto normativo, dopo numerosi ritocchi al testo varato dal Governo, era stato a lungo discusso in referente in Commissione e vagliato parzialmente dall’Assemblea, che all’inizio di luglio, aveva deliberato il ritorno alla Giustizia per ulteriori approfondimenti. La Commissione aveva chiesto ed ottenuto la deliberante. Sono stati approvati venerdì gli ultimi ritocchi tra cui, come sottolineato anche nel parere espresso dalla Affari Costituzionali, l’articolo 4-bis che autorizza il Ministero dell’Interno ad effettuare assunzioni di personale per le esigenze connesse ai maggiori controlli derivanti dall’attuazione del provvedimento. Ora il testo - diretto anche a dare parziale risposta al problema del sovraffollamento carcerario - passa all’esame del Senato che, se non saranno apportate ulteriori modifiche, dovrebbe approvarlo entro ottobre per consentire l’uscita dai penitenziari di varie centinaia di detenuti assegnati ai domiciliari solo se il giudice competente avrà verificato e sottolineato nella richiesta da inviare al magistrato di sorveglianza la idoneità del domicilio o, in caso di soggetti drogati sottoposti a trattamento di recupero l’assegnazione in apposite strutture di assistenza. Giustizia: gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono indecenti, vanno chiusi subito di Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone) Il Manifesto, 3 agosto 2010 La commissione d’indagine: 5 su 6 non si salvano A volte ci sono foto che raccolgono con uno scatto il senso di mille storie. Tra quelle scattate dalla Commissione di indagine parlamentare sulla sanità, negli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani, durante le visite ispettive c’è n’è una che ritrae un uomo obeso, nudo, in una cella-letamaio. È un internato dell’Opg di Napoli. La sua storia e le sue condizioni sono simili a quelle degli altri sofferenti psichici (circa 1.500) internati nei manicomi giudiziari. Una vicenda per certi versi già nota - il manifesto la segue da anni - ma la cui denuncia trova oggi conferma e autorevolezza. Nei cinque Opg i senatori che si sono recati in visita hanno rilevato “una sorta di inferno organizzato - ha detto il presidente della Commissione Ignazio Marino - dove senza problemi viene affermato anche dagli operatori che vi lavorano che i malati stanno vivendo una sorta di ergastolo bianco”. In queste strutture (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia) hanno trovato internati abbandonati da 25 anni, condizioni fatiscenti, stanze che puzzano di urina, persone legate nude al letto di contenzione. A “salvarsi” è solo la struttura di Castiglione delle Stiviere, la sola completamente in carico ai servizi sanitari. Per tre strutture (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo) il quadro appare,se possibile, ancora più drammatico. Condizioni invivibili, sporcizia, degrado e assenza di assistenza sanitaria. Ad accompagnare i parlamentari, i carabinieri dei Nas che hanno redatto una dettagliata relazione sulle visite. E a leggere i loro rapporti sembra risentire le parole di Francesco Caruso. Su Barcellona, ad esempio, scrivono i Nas “durante il sopralluogo emergeva il sovraffollamento degli ambienti, l’assenza di cure specifiche, l’inesistenza di qualsiasi attività educativa o ricreativa e la sensazione di completo e disumano abbandono del quale gli stessi degenti si lamentavano. I degenti, nella assoluta indifferenza, oltre ad indossare abiti vecchi e sudici, loro malgrado, si presentavano sporchi e maleodoranti”. Ad Aversa “le celle/stanze, munite di 6 posti letto ed un servizio igienico, versavano tutte in pessime condizioni strutturali ed igienico-sanitarie, con pavimenti danneggiati in vari punti, soffitti e pareti con intonaco scrostato ed estese macchie di umidità” e ovunque “cumuli di sporcizia e residui alimentari, letti metallici con vernice scrostata e ruggine, sgradevoli esalazioni di urina, armadietti vetusti, effetti letterecci sporchi, strappati ed evidentemente insufficienti, finestre, anche in corrispondenza di letti, divelte o con vetri rotti: il tutto in condizioni tali da rendere disumana la permanenza di qualsiasi individuo”. E se nell’Opg di Napoli le condizioni strutturali sembrano migliori, non altrettanto vale per le condizioni degli internati. Viene riscontrato il caso di Leonardo Marco, che a fronte di una misura di 2 anni è internato da ben 25 anni (la misura di sicurezza detentiva può essere prorogata senza limiti, ecco perché è detta ergastolo bianco), di un altro internato che da circa 3 anni ha ottenuto il parere favorevole, ma è ancora in attesa di trasferimento in una comunità. E poi ci sono i casi di E.V. con un occhio nero (e messo nel letto di contenzione il 16 luglio) e di uno con ustioni alle mani, senza che nulla risulti nella loro cartella clinica. Un altro internato presenta una evidente cancrena agli arti inferiori. E questo è solo un piccolo estratto di quella che davvero appare come una galleria della disumanità. A fronte di questa orribile situazione sembra opinione condivisa da tutte le componenti della Commissione che questi luoghi vadano chiusi. Secondo Ignazio Marino “il 40% degli internati è dimissibile, anche se continua a rimanere rinchiuso. Come commissione abbiamo chiesto la lista dei soggetti dimissibili in modo che entro agosto vengano fatti uscire e presi in carico dalle Asl. Alcune strutture sono indecenti e indecorose e vanno chiuse. La Commissione - annuncia Marino - lavorerà per incidere immediatamente e concretamente sulla situazione all’interno degli Opg, con indicazioni utili per l’eventuale modifica delle leggi vigenti”. Una sfida ambiziosa che vuole accelerare i tempi previsti dalla riforma della sanità penitenziaria e garantire la dimissione degli internati per i quali, pur in assenza di pericolosità sociale, vi sono state proroghe delle misura di sicurezza per l’assenza di alternative. Non è un obiettivo semplice da raggiungere, come sottolineano sia gli scettici per mestiere che i prudenti per giudizio, ma, alla luce di ciò che sono questi luoghi, terre di mezzo tra il manicomio e il carcere, solo la loro chiusura può porre rimedio alla disperata inumanità che li attraversa. Giustizia: il Coordinamento Magistrati Sorveglianza “preoccupato” per progetto chiusura Opg Asca, 3 agosto 2010 Il Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams) esprime, in una nota, “profonda preoccupazione in relazione al progetto di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari”. Per il Conams si tratta di un “progetto che non distingue situazioni profondamente diverse e trascura le realizzazioni che, specie in tempi recenti, sono state raggiunte in diversi Ospedali psichiatri giudiziari”. “Tra le situazioni che richiedono una considerazione specifica va collocato l’Istituto di Castiglione delle Stiviere, - avverte il Conams - che rappresenta una struttura d’eccellenza nel panorama penitenziario italiano per la presenza di personale altamente qualificato e specializzato”. L’ospedale di Castiglione delle Stiviere - per il Conams - risponde all’intento riabilitativo, di recupero e reinserimento sociale cui l’internamento in Ospedale psichiatrico giudiziario deve tendere secondo i principi costituzionali e dell’ordinamento penitenziario. Il Conams sottolinea come “il lavoro altamente professionale dell’equipe dell’Ospedale, sempre coordinato con l’Autorità giudiziaria, ha consentito negli anni il raggiungimento di obiettivi elevati nel trattamento di pazienti psichiatrici giudiziari reinseriti sul territorio in condizioni di sicurezza per la collettività e soddisfacente benessere psichico del soggetto”. Per quanto riguarda invece il progetto di inserimento della polizia penitenziaria all’interno degli Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna) con compiti di controllo su quanti sono sottoposti a misure alternative alla detenzione, il Conams ritiene che ciò “consente una migliore realizzazione degli obiettivi propri delle misure”. Occorre, tuttavia, che l’obiettivo venga realizzato compatibilmente con “l’esigenza di non snaturare le caratteristiche delle misure alternative, e in particolare quella dell’affidamento in prova al servizio sociale”, predisponendo “una specifica formazione del personale destinato ai nuovi compiti, per renderne l’intervento non conflittuale e anzi pienamente armonico con quello delle altre componenti addette al trattamento del condannato sottoposto alle misure”. “Importantissima a questo proposito - prosegue la nota - sarà la previsione che i controlli vengano effettuati in modo da non compromettere il lavoro e le relazioni ambientali che favoriscono il reinserimento del condannato”. Giustizia: la Consulta boccia l’eccesso di “giustizialismo; carcere preventivo solo se serve di Valerio Onida Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2010 C’è un antico vizio nella nostra legislazione e nella nostra opinione pubblica: quello di oscillare irragionevolmente, in tema di politica criminale, fra due eccessi, a seconda che in quel momento prevalga la preoccupazione per l’allarme sociale suscitato dai reati o da certi reati, ovvero la preoccupazione per veri o presunti eccessi della magistratura, in particolare nell’applicare la carcerazione preventiva. Se prevale la prima preoccupazione, si grida al “lassismo” dei magistrati e s’invocano misure draconiane (“buttiamo la chiave”), dimenticando ogni esigenza di ragionevolezza e di rispetto dei principi del sistema penale. Se prevale la seconda (in un’oscillazione del “pendolo”), si grida al “giustizialismo” e s’invocano, a ragione o a torto, più rigorose garanzie per gli accusati di reati in nome della presunzione di non colpevolezza. Inmateria di custodia cautelare in carcere valgono, e dovrebbero sempre valere, elementari principi di civiltà giuridica, tante volte affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, a tutela del diritto fondamentale alla libertà personale. L’accusato in attesa di giudizio si presume non colpevole, e dunque misure restrittive, specie personali, possono essere adottate nei suoi confronti a condizione che non solo sussistano gravi indizi del reato, ma anche che sussistano specifiche esigenze cautelari, come quelle derivanti dal pericolo di reiterazione del reato, dal pericolo di fuga o dal pericolo d’inquinamento delle prove. Le condizioni che legittimano la misura restrittiva devono di norma essere accertate in concreto, e le misure adottate devono essere proporzionate e ristrette al minimo indispensabile per fronteggiare in concreto le riscontrate esigenze cautelari. Se si scorrono le disposizioni del nostro codice di procedura penale (articoli 280 e seguenti) non solo si trovano questi principi chiaramente enunciati, ma è anche palese la successiva stratificazione di modifiche succedutesi negli anni, per lo più nell’intento di rafforzarne le garanzie di osservanza e di prevenire veri o presunti abusi operati dalla magistratura nell’impiego della carcerazione preventiva. Una modifica del 2009, invece, riprendendo una linea già affermatasi nel 1991, ma fortemente ridimensionata nel 1995 (a proposito di oscillazioni del pendolo), aveva nuovamente esteso a una serie numerosa di reati, fra cui quelli sessuali, la regola eccezionale per cui, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, la magistratura deve comunque applicare la carcerazione preventiva, salvo che si dimostri l’insussistenza di esigenze cautelari (una sorta di inversione dell’onere della prova) e soprattutto senza alcuna possibilità di ricorrere a misure meno restrittive come gli arresti domiciliari. Questo regime cautelare speciale, prima del 2009, era limitato agli accusati di reati di criminalità organizzata: e a questo riguardo era stato già esaminato sia dalla Corte costituzionale sia dalla Corte europea dei diritti, e ritenuto non incompatibile con le garanzie fondamentali dei diritti, data l’eccezionalità delle esigenze di politica criminale concernenti la lotta alle mafie. Ora la Corte costituzionale, con la sentenza n. 265 pubblicata il j luglio, ha invece giudicato parzialmente incostituzionale tale regime speciale in quanto applicato ai reati sessuali (solo di questi era chiamata a giudicare nel caso) affermando che, ove in concreto si dimostri che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure meno restrittive, il giudice deve far ricorso a esse e non disporre la carcerazione preventiva. Resta dunque il regime cautelare speciale, resta la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, mentre cade soltanto il rigido divieto di far ricorso a misure meno restrittive pur quando esse appaiano in concreto idonee a fronteggiare dette esigenze. C’è davvero da sorprendersi della sorpresa indignata di certi commenti. Il principio del “minimo sacrificio” della libertà personale prima della condanna, per cui la carcerazione preventiva non può essere usata in funzione di anticipazione della pena, ma solo per soddisfare specifiche esigenze cautelari non altrimenti fronteggiabili, è chiaramente implicito nella Costituzione. Semmai il problema è se si giustifichi, e come, il regime speciale previsto dalla legge, e ritenuto non incostituzionale, nel caso dei reati di mafia. Ma a questo proposito è del tutto fuori luogo la critica di chi afferma che i reati sessuali non sono meritevoli di un trattamento meno severo rispetto ai crimini mafiosi. Infatti la deroga ai principi, se si giustifica, può giustificarsi eventualmente (e così lo è stata dalle Corti) solo in vista delle caratteristiche oggettive dei reati di criminalità organizzata, in cui sussiste fin dal momento dell’indagine la non irragionevole esigenza d’impedire efficacemente il permanere dei collegamenti degli accusati fra loro e con l’associazione mafiosa, ciò che solo il regime carcerario potrebbe assicurare. La gravità dei reati per cui si procede (e così dei reati sessuali) non c’entra: l’apprezzamento di essa deve trovare posto, come afferma la Corte, attraverso la “comminatoria di pene adeguate, da infliggere all’esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati, in sede di fissazione e di applicazione della pena”, e non già con “una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza”. Ancora una volta la Corte ha portato la ragione là dove l’irrazionale tende, troppo spesso, a impadronirsi delle leggi. Giustizia: il medico di Regina Coeli che visitò Cucchi da sette mesi è senza lavoro di Cinzia Gubbini Il Manifesto, 3 agosto 2010 Notificò l’estrema gravità del giovane. Da sette mesi ha dovuto inventarsi un’altra vita. E ora l’assessorato al lavoro della Provincia di Roma, dopo un’interrogazione del consigliere di Sel Gianluca Peciola, chiederà alle autorità competenti perché dopo sei anni è stato fatto fuori dai turni di guardia a Regina Coeli. Il caso del dottor Rolando Degli Angioli non è caduto nel dimenticatoio. Anzi, i nodi stanno venendo al pettine. Compresa una strana vicenda: ora risulta indagato per una denuncia che risale al 2008. Fino a ieri di Degli Angioli nessuno aveva mai sentito parlare: era uno dei tanti medici di guardia della casa circondariale romana Regina Coeli. I suoi cartellini testimoniano che per sei anni è stato un medico presente, in misura addirittura superiore alle ore previste dalla convenzione con i medici Sias. Il suo nome comincia a finire sui giornali con la morte di Stefano Cucchi, il trentunenne fermato per alcune dosi di hashish e morto nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre scorso. Degli Angioli è il medico che lo visitò in carcere, ai “nuovi giunti”, e l’unico a definire il suo caso di “estrema urgenza” chiedendone l’immediato ricovero. Ma quella sera comincia una “guerra” contro il dottore, forse considerato troppo puntiglioso: gli agenti di turno gli fanno rapporto. Lo accusano di voler decidere chi entra in carcere e chi no. La vicenda si conclude solo dopo la morte di Stefano, con un encomio a Degli Angioli da parte del direttore del carcere, Mauro Mariani. Ma per il medico l’incubo continua. Pochi giorni dopo la morte di Cucchi si sposa e parte per l’Australia. Nel relax del viaggio di nozze, riceve un sms da un suo collega: “A piazzale Clodio ce l’hanno con te”. Tornato, scopre che il Nucleo investigativo centrale (Nic) - un corpo creato nel 2007 e composto da agenti penitenziari in forza alla Procura - sta indagando su di lui, anche se non risulta formalmente indagato. Ma ancora più strano è il comportamento dei suoi colleghi: visto che non è certo l’unico pubblico ufficiale di Regina Coeli ad essere incappato in qualche inchiesta, l’ostracismo nei suoi confronti è incredibile. Tutti si cancellano dai turni con lui. Degli Angioli ha raccontato ai pm che hanno indagato sul caso Cucchi di come il direttore sanitario, Andrea Franceschini, gli consigliò di prolungare l’aspettativa, promettendogli una nuova collocazione. Che non è mai arrivata. Eppure il dottore inviò persino due lettere per chiedere il reintegro. Ai giornali, invece, Franceschini dirà di non averlo più sentito. Una versione che però non può reggere, carte alla mano, quando la Asl dovrà presentarsi di fronte o alla Direzione provinciale del lavoro (a giugno Degli Angioli ha depositato una conciliazione obbligatoria) o successivamente di fronte al giudice. Il dottore ancora oggi continua a rifiutarsi fermamente di rilasciare dichiarazioni ai giornali. Ma ai pm del caso Cucchi disse di sentirsi messo sotto pressione per la vicenda riguardante Stefano. È ovviamente solo un’ipotesi, ma il clima di lavoro “avvelenato” da quella brutta storia potrebbe aver avuto ripercussioni sull’indagine che ha investito il medico mentre era in viaggio di nozze. L’oggetto dell’inchiesta è emerso solo di recente: Degli Angioli risulta indagato per violenza privata e abuso di autorità contro un detenuto, nonché di falso, per una storia che risale al 2008. Qualcuno forse ricorderà Julien Jean Gerard Monnet, l’uomo che nel luglio di quell’anno in un attacco d’ira (fu giudicato incapace di intendere e di volere, soffriva di gravi problemi psicologici) ridusse in fin di vita la figlia di 5 anni, sbattendole la testa sull’Altare della patria. Ebbene, Monnet all’epoca denunciò che un medico di Regina Coeli, mentre era legato al letto, gli mise un catetere senza il suo permesso, facendogli molto male, forse per punirlo. Due anni dopo, mentre esplode il caso Cucchi, l’attenzione della Procura e del Nic si concentrano sul dottor Degli Angioli, che a marzo scopre di essere indagato insieme all’infermiere Luigi Di Paolo. Eppure, secondo alcune indiscrezioni, in quelle ore nello stesso reparto risulta di turno un altro medico, mentre Degli Angioli sarebbe stato di guardia in un’altra ala. Inoltre il certificato che ordina la contenzione di Monnet, che nella ricostruzione della Procura viene “accollato” a Degli Angioli, risulterebbe invece firmato dall’altro medico di turno. A breve il pm che si occupa dell’inchiesta, Francesco Scavo, dovrebbe decidere se chiedere il rinvio a giudizio del medico. In ogni caso l’episodio non è bello, ma neppure così grave. Per Degli Angioli un’altra tegola in testa, del tutto inaspettata, e un ennesimo colpo alla sua immagine professionale. Il danno alla professionalità è una delle richieste contenute nella richiesta di conciliazione a cui la Direzione sanitaria ha tempo tre mesi per rispondere. Lazio: il Garante; nelle carceri mancano anche prodotti per l’igiene intima Redattore Sociale, 3 agosto 2010 Si fa sempre più difficile la vita quotidiana all’interno delle 14 carceri della Regione Lazio. Lo denuncia il Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni secondo cui “ormai nelle celle, oltre ai problemi legati al sovraffollamento e al caldo estivo, si soffre anche perché iniziano a scarseggiare i beni di prima necessità come, ad esempio, saponi e quant’altro necessario alla cura dell’igiene intima”. Nel Lazio i reclusi sono circa 6.200, oltre 1.600 in più rispetto alla capienza regolamentare. Nelle carceri di Cassino e di Civitavecchia i detenuti hanno raccontato ai collaboratori del Garante che sono ormai finite le scorte di carta igienica. Sempre a Cassino mancano ormai da giorni i prodotti per l’igiene intima forniti dall’amministrazione penitenziaria. Ma in quasi tutte le strutture della Regione si registrano problemi legati alla carenza di materiale di uso quotidiano, di scarsa igiene, con docce insufficienti e temperature altissime. La situazione è leggermente migliore nell’Istituto di Velletri ma solo perché, grazie ad un accordo raggiunto dalla Caritas locale, è una importante multinazionale che ha uno stabilimento in zona a fornire gratuitamente ai detenuti i prodotti per l’igiene intima. Secondo un recente studio, il costo medio giornaliero di ogni detenuto per l’Amministrazione penitenziaria è, oggi, di 113 euro contro i 152 del 2008. Di questi 113 euro, l’85% servono a pagare il personale, il 6% per cibo, l’igiene, assistenza e istruzione dei detenuti, il 10% per la manutenzione e il funzionamento delle carceri. “Abbiamo il timore - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - che questa situazione, unita alla calura estiva e al sovraffollamento sempre più pesante, possa portare ad un peggioramento delle condizioni sanitarie nelle carceri, visto che la carenza di igiene personale fa aumentare, in parallelo, il rischio che aumentino i focolai di malattie da contatto, come la scabbia. Per questi motivi già nelle scorse settimane abbiamo contattato le direzioni delle carceri per suggerire l’adozione di alcune semplici misure per migliorare la vita di tutti i giorni come aumentare l’accesso alle docce e garantire la distribuzione di acqua potabile”. Reggio Calabria: 160 posti e 350 detenuti, la Camera penale chiede un’indagine sul carcere Gazzetta del Sud, 3 agosto 2010 La Camera Penale “Gaetano Sardiello”, preso atto della drammatica emergenza che vive in questo periodo il sistema penitenziario a causa del sovraffollamento, è intervenuta a tutela dei diritti dei detenuti che patiscono una non più tollerabile lesione al diritto alla salute, alla vita di relazione, alla partecipazione a programmi rieducativi secondo l’art. 27 della Costituzione. “La Casa Circondariale reggina ha una capienza di 160 detenuti (situazione ottimale), di 260 detenuti è la capienza massima (situazione tollerabile) e, nonostante ciò, addirittura nel mese di giugno ne ha ospitati 350. Tali dati - afferma il presidente della “Sardiello” Carlo Morace - comportano condizioni igieniche che minano e compromettono la salute e l’equilibrio psico-fisico dei detenuti costretti a condividere spazi angusti in un contesto di promiscuità che priva ciascuno della propria dignità, in violazione dei principi costituzionali e delle norme di legge. Peraltro, le carceri reggine sono destinate a ricevere sempre di più nel futuro prossimo detenuti che si troveranno in transito per ragioni di giustizia connesse ai numerosi procedimenti penali che si celebreranno in questo Distretto di Corte di Appello. È di estrema gravità la carenza di personale, che ha determinato lo scorso giugno l’impossibilità di garantire i trasferimenti dei detenuti nelle varie sedi giudiziarie (ben 5) dislocate territorialmente in posti diversi della città. L’assenza di fondi e di personale impediscono, quindi, il corretto funzionamento della macchina penitenziaria e finiscono per intralciare anche lo svolgimento dell’attività giurisdizionale”. La Camera Penale “Gaetano Sardiello”, preso atto dei dati ufficiali forniti dalla direttrice della Casa circondariale dott.ssa Longo, ritiene “assolutamente necessario un intervento mirato a verificare se tutti i soggetti tenuti per legge al controllo dello stato in cui vivono i detenuti abbiano svolto e svolgano il proprio compito, descrivendo le condizioni di vita dei detenuti nel carcere e se i soggetti destinatari di tali verifiche adottino tutti i provvedimenti necessari. Occorre verificare se l’Asl di competenza, nel rispetto dell’Ordinamento penitenziario, visiti il carcere per accertare la condizione igienico-sanitarie, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti e riferisca sulle visite compiute e sui provvedimenti da adottare al Ministero della Sanità o quello di Giustizia, informando altresì l’ufficio regionale e il Magistrato di Sorveglianza competente. Si chiede in ogni caso di verificare urgentemente: l’adeguatezza delle strutture sanitarie interne al carcere; la condizione di salute dei singoli detenuti; il rispetto degli spazi previsti per legge; lo stato in cui si trovano le stanze, con specifico riferimento alla possibilità di cucinare e mangiare, ai servizi igienici, all’ingresso di luce naturale e artificiale, all’aerazione diurna e notturna, al riscaldamento, in rapporto anche al numero di soggetti ristretti in ciascuna stanza; lo stato degli arredi posti nelle stanze, ivi compresi letti e materassi; le condizioni igieniche delle cucine e delle attrezzature; la funzionalità e adeguatezza del sistema del riscaldamento sia per l’ambiente che per l’acqua. In particolare se vi è acqua calda sufficiente per le docce dei detenuti; le condizioni igieniche degli ambienti doccia con verifica del numero di impianti rispetto al numero dei detenuti presenti; la presenza di luci di emergenza nel caso in cui venga sospesa l’energia elettrica; lenzuola e coperte disponibili in relazione al numero di detenuti presenti; possibilità e modalità di lavaggio degli indumenti; lo stato dei locali ove si svolgono i colloqui con i familiari con specifico riferimento al numero di detenuti e familiari presenti alle varie sessioni; la qualità del cibo offerto dall’istituto e le condizioni igieniche degli alimenti che i detenuti ricevono dalle famiglie, alla loro conservazione all’interno delle stanze; la condizione degli spazi destinati ad attività lavorative o ricreative; modalità di svolgimento dell’”ora d’aria” con particolare riguardo ai tempi e alle condizioni dello spazio offerto; l’esistenza di uno spazio destinato ai colloqui detenuto-difensore adeguato al numero di detenuti presenti”. “L’indagine che s’invoca - conclude l’avv. Carlo Morace che si è rivolto alla Procura, al Tribunale di sorveglianza e al garante dei diritti dei detenuti - è assolutamente necessaria per verificare se siano stati commessi reati in quanto potrebbero ricorrere omissioni, false attestazioni, violazione di norme di legge, procurando ai detenuti un danno ingiusto. Occorre verificare se tutte le autorità competenti, preso atto delle eventuali relazioni dell’Asl o comunque della pubblica notizia del sovraffollamento, delle condizioni igienico-sanitarie, abbiano in concreto esercitato il potere-dovere d’intervento o segnalazione; vanno tutelati tutti i diritti di cui i detenuti, come i soggetti liberi, sono portatori. La Magistratura deve svolgere in questo drammatico contesto il suo compito investigando sulle violazioni di legge eventualmente commesse individuando i responsabili, con riferimento a tutti quei reati che si riterrà di contestare all’esito delle indagini”. Bologna: direttrice Dozza; avrei preferito proroga incarico Garante, ma vincono altre logiche Dire, 3 agosto 2010 “Non conosco Vanna Minardi ma non so quanto possa saperne di carcere. In ogni caso, mi sembra di capire che svolgerà questa funzione in modo parziale, non so se potrà garantire la stessa presenza e continuità di Desi Bruno”. Ione Toccafondi, direttrice del carcere della Dozza di Bologna, accoglie con delusione la notizia della mancata proroga, da parte del commissario Anna Maria Cancellieri, del mandato del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Toccafondi è in ferie e non sapeva che, con una delibera approvata la settimana scorsa, il Comune di Bologna ha conferito l’incarico al difensore civico di Palazzo d’Accursio, Vanna Minardi, almeno fino alle nuove elezioni. “Avevo scritto a Cancellieri affinché non rimanesse vacante il posto del Garante, ma mi auguravo che venisse prorogata Bruno - dice Toccafondi - quello del Garante è un ruolo molto importante, soprattutto in questo momento in cui alla Dozza ci sono tante difficoltà. Evidentemente hanno prevalso altre logiche”. Toccafondi non è la sola che, nei mesi scorsi, si era spesa per sostenere la proroga del mandato a Bruno, almeno fino all’insediamento del nuovo Consiglio comunale. Lo aveva fatto a più riprese anche il provveditore regionale alle carceri, Nello Cesari. Oggi, dopo l’assegnazione dell’incarico a Minardi, preferisce non commentare: “Sono scelte dell’amministrazione e condivido la preoccupazione di Bruno per la continuità del suo lavoro, ma di più non posso dire, sono scelte politiche”. Cesari non fa mistero del fatto che Bruno era “molto attiva” e si augura che “in futuro possa ritornare a svolgere questo ruolo, estremamente utile per i detenuti in questo momento di estrema difficoltà”. Per realizzare questo auspicio, Cesari assicura che farà “arrivare la sua voce in tutte le sedi opportune”. Bologna: Movimento 5 Stelle; i detenuti non paghino assenza Garante Dire, 3 agosto 2010 Non siano i detenuti del carcere di Bologna a pagare per l’assenza del Garante. Così Andrea Defranceschi, consigliere regionale del Movimento 5 stelle, commenta il mancato rinnovo di Desi Bruno come Garante dei diritti dei detenuti da parte del commissario di Bologna, Anna Maria Cancellieri, che ha affidato il ruolo per un anno al difensore civico comunale, Vanna Minardi. “Fatta salva la difficoltà di Cancellieri nel prendere decisioni a lungo periodo e la necessità di un ricambio di persone dopo cinque anni di attività indubbiamente importante- afferma Defranceschi in una nota- non possono essere i detenuti della casa circondariale più sovraffollata d’Italia a fare le spese dell’assenza di un Garante dei detenuti”. Il grillino ricorda che “solo un mese fa al carcere bolognese della Dozza era morto un detenuto tossicodipendente. E dalle nostre informazioni la causa del decesso sarebbe da ricondurre ad un’overdose di stupefacenti”. Inoltre, fa sapere Defranceschi, “con la calura estiva all’ufficio del Garante sono arrivate segnalazioni sulla carenza d’acqua, che noi stessi abbiamo potuto constatare nel corso della nostra visita a luglio”. L’auspicio quindi è che “il lavoro di cinque anni dell’ufficio non venga buttato - mandano a dire i grillini - e che l’attenzione resti alta sulla struttura di via del Gomito, come sul carcere minorile e sul Centro per immigrati clandestini di via Mattei”. Roma: cinque detenuti di Rebibbia al lavoro per pulizia delle aree archeologiche Dire, 3 agosto 2010 È partita questa mattina, con i primi colpi di scopa alla presenza del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, la pulizia delle aree archeologiche della Capitale ad opere dei detenuti di Rebibbia. Un’iniziativa organizzata dal Campidoglio, la Sovrintendenza ai Beni culturali, Ama ed il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il progetto prevede l’utilizzo di cinque detenuti modello, da oggi fino al 31 dicembre, per ripulire più volte alcune aree archeologiche di Roma, dai Foro di Cesare-Nerva-Augusto-Pace, a quello di Traiano, fino al teatro di Marcello. Gli “spazzini-detenuti”, già formati da Ama, lavoreranno 3 ore al giorno per cinque giorni settimanali per un totale di 1.620 ore. Saranno regolarmente retribuiti con vaucher Inps di 7,50 euro all’ora. “Continuiamo questa esperienza molto importante dopo la prima di dicembre - ha spiegato il sindaco - dimostriamo quindi che non si tratta di uno spot ma di una strada che stiamo perseguendo. Questo tipo di pulizia è inoltre una operazione di recupero per i detenuti, ma anche un insegnamento per tutta la città”. Secondo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, “questa iniziativa è un’occasione di reinserimento. Chi lavora non delinque e in questo modo non solo facciamo un’opera di recupero culturale ma anche di sicurezza”. “Dopo il 31 dicembre - ha aggiunto il sovrintendente Umberto Broccoli, anche lui presente all’incontro - pensiamo di continuare con questa iniziativa. Quella data non sarà il punto di arrivo ma quello di una nuova ripartenza”. Tra i presenti anche l’assessore alla Cultura, Umberto Croppi, il delegato alla Sicurezza, Giorgio Ciardi, il direttore di Rebibbia, Stefano Ricca, ed il presidente di Ama, Marco Daniele Clarke. Osapp: bene avvio lavori detenuti in area archeologica “Accade a volte, nell’attuale Amministrazione penitenziaria così avara di progetti, di risultati e soprattutto di speranza per l’utenza e per il personale, che ci possa sentire persino orgogliosi di farne parte”. Con queste parole il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci commenta l’avvio, quest’oggi, alla colonna di Traiano in Roma, dei lavori di pulitura e di ripristino delle aree archeologiche da parte di un gruppo di detenuti di Rebibbia, in base al progetto di collaborazione stipulato con il Comune Capitolino. “Ma sono situazioni più uniche che rare - prosegue il sindacalista - in quanto legate alle sensibilità ed allo spirito di sacrificio dei singoli, soprattutto di polizia penitenziaria, più che a specifiche volontà e a risorse che il Dap, e Franco Ionta che ne è capo, hanno destinato ad attività consimili sul territorio nazionale. Infatti, mentre i detenuti hanno raggiunto e superato la soglia delle 69.000 presenze, e proseguono aggressioni e suicidi in carcere, mancano non solo i fondi per le c.d. mercedi ovvero per pagare il lavoro dei ristretti - aggiunge ancora il leader dell’Osapp - ma anche per gli straordinari e le missioni al personale, così come sono pressoché esaurite le risorse economiche per i carburanti e per le traduzioni via aerea. Ed è ben strano constatare - conclude Beneduci - che i fondi che mancano per la piena funzionalità penitenziaria sull’intero territorio, rendendo ancora più evidenti e gravi le condizioni si sofferenza, sono stati di fatto concentrati ad esclusivo uso edilizio, nella disponibilità dello stesso Capo del Dap in veste di Commissario straordinario, compresi i 100 milioni di euro che lo stesso Ionta ha chiesto al Presidente della Cassa delle Ammende, ovvero a se stesso. Sappe: estendere impiego carcerati in progetti per il recupero ambientale “È certamente positivo il progetto di recupero del patrimonio ambientale della città di Roma svolto attraverso l’impiego di detenuti degli istituti penitenziari della Capitale. In questo contesto, esprimo l’apprezzamento del primo Sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria, il SAPPE, per l’impiego di detenuti (ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21 O.P. ovvero in regime di semilibertà) utilizzati per la manutenzione ordinaria e pulizia delle Aree Archeologiche di Roma fino al 31 dicembre prossimo. In questo modo, chi ha commesso un crimine e un reato ripaga concretamente la società del danno procurato, tanto più che la rieducazione dei detenuti passa principalmente attraverso il lavoro. Ma dovrebbero essere tutti i detenuti a lavorare durante la detenzione, non solo poche unità”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, al Protocollo d’Intesa siglato oggi tra Comune di Roma e Dap alla presenza del Capo del Dap Franco Ionta, del Sindaco di Roma Gianni Alemanno e del sovraintendente ai beni culturali Umberto Broccoli. Capece si spinge oltre: “Bisognerebbe impiegare in tutte le Regioni e provincie d’Italia i detenuti in progetti per il recupero del nostro patrimonio ambientale, la pulizia dei greti dei fiumi e dei torrenti e delle molte spiagge del nostro meraviglioso Paese. Non a caso l’attivazione sul territorio nazionale di iniziative inerenti la promozione del lavoro è diventato obiettivo primario che l’Amministrazione Penitenziaria persegue al fine del coinvolgimento consapevole e responsabile dei soggetti in espiazione di pena in attività lavorative volte all’integrazione e al reinserimento nella comunità sociale. Tutto questo – conclude Capece - nella convinzione che il lavoro è uno degli elementi determinanti su cui fondare percorsi di inclusione sociale non aleatori. Impiegare in detenuti in progetti di recupero del patrimonio ambientale e in lavori di pubblica utilità è una delle richieste ‘storichè del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, motivata dalla necessità concreta di dare davvero un senso alla pena detentiva. I detenuti hanno prodotto danni alla società con i loro crimini e reati? Bene, la ripaghino concretamente, imparando anche un mestiere che potrebbe essere loro utile una volta tornati in libertà". Lecce: Osapp; la Casa Circondarialein “stato di emergenza” Comunicato stampa, 3 agosto 2010 Ancora una volta questa Segreteria Provinciale denuncia lo stato di totale abbandono in cui versa la struttura leccese, uno degli Istituti penitenziari più vasti d’Italia che dovrebbero rappresentare il fiore all’occhiello del nostro Paese riguardo all’opera di rieducazione e trattamento dei soggetti sottoposti a limitazione della libertà personale. Più volte si è accusata sia la locale Direzione che i Superiori Uffici di tenere in scarsa considerazione le problematiche che derivano dalla gestione di una struttura di tali dimensioni ma i nostri campanelli d’allarme sono sempre stati ignorati da chi poteva e doveva intervenire affinché non si giungesse alle drammatiche condizioni odierne. Infatti in questi giorni, mentre le roventi temperature esterne infiammano sia i locali che gli animi, assistiamo nell’Istituto leccese a scene apocalittiche in cui il poco personale rimasto a “combattere” in prima linea si trova a dover ovviare alle numerose carenze imposte da un’Amministrazione completamente assente ed i cui massimi esponenti si staranno sicuramente godendo le ferie al fresco (non inteso in senso lato come galera naturalmente). Negli ultimissimi giorni si è verificato un esponenziale aumento della popolazione detenuta, inversamente proporzionale al numero di Personale in servizio che continua a “cadere in battaglia”. Del resto in simili condizioni lavorative risulta pressoché impossibile resistere a lungo senza risentirne sia a livello fisico che psicologico. Parliamo infatti di protrazioni del turno di servizio che arrivano fino a 12 ore e senza alcun preavviso, addetti del locale N.T.P. in servizio continuativo dalle 12 alle 18 ore (ma tali servizi non dovevano essere tassativamente non superiori alle 6 ore ?), traduzioni con scorta ben al di sotto dei limiti minimi di sicurezza, un’unica unità di Polizia Penitenziaria impiegata nel servizio di Piantonamento in corsia d’ospedale (ai limiti della realtà e dell’incoscienza specialmente in questi giorni in cui le notizie di evasioni sono all’ordine del giorno), ed un’unica unità di Polizia Penitenziaria addetta alla vigilanza di fin 4 sezioni detentive. E tutto questo in un contesto di profondo degrado dove si assiste a continua mancanza dell’erogazione dell’acqua, agli impianti fognari che si intasano con conseguente fuoriuscita dei liquami, infiltrazioni di umidità all’interno delle stanze detentive con sgocciolamenti d’acqua persino all’interno dei pannelli elettrici. Non si riesce ad assicurare al Personale nemmeno un cambio per espletare le proprie esigenze fisiologiche o quantomeno per procurarsi una bibita fresca, ed ormai sono all’ordine del giorno i casi in cui il Personale è colto da malori essendo costretto a far ricorso a cure mediche (è delle ultimissime ore la drammatica notizia della scomparsa di un collega in servizio). Già da tempo, proprio per sensibilizzare chi di dovere ad urgenti interventi mirati ad evitare che la situazione esplodesse, questa O.S. ha abbandonato il tavolo di trattative con la locale Direzione dichiarando lo stato di agitazione ed investendo del problema anche le Autorità politiche e facendo ricorso ai mass media locali e nazionali. Infatti tale situazione non riguarda solo il Personale di Polizia Penitenziaria che si vede negati i diritti fondamentali dei lavoratori, ma anche e soprattutto - la popolazione detenuta che è costretta a vivere in un contesto vergognoso. Allo stato attuale si riesce ancora a garantire la presenza massima di 3 detenuti per cella con uno spazio di soli 9 metri quadri circa ma, calcolando che ci stiamo approssimando ad un totale di 1500 detenuti, ben presto ci si vedrà costretti ad ubicare 4 detenuti per stanza. Naturalmente parliamo di locali non climatizzati, estremamente fumosi, senza alcuna forma di ricircolo d’aria e dove il caldo è soffocante. E tale stato di cose non fa altro che accrescere le situazioni di tensione che inevitabilmente suscita la vita in comunità ed ecco che quotidianamente si apprende di colluttazioni, risse e - purtroppo - sempre più spesso anche di atti autolesionistici che - non di rado - sfociano in suicidi. Certamente simili condizioni portano all’esasperazione e vengono considerate una vera e propria pena accessoria, in aperta violazione di quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione. Anche per questo l’Osapp già da tempo ha informato di tale stato di cose il Comitato internazionale per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti di Strasburgo ed oggi ci rivolgiamo alla Vs. cortese attenzione al fine di denunciare la drammatica criticità della situazione di invivibilità e della mancanza di sicurezza dell’istituto e del personale ivi operante. La Segreteria Provinciale Osapp Lecce Brindisi: nasce un’associazione per assistere i parenti dei detenuti Senza Colonne, 3 agosto 2010 “Nessuno meglio di un ex detenuto conosce i problemi a cui va incontro la propria famiglia. Noi, d’ora in avanti, offriremo tutta l’assistenza necessaria”. Un assioma e una promessa, fatta da due ex detenuti che con la giustizia hanno regolato i propri conti e che ora intendono” capitalizzare” la propria “esperienza”. Renato De Giorgio, 42 anni e Francesco Nardelli, 41, saranno, rispettivamente, presidente e segretario dell’associazione “Famiglie Fratelli Ristretti”. Si tratterà di un organismo, assolutamente inedito sul territorio italiano, che trae origine e derivazione dall’attività della più nota fondazione “Nessuno tocchi Caino”. E per il varo dell’associazione brindisina si scomoderanno persino Marco Pannella (futuro presidente ad honorem) e l’onorevole Sergio D’Elia. Radicalisti “tosti” particolarmente impegnati nella battaglia contro i problemi carcerari. Dal prossimo 10 agosto, giorno dell’inaugurazione della sede operativa presso il terminal privato di Costa Morena per De Giorgi e Nardelli inizierà un lungo periodo. Il “peso” del lavoro sarà condiviso con Valentino Castriota (37 anni (trepuzzino con studi teologici in corso a Roma e con ordinazione sacerdotale in vista), con Giovannni Battista Cervo, avvocato penalista leccese di 49 anni, con Gaetano Caragiuli, 64 anni e Pieno Nani, 50.Tutti insieme ieri mattina erano seduti attorno al tavolino del bar per spiegare nel dettaglio la loro iniziativa. Il tutto condito da una grandissima voglia di fare. Agrigento: alla Casa Circondariale di Petrusa sventato il suicidio di una detenuta La Sicilia, 3 agosto 2010 Un’agente della Polizia penitenziaria femminile ha evitato il suicidio di una detenuta, all’interno di una cella nel carcere di contrada Petrusa. L’estremo gesto della donna non è finito in tragedia solo grazie all’intervento dell’agente in servizio nel turno pomeridiano presso la sezione detentiva del carcere. Grazie allo scrupolo ed alla prontezza dei riflessi forte anche della esperienza maturata, durante il consueto giro di ispezione, si è accorta del tentativo di suicidio da parte della detenuta. Immediatamente è entrata nella cella e con l’ausilio di un’altra detenuta lavorante ha preso sulle spalle la donna, sollevandola e tenendola sospesa il tempo necessario per permettere agli altri agenti di raggiungerla e prestare i primi soccorsi. In quel momento l’agente era da solo in sezione, quindi, ha continuato a tenere la persona sulle sue spalle chiamando aiuto a gran voce. Per alcuni minuti le due sono riuscite ad alzare di peso la donna e a slacciarle dal collo un lenzuolo, che sarebbe servito da cappio. A rendere nota la vicenda è stato, Calogero Speziale, coordinatore provinciale Uil Pa penitenziari Agrigento, “un grande plauso va all’agente della Penitenziaria - ha spiegato - sicuri del fatto che pur lavorando in situazioni di grande difficoltà, nessuno si tira indietro e svolge il proprio lavoro con grande sacrificio. Più volte pervengono alla Uil penitenziari forti lamentele da parte del personale per il carico di lavoro eccessivo dei turni di servizio e per l’accorpamento di più posti di servizio”. Libri: “Dentro una vita”, di Nazareno Dinoi; il carcere duro raccontato dal boss di Francesco Oggiano Affari Italiani, 3 agosto 2010 “Ci tengono chiusi nelle celle come topi in gabbia. Questo è il carcere che ho vissuto e che sto vivendo da 25 anni. Reinserimento, rieducazione, risocializzazione? Tutte puttanate stratosferiche”. Cosa succede se un boss mafioso decide di scrivere un libro per “far capire alla gente cos’è realmente il carcere”? Capita che alcuni ascoltino le sue parole e ci riflettano su. Altri, invece, decideranno di lasciar correre, pensando che chi è dietro le sbarre in fondo se lo è meritato e ben gli sta. In ogni caso, ogni pagina di quel libro piomberà come un diretto nella pancia del lettore. In “Dentro una vita” (Edizioni Reality Book), di Nazareno Dinoi, il boss pugliese Vincenzo Stranieri racconta i suoi 18 anni in regime di 41 bis, il carcere duro istituito nel 1993 e previsto per gli appartenenti alle organizzazioni criminali mafiose. Una vita fatta di isolamenti, punizioni e trasferimenti continui. Classe 1960, Vincenzo Stranieri entrò in carcere a 24 anni e non ne uscì più. Originario di Manduria, in provincia di Taranto, è la personificazione della fulminea ascesa criminale: da bullo di paese a numero due della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese. Esperto di furti d’auto, a 15 anni entra per la prima volta in carcere, destinato a riuscirvi e rientrarvi per un’interminabile serie di volte. Sul finire degli anni 70 compie il salto di qualità. La Puglia, fino ad allora territorio vergine per la mafia, inizia a fare gola alle altre organizzazioni criminali. Raffaele Cutolo in testa, che decide di istituire la Nuova Grande Camorra Pugliese, affiliando una novantina di delinquenti locali che faranno da manovalanza per il traffico delle sigarette. Tra i prescelti, c’è Stranieri. Dopo Cutolo, arrivano i calabresi, che affidano a Pino Rogoli, ex piastrellista di Mesagne (Brindisi) l’autorità per fondare la Sacra Corona Unita. In questa organizzazione il manduriano Stranieri si colloca al secondo posto. È lo stesso Rogoli a innalzarlo al grado di Tre Quartino con diritto di medaglia e ad affidargli la gestione di tutta la provincia di Taranto. È ancora un ragazzino, Stranieri. Non supera i 23 anni. Il 7 giugno del 1984 entra in carcere per l’ultima volta. Non è una detenzione semplice, la sua. Il 23 maggio del 1992, dieci ore dopo che mezza autostrada di Capaci era saltata in aria portandosi via il giudice Falcone, viene prelevato dai carabinieri in assetto da guerra, caricato su un elicottero e portato all’Asinara, nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis. Assieme a lui altri 236 boss mafiosi del calibro di Bernardo Brusca, Raffaele Cutolo, Michele Greco e Giuseppe Piromalli. Da 18 anni il boss tarantino vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno. Oggi, dietro il convincimento della figlia, ha deciso di parlare. Non di vuotare il sacco sui suoi reati, sia ben inteso: Stranieri è e resta un “uomo d’onore”. “Resta prigioniero del giuramento di sangue che fece alla Sacra Corona Unita tanti anni fa e che si porterà nella tomba. Nel libro, infatti, non ammette nessun reato, se non la partecipazione ad alcune risse”. Nazareno Dinoi, il coautore del libro, non ha mai conosciuto Stranieri: “Abbiamo avuto una collaborazione epistolare - spiega - lui scriveva dietro le sbarre, io dietro la scrivania”. Lui, Stranieri, ha preso la biro e ha dato forma alle giornate interminabili vissute dietro le sbarre, tra procedure di trasferimento, pestaggi subiti dai secondini, risse con gli altri detenuti, esasperate ricerche dell’ intimità sessuale e riscoperte della fede cattolica. Oggi, Stranieri, “è impazzito, al limite della schizofrenia, imbottito giorno e notte di psicofarmaci. Parla con Gesù, con Padre Pio, con la Madonna. Pochi mesi fa versava in gravi condizioni e i magistrati gli hanno permesso di ricevere in carcere la figlia, per la quale ha una debolezza affettiva. Ma ha rifiutato di abbracciarla. Una voce, ha raccontato, gli diceva che quella non era sua figlia”. Colpa del carcere duro? L’opera è oggetto di diverse critiche. In molti, magari con negli occhi le immagini delle stragi del ‘92-’93 ne condannano il falso perbenismo. Dare voce a un ex capo-clan con più di 200 uomini ai suoi ordini che si lamenta delle condizioni disumane cui è sottoposto, in effetti, può dar fastidio a qualcuno. “Nel libro - si difende Dinoi - Stranieri non è dipinto come un santo. È un criminale, ed è giusto che paghi”. La filosofia dello stesso Stranieri è disarmante: “La mia vita è questa, è stata questa; se non mi pento non giudicatemi come un impenitente ma come uno che sa di aver commesso degli errori e che sta pagando ma che vuole pagare nel rispetto delle regole e delle leggi”. Stranieri si è documentato, si è informato, ha studiato le materie giuridiche sino al punto di prepararsi da solo le memorie dei ricorsi che ama condividere con il proprio avvocato. Stranieri non è un vigliacco, ma pretende rispetto. “Non sono contrario al 41 bis. Aborro solo la sua inutile reiterazione - spiega Dinoi - Diciotto anni fa c’era una guerra in corso tra mafia e Stato. Il carcere duro è servito a isolare i boss dai loro adepti, a privarli del potere e costringerli a collaborare con la giustizia. Ma non ha senso reiterare questo isolamento per 18 anni a persone che non possono più nuocere in alcun modo. E poi i giudizi sommari... - continua - pensi che mi hanno accusato di essere un tramite attraverso il quale Stranieri passava le informazioni all’esterno. Questo è bastato a rinnovargli il 41 bis per altri due anni”. Col passare del tempo Vincenzo Stranieri ha avuto tempo di ripercorrere la propria vita, con i suoi eccessi e i suoi sbagli. Una riflessione che lo ha portato, se non a un pentimento, quantomeno a una dissociazione dal passato: “Se mi chiedete cosa farei potendo tornare indietro - confessa - vi rispondo senza dubbio che andrei a zappare mattina e sera pur di non fare quello che ho fatto. Ho sommato in tutto 34 anni di carcere, se avessi lavorato avrei quasi maturato i requisiti per la pensione. Invece mi trovo ad avere quasi cinquant’anni, rinchiuso, senza una lira e terribilmente solo”. Sul suo fascicolo c’è scritto “Fine pena 2022”. Con un po’ di fortuna e una legge da poco approvata, Vincenzo Stranieri potrebbe uscire nel 2012. Tra due anni. Soltanto due anni. Un nulla, dopo 26 passati tra quattro mura. Una volta superato quel cancello, forse finalmente stringerà la mano a quel giornalista che non ha mai conosciuto, Nazareno Dinoi. Poi passerà in una libreria del centro paese, a comprare il suo libro, visto che ancora non è riuscito a leggerlo (problemi a farlo entrare in carcere). Quindi lo sfoglierà fino all’ultima pagina, per cercare i suoi saluti finali, e li leggerà tra sé e sé, cercando di augurarseli per il tempo che gli rimane: “Siate tutti felici e godetevi la vita”. Gran Bretagna: il 10% dei detenuti in carceri costruite e gestite dai privati di Elisabetta Iossa e Gustavo Piga Il Foglio, 3 agosto 2010 Come possiamo sorprenderci se le carceri assomigliano alle scuole, alle caserme. agli ospedali, visto che tutti assomigliano alle carceri?”, diceva Michel Foucault, nel suo “Sorvegliare e Punire”. Scuole, caserme, ospedali, carceri sono il riscontro più visibile della qualità dell’intervento pubblico nell’economia. Il caso delle carceri va analizzato con attenzione per ì crescenti squilibri sociali dovuti a strutture sovraffollate. Squilibri che, in un paese come il Regno Unito, sono da tempo affrontati con strumenti innovativi di partenariato pubblico-privato (PPP), in cui il privato progetta, realizza, mantiene, gestisce e finanzia la struttura carceraria per un certo numero di anni, al passare dei quali la prigione torna al pubblico. Strumenti da cui si potrebbe prendere spunto. Voluto nel 1995 dal Partito conservatore e poi appoggiato dal successivo governo Labour, il PPP nelle carceri non è pervasivo: riguarda 11 prigioni su 140 e circa il 10 per cento della popolazione carceraria. Eppure esso ha generato un miglioramento (pur con qualche criticità da cui trarre insegnamento) nel sistema carcerario britannico. Come in altre iniziative di PPP del Regno Unito, si sono individuati degli indicatori di performance ai quali è stato legato il contributo pubblico, con decurtazioni per standard al di sotto dì quelli prestabiliti e possibilità per le autorità pubbliche di riprendere il controllo in caso di performance sistematicamente inadeguata (come avvenuto per la prigione di Ashfìeld). L’affidamento al privato dalla progettazione alla gestione delle carceri ha spinto a progettare strutture guardando all’impatto sui costi complessivi, spesso riducendoli. Per evitare che la logica del profitto in un settore in cui l’utente non può scegliere spinga a risparmiare sui costi a scapito della qualità è fondamentale misurare e verificare la qualità sotto innumerevoli dimensioni, come il livello di assistenza medica, il numero di evasioni, suicidi, infortuni e di rivolte, il livello di supporto legale, la probabilità di reiterazione del reato, il training rieducativo ecc. A questi controlli si devono aggiungere l’uso di contratti incentivanti che leghino il pagamento alla qualità del servizio. Se è vero che la stessa qualità potrebbe infatti fornita anche dal settore pubblico, il problema è che in questo manca un meccanismo che la incentivi. L’attenzione sulla performance che si è creata all’interno del sistema carcerario britannico ha spinto i gestori delle prigioni pubbliche a migliorarsi. Si è creata cioè una sana “competizione” tra pubblico e privato che ha indotto a un miglioramento complessivo della performance del settore. E stata particolarmente efficace la creazione di un sistema di rating carcerario che fornisce un indice di performance per ogni singola prigione: ciò permette di paragonare quella delle prigioni pubbliche e private e di studiare il loro andamento nel tempo. Ma ci sono anche criticità. Un rischio è legato al cambiamento durante la vita del contratto delle priorità che vuole darsi il concessionario pubblico. Ad esempio, l’attuale maggiore enfasi su istruzione e riabilitazione dei carcerati ha creato costi di rinegoziazione significativi. C’è poi il rischio che il controllo di qualità si progetti ma poi - forse per carenza di fondi - non si faccia. Comunque l’esperienza inglese sembra raccontare un sistema che può portare sia a una riduzione dei costi che a un miglioramento della qualità delle carceri non solo private, ma anche, indirettamente, nelle strutture pubbliche. Bisognerebbe dunque favorire l’ingresso dei privati, stimolare, misurare e valutare la performance e favorire una sana competizione tra pubblico e privato. Oggi nelle prigioni tutte pubbliche italiane il senso del pubblico servizio si perde nella cacofonia di mille interessi privati che umiliano i più deboli e esaltano i più opportunisti. Domani, forse, sarà la presenza di prigioni “private”, sorvegliate dal pubblico, a tutelare i deboli e punire coloro che non ne rispettano i diritti. Brasile: Porta (Pd); ratificare l’accordo sul rimpatrio dei detenuti 9Colonne, 3 agosto 2010 “Ratificare l’accordo tra Italia e Brasile sui detenuti”. È l’auspicio di Fabio Porta, deputato del Partito democratico eletto in America meridionale, in relazione all’accordo di reciprocità tra Italia e Brasile che consentirebbe il trasferimento nei rispettivi Paesi di origine delle persone condannate. Un appello firmato due anni fa e ancora non ratificato. “Ho personalmente sollecitato il governo in più occasioni - ha spiegato Porta - anche con due specifici documenti: il primo rivolto al sottosegretario agli Esteri con delega per l’America Latina, Enzo Scotti e il secondo indirizzato direttamente al presidente Berlusconi alla vigilia della sua visita in Brasile”. “Simili accordi con altri Paesi sono stati, anche recentemente, firmati. Ad esempio quello con la Repubblica Domenicana; non comprendiamo quindi - ha concluso il deputato democratico - il perché del ritardo della presentazione da parte del governo di una legge di ratifica che oltre ad andare incontro ai diritti dei detenuti ridurrebbe costi e oneri per l’amministrazione di una rete consolare già vicina al collasso”. Iran: i detenuti sono quasi 200mila; in carcere il 70% di loro fa uso di droghe Ansa, 3 agosto 2010 Il 70 per cento dei detenuti in Iran fa uso di stupefacenti in carcere e il 44 per cento di loro è stato arrestato per reati connessi alla droga. Lo ha detto il capo della polizia, Esmail Ahmadi-Moqaddam, citato oggi dal quotidiano Shargh. “Al giugno scorso - ha precisato Ahmadi-Moqaddam - nelle carceri iraniane vi erano 194.000 detenuti, dei quali 136.000 facevano uso di droga”. Negli ultimi anni è in costante aumento il consumo di stupefacenti in Iran, attraverso il quale passano alcune delle principali rotte dei trafficanti di oppio ed eroina dal vicino Afghanistan. Il consumo maggiore riguarda l’oppio, ma nelle grandi città si sono ormai diffuse tra i giovani, oltre all’eroina, anche sostanze come l’ecstasy e le metamfetamine. Secondo le autorità i consumatori abituali nella Repubblica islamica sono circa quattro milioni, su una popolazione complessiva di circa 75 milioni. In Iran vige la pena di morte per chi venga trovato in possesso di almeno 30 grammi di eroina o cinque chilogrammi di oppio. Ma Ahmadi-Moqaddam ha sottolineato che il consumo personale non è considerato reato. I tossicodipendenti tuttavia, ha aggiunto, devono sottoporsi ad una “terapia obbligatoria” di disintossicazione presso strutture da cui non possono uscire.