Giustizia: le nostre prigioni, che raccontano un Paese incivile di Piero Oddone La Repubblica, 29 agosto 2010 Il livello di civiltà di un’intera nazione può essere misurato in molti modi: e di tanto in tanto si leggono nei giornali statistiche e classifiche, dalle quali non usciamo, in genere, molto bene. Ma se dovessimo scegliere un solo criterio di giudizio fra i tanti, non esiterei a indicare le prigioni. La civiltà di un Paese si misura dagli istituti di pena, e dalle condizioni di vita dei detenuti. Ebbene: se questo è vero, l’Italia è un Paese semibarbaro. I giornali se ne occupano quando qualche detenuto commette suicidio. Si viene a sapere, allora, che il numero dei posti disponbili nelle carceri è inferiore al numero dei detenuti. Si pubblica anche qualche descrizione delle condizioni di vita nei penitenziari: sporcizia, promiscuità, sovraffollamento. Dopo di che si passa ad altra notizia, e tutto rimane come prima. Sull’argomento della detenzione si sono scritti tanti volumi, e dal punto di vista della teoria non siamo agli ultimi posti. Sappiamo che la detenzione ha vari scopi. Serve a punire coloro che hanno violato la legge: delitto e castigo. Dovrebbe inoltre proteggere la società da individui che, lasciati in libertà, rappresentano un pericolo. Poiché un individuo potenzialmente criminale non può essere tenuto in carcere vita natural durante, se non nel caso di ergastolo, la detenzione dovrebbe rieducare l’individuo, e riconsegnarlo alla società migliore di quando è stato condannato. Chi conosce le condizioni dei penitenziari in Italia sa quanto sia illusoria la funzione educativa: è più probabile che individui tendenzialmente buoni, dopo un periodo in carcere, diventino pessimi. Ma quel che più indigna è il fatto che un’alta percentuale dei detenuti, in Italia, è in attesa di giudizio, quindi da considerarsi innocente fino all’eventuale condanna che, funzionando la giustizia come funziona, verrà quando verrà. Se l’Italia fosse un paese civile, i suoi governanti non si darebbero pace fino a quando non avessero affrontato il problema delle prigioni. Costruendo nuovi istituti di pena. All’origine della tragedia di cui stiamo parlando è infatti lo squilibrio fra il numero dei detenuti e i posti disponibili. Manca il denaro? Quando è necessario il denaro si trova sempre: non ripubblicherò per l’ennesima volta l’elenco degli sprechi. Ma i nostri governanti ai problemi seri non pensano. E invece di migliorare le condizioni delle prigioni, dedicano tutti i loro sforzi a non finirci essi stessi, come in molti casi meriterebbero. Giustizia: Mantini (Udc); no a prescrizione breve, serve lodo costituzionale o amnistia Il Velino, 29 agosto 2010 “Anche alla luce della equilibrata posizione espressa dal Vice Presidente del Csm, Michele Vietti, occorre stemperare la conflittualità tra politica e magistratura. Non è possibile che la stessa tenuta della maggioranza e del Governo dipenda dall’approvazione della prescrizione breve per i processi di Berlusconi ossia da un’ennesima legge ad personam che mandi in fumo centinaia di migliaia di processi. Se si vuole tutelare il sereno svolgimento della funzione politica del Premier si proceda all’introduzione di una specifica guarentigia con lodo costituzionale. Ma se si cerca una misura di indulgenza con legge ordinaria, allora l’unica strada possibile è quella dell’amnistia condizionata per i reati minori, con lo scopo di deflazionare il carico giudiziario e, in parte, anche le carceri”. Lo dichiara il deputato dell’Unione di Centro Pierluigi Mantini, componente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, che sottolinea: “Non sarebbe più una legge ‘ad personam’, ma un provvedimento organico al sistema giustizia approvato con maggioranza qualificata e dunque con la responsabilità ampia del Parlamento”. Giustizia: Sappe; attivare tavoli politici e tecnici per trovare soluzione al sovraffollamento Agi, 29 agosto 2010 Insieme alla riforma del processo breve, attivare tavoli politici e tecnici “per trovare, insieme, soluzioni al grave problema del sovraffollamento penitenziario”. È quanto chiede Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). “Da tempo il Sappe sostiene che è necessaria una concreta riforma del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda più veloci i tempi della giustizia. Dovrebbe infatti fare riflettere seriamente - sostiene Capece - che oggi nelle carceri italiane circa la metà dei quasi 69mila detenuti presenti sono imputati (in attesa di primo giudizio, appellanti e ricorrenti). Ma come sigla sindacale più rappresentativa del Corpo di Polizia Penitenziaria abbiamo l’obbligo istituzionale di svolgere un’opera di controllo sulle questioni che ledono i diritti dei nostri iscritti”. Inoltre, “anche l’obbligo morale di perseguire un’attività di proposta e di indirizzo sulle problematiche penitenziarie, seguendo le indicazioni che sono frutto della nostra decennale esperienza sul campo. Per questo auspichiamo che si attivi presso il Ministero della Giustizia un tavolo tecnico sulle criticità penitenziarie, presieduto dal ministro Alfano, che lavori parallelamente all’annunciata riforma del processo breve. Il grave momento di crisi che ricade per ora unicamente sui quasi trentanovemila agenti e sulle loro famiglie ci impone di trovare e discutere su soluzioni che possano essere comprese e condivise dai cittadini e fatte proprie dal governo. E noi vogliamo fare la nostra parte”. Secondo il segretario del Sappe “non è possibile rinviare ulteriormente l’individuazione di soluzioni concrete per risolvere le gravi criticità penitenziarie del Paese, caratterizzate da quasi 69mila persone detenute presenti e un Personale di Polizia penitenziaria che si assottiglia giorno per giorno, di cui ancora non è previsto un prossimo e concreto reintegro”. Diverse le proposte che il Sappe mette sul tavolo: “C’è da augurarsi che si arrivi a definire concretamente la tanto auspicata strada dei circuiti penitenziari differenziati prevedendo, in questo contesto, la costruzione di carceri per così dire leggere per i detenuti in attesa di giudizio destinando le carceri tradizionali a quelli definitivi. In questa direzione, c’è una soluzione alternativa per l’edilizia penitenziaria ed è un progetto, molto usato negli Stati Uniti, che riguarda un sistema modulare, vale a dire un edificio che può essere costruito con costi competitivi e tempi di esecuzione estremamente rapidi. Parliamo di strutture con capacità ricettiva di 600 posti letto costruibili in quattro mesi, con un costo inferiore ai 20 milioni di euro e posti in opera in soli 7 mesi. Questa potrebbe essere una prima rapida soluzione per deflazionare le affollate carceri italiane”. Capece richiama poi l’attenzione sull’esigenza di riprendere il decreto sull’utilizzo della Polizia penitenziaria presso gli Uffici per l’Esecuzione penale esterna (Uepe), per il controllo sulle persone che usufruiscono delle misure alternative”. “Il problema dell’enorme spreco di denaro pubblico dovuto al mancato utilizzo dei braccialetti elettronici che il Sappe sta denunciando da mesi sembrerebbe dipendere da problemi tecnici e burocratici per cui è la magistratura che trova difficoltà pratiche a ricorrere al loro utilizzo come misura alternativa. Tutto ciò rende intollerabile - dice ancora Capece - il problema del sovraffollamento nelle carceri e rende pericoloso il lavoro quotidiano degli agenti penitenziari. La Polizia penitenziaria, in virtù anche degli istituendi Ruoli Tecnici, potrebbe facilmente ed efficacemente, provvedere alla loro installazione e gestione, con conseguente maggiore e più efficace controllo delle misure alternative, di quanto non succeda oggi. Chiediamo quindi di aprire da subito un tavolo di trattative tecniche con il ministro Alfano e le altre realtà sociali che operano negli Istituti penitenziari, per trovare insieme delle soluzioni condivise e risolvere il grave momento di crisi che il settore penitenziario sta vivendo e che principalmente la Polizia penitenziaria sta fronteggiando e pagando in termini di condizioni di lavoro gravose e particolarmente stressanti”. Sicilia: Falcone (Pdl); la condizione delle carceri siciliane è ai limiti del collasso Ansa, 29 agosto 2010 Il sovrappopolamento, la carenza dei servizi igienico - sanitari, l’obsolescenza delle strutture, creano, ai reclusi, insopportabili disagi che spesso determinano crisi depressive che culminano nei suicidi o tensioni nervose che scatenano episodi di violenza”. A lanciare l’allarme è il Parlamentare regionale del Popolo della Libertà, On. Marco Falcone che, oggi, nel corso di un incontro, ha avuto modo di confrontarsi sulla situazione carceraria siciliana col senatore Salvo Fleres, Garante dei Diritti Fondamentali dei detenuti e con la Commissione consiliare dei Servizi Sociali presieduta dal Consigliere Camillo Baldi. “Abbiamo convenuto con il Sen. Fleres e con la Commissione - continua il Parlamentare - nel corso del nostro incontro, di dover affrontare e risolvere prioritariamente la grave situazione che affligge i detenuti delle nostre carceri, al fine di alleviare la, già grave, sofferenza, determinata dalla perdita della libertà ed impedire il perpetrarsi di atti di violenza o di gesti inconsulti”. “L’elaborazione della nuova Legge Quadro sui Servizi sociali in Sicilia - conclude Falcone - è un’occasione imperdibile per inserirvi percorsi di riabilitazione e di risocializzazione per gli ex detenuti con il doppio obiettivo di sottrarli alla criminalità e riprospettargli una vita onesta e normale”. Lazio: il Garante; nell’ultimo anno detenuti sono aumentati il doppio della media nazionale Il Velino, 29 agosto 2010 Nel Lazio, nell’ultimo anno, la popolazione detenuta è cresciuta in percentuale a un ritmo quasi doppio rispetto al resto Italia. In dodici mesi (da luglio 2009 a luglio 2010) nel Paese i detenuti sono aumentati di oltre 4.500 unità (più 7 per cento) mentre nel Lazio i reclusi sono aumentati di 650 unità (più 12 per cento). I dati sono stati diffusi dal garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Da febbraio 2010 a oggi, in particolare, i detenuti nel Lazio sono aumentati di oltre 400 unità. Secondo le rilevazioni del Prap del 25 agosto, nei 14 istituti della regione c’erano 6.287 detenuti, circa 1.700 in più rispetto alla capienza regolamentare. “Quella che si sta vivendo nelle carceri è un’estate difficilissima, in cui la sopravvivenza è messa a dura prova dal caldo, dal sovraffollamento, dalla fatiscenza delle strutture e dalla drammatica carenza di personale e di fondi - Marroni - È quasi inevitabile che, in queste situazioni, aumentino i gesti di autolesionismo e il rischio suicidi. E la cosa più tragica è che, tutta presa com’è a parlare di alleanze e di futuro, la politica sembra aver dimenticato che esiste anche un’emergenza carceri”. Dai dati diffusi dal garante, risulta che nelle celle della regione sono attualmente reclusi 5.853 uomini e 434 donne. Alla fine di luglio erano 5.811 uomini e 442 donne. Il 20 giugno c’erano 5.795 uomini e 459 donne: il 24 maggio erano 5.784 gli uomini e 445 le donne. Il 21 aprile i detenuti erano 6.138 (5.704 uomini e 434 donne), l’11 marzo 6.082 (5.648 uomini e 434 donne), a febbraio 5.882 (5.470 uomini e 412 donne). Numericamente le situazioni più critiche sono a Latina (dove i detenuti dovrebbero essere 86 e sono invece 155, dieci in più rispetto a luglio), Viterbo (723 contro i 433 previsti, quaranta in più rispetto al mese precedente), Frosinone (quasi 200 in più), Rebibbia N.C. (quasi 500 detenuti in più) e Regina Coeli (circa 300 in più). A Rebibbia Femminile le donne dovrebbero essere 274, sono invece quasi 100 in più. Ancora insoluto il caso di Rieti, dove il nuovo carcere da 306 posti ospita 112 reclusi in due sole sezioni aperte e sovraffollate. Il resto della struttura è chiuso per carenza di risorse economiche e di agenti di polizia penitenziaria. Sassari: il carcere di San Sebastiano è un lager, ora la parola passa ai giudici di Guido Melis (Parlamentare Pd) L’Unità, 29 agosto 2010 Sassari, mercoledì mattina. Tre parlamentari del Pd (io stesso, Arturo Parisi e Gian Piero Scanu) più il presidente di “A buon diritto” Luigi Manconi hanno chiesto, con una conferenza stampa, la chiusura immediata del carcere locale di San Sebastiano e notizie certe sull’apertura del nuovo istituto di Bancali, la cui costruzione, affidata alla ditta Anemone, è tuttora coperta da un inspiegabile segreto. San Sebastiano, una prigione che risale a prima dell’unità d’Italia, è - come abbiamo detto mercoledì - il peggiore carcere italiano (il “più peggiore”, se si potesse dire, in un sistema carcerario di per sé “peggiore”). Come risulta dalle visite dei parlamentari Pd (l’ultima il 13 agosto) è un cumulo di illegalità e di scandalose inadempienze: un piano crollato due anni fa e mai ripristinato, 214 detenuti ammucchiati in spazi che potrebbero contenerne a malapena 154,80 tossicodipendenti, 50 soggetti a trattamenti psichiatrici, celle fatiscenti con 4 o 6 letti malamente affastellati, il gabinetto alla turca sempre aperto a un passo dalle brande, a meno di un metro dal fornellino dove si scaldano i pasti. E poi: pulizia sommaria, muri scrostati, sbarre arrugginite, poca aria, insetti e forse topi, piccioni nei corridoi, caldo d’estate e freddo d’inverno, uno stato di cose contrario alla pubblica igiene (altro che servizi “privati, decenti e di tipo razionale” come da regolamento). Le norme europee fissano in mq 7,5 lo spazio minimo per detenuto: qui si sopravvive in circa un metro quadro. Naturalmente San Sebastiano è solo la punta dell’iceberg. La recente iniziativa del Ferragosto in carcere, cui il Pd ha aderito su sollecitazione dei radicali, ha consentito di scattare una foto d’insieme sul sistema nazionale degli istituti di pena allarmante e scandalosa. Ma qui a Sassari, se è lecito ripeterlo, le cose sono anche peggio. Si attende, è vero, l’apertura del nuovo penitenziario di Bancali, ma le nostre interrogazioni al ministro Alfano sui tempi e sui costi dell’opera restano da mesi senza risposta. Visto il protrarsi dello sfascio, come parlamentari Pd, abbiamo ritenuto nostro dovere presentare un esposto alla Procura della Repubblica e chiamare al tempo stesso in causa tutte le autorità: dall’assessore regionale alla sanità al commissario della Asl sulle tragiche condizioni igieniche, dal sindaco al presidente della Provincia per quanto riguarda la permanenza sul territorio sardo di un simile sconcio. La Sardegna è terra di servitù pesanti ed eterne. Quelle militari sono state solo allentate dalla coraggiosa iniziativa della Giunta regionale di Renato Soni. Quelle carcerarie permangono ancora: Buoncammino a Cagliari, Badu ‘e Carros a Nuoro costituiscono altrettante note dolenti. Ma San Sebastiano è contrario alla norma e alla lettera della Costituzione. Bisogna chiuderlo. Catania: il suicidio di Carmelo Castro non è una “morte sospetta”, il gip ha archiviato il caso La Sicilia, 29 agosto 2010 Arrestato il 24 marzo 2009 per una rapina e quattro giorni dopo trovato impiccato nella cella 9 di piazza Lanza. Quella del 20enne incensurato di Biancavilla Carmelo Castro sembra proprio destinata ad essere liquidata come un caso giudiziario da archiviare. Ma resta pur sempre una morte sospetta. Dopo due interpellanze parlamentari bipartisan (alle quali il ministro Alfano non ha risposto) e un’istanza giudiziaria affinché si svolgessero supplementi d’indagine, il gip Alfredo Gari, sciogliendo la riserva posta il 14 maggio scorso, dopo oltre tre mesi, ha dato il suo responso, disponendo l’archiviazione del caso, ritenendo che “le indagini preliminari siano state scrupolose ed esaustive” e non ravvisando a carico dei vari soggetti che a diverso titolo hanno avuto ruolo nella vicenda, nessun profilo di colpa. Il provvedimento ha lasciato l’amaro in bocca nella famiglia del giovane che tramite il legale di fiducia Vito Pirrone, aveva invece segnalato alcuni punti “misteriosi” su questa morte, punti che purtroppo la magistratura non avrebbe chiarito. Forse bisognava chiarire fino a che punto un detenuto in regime di “grandissima sorveglianza” come questo diciottenne, andasse sorvegliato (gli agenti di custodia l’hanno visto vivo per l’ultima volta verso le 9 e poi sono tornati nella sua cella alle 12,20, cioè oltre tre ore dopo, quando ormai era troppo tardi), c’è anche un non trascurabile particolare che è rimasto sotto silenzio: se è vero che le guardie sono andati da lui alle 12,20, è anche certo che qualcuno - ma chi? - gli ha portato da mangiare, dal momento che l’autopsia ha riscontrato nello stomaco del ragazzo parecchio cibo non digerito. E se non è stato il personale di Piazza Lanza a portargli da mangiare, allora certamente saranno stati altri detenuti, che comunque non sono stati identificati e ascoltati dal magistrato e che magari, essendo stati gli ultimi a vedere Carmelo, qualche notizia in più sul suo stato d’animo, avrebbero potuto darla. Il giovane, al suo primo interrogatorio in caserma, subito dopo l’arresto (mentre sua madre, dal piano sotto lo sentiva piangere e gridare) aveva fatto i nomi dei correi. E per evitare ritorsioni, Carmelo era stato messo in isolamento; ed egli stesso, forse per non fare brutti incontri, aveva rinunciato all’ora d’aria. Ma nessuno dei medici che lo hanno visitato in carcere ha mai notato in lui uno stato d’animo tale da preannunciare un suicidio. Infatti per l’avv. Pirrone suona strano che uno, prima d’uccidersi, mangi per intero un abbondante piatto di carne e patate. Foggia: in carcere è in emergenza; il Sappe incontra il prefetto Gazzetta del Sud, 29 agosto 2010 Si è svolto ieri, presso la prefettura di Foggia, l’incontro tra una delegazione del sindacato autonomo polizia penitenziaria e il prefetto di Foggia Antonio Nunziante, sulla preoccupante situazione sanitaria del penitenziario del capoluogo dauno. A chiedere l’incontro nei giorni scorsi è stato proprio il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) preoccupato da una situazione sanitaria che oltre a creare enormi problemi al già carente organico della polizia penitenziaria, sta iniziando ad avere ripercussioni anche per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il Sappe ha illustrato con dati alla mano la situazione degli accompagnamenti presso strutture pubbliche nonché dei ricoveri dei detenuti al prefetto che si è mostrato molto sensibile sull’argomento, considerato che detenuti anche pericolosissimi escono dal carcere per patologie che prima erano curate all’interno del penitenziario. Proprio per questi motivi in Sappe ha chiesto al prefetto di convocare una tavolo tecnico presso la prefettura con dirigenti dell’amministrazione penitenziaria e dell’Asl al fine di trovare un accordo che ridimensioni un fenomeno che come si diceva prima, diventa sempre più preoccupante. “Alla nostra richiesta - si legge nella nota del Sappe - il prefetto Antonio Nunziante si è detto disponibile, ed ha comunicato che contatterà gli enti preposti affinché si trovi una soluzione che contemperi le esigenze dell’Asl, con quelle di sicurezza dell’amministrazione penitenziaria. Altro tema affrontato riguarda la carenza dell’organico della polizia penitenziaria per cui è stato chiesto al prefetto di voler intercedere presso le competenti autorità di governo affinché si utilizzino i militari per il controllo del muro di cinta così come avviene per le esigenze di ordine pubblico. L’utilizzo dei militari permetterebbe di recuperare personale di polizia penitenziaria da impiegare sia nelle sezioni detentive che per le traduzioni dei detenuti all’esterno del carcere. Anche su questa spinosa questione il prefetto non si è sottratto anche se, ha precisato che secondo l’attuale normativa non è possibile che i militari entrino all’interno del penitenziario per presidiare il muro di cinta. Discorso diverso è invece la possibilità di sorvegliare il carcere con pattuglie esterne al carcere per sorvegliare la struttura situazione per cui, farà un attenta verifica”. Infine il Sappe ha rappresentato al prefetto la necessità che in questo periodo molto caldo per il carcere di Foggia, almeno nelle ore notturne dalle 24 alle ore 6, non vengano condotti in carcere gli arrestati, poiché in tali ore, proprio a causa della grave carenza di organico, il penitenziario è più sguarnito. “Anche su tale questione - prosegue la nota - il prefetto si è mostrato sensibile ed interessato. Mentre ancora una volta le istituzioni esterne al carcere dimostrano grande attenzione a quello che accade nel carcere di Foggia, dobbiamo registrare il voltafaccia dell’amministrazione penitenziaria di Roma, che a seguito delle proteste di tutti i sindacati che qualche tempo fa furono ricevuti dal prefetto per la carenza di organico, ha risposto che l’organico del penitenziario Foggiano è al completo e non necessitano nuovi arrivi. Purtroppo a Roma hanno dimenticato una cosa molto semplice e cioè che quell’ organico fu costituito per far fronte ad una presenza di 370 detenuti, mentre oggi in media si registra un presenza di circa 750 detenuti nel carcere di Foggia”. Nuoro: Badu ‘e Carros è destinato a ospitare nuovamente detenuti in regime di 41 bis? La Nuova Sardegna, 29 agosto 2010 Il penitenziario nuorese sarà nuovamente un carcere di massima sicurezza? Sarà ancora una volta la dura galera dei terroristi come lo fu già negli anni 70-80? O diventerà la Cayenna degli estremisti islamici condannati in Italia? Chissà... Certo è che Nuoro non starà a guardare: “Ora vogliamo risposte chiare e definitive” alza la voce il sindaco Sandro Bianchi. “No, la Sardegna ha già dato, non siamo più disposti a subire l’ennesima militarizzazione” dice il parlamentare Guido Melis, componente della Commissione Giustizia della Camera. “Faremo di tutto affinché questo non accada” gli fa eco il collega deputato Giulio Calvisi. Entrambi parlano subito dopo una “visita” all’Istituto di pena nuorese. Una “visita” organizzata per raccogliere il recente appello del sindaco Bianchi (e della Cisl che per prima ha sollevato il caso) e portare così gli interrogativi della città direttamente a Roma, a Montecitorio. “Oggi stesso - assicurano, infatti, in coro, i due onorevoli del Pd - presenteremo un atto ispettivo, un’interpellanza, un’interrogazione o... insomma, lo strumento più veloce per avere una risposta certa dal ministro Alfano”. È lui, infatti, il titolare del dicastero della Giustizia, Angelino Alfano, l’unico che può spiegare quale sarà il futuro immediato e prossimo del carcere nuorese di Badu ‘e Carros. Lui, l’unico che potrà svelare quale sarà la destinazione del nuovo padiglione in costruzione nel penitenziario barbaricino. Lavori in corso e coperti da segreto, visto che neppure il sindaco di Nuoro è riuscito a sapere nulla di nulla. Una cosa è certa: “Noi come Partito democratico - insiste Calvisi -, come pure il Comune, la Provincia e persino la Regione, siamo contrari a qualsiasi progetto di riportare a Nuoro il carcere di massima sicurezza”. “È necessario l’impegno di tutti” aggiunge il consigliere regionale Giuseppe Luigi Cucca. Anche lui ha voluto fare “visita” alla Casa circondariale nuorese. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poi, ha dato il permesso a unirsi al gruppo anche al sindaco Bianchi. Negato, invece, il nullaosta al presidente del Consiglio comunale: Gianni Salis è dovuto restare fuori. Tutto ok, naturalmente, per il Garante dei detenuti del Comune di Nuoro, Carlo Murgia. Che a fine mattinata, in conferenza stampa, all’interno dello stesso carcere e davanti al comandante degli agenti di polizia penitenziaria Antonio Cuccu (assente la direttrice dell’Istituto Patrizia Incollu) sottolinea come un ritorno al passato sarebbe “una regressione”. “Nuoro, anzi - sottolinea Murgia -, potrebbe diventare un carcere modello”. “Rispetto alle altre realtà isolane - aggiunge Cucca -, qui a Nuoro oggi come oggi non c’è il problema del sovraffollamento”. La capienza di Badu ‘e Carros, infatti, è di 273 posti letto. I detenuti, invece, sono 150. Resta comunque il problema del personale perennemente sotto organico. “Perciò chiederemo al Governo - spiega Guido Melis - di riaprire i concorsi per il reclutamento di altri poliziotti”. E all’attenzione del Governo, i deputati Melis e Calvisi, porteranno anche la richiesta avanzata da Giuseppe Luigi Cucca: “L’applicazione concreta del principio della territorialità della pena, così come previsto dall’ordinamento del 1975 e ribadito dall’Intesa Stato-Regione del 2006, un protocollo rimasto finora lettera morta”. Tant’è vero che gli ultimi dati forniti dallo stesso ministero sono alquanto paradossali: “Su 2.206 detenuti sardi - dice Sandro Bianchi -, soltanto 1.165 scontano la pena in Sardegna”. Questa è l’Italia. Uno Stato di diritto che conta ormai 70mila detenuti, la metà dei quali ancora in attesa di giudizio, mentre la capienza massima delle carceri è di soli 43mila posti letto. Rimini: mancano gli agenti, rimandata l’apertura della nuova sezione detentiva Corriere Adriatico, 29 agosto 2001 Non un detenuto di più finché non saranno arrivati i rinforzi. E di aprire la nuova sezione del carcere, denominata “Cassiopea” non se ne parla neppure se prima non vi sarà il supplemento di personale più volte richiesto. È stata accolta la richiesta inviata dal direttore della casa circondariale di Rimini Annamaria Benassi alla direzione regionale e al Ministro Alfano. La questione era stata sollevata nei giorni scorsi dai sindacati della polizia penitenziaria di Rimini (Cgil, Cisl, Uil e Sappe). Le organizzazioni sindacali avevano espresso il loro disappunto sulla decisione del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Bologna di aprire la nuova ala indicando anche una data imminente. Già sotto organico (le guardie sono 100 anziché 160), per coprire i turni avrebbero dovuto rinunciare alle ferie e sopportare turni di lavoro oltre le 9 ore giornaliere. “Peggio di noi solo i cani”. Così avevano titolato, alcuni mesi fa, i detenuti una lettera fatta pervenire ai giornali in cui denunciavano il problema del sovraffollamento. “Scriviamo queste righe per raccontare l’altra pena, quella a cui siamo costretti per il fatto di vivere in 10, 11 in una cella di 12-16 metri quadrati dove i letti a castello riducono la superficie calpestabile a 6 metri quadrati quando va bene”. Quando va male sono costretti a mettere il materasso sul pavimento e a rinunciare alla branda. “In un canile per legge - ricordano - ci vogliono nove metri quadrati per animale. L’emergenza è tale da costringere gli addetti a trovare soluzioni alternative. L’ultima è stata quella di trasformare in cella l’ex saletta ricreativa senza infissi e con cellophane al posto dei vetri e di stiparvi come bestie 21 persone, con un unico bagno”. I detenuti sottolineano che la pena vissuta in questo modo si trasforma in uno strumento inefficace nel redimere chi ha sbagliato. Lo sfogo prosegue con l’esame di quanto ottenuto da quando si è sollevato il coperchio sulla situazione delle carceri: nulla. E a nulla hanno portato le visite dei rappresentanti del governo, dei dirigenti degli uffici penitenziari. Sulmona: il responsabile medico del carcere (e sindaco) sotto protezione per timore di attentati Il Centro, 29 agosto 2010 Il sindaco Fabio Federico finisce sotto protezione dopo l’attentato con l’acido ai danni della sua auto. E si fanno serrate le indagini - in ambienti politico-amministrativi e del carcere - per smascherare i responsabili del raid. L’episodio si è verificato giovedì in piazza Brigata Majella, in pieno centro. Si ipotizza fra le 13 e le 14. Il sindaco Fabio Federico, dopo avere terminato la riunione di giunta, si è recato nel parcheggio a pagamento e ha trovato l’auto danneggiata. Sulla carrozzeria del fuoristrada Mitsubishi, acquistato un paio di mesi fa, è stato versato dell’acido (del tipo contenuto nelle batterie). Il danno ammonta a circa 5mila euro. Federico, che è anche dirigente medico del supercarcere di via Lamaccio, è stato messo sotto protezione. Una misura già adottata cinque anni fa quando ricevette, insieme all’allora direttrice del penitenziario di via Lamaccio, Armida Miserere, una serie di minacce di morte. Sull’attentato con l’acido è stata aperta un’inchiesta della Procura. Le indagini degli agenti del commissariato di Sulmona mirano a fare chiarezza su quanto accaduto e si concentrano sulle attività di Federico. Da un lato quelle politico-amministrative (lo stesso sindaco ha parlato di clima avvelenato in città dopo quanto accaduto giovedì) dall’altro quelle nel carcere. Il gesto potrebbe essere la reazione di un cittadino scontento o di uno squilibrato. Non sono da escludere, però, legami con gli ambienti carcerari o degli anarchici. Ogni volta che si verificano episodi di autolesionismo o di violenza in carcere (pochi giorni fa la morte di un detenuto campano) riesplodono le polemiche e sui siti internet compaiono frasi contro il sistema carcerario italiano e i suoi dirigenti. Federico lavora nel penitenziario di massima sicurezza da 25 anni e dall’aprile 2008 è sindaco di Sulmona in una coalizione di centrodestra. La polizia ha acquisito le registrazioni delle telecamere installate nella sede centrale dell’ufficio postale e nella filiale della Banca popolare di Lanciano e Sulmona che si trovano in piazza Brigata Majella. Gli agenti hanno ascoltato diversi commercianti che hanno attività in zona e potrebbero avere notato persone sospette aggirarsi attorno all’auto del sindaco. “Un episodio grave che lede l’immagine di questa città”, è il commento di Federico, “spero in una bravata di qualche sciocco. Temo per la mia famiglia e confido nel lavoro svolto dagli agenti del commissariato di polizia. Non credo a un messaggio intimidatorio proveniente da ambienti del carcere, visto che non hanno queste modalità e considerato che non ho mai avuto problemi con i detenuti. Il danno all’auto ammonta a circa 5mila euro. Non l’avevo neanche assicurata contro i raid vandalici. Stamattina (ieri per chi legge, ndr) sono uscito in moto”. Enna: 12 agenti di polizia penitenziaria intossicati dopo un pasto alla mensa del carcere Ansa, 29 agosto 2010 Dopo aver consumato il consueto pranzo, circa 12 poliziotti penitenziari hanno accusato malori, e, dopo essere stati refertati dal medico di guardia, sono stati dispensati dal servizio a causa di intossicamento alimentare. A dare la notizia Filippo Garofalo segretario nazionale dell’Osapp, altresì informa: “A distanza di 24 ore solamente 2 agenti sono tornati in servizio per miglioramento delle condizioni e ben 10 hanno deciso di rimanere a casa. Il cibo avariato e incriminato era uno spezzatino che poteva fare altre “vittime”. Questa pietanza era stata conservata anche per la cena. Solo l’accortezza della cuoca ha evitato il peggio, decidendo di buttarlo per il cattivo odore che sprigionava. Non è la prima volta che accadono fatti simili. Infatti già nei mesi scorsi era accaduta la stessa cosa, solo grazie all’immediato intervento improvviso della commissione mensa si è evitata la somministrazione del cibo avariato”. Aggiunge Filippo Garofalo: “L’istituto di Enna per la vigilia di ferragosto è stato visitato da una delegazione guidata dall’On. Bernardini, dal Garante per la Sicilia on. Fleres, dal Sindaco di Enna ed altri componenti. Questa delegazione ha visitato anche la mensa agenti o si è limitata a tutelare solo i detenuti come se fosse l’unico problema esistente nel mondo penitenziario? Per il grave caso che è molto increscioso, come sindacato maggiormente rappresentativo abbiamo immediatamente chiesto al Ministro Alfano un’ispezione e di individuare i responsabili con le relative conseguenze, per capire come può accadere che alla mensa agenti arrivi cibo avariato o venga tenuto in cattivo stato di conservazione. Intanto il Ministro continua a parlare di “carceri a 5 stelle”e, invece ogni giorno ci confrontiamo con carceri del terzo mondo”. Teramo: ennesimo tentativo di suicidio, sventato dalla polizia penitenziaria Asca, 29 agosto 2010 Questa notte presso la casa circondariale di Teramo soltanto la solerzia e la tempestività dell’agente di servizio hanno impedito la morte di un detenuto che ha tentato il suicidio mediante impiccagione - a darne notizia è Angelo Urso Segretario nazionale Uil Pa Penitenziari. “Bisogna dare atto alla professionalità dell’agente di Polizia Penitenziaria - continua Urso - che insospettito dall’atteggiamento del detenuto ha scrupolosamente ripetuto un controllo visivo effettuato poco prima e questo a permesso di salvare la vita al detenuto che ora si trova ricoverato in rianimazione presso l’ospedale della città”. L’agente, praticamente, durante il giro di controllo effettuato alle ore 24:00 all’atto di sostituire il collega smontante ha trovato il detenuto in questione sveglio e il breve colloquio che ha intrattenuto con lui evidentemente a fatto scattare il sospetto di qualcosa di strano. Terminato il giro di controllo, infatti, ha rifatto un controllo all’interno della cella sospetta ed ha trovato il detenuto che aveva appena compiuto l’insano gesto. “Il detenuto evidentemente era determinato - afferma il segretario nazionale della Uil Pa Penitenziari - in quanto la dinamica lascia presupporre che ha atteso il controllo delle ore 24:00 convinto che poi l’agente non sarebbe più ripassato prima di 30/40 minuti e quindi avrebbe avuto il tempo necessario per mettere in atto il tragico proposito”. Questo episodio fa seguito a quello dell’altro ieri sera avvenuto all’interno della casa circondariale di Voghera dove un detenuto calabrese di 55 anni ha tentato di impiccarsi senza riuscirci grazie all’intervento tempestivo del personale di Polizia Penitenziaria. “Il susseguirsi di eventi critici all’interno degli istituti penitenziari - conclude Urso - sottopone il personale di Polizia Penitenziaria ad uno stress psico-fisico che, inevitabilmente, inciderà negativamente su di essi. È giunto il momento che qualcuno si faccia carico della sindrome di burnout che colpisce chi esercita professioni come la nostra in situazione di eccessive pressioni psicologiche, ma anche il sistema penitenziario attraverso la sua organizzazione del lavoro”. Caltanissetta: l’Ass. Papillon; per il sostegno agli ex detenuti non ci possono essere disparità La Sicilia, 29 agosto 2010 Duro intervento dell’associazione “Papillon” che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti e degli ex detenuti di Caltanissetta e che protesta per il metodo seguito dai responsabili dei Servizi sociali del Comune nisseno. “Un metodo che non terrebbe conto dei bisogni oggettivi delle persone indigenti che si rivolgono ai Servizi sociali - scrive il presidente dell’associazione Alfredo Maffi - e che finisce con il creare figli e figliastri”. E, a questo proposito, viene ricordato quanto è accaduto a due assistiti, Francesco Zappia e Giuseppe Rocca, che sono stati trattati in maniera diversa e addirittura minacciosa, tanto che quest’ultimo è poi finito in carcere. “È davvero un modo vergognoso di trattare coloro i quali hanno bisogno dei Servizi sociali - sostiene Maffi - che a Caltanissetta ormai non tengono conto dei bisogno della gente e meno che mai degli ex detenuti, che, in base alle attuali normative, dopo che questi hanno espiato sia nei confronti dello Stato che della società la pena detentiva precedentemente inflitta invece di essere recuperato viene emarginato. Sino a qualche tempo fa al Municipio di Caltanissetta era stato avviato ed inaugurato dallo stesso vescovo uno sportello che si occupava dell’assistenza e dei bisogni degli ex detenuti: ora questo sportello è stato chiuso e non esiste più niente. Almeno prima qualcosa si faceva e si muoveva, la da un anno a questa parte non si muove niente e non si fa altro che parlare solo di trasparenza. Ma di quale trasparenza?”. “Poi c’è un altro aspetto - continua il presidente dell’associazione Papillon - che vorrei sottolineare e ricordare anche al sindaco ed agli amministratori della giunta: quando si viene eletti da una popolazione occorre poi mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Ed invece questo a Caltanissetta non avviene. Non è certo un caso che da un anno ho chiesto di poter parlare al sindaco Michele Campisi per parlare dei problemi dell’associazione e che ancora oggi non sono stato convocato. Ad ogni buon fine va ricordato che la nostra associazione non ha mai chiuso i battenti ed ha continuato a svolgere la sua attività istituzionale al fine di far rispettare la dignità dell’uomo detenuto e di quanti sono finiti in carcere e poi ne sono usciti. Persone queste ultime che, in gran numero, hanno assolutamente bisogno di essere assistite, anche perché hanno difficoltà a trovare un lavoro e non sanno come sostenere le loro famiglie ed i loro figli”. Messina: IV “Cineforum Onesimo” presso la Casa Circondariale di Mistretta Comunicato stampa, 29 agosto 2010 Continua, dopo il successo ottenuto con la proiezione dei film “Affrontando i giganti” (8 agosto), “Fede come patate” (16 agosto) e “La croce e il coltello”, (23 agosto), la rassegna curata dall’Associazione di volontariato penitenziario Crivop Onlus di Messina., con la quarta ed ultima proiezione in programma, prevista per lunedì 30 agosto, con il film “Ti dichiaro in arresto” con Phil Thatcher. Il film racconta l’intrigante storia vera di Phil Thatcher, l’uomo che, negli anni venti del secolo scorso, fu uno dei più famosi criminali della California. Phil Thatcher a 30 anni aveva passato buona parte della sua vita in prigione. Sua madre, una credente, continuava a pregare per lui. Ma un ladro incallito avrebbe potuto cambiare il suo modo di vivere? Phil scoprì che era possibile ricominciare da capo una vita nuova in libertà! La sua è una testimonianza che può alimentare fiducia e speranza in tutti noi. Prima della proiezione, come di consueto, sarà presentato il film proposto così da coinvolgere e preparare i detenuti ad una visione consapevole. Dopo la proiezione ci sarà un dibattito, per commentare ed approfondire i temi emersi, ed un rinfresco con dolci e gelati offerti dai volontari della Crivop. L’obiettivo è favorire una discussione consapevole tra i detenuti stessi, in modo da sviluppare ed attualizzare, attraverso le loro personali esperienze e le culture d’origine, i messaggi lanciati dal film. Il Presidente della Crivop Onlus Michele Recupero Immigrazione: Di Giovan Paolo (Pd); le condizioni di vita nei Cie sono pessime Il Velino, 29 agosto 2010 “Le condizioni di vita nei Cie sono pessime, le proteste di questa estate, compresa quella odierna di Gradisca, lo dimostrano. Aver prolungato a sei mesi il tempo di permanenza è una forma carcerazione preventiva non degna di uno stato civile”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della commissione Affari Europei. “Questo governo non ha idee e mezzi per fronteggiare flussi immigrazione - continua Di Giovan Paolo - E faccio notare che la norma sui sei mesi nei Cie faceva parte di una direttiva europea molto più ampia che dava precise indicazioni anche sui rimpatri assistiti”. Immigrazione: le torture nelle carceri libiche, che nessuno deve vedere di Caterina Perniconi Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2010 Pacche sulle spalle. Viaggi, tende, cavalli, sorrisi. Italia e Libia sono “amiche”. Lo stabilisce un trattato firmato due anni fa. E allora perché a nessun giornalista italiano è concesso di visitare il Paese? La domanda se l’è posta ieri la Federazione nazionale della stampa italiana, alla vigilia di un nuovo incontro romano tra il premier Silvio Berlusconi e il leader libico Gheddafi. La questione aperta è quella della condizione dei migranti nei centri di detenzione, anche alla luce dei dati del Ministero dell’Interno che parlano di una diminuzione degli sbarchi dell’88%. “Berlusconi deve porre con fermezza la questione del libero accesso dei giornalisti in Libia” si legge sulla nota diffusa dalla Fnsi. “Roberto Maroni - spiega il presidente della federazione Roberto Natale - ha detto negli scorsi giorni che con l’accordo italo-libico sono state salvate molte vite, ma si possono avere le prove di ciò solo se si può andare a vedere cosa succede”. Emblematico è stato il caso avvenuto a luglio dei 245 rifugiati eritrei e somali trasferiti forzatamente dal centro di detenzione di Misurata al centro di Sebha nel sud della Libia, all’interno di container di ferro. Grazie a un telefonino sfuggito alle perquisizioni sono riusciti a mandare messaggi all’esterno, denunciando le gravi condizioni di molti di loro. “Siamo nel sud della Libia -raccontava uno dei rifugiati a Cnrmedia - vicino al confine con il Niger. Siamo in una prigione sotterranea. Ci torturano a tutte le ore. Ci insultano, ci picchiano. La tortura è frequente, tutto è frequente”. Tra di loro 18 donne e bambini, qualcuno, racconta Cnrmedia, avrebbe tentato il suicidio avvelenandosi col detersivo. “All’informazione - scrive l’Fnsi - deve essere data la possibilità di verificare in autonomia quali siano le conseguenze delle scelte dei governi, tanto più quando esse toccano la vita stessa degli esseri umani e un diritto fondamentale come l’asilo, tutelato dalla nostra Costituzione all’articolo 10.1 giornalisti devono essere messi in grado di accertare, se lo vogliono, in quali condizioni vivano gli uomini e le donne trattenuti in Libia o li riportati dopo i respingimenti in mare pattuiti tra i due governi; se ad essi sia garantito un trattamento dignitoso; se tra di loro ci siano persone che avrebbero diritto a vedersi riconoscere dall’Italia lo status di rifugiati; se alle organizzazioni umanitarie sia consentito di svolgere il loro lavoro”. Ma non sono solo i giornalisti a restare fuori dal paese. Il 2 giugno, è stata chiusa l’Agenzia dell’Orni peri rifugiati, che è ancora in attesa di un accordo di sede con la Libia. E il direttore del Centro italiano per i rifugiati, Cristopher Hein, ha scritto una lettera a Giorgio Napolitano per denunciare il caso dei migranti eritrei e somali, e la difficoltà di reperire informazioni dal Paese africano. “I rapporti con Gheddafi sono tutt’altro che chiari - dichiara il presidente dei deputati dell’Idv Massimo Donadi - condividiamo l’appello dell’Fnsi e invitiamo il governo a riferire in aula su diverse questioni, a partire dal rispetto dei diritti civili e dei rapporti d’affari tra Berlusconi e il leader libico. Non possiamo chiudere gli occhi sulla sorte di centinaia di migliaia di migranti. Contrastare l’immigrazione clandestina non significa tollerare morti innocenti. Il rapporto privilegiato col dittatore africano desta preoccupazione e sospetti. Questione posta anche da alcuni deputati di Futuro e libertà”. Infatti sono stati proprio i finiani a sollevare dubbi sulla gestione della politica estera del premier, dalle colonne del sito della fondazione Fare Futuro. “Non ci piace la diplomazia della pacca sulla spalla, degli amici personali - spiega il direttore del periodico, Filippo Rossi - e l’esagerazione estetico-mediatica delle visite di Gheddafi. Si può evitare l’accoglienza in pompa magna, specialmente al leader di un paese non democratico”. E per la deputata di Fli, Angela Napoli, ci sono anche altri motivi: “L’accoglienza che stiamo per riservare ancora una volta a Gheddafi è del tutto ingiustificabile rispetto alle visite di altri capi di Stato. La costante presenza del leader libico non può non destare sospetti. Non vorrei che ci fossero ulteriori elargizioni di denaro, anche sotto forma di appalti e interessi diversi, per cercare di bloccare il flusso migratorio. In un periodo di crisi internazionale mi sembra offensivo per tutti i cittadini italiani”. Giappone: sollevare il velo della vergogna dalla pena di morte di Marco Impagliazzo Avvenire, 29 agosto 2010 Occhio per occhio e tutto il mondo diventerà cieco”, diceva il Mahatma Gandhi per aprire un’alternativa alla logica della vendetta. Ci sono ancora nel nostro mondo luoghi resi bui da questa logica che rende ciechi. Tra quelli più oscuri ci sono i bracci della morte in tante carceri dove si muore per una sentenza che è vendetta di Stato. In alcuni paesi del mondo non è ancora passato il principio che lo Stato e le leggi esistono a tutela della vita dei cittadini e non per la loro morte. Non c’è giustizia senza vita, recita lo slogan a fondamento della battaglia per la moratoria universale sulla pena di morte. Il significato è semplice e profondo: il fondamento e la ragione d’essere del diritto è la tutela della vita in ogni circostanza. Tra i Paesi in cui ancora è buio a questo livello c’è il democratico Giappone, che insieme agli Usa (ma non in tutti i suoi Stati) è autorevole membro del G8, mantenitore della pena capitale. Pochi a-spetti della vita pubblica giapponese sono circondati da tanta segretezza come l’applicazione della pena capitale. Il governo mantiene il massimo riserbo sulle esecuzioni. I detenuti rimangono nel braccio della morte per anni, in minuscole celle, dove l’ordine di esecuzione può arrivare in ogni momento, senza alcun preavviso rispetto all’esecuzione: e questa è una tortura. Le famiglie vengono a saperlo soltanto dopo, a esecuzione avvenuta. Sono tutti aspetti che privano di ogni diritto i condannati, oltre a rendere ancora più disumana la sentenza. L’opinione pubblica nipponica sostiene questa scelta con larghissimo consenso (si parla dell’86 per cento a favore). L’elemento della segretezza è la reale peculiarità del sistema giudiziario, che contrasta fortemente con l’anima democratica del Giappone. È la segretezza, almeno fino ad oggi, uno degli elementi vincenti del mantenimento della pena capitale. Non se ne parla nel Paese, non se ne discute e quindi non ci si rende nemmeno conto che possa esistere un’alternativa alla pena di morte. La gente non è informata sul trattamento dei condannati o sulla crudeltà dell’esecuzione. Ma oggi il Giappone si deve confrontare con un pronunciamento decisivo avvenuto a livello internazionale: la risoluzione Onu sulla Moratoria universale sull’uso della pena di morte, in cui si sancisce in modo definitivo e formale l’orientamento giuridico e culturale prevalente nella comunità internazionale. Questo risultato si è accompagnato a una presa di coscienza delle società civili sul valore e la sacralità della vita umana. Obiettivo che va ancora raggiunto in Giappone. Qui, dopo un anno di moratoria de facto, un mese fa si è tornati dolorosamente a uccidere due condannati. A queste decisioni si oppongono oggi novanta parlamentari giapponesi, di tutti i partiti politici, che hanno costituito una Lega contro la pena di morte. Di questo gruppo era parte anche il ministro della Giustizia dell’attuale governo del Partito democratico, la signora Keiko Chiba, in passato attivista di Amnesty International. Paradossalmente, però, è stata proprio lei a dover firmare le due ultime condanne. Tuttavia, proprio in questi giorni la ministra ha voluto guidare un gruppo di giornalisti nel braccio della morte del carcere di Tokyo e nel luogo dove si svolgono le impiccagioni. Il motivo: “La speranza è che questo possa diventare uno spunto in più a disposizione della gente per la discussione sulla pena di morte”, ha dichiarato Chiba. Togliere la segretezza alle condizioni in cui vivono i condannati a morte, mostrare la crudeltà della loro condizione per favorire una presa di coscienza nell’opinione pubblica. È un’iniziativa volta ad aprire un dibattito in una cultura dove non è stata ripudiata la logica della vendetta. Chiba e gli altri politici giapponesi, sollevando il velo della tradizionale segretezza sulle esecuzioni, compiono il primo vero passo perché si vedano meglio il dolore di una simile morte e il valore della vita. Per aiutare il Giappone a riunirsi al resto del mondo nella ricerca di una giustizia che sappia sempre rispettare la vita. Afghanistan: parlano le donne richiuse nelle carceri; qui può accadere che buttino via la chiave di Francesca Marretta Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2010 Vivere dietro le sbarre è dura. Eppure molte delle recluse incontrate nelle sole due strutture carcerarie femminili dell’Afghanistan, i penitenziari di Herat e Kabul, si sentono più libere “dentro” che fuori. Per rendersene conto basta ascoltare le ragioni per cui sono state condannate. A diciannove anni Gulsun è in carcere a Herat. Ha la carnagione scura e grandi occhi neri. Racconta di essere scappata da trafficanti del Baluchistan, cui era stata venduta da suo marito per l’equivalente di quattromila dollari. La polizia l’ha scovata durante la fuga. Il marito l’ha fatta arrestare dicendo che aveva abbandonato il tetto famigliare. Gulsun gli era stata data in sposa quando aveva dodici anni. In un’altra cella c’è Sabar, ventotto, considerata una poco di buono per quel carattere sfrontato e per aver concepito un figlio dopo il divorzio dal marito. I vicini l’hanno denunciata alla polizia perché sapevano del suo debole per il vino (che si acquista sottobanco in Afghanistan). Trovato il corpo del reato a casa sua, una bottiglia, Sabar è stata spedita in carcere per due anni insieme a sua figlia Nasri di un anno e sei mesi. Altri casi in cui ci si imbatte nel carcere femminile riguardano donne che sostengono di essere state accusate di omicidio per coprire uomini di famiglia, autori dei delitti. O storie come quella dell’anziana Leyla Obeid, intorno ai 70 anni, in carcere per essersi presa la colpa di un omicidio commesso da suo figlio Juneil. Quello di suo marito, che aveva abusato della giovane Aziza, moglie del ventenne Juneil. Leyla si rammarica solo che il ragazzo sia finito comunque in carcere in quanto complice. Hanno sotterrato insieme il cadavere, poi ritrovato dalla polizia, racconta la donna dietro spessi occhiali da vista, da cui sorride con una punta di soddisfazione. Prima di finire in carcere non aveva mai visto una sala con i computer. Peccato si senta troppo vecchia e illetterata per cimentarsi in qualche sessione di studio. Un’opportunità che invece non si lascia sfuggire Arizo Muhibi, che a diciannove anni sogna di sposare il ragazzo di Herat con cui è fuggita da Kabul. Questa è la ragione per cui è in carcere da un paio di mesi. L’ha denunciata la famiglia. Ma secondo Fahima e Rahimi Jusufi, sorelle di 22 e 23 anni, entrambe avvocato alla prima esperienza, spiegano, a quattr’occhi, che il ragazzo che Arizo sogna da dietro le sbarre, non la prenderà più in moglie. Per una afghana l’esperienza del carcere è un marchio a vita. Le ex detenute finiscono in molti casi per strada a chiedere l’elemosina o a prostituirsi. A “Badam Bagh”, o “giardino delle mandorle”, carcere femminile a Kabul aperto da un paio d’anni grazie all’intervento della Cooperazione italiana, le storie sono simili: fuga da casa, divorzio, gravidanza illegittima, anche in seguito a uno stupro. Rispetto alle donne in carcere nel resto del paese, chi si trova reclusa nelle due strutture costruite in base a standard internazionali, ha di certo avuto fortuna. In carcere ci sono sale per il ricamo, si tengono corsi di informatica, di lingua Dari, d’inglese. Un diritto all’istruzione negato alle ragazze “libere” dei villaggi afghani, che continuano, a nove anni dalla fine del regime talebano, a vivere da analfabete. Le celle, a Herat (carcere finanziato da Unione Europea e Ministero della Difesa italiano, costruito dal locale Prt) come a Kabul, restano aperte. Le donne sono libere di girare per i corridoi, dove scorazzano i bambini che hanno al seguito. Circa la metà delle 476 donne attualmente detenute in Afghanistan è accusata di “crimini morali”. Una zona grigia codificata nel codice penale afghano. Si tratta dunque di “crimini” che rimandano all’interpretazione della Sharia da parte dei giudici. Situazioni che altrove vedrebbero le recluse nella veste di vittima. Sullo stato del sistema giustizia in Afghanistan, la vicenda di Irene, trentenne ugandese di Kampala, finita in carcere a Kabul per coinvolgimento in traffico di droga, è emblematica. “Sono andata in tribunale con una sentenza già segnata, senza attenuanti e senza vera difesa. In aula ho incontrato qualcuno che in teoria avrebbe dovuto essere il mio avvocato. Gli ho detto: come puoi rappresentarmi se non sai nulla di me o del mio caso?”. Irene si dice scioccata dalla condizione delle donne in Afghanistan e dalla mancanza di consapevolezza dei propri basilari diritti. Quando è stata arrestata in un albergo della capitale afghana, dove si trovava da quattro giorni, aveva 4700 dollari. La metà gli sono stati rubati dalla polizia, giura. In carcere a Kabul Irene è diventata musulmana. Mostra un libro che tiene sul suo letto a castello in cella dal titolo: “I diritti delle donne nell’Islam”. È stata “la vita da sorelle” con le detenute afghane a spingerla a convertirsi. Con queste donne che definisce “persone di buon cuore, anche se per la maggior parte ignoranti”, Irene non ha avuto alcun problema di razzismo, aggiunge. Resterà in carcere a Kabul forse per 15 anni. Quello che la terrorizza è che qualcuno possa gettare via la chiave senza che nessuno sappia nulla. “Può succedere in questo posto” dice Irene, mentre la voce dal tono basso e austero s’incrina e una lacrima le riga il volto. Stati Uniti: disordini nel carcere di Folsom; gli agenti sparano sui detenuti, almeno sette feriti Ansa, 29 agosto 2010 Disordini divampati nel carcere californiano di Folsom hanno visto le guardie aprire il fuoco contro i detenuti: almeno sette carcerati sono rimasti feriti. I disordini sono avvenuti ieri pomeriggio nel cortile centrale della prigione, resa famosa dalla canzone di Johnny Cash “Folsom Prison Blues”. Il carcere, in attività da 130 anni, ospita 3.540 detenuti e ha 643 guardie. La prigione è stata teatro in passato di altre ribellioni. Nell’ottobre scorso una gigantesca rissa scoppiò tra 120 detenuti nella grande mensa del carcere. Nell’aprile 2002 una rivolta provocò il ferimento di 24 detenuti e di una guardia. Spagna: detenuto kazakho si taglia il pene in aeroporto, per non essere estradato Agi, 29 agosto 2010 Un detenuto kazakho si è tagliato il pene nell’aeroporto di Madrid Barajas per evitare l’estradizione nel suo Paese. L’uomo, 52 anni, era stato condannato in Spagna per violenze su una donna. Ora è ricoverato in gravi condizioni in un ospedale della capitale spagnola. Il tutto è avvenuto intorno alle 23 di giovedì: l’uomo è sfuggito allo sguardo dei suoi custodi e con un coltello che teneva nascosto ha reciso i tre quarti del suo organo genitale.