Giustizia: il sovraffollamento delle carceri è emergenza europea, ma questo non ci consola di Giuseppe Anzani Avvenire, 30 agosto 2010 L’estate declina, e il problema delle carceri è rimasto com’era, e resterà com’è. Quella subitanea attenzione d’un momento, quel pensiero ai “poveracci” arrostiti nelle celle mentre noi si pensa al ristoro delle vacanze, quel picco effimero di buonismo che celebra la sua virtuosa inutilità cede ora il passo alla routine del silenzio. Non è accaduto niente frattanto, niente di diverso, i soliti ammassi di corpi in ordinario e normalizzato tormento, i soliti suicidi, le solite disperazioni. Si è macinato dolore, un dolore immenso moltiplicato per gli uomini e per i giorni. Se si è raccolto frutto da questo dolore non lo sa nessuno, non ci sono censimenti sul “bene” che fa il carcere; chiederci a che serve diventa persino un radicale quesito, pensando al futuro. Ci guardiamo attorno, per confrontarci, e scopriamo che la situazione carceraria indegna, la inciviltà carceraria vorrei dire, non è una lebbra tutta italiana. Anche altrove è così. Nel Regno Unito, il sovraffollamento è a un livello insostenibile, l’incremento dei detenuti negli ultimi anni è vertiginoso, l’ingresso dei recidivi dopo aver scontato il carcere tocca il 60 per cento, il clima di violenza smentisce i progetti di riabilitazione. In Francia, quasi metà delle carceri non rispettano le norme europee; e vi si conta un record di suicidi, 115 l’anno scorso. In Spagna, il tasso di sovraffollamento è del pari altissimo. E così in Grecia. Il panorama è sconsolante, persino disperante, ogni volta che si riproducono all’interno delle varie nazioni europee le cifre del disagio, della tossicodipendenza, della fragilità mentale, della malattia, che accompagnano le cifre della punizione dei reati, in un intreccio di concatenata sofferenza. È forse maturo il tempo perché la civiltà europea, la civiltà giuridica comune, o semplicemente la civiltà umana, si chieda il perché del carcere e lo metta in discussione. Non dico “il perché della pena”, dico il perché si è rovesciato il concetto di pena nel “trattamento” del carcere, quest’antica invenzione di tortura per i “nemici”. La nostra Costituzione non parla di carcere, parla di pena e dice che deve consistere in trattamento che tende all’emenda. Se non lo fa, è sbagliato. Ora, quanto il carcere abbia emendato i devianti, negli ultimi vent’anni, ce lo dice la storia e la statistica: negli ultimi vent’anni i carcerati sono raddoppiati, dappertutto, in Italia e in Europa. E anche i dati delle Nazioni Unite dicono che la crescita della popolazione carceraria nel mondo ha assunto l’aspetto di un fenomeno globalizzato. Così adesso il Comitato per la prevenzione della tortura costituito in seno al Consiglio d’Europa dice che il sovraffollamento è “trattamento inumano e degradante” e chiede ufficialmente i Paesi membri di cambiare le politiche punitive. Non aggiungendo nuove celle, bensì chiedendo espressamente soluzioni alternative alla detenzione. Questo fallimento diffuso non attenua la nostra vergogna, la nostra interna tragedia. Piuttosto chiede a noi italiani un soprassalto di coerenza con le nostre radici di civiltà giuridica, di sapienza e di umanesimo. Possiamo insegnare qualcosa al mondo, se vogliamo, proprio in questo campo, se sperimentiamo che la pena è una “penitenza” e una penitenza è qualcosa che salva, non che spezza, non che avvilisce e sciupa il dolore umano. No, basta carceri così. Dobbiamo inventare rimedi di penitenza condivisa, motivata, persuasa. Aspra se occorre, ma orientata al mutamento e all’accoglienza e non più all’espulsione e all’ostilità. Giustizia: carceri fuori dalla Costituzione… ma non si fa nulla per risolvere la tragedia di Ilaria Sesana Avvenire, 30 agosto 2010 “Le carceri italiane sono fuori dalla costituzione”. Che ad affermarlo sia il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, fa ben capire la gravità della situazione in cui si trovano i penitenziari italiani. Il sovraffollamento resta il dato più impressionante: 68mila persone stipate in spazi pensati per contenerne poco più di 47mila (la cosiddetta capienza regolamentare). In teoria, mettendo letti a castello al posto delle brande, si può arrivare a comprimere nelle celle ben 67.707 persone. Oltre a pregiudicare la vivibilità delle carceri, il sovraffollamento ha gravi ripercussioni anche sulla salute dei detenuti (la promiscuità favorisce il diffondersi di malattie), sulla possibilità di accedere ai colloqui con psicologi e volontari. Persino sulla possibilità di lavorare come scopino o porta vitto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: aumenta il numero di richiedenti e i turni diminuiscono. E di carcere si può anche morire. Nei primi otto mesi del 2010 ben 42 detenuti si sono tolti la vita: 36 si sono impiccati, cinque hanno inalato gas, uno è morto tagliandosi la gola. Lo scorso anno (che pure fece registrare il numero più alto di suicidi mai registrato nella storia della Repubblica, con 71 episodi, ndr) i suicidi registrati a fine agosto erano 37, secondo quanto riportato dal dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti. Cinque in meno rispetto al 2010. Cosa fare per affrontare questa situazione? Il 13 gennaio è stato dichiarato “lo stato d’emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale”. Pilastro portante degli interventi previsti dal governo, il “Piano straordinario per l’edilizia penitenziaria”, meglio noto come “Piano carceri” che prevede la realizzazione di nuovi penitenziari e l’ampliamento di molte strutture già esistenti per la creazione di 20mila nuovi posti. Costo dell’operazione: un miliardo e mezzo di euro. Il piano venne annunciato nel gennaio 2009 (quando i detenuti presenti erano circa 58mila, cioè 14mila in più rispetto alla capienza regolamentare) ma, a oggi, non sono stati compiuti passi avanti significativi per la costruzione di nuovi penitenziari. Altro nodo critico, la carenza di personale di polizia penitenziaria: in base alle stime elaborate dai vari sindacati di categoria, gli organici sono sotto dimensionati di circa 6mila unità. Il che rende difficile la gestione delle carceri (spesso un solo agente deve sorvegliare un’intera sezione), comporta turni massacranti e si ripercuote, ancora una volta, sulla vivibilità dei penitenziari. Una macchina, peraltro, estremamente costosa: la spesa media giornaliera pro capite per ogni detenuto è di 113 euro. Nel dettaglio, 95,34 euro (pari all’85% del totale) servono per pagare il personale; 7,36 euro sono spesi per il cibo, l’igiene, l’assistenza e l’istruzione dei detenuti; 5,60 euro per la manutenzione delle carceri; 4,74 euro per il funzionamento delle strutture (elettricità, acqua, etc.). Irrisorie le cifre spese per il “trattamento della personalità ed assistenza psicologica” (otto centesimi al giorno), mentre per le “attività scolastiche, culturali, ricreative, sportive”, vengono spesi 11 centesimi al giorno per ogni detenuto. Giustizia: il Garante contro la tortura, che in Italia ancora non c’è di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Terra, 30 agosto 2010 Pochi sanno cos’è il “National Preventive Mechanism”. Nel linguaggio specialistico dei cultori del diritto internazionale dei diritti umani è l’organismo che deve essere istituito da ogni paese che ratifica il Protocollo addizionale alla Convenzione Onu contro la tortura. Al pari di istituzioni sopranazionali deve trattarsi di un organismo indipendente nazionale a cui è assegnato il compito di ispezionare, monitorare tutti i luoghi di detenzione. L’Italia, a fine agosto di sette anni fa - era in campo un altro governo Berlusconi - per mano della sottosegretaria agli esteri Margherita Boniver, provvide a firmare il Protocollo. Poi né il primo Berlusconi, né l’esecutivo di Romano Prodi, né il secondo governo Berlusconi lo hanno ratificato. Per cui il Protocollo non è attualmente in vigore per il nostro Paese. Antigone due anni fa ha deciso di istituire un suo difensore civico proprio perché le istituzioni glissavano intorno alla richiesta di introdurre figure di garanzia istituzionali. Talune regioni hanno introdotto organismi di tutela su base territoriale: i garanti delle persone private della libertà. Per settembre Nichi Vendola ha preannunciato la nomina del garante pugliese. Operativi sono al momento quattro garanti: il laziale, il siciliano, il campano, il marchigiano. Le loro competenze sono però limitate. Possono esercitare i poteri cogenti solo nei confronti dell’istituzione regionale da cui dipendono e da cui sono nominati, non certo verso l’amministrazione penitenziaria contro cui può essere usata solo la classica moral suasion. Una moral suasion tutto sommato paragonabile a quella che noi di Antigone con il nostro difensore civico abbiamo esercitato in questi due anni, puntando sulla autorevolezza e la storia personale del nostro difensore civico, sulla competenza, la qualità e la dedizione dei nostri operatori. Pertanto è decisiva la forza morale del Garante. Detto questo risulta chiaro che non può essere la costellazione dei garanti regionali, come vorrebbe il Governo, a rappresentare ufficialmente il National preventive mechanism italiano. I garanti regionali sono privi di poteri effettivi di contrasto con lo Stato. Possono interloquire solo con le regioni, che però si occupano di sanità e poche altre cose. A settembre il Governo italiano dovrà rispondere al Comitato sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, istituito dall’omonimo Patto del 1966, sullo stato dei diritti umani nel nostro Paese. Noi presenteremo all’Onu le nostre osservazioni supportate dal racconto di due anni di lavoro che costituiscono una prova inconfutabile della necessità di occuparsi nazionalmente, istituzionalmente e quotidianamente dei diritti delle persone detenute. Giustizia: Favi (Pd); le carceri sono un abisso, che divora detenuti e agenti Italpress, 30 agosto 2010 “L’ennesima aggressione avvenuta presso il carcere di Genova Marassi ai danni del personale di Polizia Penitenziaria, a cui va la nostra solidarietà, segnala l’incancrenimento di una situazione che si fa sempre più disperata”. Lo afferma in una nota Sandro Favi, responsabile carceri del Pd. “Le aggressioni al personale penitenziario sono l’effetto di carceri sovraffollati, di tagli al personale, di condizioni di vita all’interno degli istituti di pena disastrose, indegne di un paese civile. Siamo di fronte ad un vero universo concentrazionario che divora detenuti e personale di polizia penitenziaria. In questo abisso i suicidi sono all’ordine del giorno e, temo, non manchi molto a che la violenza possa produrre vittime anche tra il personale carcerario. Il governo è ora che intervenga perché la situazione è oltre ogni limite logico ed umano”. Giustizia: Sappe; intervenire subito su continue aggressioni contro agenti Adnkronos, 30 agosto 2010 “Dopo le proteste dei detenuti, le risse, i tentativi di suicidio e le continue violenze contro il Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Genova Marassi, ancora un grave episodio di violenza nel penitenziario della Valbisagno”. In una nota, Donato Capece e Roberto Martinelli, rispettivamente segretario generale e commissario straordinario per la Liguria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, raccontano che ieri mattina c’è stata una nuova aggressione ad un poliziotto penitenziario a Marassi, l’ennesima. Alle 10.30 circa - scrivono - un detenuto straniero della Bosnia Erzegovina di circa 30 anni, ristretto nella Seconda sezione detentiva del carcere nel rientrare in cella dopo aver fatto la doccia ha proditoriamente aggredito, prima verbalmente e poi fisicamente, l’agente in servizio presso quel reparto: dopo avergli sputato, con un manico di scopa lo ha colpito alla testa, alle spalle ed alla schiena. Nonostante tutto - aggiungono - l’agente è riuscito ad evitare più gravi conseguenze. Al collega va naturalmente la nostra vicinanza e solidarietà, ma ci domandiamo quante aggressioni ancora dovrà subire il nostro personale perché si decida di intervenire concretamente sulle criticità di Marassi?. I sindacalisti si dicono preoccupati di questa nuova aggressione: “la carenza di personale di polizia penitenziaria a Marassi (oltre 160 Agenti in meno negli organici), il pesante sovraffollamento (quasi 800 detenuti presenti a Marassi, circa il 60% gli stranieri rispetto ai 450 posti letto regolamentari, con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite e soprattutto di chi in quelle sezioni deve lavorare rappresentano lo Stato come i nostri Agenti) - fanno notare - sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Spesso - sottolineano - come a Genova Marassi, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. La verità è che ci sembra mancare in Liguria una guida dell’Amministrazione penitenziaria regionale in grado di risolvere le molte criticità. E intanto le tensioni in carcere crescono in maniera rapida e preoccupante: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli agenti e alle strutture. E bisogna che chi aggredisce gli Agenti sia punito con severità e fermezza!. I due leader del Sappe aggiungono poi che sgomenta constatare la frequente periodicità con cui avvengono queste aggressioni ma ancora di più la sostanziale inerzia dell’Istituzione penitenziaria regionale sulle gravi criticità di Marassi, che sembrano gestire la costante criticità penitenziaria regionale con un piglio burocratico e notarile. Secondo Capece e Martinelli servono provvedimenti veramente punitivi per i detenuti che in carcere aggrediscono gli agenti o provocano risse, ad esempio un efficace isolamento giudiziario o anche, in analogia a quanto avviene ad esempio in America, che i detenuti più aggressivi possano essere eventualmente contenuti anche nelle sezioni detentive con manette e catene. In una situazione di emergenza, come è quella attuale, servono provvedimenti straordinari. Bisogna dare soluzioni concrete e certe per Marassi - concludono - dove i poliziotti penitenziari sono sempre più sotto organico e da soli nella prima linea delle sezioni detentive a gestire le continue tensioni e situazioni di pericolo. Lettere: Volontariato Giustizia; “carcere della resistenza” per riuscire ad attuare le leggi Ristretti Orizzonti, 30 agosto 2010 Come Cassandre inascoltate avevamo da anni previsto, annunciato e denunciato l’ingestibile situazione carceraria attualmente in atto, inevitabile in assenza di correttivi giuridici e sociali. I trofei ideologici delle campagne contro poveri, migranti, tossicodipendenti, disagiati, trovano compiutezza nello sfacelo dell’attuale situazione, nelle condizioni in cui vivono i detenuti, nella tragica conta dei suicidi e delle morti in carcere . Il volontariato della giustizia non è certo avvezzo a false speranze, ma non potevamo immaginare che così poca umanità potesse permeare l’anima e la coscienza di che è deputato a gestire l’universo carcerario. I tentativi di affossamento di quelle leggi che larga parte del mondo ci invidia - dalla riforma penitenziaria, alla Gozzini, alla riforma psichiatrica - offrono il polso della attuale situazione: le campagne per la sicurezza hanno prodotto maggiore insicurezza. Le carceri sono piene di consumatori di droghe, di persone in attesa di giudizio, di migranti, e paiono dirigersi in un viaggio, che pare senza ritorno, lontano dal buon senso e dall’umanità. In perfetto stile bipartisan i politici si sono alternati in un carosello di divisioni, scambi di accuse, ridefinizioni, temporeggiamenti, competizioni di visibilità intorno ad un decreto ormai così stralciato da risultare quasi inutile. Eppure, nemmeno quello è passato, nessuno si è assunto la responsabilità di offrire un seppur minimo di respiro e di speranza ad una popolazione detenuta stremata. Solo visite ferragostane. Viene tristemente in mente la Marcia di Natale di qualche anno fa, anch’essa densa di presenze politiche, organizzata dopo un mese dall’approvazione della legge ex Cirielli. Veramente la realtà di una politica così cieca e sorda alle voci del sociale supera ogni fantasia. In una materia come questa, che tocca corde sostanziali del diritto, non andrebbero espresse timidezze; bisognerebbe operare con forza sul fronte delle riforme legislative e sulle politiche sociali; servirebbe una chiara azione riformatrice. Vedremo alla ripresa dei lavori parlamentari se gli impegni, assunti sull’onda dello sdegno vissuto nelle visite in carcere, saranno realistici o rimarranno la solita carta straccia, come del resto ogni altro impegno della politica per una vera riforma delle carceri. Il timore è che, ancora una volta, assisteremo ad indignazioni passeggere. Le più difficili da tollerare saranno di coloro che hanno potere decisionale che non sarà messo a servizio della tutela dei diritti ma per deliberare in funzione del carcere, ma non per i carcerati. La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia si adopererà perché queste visite non siano un’altra occasione perduta, una sfilata di personaggi più o meno noti, ma servano a rilanciare una piattaforma unitaria tra i protagonisti reali del cambiamento: tutti coloro che ogni giorno, si impegnano in prima persona nella direzione di una pena costituzionalmente orientata. Quando si discute del carcere, si dovrebbe discutere di questo: di camere oscure e oscurate al mondo, di luoghi ciechi, muti, privati di diritti. Dove le parole della Costituzione rimangono solo modi di dire. Noi ci siamo. Ci siamo sempre stati. Ora ci attendono ancora tempi di mobilitazione e protesta pacifica per tenere accesa la fiaccola della ragione. Già molti gruppi della Cnvg si sono attivati con iniziative volte a sollecitare l’attenzione delle istituzioni, della politica, della cittadinanza. Sono state realizzati incontri, conferenze stampa, autosospensioni dal servizio, l’allestimento della “Cella in Piazza”ed una serie di altre iniziative per richiamare una nuova e diversa attenzione delle istituzioni centrali e territoriali sul problema del carcere, chiamando in causa anche gli Enti Locali. Andrebbe immediatamente attivato un “Piano sociale straordinario per le carceri” di sostegno al reinserimento sociale per coloro che escono o che potrebbero uscire dal carcere, attraverso la formazione, il sostegno lavorativo, l’attivazione del terzo settore e dell’associazionismo. Sosteniamo l’invito e l’appello rivolto alla Cnvg da Alessandro Margara al “carcere della resistenza”. Questa espressione può riferirsi anche a quegli istituti che, nonostante le difficoltà ed il vento contrario, cercano di attuare la legge, dimostrando che un altro carcere è possibile, quello appunto che la legge descrive. Il volontariato è parte di queste “sacche di resistenza”. La mobilitazione proclamata a livello nazionale dalla Conferenza Nazionale Volontariato della Giustizia, che continuerà ad articolarsi nei prossimi mesi, ne è testimonianza diretta e concreta. Elisabetta Laganà, Presidente della Cnvg Lettere: la Sezione “Casa di Lavoro” a Sulmona è come un “braccio della morte” Il Centro, 30 agosto 2010 Il responsabile del dipartimento diritti e garanzie del Pd della provincia dell’Aquila, Giulio Petrilli, ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia Alfano “per denunciare - afferma - l’oramai irreversibile situazione di invivibilità del carcere di Sulmona che definisco con molto realismo nelle sezioni Case Lavoro bracci della morte”. “I dati - sostiene Petrilli - parlano di continui suicidi, continue morti per overdose, morti superiori alle carceri americane dove sono i bracci della morte. Questa agghiacciante scoperta, deve indurci ad una profonda riflessione ed ad un drastico cambiamento di rotta nella politica carceraria che il governo deve assolutamente assumersi. La lettera al Ministro Alfano vuole andare in questa direzione, ma più in generale nessuno più può mettere la testa sotto la sabbia, rispetto a questa situazione che evidenzia come non ci sia nessuna differenza tra un braccio della morte e un carcere come Sulmona”. Qui sotto, la lettera inviata al guardasigilli Alfano. “Gentile Ministro, qualche giorno fa un altro detenuto è morto nel carcere di Sulmona, overdose o suicidio sono le ipotesi, è il terzo dall’inizio dell’anno in quel carcere, il sedicesimo negli ultimi anni. Dati impressionanti che fanno sì che in particolare le sezioni della casa lavoro, dove avvengono la maggioranza dei suicidi, possano essere classificate come veri e propri bracci della morte. Un’affermazione forte ma vera, alla quale va posto rimedio con la sua immediata chiusura. I bracci della morte di Levingston nel Texas, o di San Quentin in California, fanno meno morti del carcere di Sulmona, nel carcere di Sulmona che la morte arrivi per impiccagione o con iniezione letale e non con scariche elettriche o che la morte non arrivi tramite il boia , ma tramite loro stessi che cambia?Chiudiamo quel braccio della morte, ristabiliamo un po’ di legalità e diritto dentro le carceri ed in particolare in quello di Sulmona. Affermo queste cose, perché conosco molto bene il suddetto carcere che ho avuto modo di visitare tante volte negli ultimi anni, vada a verificare Lei in persona la situazione di quel carcere e poi vedrà che ciò che ho scritto non è una estremizzazione ma una constatazione della realtà”. Giulio Petrilli Responsabile prov. Pd dipartimento diritti e garanzie Firenze: dai Radicali un appello a Comune e Regione per la scuola a Sollicciano Ansa, 30 agosto 2010 L’Assessore alla pubblica istruzione del Comune di Firenze Rosa Maria Di Giorgi giudica contraddittorio il nostro appello alle istituzioni locali perché non vengano soppresse le classi a Sollicciano. Avendo avuto modo di visitare Sollicciano col Sindaco Renzi e la Di Giorgio stessa, abbiamo notato come vi fosse un sincero interesse da parte dell’amministrazione comunale alle drammatiche situazioni in cui versa il pianeta Sollicciano, stessa attenzione non è mai stata riscontrata da parte del Governo al quale ci appelliamo quotidianamente e il cui comportamento fuorilegge presto denunceremo davanti alla Corte europea dei diritti umani. Non sarà mica che anche a casa nostra si pratica la politica dell’annuncio... Si tratta di raccogliere intorno a un tavolo, come la Regione Toscana si è impegnata a fare all’inizio dell’anno, tutti gli enti che hanno competenze attinenti alla detenzione per fare sforzi, ripetiamo, sforzi, per ridurre di un minimo i danni allo stato incostituzionale delle carceri italiane. Lecce: Uil; record storico di detenuti presenti, quasi 1.500 in 650 posti Comunicato stampa, 30 agosto 2010 “Oggi, alle ore otto i detenuti presso Borgo San Nicola sono 1.485. Questo dato numerico rappresenta il record storico per il nuovo complesso penitenziario leccese. Da Gennaio ad oggi due detenuti suicidatisi in cella e 11 tentati suicidi sventati in extremis dalla polizia penitenziaria. È questo un bilancio pesante e disarmante, che grava sulle coscienze di chi, preposto alla Direzione del Carcere di Lecce, non ha saputo dare adeguate risposte alle incivili ed illegali condizioni di detenzione e sopratutto di lavoro all’interno di uno dei più grandi penitenziari europei, nonostante la esuberante presenza di cinque dirigenti penitenziari in loco. Vogliamo sperare che almeno il commissario straordinario delle carceri Dott. Franco Ionta, con nomina governativa, e gli alti e lautamente retribuiti papaveri dell’Amministrazione Penitenziaria, dopo le “meritate ferie” e l’ennesima visita ispettiva, nonché i nostri politici, dopo le loro visite agli “zoo” carcerari di ferragosto, sappiano, e vogliano, trovare quelle soluzioni necessarie al sistema penitenziario leccese e alla comunità penitenziaria. In tal senso non mancheremo di organizzare iniziative sul territorio salentino che sensibilizzino gli organi di governo, quale il Prefetto, ed il Sindaco della città di Lecce, istituzioni che sino ad oggi hanno totalmente girato il volto dall’altro lato. Metteremo in campo iniziative che producano un inversione d’attenzione verso il mondo carcerario, visto che si dice che lo stesso rappresenti lo specchio della società salentina. Come speriamo, altresì, che il “sensibile”governatore pugliese voglia, come ultima regione in Italia, dopo la festa per il suo compleanno in quel di Porto Cesareo, effettuare la nomina del “Garante dei detenuti” totalmente dimenticata, e magari fare una visita nel carcere del capoluogo leccese. Questo il commento del Segretario Regionale Uil Penitenziari della Puglia, Donato Montinaro, alla sopraggiunta notizia dell’ennesimo tentativo di suicidio presso Borgo San Nicola. Nella notte tra il 24/25 agosto, un giovane detenuto, cause le difficoltà di vedere i suoi due piccoli figli, lo stesso ricoverato presso il reparto infermeria ha tentato convintamente di impiccarsi, salvato solo dalla professionalità degli agenti penitenziari in servizio nel turno notturno. La Uil Penitenziari pugliese rilancia l’allarme sullo stato del sistema penitenziario leccese, sotto l’aspetto custodiale, sanitario ed amministrativo. Il segretario regionale, il calimerese Donato Montinaro, a commento, aggiunge “Nelle attuali condizioni di detenzione non è possibile svolgere attività trattamentali, e neanche custodire, e così che il carcere leccese è tornato ad essere l’ università del crimine ed il luogo dove i servitori dello Stato vengono quotidianamente umiliati dagli stessi “utenti”. Entri ladruncolo ed esci mafioso” entri “poliziotto” ed esci “secondino” Donato Montinaro, segretario regionale della Uil Pa Penitenziari, in servizio effettivo a Borgo San Nicola, è convinto che “il percorso di espiazione” non si debba necessariamente svolgere in cella “la certezza della pena - osserva - non significa chiudere a chiave la cella e buttare la chiave”. Al contrario, una puntuale applicazione delle pene alternative, da parte della Magistratura di Sorveglianza leccese, sempre molto “trattenuta” anche se proba, per i detenuti che ne hanno i requisiti “è propedeutica a due obiettivi: la deflazione del sovraffollamento e la rieducazione del detenuto, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. “Abbiamo più volte negli ultimi tredici anni - ricorda Montinaro - richiamato l’attenzione sul grave sovraffollamento delle struttura salentina e l’esiguità, unita ad una fallimentare gestione, dei contingenti di polizia penitenziaria. Occorre ricordare che la ricettività ordinaria dell’ istituto leccese assomma a 650, ma si registra la presenza di 1485 detenuti. Ed è proprio sul penitenziario di Borgo San Nicola che il Segretario Regionale focalizza l’attenzione non risparmiando considerazioni critiche: “Oggi i detenuti presenti sono 1.485 contro i 650 ospitabili, ciò pone Lecce al secondo posto della classifica degli istituti più affollati d’Italia, dopo Caltagirone. Ma come abbiamo più volte denunciato non è solo il sovraffollamento, che pure incide, il solo problema di Borgo San Nicola. Non possiamo non rilevare come, nel mentre il personale deve dibattersi tra infinite criticità ed emergenze, il Direttore ed il Comandante siano in ferie contemporaneamente, nonostante gli espressi divieti del Dipartimento. Con un Provveditore Regionale sul posto questo, forse, non sarebbe potuto accadere. Anche l’organizzazione dell’istituto mostra più di qualche lacuna. Oramai, in assenza totale di manutenzioni ai fabbricati ed ai servizi, la struttura è in uno stato di totale inefficienza. Nei turni notturni salta, per molte ore, l’energia elettrica ed i gruppi elettrogeni interni non sono per nulla sufficienti a sostituire la rete pubblica, lasciando il personale e la popolazione detenuta nel totale buio ed isolamento. Non è del tutto inutile sottolineare come dei 718 agenti in forza 127 siano assenti per malattia, 57 avviati alla Commissione Medica Ospedaliera di Taranto per patologie da stress o ansiose-depressive. Delle unità restanti circa 200 sono assenti a vario titolo (ferie comprese) . Ciò determina dover espletare turni da 8/9/ e 10 ore al giorno, senza tra l’altro poter garantire i livelli minimi di sicurezza previsti. Ma sono - denuncia Montinaro - proprio le assenze per malattie, mai in così grande numero regitrate, un chiaro indicatore delle criticità in atto. La frustrazione e il malessere coniugate alla sensazione dell’abbandono nella più completa solitudine sono fattori patogeni di quella depressione che si riscontra nelle prognosi dei medici. Eppure si cerca di garantire il servizio mantenendo alta la soglia dell’attenzione e della vigilanza. Però - conclude Montinaro - nel momento di maggiore difficoltà per il personale appare davvero difficile capire la ratio per la quale la Direzione ha voluto organizzare diverse attività ricreative per i detenuti, nell’odierna stagione estiva. Possiamo condividere la necessità di alleviare le condizioni incivili e disumane della detenzione. Ma non è giusto farlo solo con i sacrifici del personale di polizia. Questa situazione e questo aumento delle attività genera un surplus stratosferico di lavoro straordinario di cui non è garantita la copertura economica. Uil Pa Penitenziari Puglia Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; detenuta trasferita otto volte in due anni Ansa, 30 agosto 2010 Una detenuta è stata trasferita otto volte in due anni, con un trasferimento ogni tre mesi. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione ‘Socialismo Diritti Riformè che ha raccolto l’appello del marito della donna, Gennaro D’Antonio, infartuato, in sedia a rotelle, con il 90% d’invalidità e disturbi psichici, detenuto nel carcere cagliaritano di Buoncammino. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - afferma Caligaris - merita l’iscrizione d’ufficio nel Guinness world record. È riuscito a far trasferire Anna Lucarella, di 47 anni, condannata a 10 anni di reclusione in primo grado a Cagliari, da Pozzuoli, dov’è stata arrestata il 16 settembre 2008, a Palermo in cui si trova adesso, attraverso, tra gli altri, Cagliari, Bari, Messina, Taranto. Un record difficilmente eguagliabile fuori da qualunque logica e contrario ai diritti delle persone private della libertà. Una situazione paradossale considerati i costi delle traduzioni - conclude Caligaris che ha ricevuto una lettera dalla detenuta - anche alla luce dei continui richiami ai risparmi, con costanti tagli all’istruzione, all’igiene, alle attività di recupero e risocializzazione dei detenuti. Lucarella ha chiesto di essere trasferita vicino a Ercolano dove vivono i figli di 12 e 14 anni. Genova: Uil; ancora un’aggressione al carcere di Marassi, responsabilità del Governo Ansa, 30 agosto 2010 “Ieri intorno alle ore 11.00 nel carcere genovese, un detenuto bosniaco di poco più di trent’anni ha aggredito un agente di polizia penitenziaria. Un bilancio pesante quello che presenta l’istituto genovese, ma ancor di più l’intera Regione Liguria che con quella di ieri conta 25 aggressioni dall’inizio dell’anno” a dichiararlo è il Segretario Regionale Uil Penitenziari Liguria, Fabio Pagani, che non usa mezzi termini, “l’istituto genovese ribolle, le alte temperature, il caldo infernale non fanno altro che alimentare quel nervosismo e quella tensione che il sovraffollamento genera. Per la cronaca - continua Pagani - il detenuto bosniaco che è ristretto presso la seconda sezione, per motivi ancora poco chiari ha aggredito con estrema violenza, con schiaffi, pugni e addirittura sputi il malcapitato agente. Solo l’intervento dei rinforzi ha evitato il peggio, ma il poliziotto che trasportato d’urgenza in ospedale ha riportato una prognosi di 10 gg. La Uil Penitenziari oltre a sottolineare il sovraffollamento della struttura, polemizza con i vertici dipartimentali sulla gestione del personale. Cifre da brividi - continua Pagani - l’istituto genovese annovera 780 detenuti (dato rilevato alle ore 24 del 29 Agosto) con una capienza regolamentare di 450 detenuti e una carenza organica di Polizia Penitenziaria di circa 160 unità. Oggettivamente continua il sindacalista - un’Amministrazione irresponsabile che sembra avere come unico obiettivo quello di triplicare le presenze dei detenuti nelle celle. Occorre valutare anche le responsabilità notevoli ed evidenti del Governo, del Ministro Alfano, ma dello stesso Parlamento. Dal Governo troppi annunci e promesse mancate, dal Parlamento solo discussioni vacue e tempi incompatibili con l’emergenza e il dramma penitenziario. Nel frattempo in carcere si muore, considerati i 44 suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri dell’intero paese, anche se per fortuna e sopratutto per merito dei poliziotti penitenziari, in Liguria non se ne contano. Una situazione al limite della tolleranza aggiunge Pagani - e il monito è rivolto a quei politici che hanno organizzato le visite nelle carceri in questo ferragosto, senz’altro il mio plauso all’iniziativa, ma considerati i risultati (mancati) non posso e non voglio esimermi dal sottolineare che tali iniziative in fondo non si esauriscano come solo effimere passerelle inutili alla causa”. Saluzzo (Cn): Osapp; tentativo di evasione, pochi agenti e le mura non sono controllate Apcom, 30 agosto 2010 Tentativo di evasione ieri al carcere di Saluzzo (Cn). Intorno alle 15 un detenuto del regime ordinario, che deve finire di scontare la pena nel 2022, è riuscito a scavalcare indisturbato le mura dei passeggi, ed è stato trovato e fermato dagli agenti di polizia penitenziaria vicino a una gru dell’area dove stanno costruendo il nuovo padiglione della casa circondariale. Il problema, spiega, Leo Beneduci, segretario nazionale dell’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, “è che il personale è talmente scarso che non esistono controlli nella zona delle mura di confine, non ce lo possiamo permettere”. “È già un miracolo - spiega il sindacalista - riuscire a fermare episodi di questo tipo. Il carcere di Saluzzo ha 430 detenuti, ma la capienza prevista è di 196, con una tollerabilità di 298 unità. Centodieci detenuti oltretutto sono particolarmente pericolosi. Il personale di polizia, che dovrebbe attestarsi a 250 uomini, è ridotto a 168. A Saluzzo sono state messe le terze brande in celle da due e la situazione è insostenibile”. Spoleto (Pg): anche un detenuto nel gruppo per la manutenzione del verde pubblico Asca, 30 agosto 2010 Proseguono le azioni che vedono impegnato l’ufficio del Comune di Spoleto preposto alla cura dell’arredo urbano per il progetto di miglioramento della qualità urbana e di arredo della città quale momento qualificante ed omogeneizzante degli spazi urbani collettivi. Durante i mesi estivi sono stati effettuati diversi interventi di pulizia e di manutenzione del verde, è stata rivista e in parte sostituita la vecchia segnaletica ed è stata avviata sia la progettazione per un sistema unico di segnaletica stradale e turistica sia per la nuova illuminazione nell’area del centro storico. Gli interventi già effettuati, così come quelli programmati nei prossimi mesi, stanno seguendo e seguiranno le linee del nuovo Regolamento per l’arredo urbano e il nuovo Piano dell’arredo urbano che permetterà di individuare ulteriori nuovi elementi da acquistare (cestini, tavoli, sedie, fioriere, etc.). La città inoltre partecipa, primo comune in Umbria, al concorso nazionale “Comune Fioriti d’Italia” un progetto di valorizzazione e sensibilizzazione alla qualità del verde pubblico e del decoro urbano che vede coinvolti circa 150 comuni italiani. “Quello dell’arredo urbano” ha detto il sindaco Daniele Benedetti “è uno degli obiettivi principali di questa amministrazione. Stiamo cercando, nonostante il generale clima di austerity e le difficoltà finanziarie dovute alle minori entrate da parte del governo centrale, di lavorare duro per dare alla città un nuovo decoro e una piacevolezza che non si limitano ad una sistemazione visiva ed esteriore. Ci interessa un miglioramento della qualità urbana complessiva e un innalzamento degli standard di vivibilità. Il progetto di “Comuni fioriti” nasce proprio da queste considerazioni , nella consapevolezza che essere all’interno di un circuito di questo genere, anche a livello di visibilità, non può che aiutarci nel raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo posti”. Del gruppo di lavoro dell’ufficio dell’arredo urbano, del Comune, coordinato dal dirigente Antonella Quondam Girolamo, fa parte anche un detenuto della casa di reclusione di Maiano di Spoleto, ammesso al lavoro esterno dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che, grazie ad un percorso di inserimento lavorativo, collabora dallo scorso luglio, cinque giorni su sette, dalle 8.30 alle 13.30 con due rientri pomeridiani dalle 15 alle 17.30, alla cura delle verde e delle fioriere e svolge anche altri incarichi di piccola manutenzione. Le esperienze di reinserimento al lavoro dei detenuti ed ex detenuti” ha spiegato l’assessore Margherita Lezi che è incaricata del progetto “si pongono in sintonia con i programmi formativi e occupazionali sviluppati all’interno della Casa di Reclusione di Spoleto, che vedono coinvolti i vari soggetti istituzionali, le associazioni di categoria ed il terzo settore, anche in applicazione delle intese sin qui stipulate tra il Comune di Spoleto, la Direzione della Casa di Reclusione, l’ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) del Ministro della Giustizia di Spoleto e la Provincia di Perugia. Ciò consente di sviluppare azioni finalizzate a favorire l’inclusione lavorativa dei detenuti, attraverso programmi di formazione e percorsi di reinserimento lavorativo anche con la collaborazione del Servizio di Accompagnamento al Lavoro che vede impegnati detenuti in attività, sia interne che esterne alla Casa di Reclusione”. Avellino: “Rock in carcere” nella Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi Asca, 30 agosto 2010 Grande successo per la seconda edizione di “Rock in carcere” che si è svolta presso la Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi diretta dal dottore Massimiliano Forgiane. Alla realizzazione dell’evento hanno dato un brillante contributo gli agenti e il comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’intero personale lavorativo nonché i volontari. Nel corso delle due serate di “Rock in carcere” che, per l’alto valore sociale hanno ottenuto il patrocinio morale della Croce Rossa Italiana, si sono svolti anche incontri-dibattiti con quattro detenuti che hanno risposto alle domande dei giornalisti e a quelle rivolte dal pubblico. Sono stati anche trasmessi filmati di testimonianze dal carcere. La manifestazione “Rock in carcere” rappresenta dunque un evento singolare su scala provinciale e regionale che dà la possibilità ai cittadini di verificare e approfondire soprattutto attraverso filmati e testimonianze quelle che sono le attività finalizzate al recupero e al reinserimento dei detenuti dell’istituto penitenziario altirpino. Libri: “L’ultima fuga”, di Renato Vallanzasca e Leonardo Coen di Marco Imarisio Corriere della Sera, 30 agosto 2010 Il fiore del male ormai è appassito. Si vede, e si legge. Una volta posato il libro viene in mente il crepuscolo. Renato Vallanzasca è un uomo stanco. “L’atteggiamento da sempre sicuro di sé, autoreferenziale e apparentemente invincibile, pare vacillare sotto il peso degli anni e del deterioramento fisico, difficile per lui da accettare ma costituente la base di realtà su cui costruire presente e futuro”. Questo impietoso passaggio della relazione stilata dagli operatori del carcere di Bollate costituisce anche una possibile sintesi de “L’ultima fuga” (Baldini & Castoldi, 368 pagine, 18 euro, in libreria dal 31 agosto), scritto dall’ex bandito più famoso d’Italia con Leonardo Coen. Un congedo, la presa d’atto definitiva che nulla resiste alle scosse del tempo, neppure il presunto mito nato intorno alla figura dell’ex re della Comasina - definizione che il diretto interessato non ha mai gradito - e alla sua parabola criminale, destinato ad essere rivissuto attraverso le immagini del film di Michele Placido, uno degli eventi più attesi e discussi del Festival di Venezia. Vallanzasca, riveduto e corretto. Quattro ergastoli e 260 anni di carcere, quattro sequestri di persona, innumerevoli rapine, scontri a fuoco, evasioni, sommosse carcerarie, sei omicidi. Anzi sette. All’elenco va aggiunto anche quello di Massimo Loi, un ragazzo di vent’anni che faceva parte della sua banda. Aveva sgarrato. Durante una rapina a Como aveva chiamato il bandito con il suo nome di battesimo. Si era fatto dare una Maserati da un concessionario di lusso sfruttando il nome del capo, e lo stesso aveva fatto con una partita di droga acquistata dai clan calabresi. Soprattutto, aveva fatto da autista a due altri compari che avevano picchiato i genitori di Vallanzasca e devastato il loro appartamento per farsi consegnare cento milioni di lire. I conti vengono regolati durante la rivolta nel carcere di Novara, dove lo “sbarbato” e il capo sono entrambi detenuti. Un massacro. Due coltellate al petto, un’altra allo stomaco, l’ultima per squarciare la gola. Il corpo verrà poi smembrato da altri detenuti, così almeno sostiene Vallanzasca, che per la prima volta si attribuisce la paternità del delitto, l’esecuzione materiale, che finora era sempre stata rivendicata da Vincenzo Andraous, altro ex della sua banda, il killer delle carceri. Nel 2005, durante una intervista a Giovanni Minori, si era lasciato scappare una mezza ammissione. Nel 2006, intervista a L’Europeo, se l’era poi rimangiata. Questa volta se ne fa carico, e la versione dovrebbe essere definitiva. È stato infine lui a “intrattenersi brutalmente” con Loi, il virgolettato è suo. Sono passati dieci anni da II fiore del male (Marco Tropea Editore), l’autobiografia scritta con Carlo Bonini, alla quale si ispira il film con Kim Rossi Stuart nei panni del fu bel René. E dieci anni sono lunghi da passare, soprattutto se vissuti dentro 0 intorno a un carcere. L’ultima fuga sceglie di raccontare questo Vallanzasca, immerso in un tempo e in una città, Milano, che non sono più suoi, non gli appartengono. Mostra le rughe dell’improprio mito costruito intorno alla figura del bandito. Racconta l’ex re della mala, oggi. Lui si fa rubare la bicicletta, “come uno sbarbato” direbbe lui, e per questo viene cazziate dalla moglie. Arriva sul set de Gli angeli del male e per un riflesso pavloviano capisce come sarebbe facile allontanarsi, sparire, evadere per l’ultima volta. Ma non ci sono più le gambe, le forze, e nemmeno la volontà. Vallanzasca sa bene che il suo tempo è passato, restano solo i rimpianti. E lascia intendere di non aver gradito la cristallizzazione cinematografica del suo passato fatta da Placido. “Non mi libererò mai da questo marchio fatto di sangue e sesso. Rischio di passare per uno psicopatico, che non riesce arrivare alla sera se non ha fatto una rapina 0 peggio, e non riesce a far l’alba se non si è fatto almeno una trombata”. Ricordare è il lusso dei detenuti, ricordare e immalinconirsi. Coen ripercorre il passato di Vallanzasca alla luce di quel che è diventato ora. Un pensionato che entra ed esce dal carcere, al quale rubano la bicicletta. L’ultima fuga è quasi un antidoto alla fascinazione del male, alla tentazione, sempre presente con le figure negative, di edificare un mito su gesta ben poco nobili. Leggerlo in controluce al film potrebbe essere un esercizio salutare. L’ex bandito non si è mai pentito, ma questo non significa rivendicare, anzi. “Non c’è nessuna Damasco sul mio cammino, ma la semplice constatazione di un fallimento. Di scelte errate. Non rifarei la vita che ho fatto. Ho procurato troppi dolori a me, ai miei familiari, a quelli che non conosco. Ho commesso errori che mi bruciano. A cui non c’è rimedio. Il mio sogno è quello di poter essere utile, in questo spicchio di fine esistenza. Di lavorare con i ragazzi difficili. Non so se ne avrò la possibilità: per ora mi è capitato di incontrarli qualche volta. A loro ho sempre detto: non imitatemi. Nessuno meglio di me sa dissacrare i miti. A partire dal mio. Che mito è quello di uno che ha trascorso due terzi della propria vita in galera?” Vallanzasca rinnega il mito di se stesso, ma al tempo stesso non si sottrae alla sua celebrazione. E così, dopo la confessione su Loi, c’è la rievocazione della ligèra, del suo Sessantotto, del milieu milanese, e i giudizi sugli altri grandi criminali dell’epoca. Raffaele Cutolo? “Un uomo degno del massimo rispetto perché è uno dei pochi che con tutta la galera che si ritrova sulle spalle ha ancora dignità da vendere”. Angelo Epaminonda, il tebano? “Un cumulo di monnezza. A me ricordava solo un cameriere che faceva e serviva panini in bisca”. A seguire, in coda, una Guida Michelin delle patrie galere, redatta in prima persona. La quotidianità e i pensieri di un detenuto celebre che lavora in una cooperativa sociale e continua a sperare nella libertà vigilata sono forse la parte più importante e interessante del libro. Ma la merce da vendere è ancora la solita, antiquariato del crimine risalente a quegli anni folli e stupidi dove anche lui - ora - fatica a vedere il romanticismo. L’ex bandito lo sa, e si presta al gioco. Ogni volta che si immerge nell’amarcord, il tono di Vallanzasca cambia. E quasi ad esorcizzare il pensionato che si fa fregare la bicicletta toma fuori il bel René, sfrontato e guascone. Tutti abbiamo una parte da recitare, la sua è quella. Senza il male, certi fiori perdono il loro fascino. Immigrazione: otto extracomunitari evasi la scorsa notte dal Cie di Gradisca Ansa, 30 agosto 2010 Ennesima nottata ad alta tensione al Cie di Gradisca: altri 8 immigrati - e fanno quasi una settantina da maggio a oggi, almeno 150 dal 2006 - sono riusciti a evadere nella tarda serata di venerdì dal centro immigrati al termine di una sommossa. E l’assessore regionale Federica Seganti (Lega) chiede che il Cie si trasformi in un carcere. Ad appena quattro anni dalla sua apertura, la credibilità del Cie vacilla in maniera evidente. Evasioni, incendi, episodi di autolesionismo, operatori costantemente minacciati, sgarri tra diverse etnie costrette a convivere. E danni stimati per almeno un milione di euro, tanto che la capienza è stata ridotta ben al di sotto di quella ufficiale (240 posti) perché molti locali sono inagibili dopo le continue sommosse. I sistemi antifuga a infrarossi e per la videosorveglianza sono andati praticamente distrutti nell’estate 2009 e mai ripristinati totalmente. L’allarme è scattato poco dopo le 22, quando un gruppo di clandestini, in massima parte di etnia maghrebina, si è impossessato della “zona blu” appiccando il fuoco ai materassi delle stanze. Approfittando del marasma molti immigrati - secondo una prima ricostruzione un’ottantina - hanno raggiunto la “zona rossa” e quindi raggiunto il tetto della struttura. In 15 sono scattati verso le barriere lanciandosi nel vuoto. Solamente 7 sono stati ripresi. A polizia, carabinieri e militari che presidiano il perimetro esterno sono servite quasi due ore per tentare di intercettare alcuni dei fuggitivi e ripristinare l’ordine all’interno, in un clima tesissimo. Non si registrano feriti fra gli addetti alla sorveglianza. Solo qualche graffio e contusione per i clandestini che erano riusciti a varcare le barriere. Mondo: sono 2.905 gli italiani detenuti all’estero, 1.842 hanno una condanna definitiva Apcom, 30 agosto 2010 Sono 2.905 gli italiani detenuti all’estero: 1.842 (il 63,4%) i condannati, 1.063 (il 36,6%) quelli ancora in attesa di estradizione o di giudizio, come Daniele Franceschi, il carpentiere di origini toscane morto in circostanze ancora da chiarire nel penitenziario di Grasse. Il dato, fornito dal ministero degli Esteri, è aggiornato al 31 dicembre 2009. A questa data, il maggior numero di reclusi (2.428, l’83,5% del totale: 1.502 condannati e 926 in attesa di giudizio o estradizione) si trova in carceri europee, 384 nelle Americhe, 55 in Asia e Oceania, 35 tra Mediterraneo e Medio Oriente, 3 nell’Africa sub-sahariana. In Europa, i Paesi che ospitano il maggior numero di nostri connazionali detenuti sono la Germania (1.079), la Spagna (458), la Francia (231, uno su tre in attesa di giudizio o di estradizione), il Belgio (202), il Regno Unito (192) e la Svizzera (131). Fuori d’Europa, i Paesi con il numero più elevato di detenuti italiani sono gli Stati Uniti (91), il Venezuela (66), il Perù (58), il Brasile (54), la Colombia (30) e l’Australia (30). Francia: detenuto italiano di 36 anni muore in carcere, polemiche su presunte violenze La Stampa, 30 agosto 2010 Sul referto che ha chiuso, per le autorità francesi, la sua esistenza fisica e amministrativa la dizione è definitiva e nello stesso tempo generica: “Deceduto per arresto cardiaco nella cella del carcere di Grasse”. Nelle prigioni francesi sono custoditi, male, attualmente 60.881 detenuti. Quello di Daniele Franceschi, viareggino, 36 anni, arrestato a marzo mentre era in vacanza sulla Costa Azzurra con l’accusa di aver usato al casinò una carta di credito rubata, e ovviamente in attesa di giudizio, non era certo una pratica urgente. Visto che ogni settimana in qualche istituto di pena, dove il tasso di sovrappopolamento è in media del 107 per cento, le pratiche si chiudono con la dizione: suicidio. Personale e direttori sono sotto pressione, braccati dal ministro e dai giornali, che vorrebbe vedere dissolversi nel passato queste scandalose notizie (122 suicidi lo scorso anno). “L’italien” è morto per cause naturali, almeno ufficialmente; e dunque c’è da sorprendersi se la notizia per arrivare ai parenti in Toscana ha impiegato, con burocratica ferocia, tre giorni? La madre, Cira Antignano, forse si sarebbe rannicchiata nella disperazione per quel figlio perduto, senza avere dei dubbi e esigere un perché meno generico, se non ci fossero stati quei cinque mesi di prigione con tanti misteri. In cinque mesi le avevano concesso di vederlo solo due volte, tra grandi difficoltà, mentre il processo subiva continui rinvii. E intanto Daniele, ha raccontato, le scriveva lettere in cui raccontava di aver subito maltrattamenti, che si rifiutavano di curarlo nonostante avesse la febbre alta. E poi c’era il lavoro, in cucina, che, diceva, aveva turni massacranti: tanto che aveva rifiutato di continuare. Poi si era pentito: perché temeva che per ritorsione gli mettessero in cella qualche detenuto di quelli duri, pericolosi. Per questo la donna ieri è arrivata a Nizza e, assistita dalle autorità consolari, chiede che all’autopsia, fissata per domani, assista un medico di fiducia. Presenza che è stata rifiutata con la motivazione che la procedura sarebbe troppo complessa e non ci sarebbe il tempo necessario. Secondo i parenti del giovane esisterebbero, poi, versioni diverse sul suo ultimo giorno. Quella fornita per prima spiega che, controllato alle 13.30 stava bene, ed è stato ritrovato senza vita al controllo successivo, alle 17. All’avvocato francese di Franceschi è stato spiegato che era stato sottoposto a un controllo in infermeria perché affermava di non stare bene. Poiché l’elettrocardiogramma era risultato normale, era stato riportato in cella. Ora bisognerà accertare i fatti, gli unici che contano. Ma ogni sospetto è giustificato; perché le prigioni francesi sono considerate tra le peggiori d’Europa, luoghi di violenza, disperazione, rancore, con i detenuti mescolati senza distinzione di crimine e di età. “Una vergogna per il Paese dei diritti umani”, secondo le innumerevoli, e inutili, denunce di intellettuali e giuristi. L’autopsia rinviata a martedì È stata rinviata a martedì l’autopsia sul corpo di Daniele Franceschi, l’italiano morto nel carcere francese di Grasse il 25 agosto. Lo si è appreso da fonti diplomatiche italiane a Nizza, dopo che lunedì mattina i familiari giunti dall’Italia si erano presentati alla camera mortuaria. Intanto prosegue l’inchiesta sul decesso del 31enne viareggino, ufficialmente avvenuto per un infarto che lo avrebbe colto mentre era nella sua cella, dove era rinchiuso da cinque mesi per uso di una falsa carta di credito. Dalle indagini è emerso che il decesso è stato registrato alle 19,15 del 25 agosto, le autorità consolari italiane sono state avvertite alle 11 del giorno dopo e alle 12,50 i carabinieri di Viareggio sono stati messi al corrente via fax, e a loro volta hanno convocato il fratello della vittima per comunicargli la notizia. La famiglia di Franceschi aveva già fatto sapere di voler far eseguire una seconda autopsia quando la salma sarà trasferita in Italia. La madre: mi scriveva per raccontarmi di minacce e intimidazioni “Subiva soprusi, minacce e intimidazioni dalle guardie. Non lo curavano, non gli facevano avere i soldi che gli mandavo. Era dimagrito moltissimo e si sentiva isolato. Mi diceva: “mamma, qui gli italiani sono considerati feccia, io non muovo un dito, non reagisco, altrimenti finirebbe male”“. Suo figlio glielo scriveva nelle lettere che le inviava regolarmente e lo ha ripetuto anche dieci giorni fa, quando era riuscito a procurarsi un telefonino e a chiamarla a Viareggio. Ora Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi, l’uomo di 31 anni morto nella martedì in una cella del carcere di Grasse, nell’entroterra di Cannes, parla da Nizza, da un albergo vicino all’ospedale dove è stato trasferito il corpo del figlio e chiede “giustizia”. È insieme a una cugina e all’altro figlio Tiziano. “Voglio sapere cosa è successo davvero. L’ambasciata e il governo si attivino, perché i francesi non dicono la verità. Daniele non è morto di un infarto fulminante come dicono. Grazie all’avvocato e a una rappresentante del consolato siamo riusciti a sapere che martedì alle 13,30 si era sentito male. Aveva chiesto aiuto e l’avevano portato in infermeria per un elettrocardiogramma. Ma i sanitari l’avevano rimandato in cella dicendo che non aveva niente. Poi l’hanno trovato solo alle 17,30, dopo 4 ore, steso sulla branda, con il giornale appoggiato sulla faccia. Era morto”. La madre di Daniele pensa che i fatti non si siano svolti così, che ci siano lati oscuri che le autorità francesi non vogliono rivelare: “Ma come è possibile che l’abbiano rispedito in cella se stava male, e come è possibile che se ne sia andato per un arresto cardiaco. Daniele non ha mai avuto problemi al cuore, era un ragazzo sano. Solo lì erano peggiorate le sue condizioni. Nelle lettere mi diceva che i soldi che mandavo da Viareggio gli arrivavano dopo un mese, e anche quando riusciva ad averli le guardie lo vessavano. Lui, come tutti i detenuti, li affidava a un secondino per farsi comprare cibo, giornali e sigarette fuori dal carcere. La regola voleva che per la spesa ogni detenuto scrivesse un biglietto. Ogni volta la guardia tornava e dicevano che l’avevano perso e che non avevano potuto prendergli niente. Così non mangiava e si consumava. Dimagriva e aveva sempre più paura”. La signora Antignano è sconvolta, è arrivata questa mattina presto a Nizza e ancora non le hanno fatto vedere il corpo del figlio: “Hanno anticipato l’autopsia di un giorno - denuncia - doveva essere martedì, invece la faranno domani. Inoltre le autorità ci impediscono di nominare un medico legale italiano, dicono che è troppo tardi e che avremmo dovuto portarcelo dall’Italia”. Secondo la donna, Daniele subiva intimidazioni continue. “L’ultima volta l’ho sentito al telefono dieci giorni fa. Non so come avesse fatto, ma malgrado le rigide regole carcerarie era riuscito a procurarsi un telefonino da qualcuno che era in carcere con lui. Mi ha raccontato che qualche giorno prima gli avevano trovato in cella alcuni grammi di “fumo” e le guardie carcerarie lo avevano subito accusato dicendo che lo avrebbero messo in isolamento e che l’episodio avrebbe aggravato la sua posizione. Ma nessuno è andato a trovarlo in quei giorni, neanche l’avvocato francese che segue il suo caso da quando è stato arrestato, a fine febbraio. Qualcuno ha messo lì l’hashish, qualcuno lo voleva incastrare. Grazie all’intervento dell’avvocato, la questione sembrava essersi in qualche modo risolta. Ed era stato scagionato da questa accusa. Ma Daniele era molto preoccupato e me lo ha ripetuto svariate volte”. Anche con le visite i francesi sembravano molto rigidi: “Io l’ho visto per la prima e unica volta ad aprile, ma solo dopo varie richieste perché quando era stato incarcerato non mi fecero entrare”. E di cose da chiarire nei cinque mesi di reclusione ne sono successe. “Un mese e mezzo fa mi scrisse che aveva avuto la febbre tra 39 e 41, che aveva avvertito i secondini, ma nessuno lo considerava, gli dicevano che il medico non c’era e che doveva stare zitto. Era svenuto, poi per calmare la febbre metteva la testa nel piccolo frigo che aveva in cella. E solo dopo 4 giorni l’avevano curato”. Intimidazioni continue, la minaccia di metterlo in una cella con i detenuti più pericolosi: “Glielo dicevano perché si lamentava per il lavoro in cucina. Lo facevano lavorare a ritmi infernali. Mi scriveva: “Mamma, io non ce la faccio più, tengo duro solo perché la psicologa dice che mi potrebbero mettere in isolamento o la mia posizione nel processo poi potrebbe aggravarsi. Ma quale aggravarsi. Come è possibile che uno resti in carcere per più di cinque mesi solo per essersi presentato a una casinò con una carta di credito falsa. E come è possibile che poi ci muoia”.