Giustizia: i volontari accusano la politica; solo visite ferragostane Redattore Sociale, 31 agosto 2010 Per la Conferenza va attivato un “Piano sociale straordinario per le carceri” di sostegno al reinserimento sociale per coloro. Mobilitazione nazionale per un “carcere della resistenza” Attivare un “Piano sociale straordinario per le carceri” di sostegno al reinserimento sociale per coloro che escono o che potrebbero uscire dal carcere, attraverso la formazione, il sostegno lavorativo, l’attivazione del terzo settore e dell’associazionismo. Lo chiede con forza la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia che accusa la politica e le istituzioni. “Nessuno si è assunto la responsabilità di offrire un seppur minimo di respiro e di speranza ad una popolazione detenuta stremata. - si legge in una nota - Solo visite ferragostane. Viene tristemente in mente la Marcia di Natale di qualche anno fa, anch’essa densa di presenze politiche, organizzata dopo un mese dall’approvazione della legge ex Cirielli. Veramente la realtà di una politica così cieca e sorda alle voci del sociale supera ogni fantasia. In una materia come questa, che tocca corde sostanziali del diritto, non andrebbero espresse timidezze; bisognerebbe operare con forza sul fronte delle riforme legislative e sulle politiche sociali; servirebbe una chiara azione riformatrice”. Secondo il volontariato della giustizia “i trofei ideologici delle campagne contro poveri, migranti, tossicodipendenti, disagiati, trovano compiutezza nello sfacelo dell’attuale situazione, nelle condizioni in cui vivono i detenuti, nella tragica conta dei suicidi e delle morti in carcere”. In cella “consumatori di droghe, di persone in attesa di giudizio, di migranti, e paiono dirigersi in un viaggio, che pare senza ritorno, lontano dal buon senso e dall’umanità”. Ma le risposte politiche tardano a venire: “In perfetto stile bipartisan i politici si sono alternati in un carosello di divisioni, scambi di accuse, ridefinizioni, temporeggiamenti, competizioni di visibilità intorno ad un decreto ormai così stralciato da risultare quasi inutile”, scrivono. Per questo i volontari della giustizia sostengono l’appello di Alessandro Margara, magistrato, al “carcere della resistenza”. “Questa espressione - spiegano - può riferirsi anche a quegli istituti che, nonostante le difficoltà ed il vento contrario, cercano di attuare la legge, dimostrando che un altro carcere è possibile, quello appunto che la legge descrive. Il volontariato è parte di queste sacche di resistenza. “La mobilitazione proclamata a livello nazionale dalla Conferenza Nazionale Volontariato della Giustizia, che continuerà ad articolarsi nei prossimi mesi, ne è testimonianza diretta e concreta”. Lettere: la storia di Hazim, privato della libertà perché non ha il permesso di soggiorno La Sentinella, 31 agosto 2010 Sul Suo giornale di venerdì 20 è riportata la notizia dell’arresto di un cittadino bosniaco perché non in possesso di documenti autorizzanti il soggiorno in Italia. Hazim Karahasanovic, 47 anni, non ha commesso alcun reato (altrimenti i Carabinieri l’avrebbero detto al giornalista). Non ha danneggiato, né minacciato di farlo, né una persona, né un bene, né pubblico né privato. È stato privato della libertà perché non ha il permesso di soggiorno. È stato privato della libertà per una situazione meno pericolosa che passare col rosso o del guidare alterati, perfino del guidare parlando al telefono. Ripeto: privato della libertà. Lei mi dirà che c’è una legge che da un anno punisce col carcere questa irregolarità; lo so, me lo sono detto anche io; so che sono tante le persone private della libertà per questo motivo nel nostro Paese. Ma è diverso quando succede nella mia città, quando succede a poche decine di metri dal ponte che fu fatto saltare per conquistare la libertà, la libertà di tutti. Mi sembra di avere degli obblighi in più se succede nella mia città. Io la prego di usare il Suo giornale per farci avere notizie di Hazim: dov’è detenuto? dove andrà? ha un avvocato? dove e quando sarà processato? Sempre sul Suo giornale di venerdì, qualche pagina dopo, si racconta della continua solidarietà di una associazione di Cuorgnè verso la Bosnia Erzegovina e si racconta di un Paese ancora martoriato: “bambini fra i sei e sette anni... si infilano nei container della spazzatura per rovistare.... con 100 bottiglie di plastica usate riescono a tirar su 2 euro”. Hazim era scappato da lì, non so quando, non lo conosco, ma è una persona a cui è stata tolta ingiustamente la libertà, a Ivrea. Spero che “La Sentinella” faccia onore al suo nome e ci faccia sapere cosa succede ad Hazim. Un cordiale, speranzoso saluto. Lettera firmata Sassari: a 10 anni dalla notte del maxi-pestaggio nel carcere non è cambiato niente di Antonio Piazza www.caffenews.it, 31 agosto 2010 Anche quest’anno si è consumato l’ormai rituale pellegrinaggio ferragostano in carcere da parte di parlamentari e onorevoli appartenenti ai vari schieramenti. Quella che è nata come lodevole iniziativa da parte dei Radicali (Marco Pannella in testa) rischia di divenire un appuntamento pseudo elettorale o comunque una sorta di kermesse nella quale si fa sfoggio di interesse per una delle principali emergenze sociali del nostro paese, emergenza che peraltro viene nascosta o sminuita agli occhi delle persone. Che le carceri italiane versassero in pessimo stato e vivessero al limite (se non oltre) la legalità è ormai cosa nota, visti i numeri del sovraffollamento che continuano a salire e a mietere vittime (sebbene un morto in carcere non abbia lo stesso valore sociale di un “morto libero”, o almeno così è per la stragrande maggioranza dei benpensanti), ma il rapporto stilato da coloro che hanno visitato il carcere di San Sebastiano a Sassari risulta assolutamente sconcertante. Il San Sebastiano era già tristemente noto per una delle più buie pagine della storia delle carceri italiane. Ricordiamo infatti come il 3 maggio del 2000 si verificò una “irruzione” delle guardie carcerarie all’interno delle celle che malmenarono pesantemente i detenuti (sebbene malmenare sia solamente un labile eufemismo al confronto di ciò che successe ma che, in virtù del fatto che in Italia non è riconosciuto il reato di tortura, non può essere definito diversamente ) a seguito della quale finirono in cella alti funzionari del carcere e non solo, e 18 tra ispettori e sovrintendenti; agli arresti domiciliari 59 guardie. Furono emessi ottanta ordini di custodia cautelare per violenza privata, lesioni, abuso d´ufficio e violazione dell´ordinamento carcerario con tutte le aggravanti per aver agito con crudeltà su persone inermi (purtroppo sul versante delle pene le cose non procedettero in maniera altrettanto fluida in quanto la prescrizione andò ad estinguere i reati per la maggioranza degli imputati). Certo l’episodio non nacque dal nulla, ma si inseriva in un difficilissimo contesto ricco di tensioni e scontri fra la popolazione carceraria e il personale dell’amministrazione, situazione peraltro venutasi a creare dalle già inumane condizioni di detenzione che i ristretti subivano quotidianamente. Ma torniamo ad oggi, dieci anni dopo, quando le condizioni di vita, continuano ad essere altrettanto inumane. Secondo il rapporto (sfociato in denuncia presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Sassari) stilato a seguito della visita effettuata dal Prof. Luigi Manconi, dall’On. Guido Melis, dall’On. Arturo Mario Luigi Parisi e dal Sen. Giampiero Scanu, “erano quel giorno custoditi presso l’Istituto 214 detenuti, ove la capienza regolamentare risulta essere di 154 posti (…). Come evidente alla visita ai vari bracci del carcere lo spazio a disposizione di ciascun detenuto risulta assai inferiore rispetto a quello standard fissato nelle norme europee e pari a mq 7,5 (a San Sebastiano lo spazio è comunque inferiore anche alla media italiana, essendo ammassati 4, talvolta 6 detenuti in spazi di non più di 2 metri per 1,5). Nelle celle (….), il gabinetto, “alla turca”, è collocato a pochi passi dai giacigli dei detenuti e dalle piccole cucine ove essi si riscaldano i pasti o si preparano il caffè; solo un abbozzo di muretto, che però non arriva al soffitto, separa una distanza tra servizio igienico e zona pasto a volte di nemmeno 1 metro. Ciò configura uno stato di vita inaccettabile, contrario a tutte le norme sulla pubblica igiene attualmente vigenti in Italia e in Europa. Si ricorda che secondo la legge penitenziaria del 1975 i locali adibiti ai servizi sanitari debbono essere “privati, decenti e di tipo razionale”. Nessuna privacy è riscontrabile a San Sebastiano, e quanto alla decenza e alla razionalità non occorre formulare ulteriori osservazioni rispetto alla semplice descrizione degli ambienti. (….) I sottoscritti ritengono di sottoporre all’attenzione della S.V. la gravissima situazione che si è venuta producendo negli anni e che è giunta (dopo un degrado documentabile di anno in anno) a uno stato assolutamente allarmante per la pubblica salute e in evidente conflitto con una concezione della pena ispirata ai più elementari principi costituzionali.” Il San Sebastiano è solamente uno dei tanti istituti di pena italiani nei quali i carcerati si scontrano ogni giorno con violazioni dei diritti e condizioni di vita assolutamente degradanti. Senza mettere in discussione il carattere afflittivo della pena, non si può negare che essa debba rivestire anche (io credo soprattutto) una funzione rieducativa e risocializzante; ma come perseguire questo scopo quando l’esempio che si offre si discosta dei dettami costituzionali? La soluzione è ben lontana dal venire; ormai il progetto legato all’edilizia carceraria fa quasi sorridere a sentirlo, tanto che è diventato quasi un ritornello; così come l’incremento del numero di agenti penitenziari (ammesso e non concesso che quest’ultimo costituisca veramente una soluzione). L’unica vera strada percorribile è il ricorso a pene alternative alla detenzione (che come mostrato ormai da innumerevoli statistiche a livello europeo rappresenta il solo modo per diminuire il tasso di recidiva) e l’utilizzo di personale specializzato (psicologi ed educatori) in grado di affrontare, capire e comprendere i problemi dei detenuti. Ma, come ho già avuto modo di sottolineare, finché la cultura predominante sarà quella della paura e del giustizialismo, difficilmente sarà possibile veicolare un messaggio di tolleranza, rispetto e aiuto. Padova: esami radiologici all’interno della casa di reclusione e cartella inviata via web Il Gazzettino, 31 agosto 2010 Prestazioni radiologiche all’interno della casa di reclusione. Le erogherà l’Ulss 16 di Padova in accordo con l’Azienda ospedaliera. Si eviteranno così i continui spostamenti dei detenuti dal carcere alle strutture sanitarie con grande impiego di guardie (quattro per ogni temporaneo trasferimento sanitario), disagi per gli stessi carcerati e per gli altri pazienti ospedalieri che a volte mal tollerano la convivenza con i reclusi. Gli accertamenti radiologici si effettueranno direttamente all’interno del Due Palazzi grazie all’ausilio di alcuni tecnici di radiologia e di un’apparecchiatura ad hoc; le lastre verranno poi inviate via web ai radiologi ospedalieri per la lettura in tempo reale. È il salto di qualità compiuto dalla sanità penitenziaria, oggi in capo all’Ulss che così favorisce e rende più snelle le procedure per la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza. Il progetto di radiologia “a distanza”, che ha preso il via in questi giorni, andrà corroborandosi in autunno. I professionisti all’opera sono quelli dell’Unità operativa di Radiologia diretta dal dottor Daniele De Faveri. “Intendiamo così ridurre di un buon ottanta per cento gli spostamenti tra la casa di reclusione e le strutture ospedaliere - spiega il direttore generale dell’Ulss 16, Fortunato Rao -, movimenti che richiedono un ingente utilizzo di personale e di risorse. Il servizio diventerà più agevole e celere, consentendo inoltre un significativo contenimento della spesa. Ragioniamo nell’ottica della collaborazione e dell’integrazione, servendoci delle preziose potenzialità informatiche che permettono di ottenere risposte praticamente in diretta”. Livorno: ritardano il rientro in cella per protesta, 24 detenuti denunciati Il Tirreno, 31 agosto 2010 Tensione altissima nel carcere delle Sughere. Sabato pomeriggio 24 detenuti marocchini hanno ritardato di oltre mezzora il rientro nelle celle dopo il passeggio. Una protesta infuocata che gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti a domare non senza difficoltà. All’origine del “sit-in” un episodio di violenza successo il giorno prima. In base a quanto appreso, un albanese aveva picchiato un marocchino e secondo i detenuti la polizia non aveva fatto giustizia. Verso le 15, il gruppo di detenuti fa la passeggiata pomeridiana. Tuttavia, quando arriva il momento di rientrare, i marocchini fanno presente agli agenti che non hanno alcuna intenzione di tornare in cella. In quel momento i poliziotti addetti all’accompagnamento sono due e di certo da soli non possono domare la protesta di 24 persone, che per di più sembrano piuttosto agitati. Il loro disagio deriva da un episodio successo il giorno prima. “Un nostro amico marocchino è stato massacrato di botte e voi non avete fatto nulla”. Questa l’accusa mossa dai detenuti agli agenti. I marocchini hanno visto il loro connazionale ferito. E non hanno digerito l’atteggiamento aggressivo dell’altro detenuto. Solo che se la sono presa con gli agenti della penitenziaria. In realtà, in base a quanto appreso, pare che a scatenare la lite tra i due contendenti sia stato un episodio legato alla gelosia. Una parente dell’albanese all’ora dei colloqui era entrata in carcere con altri familiari, passando davanti al campo sportivo. Da qualche mese, da quando sono in corso i lavori di ristrutturazione di un’ala delle Sughere, la sala incontri tra detenuti e parenti è stata spostata. E i familiari per raggiungerla devono passare davanti al campo sportivo. Lì nel campo si trovava marocchino che, alla vista della giovane albanese, avrebbe fatto un apprezzamento. La cosa non sarebbe andata giù al marocchino, che avrebbe reagito in maniera violenta. Fatto sta che sabato il gruppo di marocchini non ne vuole sapere di rientrare in cella. Gli agenti cercano di spiegare ai detenuti che quell’atteggiamento è pericoloso e che così facendo vanno incontro a pesanti punizioni. Ma questi discorsi non sembrano scoraggiarli. Intanto i poliziotti, che da mesi sono in fortissima difficoltà per la carenza di personale, cercano di mettere insieme più forze possibili. E così il coordinatore di turno convoca gli agenti smontanti, quelli appena entrati e altri in servizio in altri punti dell’istituto. Alla fine vengono radunati 20 agenti. Di fronte al gruppo di poliziotti, i detenuti desistono e accettano di rientrare in cella. Tutti e 24 vengono denunciati per resistenza, sobillazione e violazione del regolamento. L’episodio, come sottolineano i sindacati della polizia penitenziaria, appare come sintomo del forte disagio che vivono i detenuti (ma anche gli agenti): le celle sono affollate, le condizioni igieniche e generali del carcere sono precarie, e non è chiaro quando finiranno i lavori in corso. In più, il carcere è spesso teatro di episodi di autolesionismo. Pavia: detenuto 23enne morì nel carcere di Voghera, il pm archivia il caso La Provincia Pavese, 31 agosto 2010 Non vi è prova che si sia trattato di un suicidio. Anzi, è probabile che sia stato un incidente a provocare la morte in cella di Marcello Russo (23 marzo 2009). Sinteticamente, con questa motivazione, il pubblico ministero Giovanni Benelli, ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte in cella di Marcello Russo, ucciso dal gas della sua bomboletta da cucina. E lo ha fatto a conclusione di lunghe indagini. Una decisione alla quale la famiglia del detenuto, assistita dall’avvocato vogherese Sara Bressani, probabilmente si opporrà. L’inchiesta riguardava eventuali responsabilità di terzi, ossia agenti di polizia penitenziaria o medici del carcere di Voghera, che non avrebbero valutato a dovere le condizioni psichiche di Russo: il detenuto, infatti, aveva tentato il suicidio in precedenza. Tuttavia, di “istigazione al suicidio” o di “aiuto al suicidio”, le due ipotesi sulle quali aveva lavorato il pm, sarebbe difficile parlare, secondo la procura, in assenza di testimonianze chiare ed univoche. Prendendo anche in considerazione il fatto che è pratica diffusa da parte dei detenuti utilizzare il gas per i suoi effetti “euforizzanti”, “da sballo”. In favore della tesi della famiglia, ossia la sottovalutazione delle condizioni psichiche di Russo, restano alcuni elementi. Ad esempio la circostanza che Marcello Russo arriva al carcere di Voghera nel gennaio 2008 e solo 6-7- mesi più tardi vengono segnalate autolesioni. Altri atti simili vengono registrati dai medici del carcere il 2, il 13 e il 17 gennaio del 2009. Fino a fine febbraio, tra psicofarmaci e scioperi della fame, resta in isolamento. Il 13 febbraio viene segnalato un tentativo di suicidio, o meglio, l’inalazione con busta di plastica del gas di una bomboletta da campeggio. Nello stesso giorno, Marcello Russo ingerisce una lametta da barba. Non è finita: il 20 febbraio riprende lo sciopero della fame. Insomma, si sarebbe di fronte a condizioni psichiche preoccupanti, al punto di dover far temere il suicidio. Perché, allora, a Marcello Russo fu permesso di tenere in cella la bomboletta di Gpl, il gas con il quale poi si sarebbe ucciso? Pavia: Progetto Orchidea; speranze oltre il carcere con la Cooperativa sociale il Convoglio La Provincia Pavese, 31 agosto 2010 Fronte del carcere, c’è chi pensa concretamente a non isolare quel mondo dal resto della società esterna. Obiettivo: dare una speranza di rilancio sociale a chi è costretto da una condanna a trascorrere parte della propria vita in carcere. Ma pensando e dando una mano anche a coloro che hanno un familiare dietro le sbarre. Una mission che vede coinvolta come realtà capofila la cooperativa sociale il Convoglio di Pavia di cui è presidente Sergio Contrini, la Regione e l’Asl. Il progetto Orchidea vede coinvolti inoltre le Case circondariali di Pavia, Vigevano e Voghera, l’Agenzia provinciale per il lavoro e la formazione, l’Officina lavoro, Timanifesta di Giussago insieme all’Uepe (Ufficio penale ed esecuzione esterna) e ai piani di zona di Albuzzano, Broni, Casteggio, Landriano, Mortara, Pavia, Sannazzaro, Vigevano e Voghera. In campo, in questa operazione di alto valore sociale, altre coop sociali provinciali oltre alla Caritas di Vigevano. Nel dossier di presentazione si fa anche un’analisi della popolazione carcerati. Nel carcere di Pavia si tratta di detenuti per la maggior parte non sottoposti a pena definitiva. A Vigevano la popolazione carceraria è composta soprattutto da donne e detenuti stranieri. A Voghera detenuti di alta sicurezza e con condanne a lungo termine senza molte possibilità di accesso a benefici fuori-carcere. Il piano di interventi che prevede inserimenti lavorativi, al sostegno di attività per chi è in regime di semilibertà, all’aiuto alle famiglie, si rivolge ai 1.061 detenuti nelle tre carceri pavesi, ai 134 affidati all’Uepe e alle 36 persone agli arresti domiciliari. In particolare nell’ambito pavese il progetto Orchidea prospetta gestite dall’Apolf un corso di falegnameria e restauro, borse lavoro, formazione di operatori del territorio. Il Convoglio propone l’utilizzo di personale da impiegare nella produzione del pane e nella custodia e piccole riparazioni delle biciclette. Non solo. La prospettiva non è solo quella di una occupazione, ma è anche quella di favorire l’inserimento abitativo. In Oltrepo pavese invece il piano indica tra i possibili spazi d’azione quello agro-ambientale (dall’ortoflorovivaismo, alla manutenzione del verde, al recupero di aree di interesse naturalistico). Alla base di questa importante iniziativa sociale, come spiega il presidente Sergio Contrini, c’è anche l’istituzione di un osservatorio provinciale sulla popolazione carceraria (e in esecuzione penale esterna) o su minori sottoposti a misure penali sul territorio. A far parte dell’osservatorio sarà chiamato un team di esperti sia in campo clinico che sociale. Sarà il cosiddetto “banco di regia” in grado di raccogliere tutti i dati e le realtà presenti sul territorio. Sono molti gli aspetti innovativi del progetto Orchidea che si presenta come il primo del genere a livello lombardo. Venezia: “Design in gabbia”, in vendita gli oggetti ideati dai detenuti Redattore Sociale, 31 agosto 2010 Coinvolti nel progetto una ventina di reclusi della casa circondariale maschile Santa Maria Maggiore di Venezia: dalla shopping bag al pouf-divanetto. Un grembiule, una shopping bag, un pouf-divanetto, un pannello multiuso da parete e relativi accessori: sono questi gli oggetti ideati, nell’ambito del progetto “Design in gabbia”, da un team di detenuti della casa circondariale maschile Santa Maria Maggiore di Venezia, che dallo scorso weekend sono in esposizione e in vendita all’interno del bookshop della Fondazione “Bevilacqua La Masa”. L’iniziativa è stata realizzata dalla cooperativa Rio Terà dei pensieri ed è finanziata dalla Regione Veneto. Il progetto ha coinvolto una ventina di detenuti che hanno ideato e realizzato i prodotti nell’arco di quattro mesi, grazie al supporto di quattro insegnanti: i designer Anthony Knight, Raffaella Brunzin, Gianmaria Borin e Zeljko Marinkovic. La decisione di mettere in vendita i prodotti è venuta da sé, anche grazie alla disponibilità di Borin e Marinkovic che, essendo gestori del bookshop della Fondazione “Bevilacqua La Masa”, hanno deciso di ospitare in quella sede i prodotti per la vendita. Presto un nuovo punto vendita sarà aperto nella sede della Fondazione Querini a Venezia e in occasione della Mostra del Cinema di Venezia sarà allestito un punto vendita anche nell’area relax del festival. Intanto, ora che la pausa estiva è terminata, la cooperativa Rio Terà dei pensieri è già pronta per la seconda fase del progetto, che coinvolgerà tra settembre e dicembre un’altra ventina di detenuti. “Innanzitutto abbiamo cercato di capire in che modo coinvolgere i partecipanti nella fase creativa ed esecutiva proprio partendo dalla condizione di essenzialità in cui i detenuti sono costretti a vivere per il periodo della pena - spiegano i promotori dell’iniziativa -. In fase di produzione, poi, abbiamo utilizzato i macchinari già presenti nei laboratori di pelletteria e serigrafia all’interno del carcere. La particolarità dei progetti realizzati è di essere stati confezionati con un unico tessuto in cotone 100%, fasce di Velcro e con accessori intercambiabili, acquistabili separatamente”. Reggio Calabria: sull’Aspromonte un “campo scuola” per i detenuti minorenni Redattore Sociale, 31 agosto 2010 Formazione, giochi ed escursioni dal oggi al 3 settembre per i 50 ragazzi provenienti da tutta la Calabria e dalla vicina Basilicata. Anche quest’anno il Centro giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata, organizza il campo scuola a Cucullaro di Gambarie in Aspromonte. Da oggi fino al 3 settembre i detenuti minorenni potranno vivere un periodo di formazione, giochi ed escursioni, nel pieno spirito della condivisione e dell’amicizia. Per l’edizione 2010, il campo avrà come filo conduttore la storia del “Guardiano del Faro”, da cui saranno tratti riflessioni e pensieri più significativi che aiuteranno i promotori dell’iniziativa a trasferire ai ragazzi messaggi positivi di legalità e di solidarietà. Saranno circa 50 i ragazzi presenti al campo, provenienti da tutta la Calabria e dalla vicina Basilicata. Parteciperanno anche molti operatori delle strutture minorili e volontari che condividono da anni le esperienze che si promuovono all’interno del progetto “Insieme”. Hanno già confermato la loro presenza le Caritas diocesane di Reggio Calabria e Locri, i magistrati minorili di Reggio e Catanzaro, alcune associazioni impegnate nel mondo del sociale tra cui Libera, Usabile di Catanzaro, Euro di Palermo. Ci saranno anche quelle strutture dove i ragazzi, dal 2003, hanno vissuto e continuano a vivere esperienze formative all’interno del progetto “Insieme”. Il programma prevede anche escursioni in Aspromonte, grazie alla piena disponibilità dell’Ente Parco, per la riscoperta di quei luoghi meravigliosi che solo il paesaggio aspromontano offre. Non mancheranno i momenti di svago, infatti saranno organizzati mini tornei di calcetto e pallavolo, potendo fruire degli impianti sportivi messi a disposizione dal comune di Santo Stefano. In programma tante serate in allegria con la presenza di associazioni e di rappresentanti dello spettacolo che, sicuramente, avranno il compito di coinvolgere e fare divertire i ragazzi detenuti. Il campo chiuderà con un momento pubblico in cui, oltre al dirigente del Centro giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata, saranno presenti autorità civili, religiose e militari della regione. Una cerimonia nel corso della quale saranno consegnate targhe alle strutture presenti e medaglie a tutti i ragazzi, offerte da una ditta sportiva di Reggio Calabria, sempre sensibile e vicina alle iniziative del progetto “Insieme”. Bologna: 400 kit di cancelleria ai detenuti, ma servono 5 alfabetizzatori e una cattedra di lettere Dire, 31 agosto 2010 Al carcere della Dozza di Bologna arriveranno 400 kit di cancelleria (comprensivi di quadernoni, penne e matite) donati dalla Federazione cartolai dell’Emilia-Romagna: serviranno ai detenuti, che altrimenti non avrebbero avuto i soldi per procurarseli, che hanno fatto domanda di sedersi sui banchi per frequentare i corsi scolastici e quelli di alfabetizzazione in partenza a breve. A far partire la sollecitazione è stata la Garante delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, segnalando la necessità di reperire quaderni e penne per i detenuti indigenti: l’Ascom si è mobilitata e ha passato la voce ai cartolai, che hanno risposto raccimolando 400 kit. Un numero importante, considerando che nell’ultimo anno scolastico i detenuti iscritti ai corsi del Ctp “Besta” sono stati 388, di cui 162 nei sette corsi di scuola media e 226 nei corsi di lingua italiana. “Saranno al più presto consegnati ai detenuti indigenti che frequenteranno i corsi scolastici” fa sapere oggi in una nota Bruno, ringraziando anche a nome della direzione del carcere il presidente di Ascom Bologna, Enrico Postacchini, e quello della Federazione Cartolai Emilia Romagna, Medardo Montaguti. “La Federazione Cartolai ha aderito con entusiasmo alla richiesta di donazione di una fornitura di cancelleria alle carceri di Bologna” spiega in una nota Montaguti, annunciando l’arrivo di quadernoni, penne, pennarelli, matite, gomme, carta e materiale di cancelleria alla Dozza. “Riteniamo che le persone private della libertà personale, durante il loro periodo di detenzione, abbiano il diritto di studiare, formarsi e raggiungere un grado di scolarizzazione e cultura tale che possa permettere loro di reinserirsi nel miglior modo possibile nella nostra società” aggiunge Postacchini. Se Bruno festeggia l’arrivo dei 400 kit di cancelleria, resta il problema della carenza di insegnanti per tenere corsi per i detenuti. Secondo quanto sostiene l’Istituto comprensivo 10 di Bologna (il Ctp Besta appunto), “è assolutamente necessario che si arrivi all’assegnazione di ulteriori risorse umane” per l’anno a venire. In particolare, servono cinque alfabetizzatori, “per attivare i corsi di lingua italiana per stranieri e di educazione alla cittadinanza”; una cattedra di Lettere, “per soddisfare le esigenze dell’Alta sicurezza e del femminile” e otto ore di lingua inglese, per il percorso di licenza media. Solo così, si legge in una nota dell’Istituto, si riuscirebbe ad “attuare la stessa offerta formativa e garantire in tutti i bracci, compresa la sezione femminile e l’Alta sicurezza, l’attivazione di corsi sia di scuola media sia di alfabetizzazione”. Non sarebbe invece possibile con l’organico attuale, che “è composto solo da cinque docenti di scuola media, che riescono a garantire non più di quattro corsi di licenza media in area pedagogica”. Nell’ultimo anno, nel complesso, sono stati tenuti sette corsi di licenza media e 12 corsi di alfabetizzazione (italiano per stranieri), accontentando “tutte le richieste provenienti dall’utenza”. Dei 388 detenuti corsisti, in 53 hanno superato l’esame conclusivo del primo ciclo d’istruzione (licenza media). Ai 124 che per vari motivi (uscita o trasferimento) non hanno sostenuto l’esame, sono stati invece riconosciuti crediti formativi nei moduli conclusi e superati. Nei corsi di italiano (alfabetizzazione), 26 detenuti hanno superato il livello del corso e 76 hanno ottenuto il riconoscimento delle competenze acquisite nei moduli frequentati e conclusi. Trani: Osapp; il carcere è rimasto senza elettricità per giorni, a causa di un corto circuito Asca, 31 agosto 2010 Ancora problemi nel carcere di Trani. Domenico Mastrulli, vicesegretario generale nazionale dell’Osapp (il sindacato di polizia penitenziaria) denuncia nuove disfunzioni nei reparti detentivi dell’ex carcere di massima sicurezza. Da venerdì scorso (e per più giorni) i novanta reclusi al secondo piano della struttura sarebbero rimasti al buio e senza tv, a causa della mancanza di energia elettrica. Un inconveniente per i carcerati, ma un enorme disagio anche per l’unico agente in servizio, costretto ad effettuare il turno con una lampadina tascabile e col conforto di qualche candela. La mancanza di erogazione dell’energia elettrica sarebbe ascrivibile ad un blocco di schede elettriche, saltate a causa di un corto circuito. “Si predica bene ma si razzola male. Con il piano carcere vogliamo costruire nuove strutture - dice Mastrulli - ed ammodernare quelle già esistenti ma poi non riusciamo a seguire, per dirette responsabilità del Provveditorato regionale di amministrazione penitenziaria, le situazioni di minore entità che accadono in Regione”. Immigrazione: disordini nel Cie di Gradisca… la polizia ha le mani legate Il Piccolo, 31 agosto 2010 Il nuovo questore di Gorizia Pier Riccardo Piovesana, in occasione della sua prima visita al Cie, spiega ai suoi agenti quelli che saranno i loro compiti: “Ci occuperemo solo della vigilanza nella fascia esterna del centro”. E aggiunge: “Recinzione e sistemi di videosorveglianza vanno potenziati con urgenza”. “La gestione degli ospiti del Centro di identificazione e espulsione non è competenza della polizia, noi ci occupiamo soltanto della vigilanza nella fascia esterna del centro”. In occasione della sua prima visita al Cie, il nuovo questore di Gorizia Pier Riccardo Piovesana coglie l’occasione per specificare che le possibilità d’intervento della polizia all’interno del Cie sono limitate. Ma dopo le rivolte e le evasioni degli ultimi giorni, che hanno portato anche al ferimento di 6 militari, la situazione nel centro è più che mai bollente. “Durante il sopralluogo ho potuto constatare che i danni provocati dalla rivolta non sono gravi come si era pensato in un primo momento - ha dichiarato il questore all’uscita dal Cie -. Ma la recinzione e i sistemi di videosorveglianza della struttura devono essere potenziati con urgenza”. Il rinnovo del sistema di sicurezza, specifica il questore, va portato avanti tenendo conto dello statuto peculiare del Cie: “Il centro non è un carcere, e le persone al suo interno non sono detenuti - spiega -: sono trattenuti per motivi amministrativi. Quindi ogni potenziamento degli apparati di sicurezza va condotto rispettando la loro dignità e incolumità”. Piovesana commenta con diplomazia la proposta dell’assessore regionale Federica Seganti (Lega Nord) di trasformare i Cie in vere e proprie prigioni: “È una valutazione di carattere squisitamente politico - afferma il questore -. Se la politica deciderà di cambiare la legge e di trasformare le persone trattenute in detenuti la polizia agirà di conseguenza. Al momento, però, abbiamo a che fare con individui trattenuti amministrativamente, e non con carcerati”. Sui gravi fatti accaduti in questi giorni al Cie e sulla proposta delle Seganti abbiamo interpellato per telefono e con e-mail il ministro dell’Interno Maroni, ma fino a ieri sera nessuna risposta è giunta dal Viminale. Nel frattempo la proposta di Seganti scatena le reazioni dell’opposizione. “I Cie sono già carceri da tempo - dice il consigliere regionale del partito democratico Paolo Menis -. Questi centri non sono più luoghi di accoglienza ma di detenzione, privi però delle garanzie giuridiche e di rispetto dei diritti umani che uno Stato civile dovrebbe sempre garantire”. “Sarebbe interessante piuttosto che l’assessore spiegasse ai cittadini perché sono diventati tali - prosegue Menis -, ovvero che cosa ha fatto la sua giunta per queste strutture in questi anni e perché il capogruppo regionale chiede altri soldi. Forse alla Lega non sono bastati i 32 milioni di euro spesi negli ultimi tre anni a trovare quelle poche risorse che sarebbero state sufficienti agli adeguamenti che oggi vengono evocati come la panacea di tutti i mali?”. Sul tema interviene anche il Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia), che propone due alternative per ridurre la sequela di rivolte all’interno del centro: “O il Cie, fermo restando la necessità di ripristinare con estrema urgenza tutti i sistemi di sicurezza previsti, viene ridimensionato di almeno due terzi e quindi ricondotto a dimensioni più consone e tollerabili al territorio che lo ospita - afferma il Siulp in un comunicato -. Oppure, qualora si volesse continuare a sacrificare Gorizia sull’altare di “città-Cie d’Italia”, si provveda a raddoppiare gli organizzi assegnando al contempo un funzionario a tempo pieno, nonché a incrementare le risorse economiche necessarie al mantenimento della mega struttura”. Francia: un Cucchi d’Oltralpe; cittadino italiano di 36 anni muore in carcere di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 31 agosto 2010 L’autopsia sul corpo di Daniele Franceschi, cittadino italiano morto in carcere a Grasse il 25 agosto scorso, che avrebbe dovuto aver luogo ieri è stata rimandata di un giorno. Per Milko Paris, dell’associazione Ban Public che ha messo in atto un Osservatorio sui suicidi e sulle morti sospette in carcere, questo è un segnale che le autorità carcerarie francesi hanno qualcosa da nascondere. Secondo Paris, “l’Italia deve chiedere un’autopsia tossicologica, non deve cedere su questo punto” per arrivare a capire cosa è successo a questo trentenne, apparentemente in buona salute, che era in carcere da cinque mesi, dopo essere stato arrestato per una storia di falsificazione di carta di credito nel marzo scorso. “Stupisce che l’autopsia non sia stata ancora realizzata - afferma Paris - l’Italia ha il diritto di chiedere un’autopsia tossicologica, che sola può determinare se c’è stato un assorbimento eccessivo di medicine”, che può essere un atto volontario oppure la conseguenza di una prescrizione sbagliata. “La famiglia - suggerisce - se prende un avvocato può chiedere questo tipo di autopsia”. Entrare in carcere in buona salute “non vuol dire niente - aggiunge - perché sono sufficienti delle complicazioni cardiache rivelate dallo stato di stress, dalle condizioni di prigionia”. Daniele Franceschi, secondo questo specialista delle carceri francesi, o è stato assassinato oppure ha assorbito una dose eccessiva di medicinali, che può anche essere dovuta a una prescrizione sbagliata oppure soffriva di qualche anomalia che non è stata curata adeguatamente nei mesi passati in carcere. La Procura di Grasse ha negato che ci siano segni di violenza sul corpo di Franceschi. Le prigioni francesi sono tra le peggiori d’Europa, seconde solo a quelle della Moldova, secondo una denuncia del Consiglio d’Europa. Quest’anno, si sono già verificati 86 casi di suicidi o di morti sospette nelle carceri francesi. La cifra è dell’associazione Ban Public, mentre il ministero della giustizia minimizza. Ma l’attuale ministra, Michèle Alliot-Marie, è stata costretta ad avviare un rinnovamento dei luoghi di detenzione più vetusti. In programma c’è la chiusura di 23 carceri entro il 2017. Verranno sostituite da strutture più moderne. Ma Ban Public denuncia queste nuove carceri, ancora più disumane. Il carcere di Grasse non è vetusto, spiega Paris. “Si tratta di un carcere recente - spiega - di un grande centro penitenziario”, caratterizzato, come gli altri, “da sovrappopolazione, dal racket, da traffici di ogni tipo”. La famiglia di Franceschi ha raccontato che Daniele aveva denunciato le condizioni di prigionia, le molestie che aveva subito da parte di altri detenuti. A giugno, in seguito a una denuncia di 6 detenuti del carcere di Caen, un tribunale ha condannato lo stato francese a pagare tra i 500 e i 3mila euro di indennizzo ai carcerati perché costretti a vivere “in condizioni che non rispettano la dignità umana”. Il Comitato dei diritti dell’uomo dell’Onu ha più volte denunciato le condizioni delle carceri francesi. Il governo ha promesso di avere l’intenzione di esaminare “con la più grande attenzione” le raccomandazioni delle Nazioni unite. Ma dalle carceri, anche le più moderne, arrivano informazioni drammatiche. Nel carcere di Mont-de-Marsan, per esempio, tre carcerati si sono suicidiati in quindici giorni nel dicembre scorso. “È la prova che queste nuove strutture non sono adeguate - afferma David Torres, guardia carceraria della Cgt - i detenuti sono qui in celle individuali, ma si sentono ancora più isolati”. Ci sono circa 65mila carcerati in Francia, per una capacità di accoglienza complessiva che non supera i 50mila posti. Così, le celle sono sovraffollate. Vincent Feroldi, cappellano cattolico del carcere di Corbas, racconta: “Per raggiungere la cella più lontana dall’entrata della prigione devo attraversare 19 porte, 18 delle quali devo farmi aprire a distanza, o attraverso un citofono o una videocamera. Quando va bene, il tragitto dura dieci minuti, quando va male venti, o addirittura un’ora quando è il momento della passeggiata”. I parenti di Franceschi hanno denunciato le difficoltà ad incontrare il detenuto Daniele. È la norma nella carceri francesi. “Le preoccupazioni securitarie predominano sempre su quelle umane” denuncia Barbara Liaras dell’Osservatorio internazionale delle prigioni. La madre: ha il naso rotto, in carcere lo hanno picchiato "Ho visto la salma di mio figlio, aveva il naso tumefatto, rotto, con una macchia. Lo hanno picchiato". Lo ha detto la signora Cira Antignano, la mamma di Daniele Franceschi, il 36enne carpentiere di Viareggio (Lucca) trovato morto il 25 agosto scorso in una cella del carcere di Grasse, nel Sud della Francia. Una morte, quella di Franceschi, tinta di giallo. Il suo decesso e' stato comunicato alle autorita' italiane soltanto il giorno dopo, addirittura tre giorni dopo al suo avvocato francese. L'uomo aveva scritto nelle scorse settimane alla mamma, dicendo di subire maltrattamenti e soprusi nel penitenziario transalpino, dove era detenuto da circa 5 mesi con l'accusa di utilizzo improprio di carta di credito. Stamattina si e' svolta l'autopsia all'istituto 'Pasteur' di Cannes, alla presenza della signora Antignano, e di personale medico francese. I risultati verranno resi noti nei prossimi giorni, e' stato spiegato. La madre di Franceschi, che ha potuto vedere la salma del figlio, oltre ad affermare che Daniele "e' stato picchiato, aveva il naso gonfio, rotto" ha anche messo in dubbio la versione del carcere, che ha parlato di morte dovuta a infarto: "Se fosse stato cosi' -ha commentato la signora Antignano- avrebbe dovuto avere il labbro rosso e gonfio, invece il labbro era roseo come una rosa". Nei giorni scorsi la Procura francese aveva affermato che sul corpo di Daniele Franceschi non c'erano tracce di violenza. La signora Antignano ha ribadito la sua richiesta di poter fare esaminare la salma del figlio anche da un medico legale italiano di sua fiducia. Farnesina: il ministro Frattini segue da vicino vicenda Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, continua a seguire da vicino, in stretto raccordo con il consolato generale a Nizza, il caso del cittadino italiano Daniele Franceschi. Lo riferisce una nota della Farnesina. Assistiti dal consolato, la madre e lo zio hanno potuto vedere questa mattina la salma del loro congiunto, prima dell'autopsia condotta da due medici forensi francesi, iniziata alle 10.30 e tuttora in corso. I familiari di Daniele Franceschi hanno successivamente incontrato, alla presenza del console generale Chiesa, uno specialista italiano di medicina legale, allo scopo di fare il punto della situazione. Stati Uniti: per controllare le rivolte dei detenuti verrà utilizato il "raggio del dolore" Ansa, 31 agosto 2010 Il raggio del dolore, il cannone a microonde annunciato anni fa come utile strumento di offesa per contrastare le rivolte popolari, non ha avuto molto successo in mano all'esercito USA. Ma ora si appresta a una rinascita, grazie a una versione ridotta da utilizzare nelle prigioni californiane. L'invenzione è di Raytheon, azienda produttrice di missili e sistemi anti missilistici radar, che è uno dei maggiori contractor nelle forniture per l'esercito americano. Da anni i suoi reparti di ricerca studiano anche le armi non convenzionali, tra cui il famigerato “pain ray”, ovvero il raggio del dolore. In pratica è un'antenna, posizionata sul tetto di un veicolo militare, in grado di emettere fasci di microonde a basse cadenze: nelle persone colpite dal raggio le onde provocano sensazioni di calore e forte dolore, che in pochi secondi diventano insopportabili e costringono la persona a spostarsi dall'azione del raggio. Dopo diverse sperimentazioni sulle lesioni che potrebbero provocare le microonde sul cervello e gli organi interni delle persone colpite dal raggio, oltre che test sull'utilità pratica e offensiva di tali dispositivi, escluse alcune piccole forniture all'esercito Usa, l'arma è stata quasi dimenticata. Ora il Pitchess Detention Center in California ha intenzione di utilizzare il suddetto Assault Intervention Device, il raggio del dolore, per tenere a bada le rivolte dei carcerati. Il dispositivo che verrà utilizzato in ambito carcerario sarà però differente da quello prodotto per l'esercito: sia per le dimensioni, dovrà essere infatti non più grande di una normale pistola, che come impatto e forza, poiché non dovrà causare danni ai reclusi. Per ora è in fase sperimentale, se i test daranno esiti positivi arriverà presto nelle prigioni californiane.