Giustizia: il Senato non ha tempo per il ddl sulla detenzione domiciliare, serve un decreto legge Agenzia Radicale, 2 agosto 2010 I timori espressi da Rita Bernardini riguardo l’impossibilità da parte del Parlamento di approvare il testo licenziato dalla Commissione Giustizia sul ddl Alfano per mancanza di tempo, si sono concretizzati. A confermarlo è stato il Presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli. Di qui la richiesta della deputata radicale della Commissione Giustizia al Presidente del Consiglio e al Governo di “approvare immediatamente un decreto legge e avere il coraggio di ritornare al testo originario del ministro Alfano che rispondeva almeno all’emergenza del sovraffollamento carcerario”. “La versione licenziata il 30 luglio dalla Commissione Giustizia della Camera in sede legislativa - ha spiegato Rita Bernardini in un comunicato stampa - dopo mesi e mesi di discussione e di saccheggio del testo originario, è solo un’aspirina per la comunità penitenziaria ridotta allo stremo”. L’efficacia immediata del ddl Alfano consisteva nell’esecuzione presso il domicilio delle pene inferiori ad un anno (coinvolgendo circa 12.000 persone), norma che avrebbe potuto dare un po’ di respiro e di legalità alle affollatissime carceri italiane, ridotte in uno stato di totale abbandono umano e civile. Giustizia: Uil-Pa; subito un decreto, per garantire 2.000 nuove assunzioni in Polizia penitenziaria Il Velino, 2 agosto 2010 “Se il governo e lo stesso premier Berlusconi non intendono svilire e vanificare la portata della dichiarazione dello stato di emergenza del sistema penitenziario hanno l’obbligo di dare risposte concrete alle molteplici criticità, che rischiano di far sprofondare nel mare dell’emergenza l’universo carcerario. Considerato che il ddl Alfano non potrà essere varato in tempo utile, auspichiamo che si proceda con un decreto legge che garantisca quelle 2.000 assunzioni in polizia penitenziaria previste nel testo licenziato in sede legislativa dalla commissione Giustizia”. Così Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, in merito alla questione del ddl Alfano, “svuota carceri”, che non potrà essere esaminato in Senato prima della ripresa post estiva. “Purtroppo anche di fronte ad evidenti necessità e urgenze non si è concretata l’auspicata unitarietà tra i partiti, che avrebbe potuto garantire un percorso più snello e veloce per l’approvazione del ddl alla Camera. Ora - spiega - il tutto è rimandato al Senato, con tempi incompatibili rispetto ai bisogni reali. E se dal punto di vista del sovraffollamento poco o nulla muterà, perché (da nostre proiezioni) non saranno più di .1800 i detenuti a poter beneficiare della detenzione domiciliare, rimandare in autunno l’assunzione delle 2.000 unità di polizia penitenziaria sarebbe esiziale. Pertanto plaudiamo convintamente al riferito intento del ministro Alfano e del presidente Berlusconi a voler intraprendere la strada di un decreto legge”. Il segretario Sarno sottolinea, inoltre, che le cifre dell’emergenza e del dramma penitenziario “non risiedono solo nei circa 70mila detenuti stipati in celle che ne potrebbero contenere al massimo 43mila. Esse si manifestano in tutta la loro crudele realtà anche attraverso i 39 suicidi, i 76 tentati suicidi, i 10 detenuti evasi e le 11 tentate evasioni messe in atto nonché con l’incredibile numero di 145 agenti penitenziari che hanno dovuto ricorrere a cure ospedaliere per ferite riportate a causa di aggressioni subite da parte dei detenuti. Tutto ciò solo in questi ultimi sette mesi del 2010. È evidente, quindi, che - conclude - una prospettiva di speranza legata a nuove assunzioni rappresenterebbe un valido motivo per resistere alle immani difficoltà che seppelliscono il personale di polizia penitenziaria, sempre più demotivato e frustrato. Una svolta che sarebbe adeguatamente apprezzata e che rappresenterebbe davvero quel segnale di concretezza che più volte abbiamo chiesto al ministro Alfano”. Giustizia: i Radicali ripropongono il “Ferragosto in carcere”; prime adesioni, da tutti i partiti Agenzia Radicale, 2 agosto 2010 Cari colleghi deputati, cari senatori, deputati europei e consiglieri regionali di ogni schieramento politico, cari garanti per i diritti delle persone private della libertà, indubbiamente questo è l’anno più difficile per tutta la “comunità penitenziaria”. Mai in passato i detenuti ristretti nelle nostre carceri sono stati così tanti (68.206) e il personale di ogni livello così ridotto nel suo organico. Ciò ha comportato e comporta che oggi - più che nel passato - il carcere sia sempre di più (e spesso esclusivamente) il luogo della pena che poco o niente ha a che vedere con quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione Italiana secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Anche il ricorso eccessivo, e spesso illegittimo, allo strumento della custodia cautelare in carcere stride con il principio costituzionale in base al quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Per altro verso, l’art. II-64 della Costituzione Europea, stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Dall’inizio dell’anno sono 39 i detenuti suicidi nelle carceri italiane (33 si sono impiccati, 5 si sono asfissiati col gas e 1 si è tagliato la gola), mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 105 (negli ultimi 10 anni i “morti di carcere” sono stati 1.703, di cui 594 per suicidio). Nei primi sette mesi del 2009 (anno che ha fatto registrare il “record storico” di suicidi in carcere, con 72 casi), il numero dei detenuti suicidi era attestato a 31, quindi 7 in meno rispetto a quest’anno. Un trend negativo che, a meno di clamorose inversioni, a fine anno rischia di produrre un numero di decessi in carcere mai visto, né immaginabile fino a pochi anni fa. Ma non sono soltanto i detenuti a “morire di carcere”: da inizio anno già 4 agenti di Polizia penitenziaria si sono tolti la vita e il 23 luglio si è ucciso anche il Provveditore alle carceri della Calabria, Paolo Quattrone. Lo scorso anno l’iniziativa del “ferragosto in carcere” ha avuto un grande riscontro: in tre giorni, grazie alla disponibilità di 165 parlamentari, sono state visitate quasi tutte le oltre duecento strutture penitenziarie presenti sul territorio. Si è trattato indubbiamente della più massiccia e importante visita di sindacato ispettivo mai effettuata in Italia. Quest’anno, se possibile, dobbiamo fare meglio, completando con le nostre visite tutte le carceri, compresi gli Istituti per minori. Anche per questo Ferragosto in carcere ogni parlamentare avrà a disposizione le “istruzioni” e il questionario da sottoporre ai direttori di ciascun istituto. Al di là dello schieramento politico di appartenenza e del modo che può essere diverso di affrontare il problema carcerario, crediamo che ci unisca la volontà di adesione alle leggi e alla nostra Costituzione. Possiamo fare un utile monitoraggio per tutti coloro che si occupano di carcere e, soprattutto, possiamo portare il nostro saluto e la nostra attenzione a tutta la comunità penitenziaria che, ancora una volta pur nelle grandi difficoltà che vive, sta dimostrando un senso di responsabilità encomiabile al quale è doveroso che le istituzioni rispondano con atti concreti che affrontino e risolvano i tanti problemi. È in nome di ciò che ci unisce che venerdì 13, sabato 14 e domenica 15 agosto deputati, senatori, parlamentari europei e consiglieri regionali di tutti gli schieramenti politici vedi l’Art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario (Legge n. 354/75) assieme ai garanti per i diritti delle persone private della libertà visiteranno tutti gli Istituti Penitenziari italiani. Ti invitiamo perciò a dare fin da subito la tua disponibilità ad essere presente, almeno in uno dei tre giorni, in uno degli istituti penitenziari italiani, magari in quello del tuo collegio di elezione, o in un altro se ti trovi in un’altra regione. Paolo Martini (Direttore di Radio Radicale) Matteo Brigandì (Capogruppo Lega Comm. Giustizia) Enrico Costa (Capogruppo Pdl Comm. Giustizia) Donatella Ferranti (Capogruppo Pd Comm. Giustizia) Elio Vittorio Belcastro (Gruppo Misto Comm. Giustizia) Federico Palomba (Capogruppo Idv Comm. Giustizia) Roberto Rao (Gruppo Udc Comm. Giustizia) Mario Staderini (Segretario Radicali Italiani) Giustizia: Ass. “Clemenza e dignità”; in carcere tanti morti, ma la società è indifferente Redattore Sociale, 2 agosto 2010 Senza fine il problema del sovraffollamento delle carceri in Italia. A questo, poi, si aggiungono i decessi con decine di suicidi. “Solitamente, quando la notizia è diffusa dai media, basta il decesso di un solo essere umano, per richiamare l’attenzione e l’interesse dell’opinione pubblica”. Lo dichiara in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, che aggiunge: “Per le carceri, invece, solo nei primi sette mesi del 2010, una infinità di morti, 39 suicidi, tantissimi tentativi di suicidio, innumerevoli atti di autolesionismo, e ancora niente, nessuna sensibilizzazione collettiva, e di conseguenza, nessun interesse ad adottare provvedimenti veramente risolutivi per le carceri”. Sottolinea ancora Meloni come sia “inquietante, perché anche nei più scellerati ordini militari di guerra, si stabiliva una precisa proporzione per cui al male patito, dovevano corrispondere, esattamente, tante vite umane del nemico da sacrificare”. E qui “la situazione è ancora peggiore perché non solo non è chiaro ormai quante vite perse di detenuti necessitino ancora per riparare all’ingiustizia complessivamente patita dalla società, ma non è neanche chiaro quante vite perse di detenuti necessitino ancora per equivalere a quella di un solo essere umano. Di quel solo essere umano - spiega - che deceduto per le cause più disparate, riesce normalmente a produrre una sensibilizzazione all’interno dell’opinione pubblica”. Per Meloni “le nostre carceri oltre ad ospitare veri e propri delinquenti, sono anche e soprattutto dei grandi contenitori del disagio e dell’esclusione sociale, per i tossicodipendenti, i disperati, i matti, i poveri, gli emarginati, gli immigrati e altro”. “La strada che stiamo intraprendendo - conclude - così come caratterizzata dalla totale indifferenza verso queste categorie di persone, verso i loro disagi e verso la loro morte, ci sta spingendo dritti dritti verso quella stessa mentalità perversa che solamente nel secolo scorso, produsse silenziosamente e indisturbata, la cancellazione di tante vite umane, ritenute a quei tempi ugualmente indesiderabili, inutili e prive di senso”. Giustizia: Sappe; in questa situazione impossibile ogni “trattamento”, creare circuiti differenziati Agi, 2 agosto 2010 “L’attuale situazione carceraria nazionale viola la Costituzione e in particolare l’articolo 27: è un dato di fatto. Quale trattamento penitenziario si può fare quando, come oggi, quelle celle in cui potrebbero starci 43mila persone ne ospitano 69mila, per di più controllate da donne e uomini della Polizia Penitenziaria che sono ben 6mila in meno di quello previsto? Una prima soluzione al pesante sovrappopolamento penitenziario può essere la concreta definizione dei circuiti penitenziari differenziati e, in questo contesto, la costruzione di carceri per così dire “leggere” per i detenuti in attesa di giudizio destinando le carceri tradizionali a quelli definitivi. Non è possibile, come succede oggi, avere nella stessa cella condannati ed imputati o soggetti in attesa di giudizio. In questa direzione, c’è una soluzione alternativa per l’edilizia penitenziaria ed è un progetto, molto usato negli Stati Uniti, che riguarda un “sistema modulare”, vale a dire un edificio con grandi capacità di resistenza agli agenti atmosferici, agli attacchi chimici o ad altri processi deteriorativi, che può essere sopraelevato senza particolari misure strutturali e con costi competitivi e tempi di esecuzione estremamente rapidi. Si tratta di edifici con 600 posti letto costruibili in quattro mesi, con un costo inferiore ai 20 milioni di euro e posti in opera in soli 7 mesi. Questa potrebbe essere una prima rapida soluzione per deflazionare le affollate carceri italiane. Perché non provarci?”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di categoria. “È ovvio - aggiunge - che per attivare nuove strutture penitenziarie è necessario avere le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, che oggi non ci sono. Tutti sanno che gli organici del Corpo patiscono carenze quantificate in ben più di 6mila agenti. Vero è che da tempo immemore il Sappe, il primo sindacato del corpo di polizia, sostiene l’esigenza di definire i circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità, specifici circuiti di custodia attenuata e potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Oggi ci sono in carcere quasi 69mila detenuti a fronte di una circa 42mila posti letto, il numero più alto mai registrato nella storia dell’Italia. Bisognerebbe dunque percorrere la strada dei circuiti penitenziari differenziati: ma altrettanto necessaria è una concreta riforma del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda più veloci i tempi della giustizia”. Giustizia: Sappe; per impediri uso telefonini "schermare" tutte le strutture penitenziarie Il Velino, 2 agosto 2010 "La notizia che qualche giorno fa, solo grazie all'attenzione, allo scrupolo e alla professionalità del personale di Polizia Penitenziaria in servizio, è stato rinvenuto all'interno di una cella dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona di Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, un telefonino cellulare, ci impone di tornare a chiedere al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria interventi concreti. Come, ad esempio, la dotazione ai reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l'indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani". Quanto ha dichiarato Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria. Non a caso, dice il Sappe, il sindacato "ha richiamato l'attenzione delle autorità dipartimentali in ordine ad alcune situazioni che con una certa frequenza interessano gli Istituti penitenziari ed in particolare sull'indebito uso di telefoni cellulari e altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti per le comunicazioni con l'esterno. Mi auguro che dopo il ritrovamento del telefono cellulare all'interno della cella dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto si faccia concretamente qualcosa per contrastare questo grave fenomeno". Sulla questione relativa all'utilizzo abusivo di telefoni cellulari e di altra strumentazione tecnologica che puo' permettere comunicazioni non consentite, si legge nella nota diffusa dal sindacato, "è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo. A nostro avviso appaiono pertanto indispensabili interventi immediati compresa la possibilità di 'schermarè gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Giustizia: la storia di Giuseppe Ongaro; per 15 anni ho licenziato lavoratori, ora assumo solo detenuti di Stefano Lorenzetto Il Giornale, 2 agosto 2010 L’imprenditore Giuseppe Ongaro apre un’azienda direttamente dentro il carcere di Verona: “Ho 68 dipendenti, compresi 7 condannati per omicidio: sono i migliori”. Professione tagliatore di teste, come George Clooney nel film Tra le nuvole. Poi la svolta La prima volta che Giuseppe Ongaro bussò alla porta di una prigione aveva appena 16 anni. “Sono nato a Verona, nel popolare rione di San Zeno, dove gli ex galeotti non mancavano. Uno di loro mi disse che un suo compagno di cella era un fenomeno a pitturare con l’aerografo. Così un pomeriggio d’estate mi presentai al cancello d’ingresso del Campone, una tetra caserma austriaca fatta costruire nel 1847 dal feldmaresciallo Radetzky e poi trasformata in casa di pena. Mostrai al piantone la mia bicicletta e gli chiesi se fosse possibile farla dipingere di azzurro metallizzato dal recluso. Anziché mandarmi a quel paese, andò a chiamare l’ispettore. Fu comprensivo: “Lasciala qui”. Tornai a riprendermela dopo 20 giorni. Stupenda, di un colore mai visto prima. Mi costò 1.500 lire”. Nel 1972 si poteva fare. Persino i penitenziari, allora, erano a misura d’uomo. Ma anche oggi che tutto è maledettamente più complicato, nulla è impossibile per un testardo che ha una fiducia incrollabile nei propri simili. Segnato da quel contatto col mondo carcerario, Ongaro ha perciò preso una decisione di cui pochi imprenditori sarebbero capaci: assume soltanto detenuti. Anzi, per essere più precisi, ha piantato la sua azienda, la Lavoro & futuro Srl, direttamente dentro la prigione di Verona (che nel frattempo è stata trasferita in un mostruoso falansterio inaugurato nel 1994 in periferia) e sta progettando di aprire altre sedi anche nelle case circondariali di Vicenza, Trento, Ferrara e Castelfranco Emilia. Una conversione maturata nel 2005 e che ha dell’incredibile, perché Ongaro aveva dedicato con successo i precedenti 15 anni della sua vita alla professione esattamente opposta: tagliatore di teste. Avete presente il viaggiatore professionista Ryan Bingham, interpretato da George Clooney nel film Tra le nuvole, che vola da un capo all’altro degli Stati Uniti per licenziare in tronco i dipendenti delle aziende travolte dalla crisi? Ecco, quello faceva il benefattore dei carcerati: disboscava le piante organiche col machete. “Il massimo lo toccai in un’industria elettronica del Friuli: 480 licenziati in un colpo solo. Perciò non mi descriva come un santo, mi raccomando. Non lo sono, non lo sono mai stato”. In realtà, a riprova che gli uomini sono migliori di come appaiono, poi lavorò per 18 mesi d’intesa con i sindacati per ricollocare tutto il personale in esubero in altri stabilimenti della regione, tranne due lavoratori per i quali proprio non saltò fuori il posto. “Ma un’altra volta, nel Milanese, feci piazza pulita in cinque stabilimenti di uno stesso gruppo, sempre nel ramo elettronica: in tutto 250 licenziati, che restarono sul lastrico dalla mattina alla sera”, non si dà pace. Ongaro, laureato in statistica all’Università di Padova, ha provato sulla propria pelle quanto sia importante avere un lavoro. Suo padre, grande invalido di guerra reduce dai lager nazisti, morì a 56 anni. “Io a 12 già ero nei campi a tirar giù mele, pere e uva e a 16, prima d’andare al liceo scientifico salesiano, all’alba scaricavo i sacchi di farina nei panifici, reclutato dalla cooperativa facchini”. Così come ha provato il rischio di ritrovarsi con un figlio in prigione: “Francesco, che oggi ha 26 anni, fra i 15 e i 18 è stato un hacker. Viveva di notte e dormiva di giorno. Violava i siti di enti, istituti di credito, industrie, sia pure senza far danni, così, per il semplice gusto di vincere una sfida col computer”. Ma siccome è dal male che spesso nasce il bene, oggi il giovanotto è uno dei più ricercati esperti di smagliature nei sistemi di sicurezza informatici: ha lavorato per la polizia, per la Telecom, per il terzo gruppo bancario della Turchia, “lo pagano un tanto a buco e siccome di buchi ne trova parecchi lo pagano tantissimo”, tira un sospiro di sollievo il padre. Anche l’imprenditore, prima di mettersi ad assumere carcerati, si faceva strapagare: un tot per ogni testa tagliata. “In genere si trattava di una percentuale fino al 10% calcolata sull’aumento del margine lordo che l’azienda realizzava dopo la ristrutturazione”. Allora, e sono ormai trascorsi quasi dieci anni, Ongaro abitava in una casa indipendente e poteva contare su non meno di 7.500 euro di stipendio al mese. Oggi vive in un appartamento di 80 metri quadrati al primo piano di un condominio e si accontenta di 1.500 euro mensili. Ma gli leggi in faccia che è sereno. Che cosa le è successo? “Mi sono chiesto se quello che facevo rispecchiava lo scopo per cui mi alzavo la mattina. Non lo rispecchiava. Così mi sono concesso 14 mesi sabbatici per riorganizzare la mia, di vita. Una ricerca di nuovi equilibri per giungere a una forma di armonia personale”. Perché gruppi importanti chiamavano proprio lei, come killer? “Il consulente è uno psicoterapeuta d’azienda. Il suo unico valore consiste nella capacità di costringere la proprietà di un’impresa a pensare. È difficile, mi creda, fermare industriali che corrono dalla mattina alla sera per fare fatturato”. Da chi ha imparato a tagliare teste? “Da grandi maestri. Ricordo in particolare un ex direttore generale della Zanussi. E un consulente della Fiat, magnifico. Persone con le palle quadrate, ma che conservavano una grande umanità, fuori dalla norma”. Prendeva lezioni private? “Li conoscevo ai corsi di formazione. Ne ho seguiti in Francia, in Scozia e in Italia”. Non le restava addosso il dolore dei licenziati? “No, perché un’azienda con 800 dipendenti, che si trovava nella necessità di ristrutturare, o chiamava me ad attuare determinate politiche oppure avrebbe dovuto mandarli a casa tutti e 800. Se uno vuol guardarla, quella è la realtà. Un calcolo matematico. Non c’è dietro alcuna filosofia”. Ma allora che cosa non le piaceva più di quel lavoro, visto che non le procurava grandi rimorsi? “Lo scadimento dei rapporti umani. L’unico obiettivo, fine a sé stesso, era quello di fare soldi. Colpa della Borsa: ha imbarbarito il capitalismo. Che a me piace molto, intendiamoci, perché è meritocratico. La mia formazione laica l’ho avuta con i giovani del Pli, mi considero figlio di Giovanni Malagodi. Ma non tutto si può misurare col denaro”. Perché ha deciso di assumere proprio i detenuti? “Perché sono convinto che si debba lavorare per il bene della società. Tu vivi in funzione degli altri. Una volta rinchiusi, ai detenuti nessuno ci pensa più, la galera diventa una pattumiera. Quindi dal punto di vista egoistico la scommessa era molto interessante”. È stato difficile entrare in carcere? “Quattordici mesi di documenti e carte bollate. Siamo controllati da tre ministeri e da quattro sindacati”. Come mai parla al plurale? “Senza il mio socio Edgardo Somma, che è stato un imprenditore informatico e poi ha lavorato nel mondo della finanza, non avrei potuto farcela”. Quanto fattura Lavoro & futuro? “L’anno scorso 550.000 euro. I pochi utili li reinvestiamo. Per legge non possiamo esigere dallo Stato circa 80.000 euro di credito d’imposta, quindi siamo in pari”. Passa molte ore dietro le sbarre? “In media una quindicina la settimana. Ma quattro nostri dipendenti sono là dentro tutti i giorni a istruire, dirigere, controllare”. Numero degli assunti? “Siamo arrivati a 68. Da febbraio li turniamo, perché non c’è lavoro per tutti”. Su quanti detenuti? “La prigione ha una capienza di 250. Invece sono 950 e qualche settimana arrivano a 1.000. Ho sul tavolo oltre 350 domande di assunzione. Faccio quel che posso. Il penitenziario non è attrezzato per il lavoro. Se sono riuscito ad aprirci una fabbrica, lo devo solo alla sensibilità del precedente direttore, Salvatore Erminio, e del suo successore, Antonio Fullone. Mi hanno consentito di ricavare 2.500 metri quadrati di laboratori nei corridoi esterni, intercapedini piene di animali morti che inizialmente erano state concepite per un carcere di massima sicurezza”. In base a quale contratto assume i detenuti? “In base alla legge Smuraglia, un fantastico compromesso storico fra destra e sinistra che nessuno utilizza perché fissa dalla a alla zeta che cosa è possibile fare e dunque non consente trucchi o scappatoie. Li metto in regola come operai di secondo livello, settore industria, assunti a tempo indeterminato”. Non li può licenziare. “Soltanto quando escono dopo aver scontato la pena. Ma cerchiamo di riassumerli con una cooperativa esterna”. Quanto guadagnano? “Mediamente dai 380 ai 540 euro netti, dipende dall’attività”. Pochissimo. “È la legge. Lavorano 6 ore al giorno. Un netturbino, per 8 ore, prende 920 euro”. E se non rispettano le regole contrattuali? “Li licenzio. Però non è mai capitato. E sì che me ne sono passati più di 300 sotto le grinfie. Magari capita che non li lascino più venire in officina per ragioni di sicurezza, perché hanno combinato qualcosa in cella. Ma sul luogo di lavoro sono irreprensibili”. Come la chiamano? “Giuseppe. I meridionali, Bepì. I cinesi, boss. I rumeni e gli africani, capo. Dipende dalle etnie, almeno una dozzina”. Che cosa producete? “Di tutto: 16 milioni di pezzi l’anno. Magliette e gadget pubblicitari. Articoli promozionali per aziende, fiere ed eventi. Parti meccaniche e schede elettriche. Filtri per i forni delle autocarrozzerie. Siamo il secondo produttore europeo di profumatori per la casa, deodoranti per auto e antitarme, 1,3 milioni di pezzi l’anno. Sono nostre le rastrelliere portabiciclette che vede nei centri storici: ce le ha comprate persino il Comune di Catania. Una famosa azienda del Modenese ci ha affidato le mattonelle a mosaico, una lavorazione di grande precisione, 72 diverse composizioni di colore con tesserine in pietra o in vetro. Dall’officina meccanica, diretta da due maestri carpentieri, escono anche box per cavalli, cancelli, gazebo. Abbiamo un laboratorio d’informatica dotato di linea Adsl, una concessione assai difficile da ottenere nei penitenziari, dov’è vietata qualsiasi comunicazione con l’esterno: 12 operatori inseriscono col computer i dati per società terze”. Cioè? “Le Poste, per esempio, ci avevano appaltato l’archiviazione delle ricevute di ritorno delle raccomandate. Purtroppo è sopraggiunta la crisi. Prima, quando si potevano spedire a 0,10 centesimi di euro l’uno, imbustavamo milioni di cataloghi, calendari, rosari. Ma la tariffa agevolata è stata soppressa e ci sono venuti a mancare di colpo 6 milioni di pezzi”. E come fa a non fallire? “Riconverto, m’invento qualcosa di nuovo. Ora ho avviato la produzione delle bat box, le casette per i pipistrelli che mangiano le zanzare. Piuttosto complesse, devo dire. Fra meno di un mese partiremo con i pannelli solari a marchio “Casa circondariale”. Che attivismo. “Un giorno mi sono accorto che in carcere c’erano due serre e 3.000 metri quadrati di terra incolta. Ho chiesto aiuto a Damiano Maccadanza, titolare dei vivai Verdevalle. Ci ha portato 3.000 piante da giardino, 2.000 da frutto e 3.000 gelsomini, che cresciamo fino a otto mesi. Vede bene che di italiani brava gente ce n’è ancora tanta, in giro”. Quale dei suoi operai ha la pena più lunga da scontare? “Ne ho 7 condannati per omicidio. I migliori”. Addirittura. “Sono i Giuseppe Ongaro che un giorno hanno avuto i cinque minuti di pazzia e hanno superato il limite. Ma dopo cinque minuti sono ritornati a essere Giuseppe Ongaro”. Com’è la vita là dentro? “Due ore d’aria al giorno e le rimanenti 22 in una cella di 4 metri per 2,5, con dentro quattro persone. Tolti letti a castello, armadietto, tavolo, sedie e fornello, fanno 52 centimetri di passeggio a testa. I miei operai sono privilegiati. Tra scendere e salire, stanno fuori dalla gabbia 8 ore. Se s’ammalano, hanno la visita medica d’urgenza”. Che cosa attende un ex carcerato? “Se non ha scelto di fare il delinquente abituale, cerca un lavoro. Che non troverà. Il momento peggiore è l’uscita dal carcere. Nessuno gli comunica il giorno. Un pomeriggio, all’improvviso, le guardie gli dicono: “Te ne vai”. Fuori non trova nessuno ad attenderlo. D’inverno alle 17 c’è già buio. Si trova nella nebbia, al freddo, senza sapere dove andare. Con l’associazione Redium, acronimo di Recupero dignità umana, mi sono sentito in dovere di mettergli in mano un kit: pochi euro per mangiare, una scheda per telefonare dall’ultima cabina sopravvissuta vicino alla casa circondariale, gli indirizzi dove passare la notte, i biglietti per l’autobus”. Risponda da imprenditore: con tutta la manodopera disponibile sul mercato, soprattutto extracomunitaria, per quale motivo un’industria dovrebbe assumere proprio un ex detenuto? “Per sensibilità. Mi conforta sapere che su 2.000 aziende europee certificate per il rispetto della responsabilità sociale d’impresa, ben 840 sono italiane”. Quando sente la frase: “Bisognerebbe rinchiuderli e buttare via la chiave”, lei come reagisce? “In alcuni casi concordo perfettamente. Quattro semi, una vanga e lasciarli su un’isola deserta. Non sono per la redenzione a tutti i costi”. Però ne redime tanti. “Ho sentito il bisogno di restituire un po’ di ciò che la vita mi ha regalato. Lo faccio per me stesso. Se questo coincide col benessere altrui, mai congiuntura fu più felice. Quando sei circondato da gente che sta meglio, per osmosi stai meglio anche tu. Nessuno meglio di me sa che un uomo senza lavoro muore. In Cina il vocabolo lavoro non esiste: se uno vive, lavora. Non mi scambi per maoista, resto liberale”. Lei quante ore lavora al giorno? “Questa è una domanda cattiva. Quelle che servono”. Cioè? “Ieri 15”. Andrà in pensione? “Non dipende da me”. Lettere: violenza sessuale e detenzione, la scelta della Corte costituzionale di Vittorio Grevi Corriere della Sera, 2 agosto 2010 Ha destato un certo scalpore, nei giorni scorsi, la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disposizione che aveva esteso anche ai procedimenti per alcuni delitti in materia di violenza sessuale e di prostituzione minorile il meccanismo diretto ad imporre, senza possibilità di altra scelta, la applicazione della custodia cautelare in carcere a carico degli imputati raggiunti da gravi indizi di colpevolezza. Originariamente previsto per i soli delitti di associazione mafiosa (ed entro questi limiti già “salvato” dalla medesima Corte, alla luce della peculiare natura della criminalità di mafia), un tale meccanismo di tenore presuntivo è sempre stato criticato dagli studiosi a causa della sua rigidezza, che non consente al giudice di adeguare la misura cautelare alle esigenze del caso singolo. E se una simile presunzione assoluta di necessarietà della misura carceraria può giustificarsi, sotto il profilo della ragionevolezza, quando si proceda per un delitto di criminalità organizzata, lo stesso non può dirsi quando si proceda per un delitto comune, per quanto grave, come sono i suddetti delitti sessuali. Per questo appare corretta la recente sentenza costituzionale, la quale si è limitata a stabilire che, in ipotesi del genere, la custodia carceraria debba bensì essere applicata, a meno che le esigenze cautelari accertate in concreto non possano venire fronteggiate mediante misure di altro tipo. Ciò non significa che d’ora in poi il carcere preventivo sia escluso per gli imputati dei delitti in questione. Al contrario, tali imputati di regola continueranno ad essere custoditi in carcere: soprattutto nei casi più gravi, in attesa della sentenza definitiva, che sola potrà semmai applicare la detenzione come pena. Tuttavia questa regola potrà subire una eccezione allorché il giudice si convinca - sulla base di elementi specifici - che il carcere possa essere sostituito da una misura meno afflittiva, purché altrettanto idonea sul terreno delle finalità cautelari (a cominciare dalla esigenza di evitare la commissione di delitti della stessa specie). Il carcere, dunque, non sarà certo vietato, ma dovrà essere applicato - come giusto - secondo un criterio di stretta necessità. Sicilia: il Provveditore; il sovraffollamento genera tensioni, nelle carceri cresce l’allarme di Filippo Passantino Quotidiano di Sicilia, 2 agosto 2010 Poco più di 8 mila detenuti in 26 istituti penitenziari. Aumentano le difficoltà nella gestione. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Orazio Faramo: “Presto nuove strutture e nuovi agenti”. Poco più di 8 mila detenuti in 26 istituti penitenziari. Le ombre del sovraffollamento scorrono tra le celle delle carceri siciliane. Un problema che può generare, secondo i sindacati, ulteriori difficoltà nella gestione dei detenuti e facilitare episodi di aggressioni ai danni degli agenti. Così le parti sociali continuano a chiedere incrementi del personale penitenziario. Misure necessarie per ripristinare il rispetto delle norme comportamentali negli “spazi dell’eccezione”. E sembrano esservi segnali positivi, come conferma il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Orazio Faramo. Qual è la stima delle carenze nell’organico della polizia penitenziaria in Sicilia? “Sono in servizio in tutta la regione circa 5 mila agenti. Per far fronte con successo, però, alle necessità della vita carceraria ve ne dovrebbero essere 500 in più. Si tratta di una carenza stimabile attorno al 10 per cento”. Sono in programma interventi per incrementare il personale? “Con l’entrata in vigore della Finanziaria sono previsti a breve concorsi per 2 mila agenti in Italia. In più si stanno espletando le procedure per sostituire i circa 700 che sono andati recentemente in pensione”. Ci si sta muovendo anche per ammodernare le carceri? “Contiamo di aprire entro fine anno la casa di reclusione di Gela. Sposteremo a breve anche la sede di quella di Favignana. Inoltre, il piano carceri prevede in Sicilia per i prossimi anni la costruzione di 4 nuovi istituti”. Dall’inizio dell’anno si registrano in Sicilia sei casi di suicidi. Quanto può incidere la vita carceraria in questi fenomeni? “Dietro questi episodi troppo spesso si nascondo vicende ragioni e problemi familiari. Certamente stare in carcere non è una soluzione ideale per le loro difficoltà. Però, non credo che si possa dire che ci si suicidi per il sovraffollamento delle celle”. Genova: Uil-Pa; nel carcere di Marassi detenuto dà fuoco alla cella, ferito un poliziotto Ansa, 2 agosto 2010 “Ieri intorno alle 19.00 a Marassi, un detenuto ha dato fuoco alla cella ove era ristretto nel nuovo Reparto del Centro Clinico Regionale. Il tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria ha scongiurato il peggio”. A dichiararlo il Segretario Regionale Uil Penitenziari Liguria, Fabio Pagani, che non usa perifrasi per illustrare la situazione: “L’istituto già ribolle per le alte temperature ed il caldo infernale. Le condizioni di detenzione, oggettivamente affliggenti, non fanno altro che alimentare nervosismi e tensioni tali da farlo diventare un altoforno. Il detenuto magrebino, che è in cura presso il nuovo reparto, per motivi ancora da chiarire ha appiccato il fuoco alle lenzuola e le fiamme hanno presto invaso l’intera cella unitamente ad un fumo denso che ha reso l’aria irrespirabile. Gli agenti di sorveglianza sono prontamente intervenuti e a fatica hanno portato fuori pericolo il detenuto che non intendeva lasciare la cella in fiamme. Nel tentativo di salvataggio un poliziotto penitenziario ha riportato una forte contusione ad un braccio colpito dalla branda che il detenuto gli ha scagliato contro”. La Uil Penitenziari non manca di sottolineare per l’ennesima volta il grave sovraffollamento non rinunciando a stuzzicare l’Amministrazione Penitenziari circa la gestione del personale: “Alle 24.00 di ieri erano presenti 765 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 450. Di contro il contingente di polizia penitenziaria è pari a circa 160 unità. Proprio queste gravi carenze - sottolinea il Segretario Regionale - ci impediscono di prevenire le violenze. Basti pensare che dalle 20.00 alle 6.00 non sono più di una ventina gli agenti in servizio in tutta la struttura. Inoltre, l’apertura del nuovo centro clinico è stata effettuata senza alcuna implementazione degli organici. Ne consegue che il personale in servizio deve sobbarcarsi di turni massacranti e carichi di lavoro insostenibili. Troppo facile recuperare posti detentivi sulle spalle degli incolpevoli poliziotti. Eppure basterebbe far rientrare i tanti distaccati per riportare le difficoltà a livelli fisiologici e sostenibili. Benché in molti si spendano, anche sul fronte sindacale, a minimizzare noi ribadiamo che la situazione di Marassi è da paura. Pare utile ricordare che con quello di ieri sale ad otto il numero di agenti feriti in questo 2010. Nemmeno fossimo ad un campo di battaglia”. Frosinone: in corso lavori per l’ampliamento del carcere, ma mancano gli agenti Il Tempo, 2 agosto 2010 Tra un paio d’anni, forse anche meno, l’istituto penitenziario di Frosinone sarà in grado di ospitare un migliaio di detenuti. Sono in corso infatti i lavori per l’ampliamento della struttura di via Cerreto. Gli scavi sono iniziati tre mesi fa, secondo le stime sarà necessario un anno e mezzo per ultimare la nuova ala destinata ad ospitare cinquecento carcerati in più. Nel 2011 verrà raddoppiato dunque il numero di detenuti. Attualmente, a fronte di una ricettività di 315 posti, il carcere ospita 510 detenuti. Un surplus che, unito alla carenza di personale della polizia penitenziaria, sta generando un allarme sociale. Sono infatti 217 gli agenti in servizio a Frosinone (secondo i dati forniti dal Prap e aggiornati al 28 febbraio 2010), ne servirebbero almeno 260 per far fronte al sovraffollamento del carcere. Nel mese di aprile il personale penitenziario aveva messo in piedi una dura protesta culminata con lo sciopero della fame (due agenti vennero persino ricoverati in ospedale), ma non è bastata. Il dipartimento aveva dapprima annunciato l’arrivo di dieci unità, il numero invece è stato dimezzato: cinque agenti che, oltretutto, hanno prestato servizio al penitenziario di Frosinone fino allo scorso 30 giugno. Con il periodo estivo, dunque, la situazione è di nuovo precipitata. Il rapporto detenuti agenti dovrebbe essere tre a uno. Ma in questo periodo a via del Cerreto, per garantire le ferie, si arriva a sfiorare anche i cinque detenuti per ogni agente. La drastica riduzione porta il personale a coprire turnazioni più ferree, con turni che arrivano anche a dodici ore. Una situazione, inoltre, destinata a peggiorare ulteriormente, nell’immediato futuro: a fronte delle tante richieste di pensionamento (2.000 a livello nazionale), non sono previste nuove assunzioni. E allora - e si tratta di un interrogativo legittimo - come potrà entrare in azione il nuovo padiglione del carcere di Frosinone, con una penuria di agenti di tale portata? L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un copione già scritto. A Rieti, ad esempio. Lo scorso anno nel capoluogo sabino è stata inaugurata una casa circondariale con una ricettività di 258 posti. Ma a causa della carenza di organico l’istituto è ancora semichiuso, un solo reparto è aperto, con 89 detenuti. Ne consegue un’ovvietà: il mancato utilizzo di questa struttura crea problemi di sovraffollamento nelle altre. Situazione analoga si registra a Cassino, a Latina e anche a Velletri. Eppure gli agenti ci sono, sulla carta almeno. Nel Lazio infatti - sempre secondo i dati del Prap - sono 3.227 le unità di polizia penitenziaria. Ma di esse solo un migliaio fa servizio nelle carceri, mentre il restante è impiegato nei cosiddetti compiti istituzionali. Insomma, un circolo vizioso apparentemente senza soluzione di continuità. Uil: nelle carceri italiane si vive un dramma sociale A tre anni e mezzo dall’ultimo indulto non si è ancora vista una presa di posizione forte: tutti gli schieramenti politici ne parlano, ma nessuno riesce ad attuare un intervento risolutivo”. È il commento del segretario regionale della Uil Pa Penitenziari Daniele Nicastrini che domani accompagnerà il segretario generale Eugenio Sarno in visita alla casa circondariale di Frosinone. “A un anno esatto dall’ultima visita verificheremo se le negatività che avevamo riscontrato e segnalato in quell’occasione sono state risolte e ascolteremo cosa avranno da dirci i colleghi poliziotti, soprattutto in relazione al mancato invio delle unità che il dipartimento aveva promesso come rinforzo a seguito delle proteste messe in atto”. Il segretario regionale ricorda lo sciopero della fame che gli agenti di via Cerreto avevano messo in atto ad aprile per denunciare una carenza di organico e una condizione lavorativa impossibile da sostenere. “Il dipartimento aveva promesso un rinforzo di dieci unità, ne sono arrivate solo cinque, provenienti da sedi distaccate che hanno prestato servizio a Frosinone fino al 30 giugno. In questo periodo il problema si ripropone, l’organico a causa delle ferie estive si riduce ancora di più”. La condizione in cui versa il carcere del capoluogo restituisce uno spaccato di realtà che accomuna l’intera nazione: “La situazione è drammatica e incandescente in tutti gli istituti penitenziari. A Frosinone la scorsa settimana il tempestivo intervento degli agenti ha consentito di sventare l’ennesimo tentativo di suicidio, ma fino a quando si potrà andare avanti così?”. Trapani: sovraffollamento di detenuti e carenza di personale, cinque agenti aggrediti La Sicilia, 2 agosto 2010 Il sovraffollamento di detenuti e la carenza di personale, sono i principali mali che affliggono le carceri trapanesi. Come per il resto d’Italia, d’altronde. Il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria lo evidenzia da tempo, sottolineando come non ci siano fondi per gli straordinari degli agenti e come ormai i mezzi utilizzati per il trasferimento dei detenuti siano del tutto fatiscenti. Secondo il Sappe, bisognerebbe poi differenziare gli istituti di pena secondo i detenuti che devono ospitare, creando delle carceri per criminali pericolosi e delle carceri per chi ha invece commesso solo reati minori. Nel carcere di San Giuliano, a Trapani, dove si trovano 510 reclusi a fronte di una capienza di 284, nell’ultimo anno sono aumentati gli episodi di aggressione gli agenti e i casi di autolesionismo e il sovraffollamento, oltre a determinare condizioni incivili, sta favorendo la nascita di corposi gruppi omogenei, distinti tra palermitani, trapanesi, napoletani e catanesi; urge separare questi gruppi tra le varie carceri, anche perché “l’attuale organico di 298 agenti (già inferiore ai 310 previsti) si riduce a 156 unità a causa di altri servizi collaterali e un ulteriore 33 per cento si assenta per ferie, riposi e malattie; quindi, restano 120 unità per turnazioni di 25-30 agenti tra mattina e pomeriggio, con appena otto agenti per la fascia notturna. La struttura carceraria di Favignana risulta degradata e inadeguata, con circa 180 detenuti a fronte degli 80 che dovrebbe ospitare un organico complessivo di 58 agenti che si riduce a 19 in servizio la mattina, a cinque dalle 16 alle 22 ed a tre agenti dalle 22 alle 6. A Marsala, invece, l’unico problema è il sovraffollamento perché sono presenti 46 detenuti, nonostante la capienza massima di 25, con un organico di 39 agenti. Proprio a Marsala nascerà presto un nuovo carcere, finanziato dal Ministero della Giustizia nell’ambito di un piano carceri, che mira a ridurre il fenomeno del sovraffollamento. Cinque agenti penitenziari sono stati feriti nel carcere di Trapani da due fratelli detenuti di origine napoletana. Le aggressioni sono avvenute nel giro di pochi minuti ieri nel reparto Mediterraneo, come riferisce il coordinamento regionale della Uilpa-Penitenziari Sicilia. Tre poliziotti, che hanno riportato contusioni guaribili in sei giorni, sono stati aggrediti dal detenuto T.T., che li ha colpiti dopo aver distrutto uno sgabello per protestare contro l’amministrazione penitenziaria; altri agenti sono stati poi colpiti dal secondo detenuto, che aveva chiesto informazioni sul fratello, autore della prima aggressione. “È stata una giornata campale - commenta il comandante di reparto del San Giuliano, commissario Giuseppe Romano - oggi il carcere è stracolmo di detenuti, 530 in totale, numero mai raggiunto prima d’ora. Sono frequenti gli episodi di intolleranza o di arroganza verso gli operatori penitenziari, ma tutti legati al sovraffollamento. In pochi giorni, questa è la terza aggressione che si verifica all’interno del penitenziario”. “È del tutto evidente che la crescente tensione nelle carceri italiane sta raggiungendo limiti preoccupanti. Nonostante la dichiarazione d’emergenza del Governo, però, stentano a vedersi interventi concreti per ridurre il pesante sovraffollamento e la violenza in carcere è sempre all’ordine del giorno” ha affermato Donato Capece, segretario generale del Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Capece sottolinea che solo nella giornata di ieri “altri due agenti sono stati feriti nel carcere di Arienzo (Caserta) mentre a Reggio Emilia 20 detenuti extracomunitari hanno dato vita a una rissa all’interno della sezione detentiva in cui erano ristretti”. “A tutti gli agenti coinvolti - prosegue Capece - va la solidarietà e la vicinanza del Sappe. Ma si continua a ignorare, a più di sei mesi dalla dichiarazione dello stato d’emergenza per la questione penitenziaria, che le carceri stanno per esplodere, con quasi 69 mila detenuti. Si continua a voler ignorare che 172 istituti penitenziari italiani su 204, pari all’84,31%, superano la capienza regolamentare. E che 103 istituti su 204, pari al 50,49%, superano la capienza tollerabile”. Benevento: convenzione tra l’Asl e il carcere; tempi più rapidi per visite e interventi chirurgici www.ilquaderno.it, 2 agosto 2010 Stamattina presso la Casa Circondariale di Benevento, è stata sottoscritta una convenzione tra l’Istituto Penitenziario di Capodimonte, l’Asl Bn1 e l’ospedale “Rummo” di Benevento, che velocizzerà i tempi per l’erogazione delle visite specialistiche e degli interventi chirurgici per i detenuti. “L’iniziativa - è scritto in una nota dell’ufficio stampa del deputato Costantino Boffa - nasce da alcune lettere e sollecitazioni, inviate dai detenuti a Boffa, nelle quali si chiedeva, tra le altre cose, un impegno per velocizzare i tempi delle visite specialistiche. Da qui una serie di incontri tra le parti chiamate in causa, promossi dal parlamentare sannita del Pd, in cui si è convenuto di sottoscrivere un protocollo finalizzato all’ottimizzazione e velocizzazione dei trattamenti sanitari. Alla presentazione, oltre a Boffa, hanno partecipato per l’Istituto di pena, la direttrice Maria Luisa Palma e il medico del carcere Gennaro Leone; per l’Asl, Massimo La Catena, commissario straordinario; per l’Azienda ospedaliera ‘Gaetano Rummò, il direttore generale Rosario Lanzetta. La convenzione prevede che la Asl Bn1, come sancito dalle leggi riguardanti il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni in materia di sanità penitenziaria, assicuri nei propri ambulatori e presso i propri presidi ospedalieri le prestazioni di: psichiatria, malattie infettive, odontoiatria, dermatologia, cardiologia, neurologia, oculistica, laboratorio analisi, nefrologia, fisiatria, urologia, otorino, ortopedia, reumatologia, chirurgia, endocrinologia, pneumologia, ginecologia, radiologia e Sert. Il testo stabilisce inoltre che il responsabile medico del servizio sanitario penitenziario, quale organo della ASl, una volta valutata la non erogabilità da parte della stessa della prestazione necessaria, ne fa richiesta alla Direzione Sanitaria della azienda Ospedaliera Rummo”. “L’Azienda Ospedaliera Rummo - è scritto ancora nel comunicato - comunica alla Direzione del penitenziario e per conoscenza alla Asl Bn, tempestivamente, la data di prenotazione, contemperando la lista di attesa con lo status di particolare disagio e di gravità del paziente detenuto. Nell’ipotesi in cui la natura della prestazione chirurgica lo consenta, l’Azienda Ospedaliera potrà richiedere che la susseguente degenza possa avvenire con dimissione protetta, presso l’Istituto Penitenziario di provenienza del detenuto, ove il servizio sanitario potrà garantire assistenza medica nell’arco della 24 ore. Inoltre, le prestazioni specialistiche che l’Azienda Ospedaliera garantirà in forza del presente atto sono quelle relative alle alte specialità: emodinamica, neurochirurgia, oncologia medica e altre eventuali. Le prestazioni mediche, diagnostiche e chirurgiche, fissate e inserite nelle liste di attesa che il Rummo erogherà, tra le quali andranno compresi anche gli esami diagnostici in preospedalizzazione, saranno regolate dal punto di vista economico e finanziario secondo la normativa vigente in materia”. A carico della Casa Circondariale saranno tutte le incombenze relative alla autorizzazione da parte degli organi competenti relative alla traduzione dei detenuti e alla sicurezza durante l’erogazione delle prestazioni sanitarie presso l’Azienda Ospedaliera. “Con la sottoscrizione di questa convenzione - ha dichiarato Costantino Boffa - teniamo fede a un impegno assunto poche settimane fa con la popolazione carceraria dell’Istituto Penitenziario di Benevento. Sono state infatti recepite le tante istanze pervenutemi dai detenuti affinché venissero velocizzati i tempi dei trattamenti sanitari. Chiaramente un ringraziamento va alla direzione carceraria, sempre disponibile e attenta alle richieste provenienti dagli ospiti dell’Istituto, e ai vertici della Sanità sannita che hanno dimostrato una forte sensibilità rispetto alle difficoltà e alle sofferenze dei detenuti. Fino al momento della sottoscrizione di questa convenzione infatti, i tempi di attesa per l’effettuazione di visite specialistiche potevano protrarsi a lungo, arrivando anche a sette-otto mesi, e certo chi vive in un istituto penitenziario non può scegliere di recarsi altrove per chiedere un’erogazione più celere della prestazione richiesta. Da oggi, con la sottoscrizione di questa convenzione, si sanciscono regole e procedure precise in materia di sanità penitenziaria e ciò comporterà una riduzione dei tempi di attesa”. “Per parte mia - ha concluso il parlamentare del Pd - continuerà l’impegno volto ad assicurare un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. A cominciare dal sostegno e dall’implementazione delle iniziative, molte delle quali già attive all’interno della struttura carceraria di Benevento, mirate a favorire processi di socializzazione, reinserimento e formazione dei detenuti. Ma è più in generale che, da parte delle istituzioni e della politica, occorrerebbe maggiore attenzione rispetto alle problematiche connesse alla realtà carceraria. Una realtà che negli anni ha assunto i caratteri di una vera e propria emergenza. Dall’inizio dell’anno sono 39 i detenuti suicidi nelle carceri italiane, mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause ancora non accertate arriva a 106. Nell’ultimo decennio sono più di 1.700 i ‘morti di carcerè, un terzo dei quali per suicidio. Senza dimenticare i numerosi casi di suicidio che si registrano anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, 4 sono avvenuti soltanto nel 2010. Resta poi, ancora senza risposta, il problema del sovraffollamento degli istituti di pena: sono 69.000 i detenuti ospitati nelle carceri italiane a fronte di una capacità complessiva di accoglienza che non potrebbe oltrepassare la soglia dei 43.087 posti. Problema al quale si sommano la carenza di personale di polizia penitenziaria. All’appello mancano 6.000 unità e la non adeguata presenza, in termini numerici, di professionalità mediche specializzate nel sostenere i reclusi nel loro percorso di detenzione anche al fine di scongiurare atti gravi di auto violenza. Il senso civico e il livello di democrazia di una nazione si misurano anche attraverso la capacità di assicurare condizioni di vita dignitose ai detenuti nelle carceri”. Ragusa: corso di pittura per i detenuti e progetto di accoglienza per i loro figli Agi, 2 agosto 2010 Per migliorare la qualità della vita all'interno delle case circondariali, la Provincia di Ragusa ha promosso un corso di pittura e decoupage. Il progetto interesserà i detenuti di Ragusa e Modica; "è l'ennesima tappa di un percorso che tende a rivalutare la vità anche all'interno di strutture isolate dal resto della comunità - spiega l'assessore Piero Mandarà. L'iniziativa, intrapresa grazie alla sensibilità dei direttori delle due case circondariali, vuole assegnare a tutti i detenuti quella dignità che ogni uomo merita. è un'occasione per stare accanto a chi ha sbagliato ed educarlo al rispetto delle regole, ma anche per dare un'opportunità nuova". Apprezzamento per l'iniziativa è stata espressa dal direttore del carcere di Ragusa, Santo Mortillaro: "Queste attività sottraggono gli ospiti delle carceri ai rischi dell'ozio forzato, contribuiscono a formarne, ad arricchirne, a indirizzarne la personalità verso obiettivi di autovalorizzazione e recepimento dei valori comunemente condivisi, punto di partenza nel percorso di rieducazione". Inoltre un progetto per rendere meno traumatico l’ingresso nelle carceri dei bambini che vi si recano per far visita ai genitori detenuti è stato avviato a Ragusa in collaborazione tra la Provincia e le case circondariali del capoluogo e di Modica. Animatori dell’associazione “Ci ridiamo su” accoglieranno i bimbi all’entrata e li intratterranno in attività ludiche fino al momento dell’incontro con il genitore recluso. Nell’ambito del progetto, denominato “Grisù”, il direttore del carcere di Ragusa, Santo Mortillaro, ha fatto allestire un’area esterna e una stanza a misura di bambino. Bolzano: per la costruzione del nuovo carcere bando di gara europeo, entro il prossimo anno Alto Adige, 2 agosto 2010 Il presidente della giunta provinciale, Luis Durnwalder, ha scritto al commissario alle carceri presso il ministero della Giustizia allo scopo di sollecitare la realizzazione della nuova casa circondariale di Bolzano. Il presidente si dice ottimista: già l’anno prossimo si potrebbe indire il bando di gara europeo e così, nel giro di tre anni, il nuovo carcere potrebbe essere realizzato. La lettera è stata spedita al ministero della giustizia nella giornata di martedì. Il presidente si è detto interessato alla permuta del vecchio carcere, da utilizzare per scopi dell’amministrazione provinciale, e si è detto disposto a contribuire alla costruzione della nuova struttura per una cifra compresa fra i 40 e i 50 milioni di euro. Il nuovo carcere ne dovrebbe costare circa 85. Allo Stato spetterebbe dunque un esborso compreso fra i 35 e i 45 milioni di euro. Verrà indetta, sempre a detta del presidente, una gara d’appalto europea. Si cercherà qualcuno in grado di trovare un terreno e costruirvi sopra il nuovo carcere. Il tutto nelle vicinanze di Bolzano. Secondo le linee guida elaborate dal ministero, la nuova casa circondariale dovrà ospitare 240 detenuti, ma dovrà anche disporre degli adeguati spazi per la scolarizzazione dei carcerati e le attività di riabilitazione, tipo laboratori eccetera. Il presidente è fiducioso, ma bisognerà vedere se il suo programma troverà d’accordo il ministero. Siracusa: il figlio di un detenuto; mio padre è cieco, gli hanno assegnato un “piantone” 3 ore al giorno La Sicilia, 2 agosto 2010 “Mio padre, detenuto, senza assistenza”. Le accuse del figlio di Salvatore Catania rintuzzate dal vicedirettore del Cavadonna, Linda Favi. “Non solo cieco ma privato anche dell’assistenza medica che gli spetterebbe”. A puntare il dito contro l’”inefficienza” del personale amministrativo e sanitario della struttura carceraria di contrada Cavadonna è Salvatore Catania, figlio del cinquantottenne Sebastiano Catania, rinchiuso nella Casa circondariale siracusana dal 1 luglio del 2008. Un’accusa, questa, non condivisa dal vice direttore dell’istituto penitenziario, Linda Favi, che afferma: “Catania, come qualsiasi altro detenuto viene da noi seguito con la massima attenzione”. Quella intrapresa da Salvatore, da un anno a questa parte, è una vera e propria battaglia. Voglio che a mio padre - dice - venga assicurato ogni genere di supporto”. Secondo quanto dichiarato dal figlio di Sebastiano Catania, sembrerebbe infatti che l’uomo viva in una cella di pochi metri quadrati insieme ad altre due persone. “Uno dei due compagni di cella - precisa - è il piantone assegnatogli dall’amministrazione penitenziaria per sole tre ore al giorno”. Salvatore chiede dunque alla dirigenza: “Come fa una persona per niente autosufficiente a sopravvivere durante le altre ventuno ore della giornata dipendendo dalla disponibilità e dall’umanità degli altri detenuti?”. Linda Favi controbatte: “Il signor Catania viene accompagnato dappertutto e gli vengono garantiti i controlli e gli interventi di cui necessita”. Una precisazione che stride con le parole del figlio del carcerato. “Nel momento in cui mio padre fu arrestato il suo occhio destro percepiva le ombre a 40 centimetri di distanza”. Il bulbo oculare sinistro era stato invece totalmente compromesso il 7 dicembre 2007, quando Sebastiano fu vittima di un attentato. Poco prima di salire in macchina e raggiungere la propria abitazione fu colpito con due colpi di fucile, uno dei quali lo trafisse alla gamba, e l’altro al volto. “Se avesse ricevuto le cure richieste dai nostri medici e per i quali i nostri legali si sono battuti - prosegue Catania -, non avrebbe perso completamente la vista”. Ed è sulla base di questa consapevolezza che il quarantaduenne invoca per il padre malato gli arresti domiciliari. Immigrazione: un Cie a Rovigo?; lettera dell’assessore a pari opportunità, pace e diritti umani di Giovanna Pineda (Assessore Comunale) Carta, 2 agosto 2010 La notizia è di qualche giorno fa, ma subito mi sembrava così assurda che non l’ho considerata. L’ho rimossa. Grande sbaglio! “Quando un uomo pensa una stronzata a Singapore, a Rovigo si avvera”, cita il famoso blog satirico Monello Vianello. E così anche questa volta. Ma sull’ipotesi del Cie a Zelo c’è veramente poco da ridere. Certo che dopo la centrale a carbone, il terminal gasiero, la piattaforma off-shore, ci mancava solo un lager per migranti al nostro già martoriato territorio. Ma è questo che il Polesine deve pagare per essere in Veneto? Ora ci mancava solo il Cie, e solo perché Zaia deve togliere dall’imbarazzo l’amico Tosi [a Verona non lo vogliono e lui, a ragione, ha una paura folle di perdere consenso]. “Ma a Rovigo va ben tutto, si bevono qualsiasi cosa gli proponga, stai tranquillo”, così gli avrà risposto il nostro caro presidente … ma vi rendete conto come siamo ridotti? Ma non sono queste le considerazioni che voglio fare. Vorrei spiegare alle persone cosa è veramente un Cie, perché sicuramente molti non lo sanno, dato che, e non è un caso, è quasi impossibile entrarci ed avere informazioni a riguardo. I Cie [ex Cpt] sono delle vere e proprie carceri-lager dove gli immigrati irregolari possono essere rinchiusi fino a 180 giorni in attesa dell’espulsione. Si tratta di luoghi dove - come denunciato da varie organizzazioni come Medici senza frontiere - le condizioni igenico-sanitarie sono pessime, il cibo insufficiente, si fa uso massiccio di psicofarmaci, si impedisce qualsiasi diritto alla difesa. Luoghi di sospensione del diritto dove numerosissimi sono gli episodi di violenza sui detenuti e i suicidi. Per finire in un Cie non serve commettere crimini, basta essere sprovvisti del permesso di soggiorno o averlo scaduto [per esempio semplicemente perché si è perso il lavoro]. Per una semplice irregolarità amministrativa si privano esseri umani della propria libertà e dignità, spesso si è vittime invisibili di abusi e violenze, e quando si è visto un po’ troppo, cioè si diventa un testimone scomodo, è facile anche sparire nel nulla. Molti familiari hanno denunciato sparizioni di parenti e amici. Naturalmente per loro si teme il peggio. Quando va bene si rinchiudono per 180 giorni in un carcere e si provvede alla loro espulsione, magari separandoli da mogli/mariti/figli con cui da anni vivono in Italia. Ma il fatto più sconcertante è che spesso nei Cie vengano recluse donne vittime di violenza, che finalmente hanno trovato il coraggio di denunciare il loro aguzzino, ma per tutta risposta vengono rinchiuse in questi lager, perché a loro volta ree di non avere il permesso di soggiorno in regola. Questo fatto increscioso è già successo più volte, anche a Rovigo purtroppo: una donna, stanca di essere vittima passiva, si rivolge fiduciosa alle forze dell’ordine per denunciare il proprio carnefice e chiedere aiuto, e in risposta viene invece portata in un Cie in attesa della sua espulsione. Il paradosso è che la vittima viene reclusa, in quanto colpevole di non avere il documento, mentre il vero colpevole della violenza rimane libero e impunito, libero di massacrare qualche altra donna senza documenti. Ma vi rendete conto? Ma può un pezzo di carta avere più valore della stessa vita umana? Sembra quasi un gioco perverso, ma qui si sta giocando con la vita delle persone. L’assurdo poi si è raggiunto con la storia di Faith, ragazza nigeriana, che per un caso analogo, ha denunciato il suo aggressore che la stava violentando, ma essendo priva di documenti è stata subito trasferita nel Cie di Bologna e poi rimpatriata. Le leggi inique che vigono in Nigeria, paese famoso per non brillare di democrazia, non permettono ad una donna nemmeno la legittima difesa, e quindi Faith rischia la pena di morte. Il suo avvocato e varie associazioni hanno fatto appelli su appelli, ma tutto fin’ora è stato inutile, anche la richiesta di asilo politico. Benché l’Italia sia uno dei paesi promotori della moratoria contro la pena di morte, lo stato italiano non ha esitato a consegnare ai suoi assassini una donna che ha saputo con coraggio reagire alla violenza maschile, una donna da cui tutte abbiamo tanto da imparare. La deportazione di Faith è un monito contro tutte le donne che si ribellano alla violenza maschile. Per quanto tempo ancora intendiamo tollerare la presenza dei Cie - lager in cui le donne sono spesso sottoposte a ricatti sessuali, molestie e violenze per poi essere rimpatriate col rischio di essere addirittura uccise? Cosa servono tutti gli appelli fatti per far sì che le donne denuncino le violenze subite, se poi questi sono i risultati? Si può chiamare civile uno stato che non tutela allo stesso modo le persone, che accetta che la legge non sia uguale per tutti e per tutte? Nemmeno un settimana fa c’è stata una grande manifestazione contro la violenza, proprio a pochi Km da Zelo, a Badia. Questa manifestazione aveva come slogan “Io non voglio aver paura. No alla violenza”. Spero che questa pubblica forte indignazione e denuncia, molto lodevole, non si leghi ad un singolo episodio, ma si ripeta con fermezza davanti ad ogni violenza, e purtroppo temo che non ne mancheranno le occasioni. Gli organizzatori non me ne vogliano però se riprendo parte del loro stesso slogan, integrandolo: Io non voglio aver paura di denunciare sempre la violenza! Ovunque essa sia: in casa, per strada e anche nei Cie. Iran: diciassette detenuti politici sono in sciopero della fame nel carcere di Evin Ansa, 2 agosto 2010 Diciassette detenuti politici iraniani, tra i quali diversi giornalisti e studenti arrestati dopo le manifestazioni anti-governative dell’anno scorso, sono in sciopero della fame nel carcere di Evin, a Teheran. Lo riferiscono i siti dell’opposizione, aggiungendo che cinque di loro sono stati ricoverati in ospedale. Secondo il sito Kaleme, i detenuti hanno cominciato la protesta dopo essere stati trasferiti in celle d’isolamento. Un altro sito, Rahesabz, aggiunge che la punizione è stata imposta loro dopo alcune scaramucce tra i prigionieri e le guardie carcerarie, accusate di avere trattato male i loro congiunti che erano venuti a far loro visita. Le famiglie dei 17 prigionieri hanno tenuto due giorni fa una raduno di protesta davanti alla Procura di Teheran, mostrando fotografie dei loro congiunti in carcere. Tra di loro vi sono due importanti dirigenti del movimento studentesco, Abdollah Momeni e Majid Tavakoli.