Giustizia: l’accanimento carcerario che abolisce perfino gli sms in tivvù di Sergio D’Elia Gli Altri, 27 agosto 2010 L’ultimo capitolo della demagogia e del conformismo nazionali a favore del “carcere duro” riguarda i “messaggini”, versione contemporanea dei “pizzini”, coi quali i boss mafiosi in libertà comunicherebbero a quelli in carcere lo stato dell’arte dei loro ordini e commerci criminali. Nella teoria infinita di “ragioni” che giustificherebbero il regime carcerario del 41 bis, la più recente trae origine da un “fatto” di un anno e mezzo fa venuto alla ribalta nel mezzo di questa estate evidentemente avara di notizie. Siamo informati oggi che nel gennaio 2009 sul “serpentone” della trasmissione Rai Quelli del calcio, tra le migliaia di messaggi arrivati via Sms ne è passato uno di poche parole: “Tutto a posto, Paolo”. Pare non vi sia traccia di episodi analoghi nella lunghissima serie della popolarissima trasmissione televisiva, ma quel “terribile” e unico annuncio è stato sufficiente a mobilitare i professionisti dell’antimafia in servizio permanente effettivo. La Rai ha deciso subito di bloccare gli Sms e, ne siamo certi, non mancheranno all’apertura dei lavori parlamentari proposte restrittive per blindare ancora di più il già blindatissimo regime che noi chiamiamo “carcere duro” e che secondo il diritto internazionale non si può definire altro che tortura. Perché sono tortura non solo il “dolore e sofferenze forti” quali pure sono stati inflitti nei primi anni 90, quando il 41 bis è stato inaugurato nelle isole di Pianosa e dell’Asinara, ma anche le “pressioni” a parlare e fornire informazioni che nelle particolari condizioni di detenzione vengono esercitate su detenuti fatti oggetto di visite in cella eufemisticamente chiamate “colloqui investigativi”. Il momento carcerario non può essere considerato una dimensione seria, neppure secondaria, di lotta alla mafia. Cosa c’entra con la lotta alla mafia, ad esempio, il fatto che i detenuti in 41 bis non possano lavorare o frequentare corsi scolastici, che possano fare un solo colloquio al mese e due ore d’aria al giorno, che gli siano consentiti al massimo due pacchi viveri al mese o il fornellino per farsi il caffè ma non per cucinare? All’argomentazione apparentemente vera che con il 41 bis si determinerebbe la rottura dei collegamenti tra i mafiosi detenuti e quelli in libertà, il blocco dei loro traffici Criminali, sarebbe facile obiettare che, se l’obiettivo fosse davvero questo, il modo migliore per raggiungerlo potrebbe semmai essere proprio quello di tenere i mafiosi in condizioni tali da usare, “facilitandoli”, i loro collegamenti, per su questi investigare, ricostruire e smantellare reti e operazioni criminali. Il vetro blindato attraverso il quale si fanno i colloqui è la parte per il tutto del “carcere duro”. È la metafora perfetta e crudele di un sistema blindato. Dietro quel vetro c’è tutta la contraddizione, la propaganda, la crudeltà di un regime speciale. È una contraddizione in termini che un sistema fatto apposta per interrompere i collegamenti dei mafiosi con l’esterno, viene prorogato ai singoli detenuti per due, tre, cinque, dieci, diciotto anni... perché permangono ancora i collegamenti con l’esterno. A ben vedere, il vetro blindato è lo strumento della propaganda dei professionisti dell’antimafia che vuole dare a intendere che così “è stata calata una saracinesca” come ha detto un Ministro dell’Interno dell’epoca tra la mafia dentro e quella fuori. Se così fosse, se attraverso i colloqui coi familiari (come scrivono nei decreti applicativi) e con gli avvocati (questo non lo scrivono nei decreti ma lo pensano!) si continuano a mantenere rapporti con l’esterno, mandare messaggi e organizzare traffici illeciti, se così fosse, allora perché non farli fare quei colloqui, farli parlare i mafiosi, comunicare con l’esterno, e usare quei colloqui per prevenire e reprimere atti criminali? Si tratterebbe non solo di rispettare i diritti umani, ma di legalizzare quello che già esiste: microspie, intercettazioni ambientali e quant’altro viene usato. In realtà, le dure condizioni di detenzione rispondono solo a una logica di rivalsa e a una primordiale istanza di giustizia. Si è risposto con il “carcere duro” alle stragi di Capaci e via D’Amelio e, dopo quasi vent’anni dalle stragi, le sezioni del 41 bis hanno ormai solo un valore simbolico e monumentale: quei fatti orribili devono rimanere nella memoria collettiva e le sezioni del 41 bis devono restare in piedi come monumenti alla memoria delle vittime della Mafia. Ma dopo diciotto anni di questo regime è giunto il momento di chiedersi che senso ha. Al di là della costituzionalità o meno e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciotto anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affitti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno di un Paese civile. È incredibile che nessuno si preoccupi che nei confronti di, ormai quasi tutti vecchi, “mafiosi”, i magistrati continuino a usare l’arma della tortura, dell’infamia che colpisce non solo i “mafiosi” ma sta schiacciando tutto e tutti verso la demagogia e il conformismo politico e sociale. Ed è incredibile che eccetto i radicali tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di diritto. le associazioni Giustizia: misure alternative; c’è chi è escluso in partenza, perché non sa dove andare di Ilaria Sesana Avvenire, 27 agosto 2010 Sant’Egidio: tanti poveri senza casa non possono andare ai domiciliari Caritas: immigrati, coinvolgere le comunità d’origine. Occorre innanzitutto sgombrare il campo da equivoci: i domiciliari, la semilibertà, il lavoro in articolo 21 non sono sconti o liberazioni anticipate. “Sono un modo per scontare la pena a tutti gli effetti - precisa Stefania Tallei, della Comunità di Sant’Egidio. Anzi, sono quasi più faticose per il condannato rispetto al carcere perché richiedono maggiore responsabilizzazione”. Funzionano e i dati sulla recidiva lo dimostrano. “Sono un successo senza precedenti e senza tentennamenti”, spiega Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”. Eppure sono pochi i detenuti che scontano la pena ai domiciliari, in semilibertà o in una comunità terapeutica: se prima dell’indulto del 2006 alle alternative c’erano circa 40-50mila persone, oggi abbiamo superato di poco le 10mila unità. “C’è l’idea che il solo modo per espiare la pena sia la detenzione in carcere - commenta Manconi. Inoltre sono state introdotte norme che escludono dal possibile godimento dei benefici una serie di categorie di detenuti”. Ad esempio la ex Cirielli che taglia fuori i recidivi. Ma c’è un altro ostacolo che inceppa la “macchina” delle alternative: “In carcere sono tantissime le persone povere che non hanno una casa. E per questo motivo non possono accedere ai benefici”, spiega Tallei. Una situazione particolarmente grave per i cittadini stranieri, ma anche “per i molti malati che, pur avendo la dichiarazione di incompatibilità firmata dal giudice, non possono uscire galera perché non hanno una casa”, aggiunge Tallei. Occorre quindi costruire “alternative sul territorio per chi non ha i requisiti richiesti”, spiega Fulvio Sanvito, responsabile area bisogno di Caritas Ambrosiana che coordina il progetto “Un tetto per tutti”, rivolto anche agli ex detenuti. A pagare il prezzo più alto sono soprattutto i più poveri, coloro che non devono scontare pene brevi e che potrebbero beneficiare di queste opportunità. “Ma non avendo un domicilio, tutto si blocca - conclude Sanvito. Parallelamente serve un lavoro di sensibilizzazione delle comunità: far capire che il carcere non è il solo modo per espiare la pena”. Lucia Castellano: più aiuto dal territorio “Spesso si commette l’errore di pensare che solo il carcere sia la risposta. Ma non è così: il carcere dovrebbe essere l’estrema ratio. Una pena scontata sul territorio, attraverso il ricorso alle pene alternative, è una norma di grande civiltà, prima che una risposta al sovraffollamento”, ne è convinta Lucia Castellano, 46 anni, da otto direttore della casa di reclusione di Milano Bollate. Dottoressa, l’applicazione delle pene alternative può essere una risposta al sovraffollamento? Sicuramente si. Ma bisogna sottolineare che sono state pensate prima di tutto per proporre al detenuto un percorso di recupero graduale della libertà. Sono assolutamente fondamentali per il percorso di ciascun condannato: una pena sensata, da scontare sul territorio anziché in cella, che riporti le persone sul territorio in maniera graduale. Senza un brusco ‘saltò tra la detenzione e la libertà Il ricorso alle pene alternative è più costoso rispetto alla carcerazione tout court? Anche tenere un detenuto in cella costa molti soldi allo Stato. E si tratta di costi a perdere, perché incattiviscono le persone ristrette. È un dato di fatto su cui tutti ormai sono concordi. La pena alternativa non solo non costa di più rispetto alla carcerazione tradizionale, ma è anche più sensata. Quali categorie di detenuti sono maggiormente esclusi da questi benefici? Purtroppo sono sempre i più deboli: tossicodipendenti, extracomunitari senza permesso di soggiorno, ad esempio. Chi all’esterno ha una casa e un lavoro può avere di più, mentre chi non ha nulla continua a non avere nulla. Giorgio Caniato: il problema è trovare lavoro esterno “Non basta pensare di far uscire i detenuti con le pene alternative: è necessario anche creare le condizioni perché, una volta fuori, possano realmente lavorare senza tornare a delinquere”. È pessimista, monsignor Giorgio Caniato, dal ‘97 ispettore generale dei 240 cappellani penitenziari italiani, circa la reale possibilità di applicare le pene alternative al carcere per affrontare il problema del sovraffollamento delle celle. Alla luce di un’esperienza di oltre cinquant’anni (dal 1955 al 1997 è stato cappellano a San Vittore a Milano e, contemporaneamente, dal ‘59 al ‘73, anche al carcere minorile Beccaria), monsignor Caniato ricorda i tanti ostacoli sulla strada di una reale applicazione delle pene alternative. La legge dice che chi esce deve lavorare: quanto la crisi economica ha influito sulla possibilità di dare questa opportunità ai detenuti? Il problema si poneva anche prima ma, certamente, la crisi l’ha accentuato. Se non c’è lavoro per quelli che già stanno fuori, figurarsi per coloro che devono ancora uscire dal carcere. Le aziende favoriscono la creazione di opportunità lavorative per i carcerati? Il panorama è molto complesso. Accanto a imprenditori illuminati, ho in mente un caso nel Veneto, che aiutano davvero i detenuti offrendo loro opportunità di lavoro concrete, ce ne sono altri che finiscono per danneggiarli. In che senso? Ci sono imprese che formalmente assumono il detenuto ma poi non lo pagano a sufficienza. E siccome deve dimostrare di guadagnarsi lo stipendio, alla fine torna a spacciare droga o a rubare. Che ne pensa del progetto di mandare a casa chi è a fine pena? È una buona idea se si pensa anche a che cosa faranno una volta fuori queste persone. E qui, ancora una volta, si ripropone il problema della mancanza di lavoro. Giustizia: Uil; puntare al recupero, con circuiti differenziati a seconda dei reati commessi Avvenire, 27 agosto 2010 “Nelle attuali condizioni di detenzione non è possibile svolgere attività trattamentali e le carceri sono tornate ad essere le università del crimine. Entri ladruncolo ed esci mafioso”. Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari , è convinto che “il percorso di espiazione “ non si debba necessariamente svolgere in cella “la certezza della pena - osserva - non significa chiudere a chiave la cella e buttare la chiave”. Al contrario, una puntuale applicazione delle pene alternative per i detenuti che ne hanno i requisiti “è propedeutica a due obiettivi: la deflazione del sovraffollamento e la rieducazione del detenuto, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione”, osserva Sarno. “Non è possibile avere in un carcere, e spesso anche nella stessa cella, delinquenti dai diversi gradi di pericolosità - puntualizza Donato Capece - dai criminali incalliti al tossicodipendente”. Per affrontare questa situazione, secondo il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), occorre potenziare l’esecuzione penale esterna “creando un carcere invisibile sul territorio, dove possono essere collocati coloro che hanno commesso reati lievi e che non creano allarme sociale” riservando i penitenziari solo ai soggetti pericolosi. Occorre quindi un “nuovo” carcere, non una “discarica dove buttare tutto senza distinzione” ma “circuiti penali differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi”, spiega Capece. Purtroppo però, l’applicazione delle pene alternative “sembra essere andata in disuso”, come denuncia il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: “La legislazione prodotta in questi ultimi anni, ad esempio la ex-Cirielli, riduce la possibilità di applicare questo tipo di pena “. Senza dimenticare il fatto che sia la magistratura di sorveglianza, sia le equipe di trattamento all’interno delle carceri sono oberate di lavoro . “Non credo però che il problema carcerario si risolva con il ricorso alle pene alternative - conclude il garante - Servirebbe una riforma del codice penale, che preveda l’applicazione di misure diverse dal carcere”. Giustizia: Idv; in Italia vendita di manette e bracciali elettrici da applicare ai detenuti Il Velino, 27 agosto 2010 L’On Di Stanislao con un’Interrogazione parlamentare ha intenzione di vederci chiaro sulla partecipazione di aziende europee al commercio globale in “strumenti di tortura”. “L’Italia - afferma Di Stanislao - pare che sia uno dei Paesi in cui prodotti del genere vengono apertamente commercializzati su internet e aziende italiane hanno messo in vendita manette o bracciali elettrici da applicare ai detenuti. Una scappatoia legale permette tutto questo, nonostante si tratti di prodotti simili alle “cinture elettriche”, la cui esportazione e importazione sono proibite in tutta l’Unione europea. “Queste attività - aggiunge Di Stanislao - sono proseguite nonostante l’introduzione, nel 2006, di una serie di controlli per proibire il commercio internazionale di materiale di polizia e di sicurezza atto a causare maltrattamenti e torture e per regolamentare il commercio di altro materiale ampiamente usato su scala mondiale per torturare. È bene che il Governo ci dica quali informazioni abbia in merito e se intende effettuare realmente una serie di controlli sul commercio di strumenti di tortura nel nostro Paese o se ,come per le armi e le bombe, abbia intenzione ancora una volta di non vedere e non sentire”. Lettere: brainstorming d’evasione di Fiorentina Barbieri e Gennaro Santoro www.linkontro.info, 27 agosto 2010 Solito agosto, in cui, a turno, cerchiamo di esserci, specie quest’anno, in cui l’estate - se non altro per i numeri - sembra la peggiore delle stagioni peggiori, a Rebibbia come in qualsiasi carcere. Nei primi mesi di lavoro dello “Sportello per i diritti” si sono precisati i temi di più urgente necessità: le sanzioni disciplinari, la salute, il lavoro. In carcere si può essere sanzionati anche se si è “negligenti” nella cura di sé e della propria cella. Nonostante le Regole penitenziarie europee chiedano che si sia assistiti da un avvocato, le garanzie nel procedimento disciplinare sono scarse e la sanzione comporta l’impossibilità di beneficiare della liberazione anticipata, con un prolungamento effettivo della pena da scontare di ben 45 giorni. Così abbiamo predisposto un reclamo tipo e abbiamo proposto e ottenuto dalla Direzione maggiore trasparenza nella procedura. Sulla salute stiamo lavorando su singoli casi con molte difficoltà, alcune di queste storie le abbiamo già raccontate, qualcuna risolta. Ma continuiamo a scontrarci contro l’inerzia della burocrazia, che spesso fa sì che le esigenze della persona malata detenuta rimbalzino contro un muro di gomma impenetrabile, e contro la difficile messa a regime di una sacrosanta riforma (il passaggio di competenze dal Ministero della giustizia al Servizio Sanitario Nazionale) priva però delle risorse necessarie a funzionare adeguatamente. Quanto al lavoro, il carcere funziona per un buon 85% grazie a quello dei detenuti che si occupano di quasi tutte le mansioni interne, dalla preparazione e distribuzione dei pasti al mantenimento delle condizioni igieniche, fino ai lavori di manutenzione. Tutto per una paga mensile che raramente supera i 250 euro netti. Nel composito gruppo di lavoro dello Sportello (avvocati ed esperti esterni, ma anche “scrivani”, studenti e referenti “interni) qualche forma di separatezza non scatta tanto tra “interni” ed “esterni”, ma tra chi possiede e chi no competenze tecnico-giuridiche, acquisite per professione o per necessità. Discorsi accesi, a volte in competizione, come si conviene a un gruppo a dominanza maschile. Qualcuno privo di titoli, stufo del protagonismo di chi duetta in modo sempre più sofisticato con gli avvocati, si dev’essere preparato e tiene dignitosamente testa agli altri. Il brainstorming settimanale porta fuori dalla dimensione penitenziale del carcere, e anche agli avvocati, anche a quelli di più lungo corso, qualcosa sembra succedere, se si accalorano tanto discutendo. Chi di noi è giuridicamente meno competente e non riesce a entrare in ambiti a volte troppo tecnici, guarda scorrere la narrazione e si sorprende a guardare la scena, come in un film. Passano così due ore d’evasione, prima del ritorno nei reparti e nella calura agostana. Sulmona: detenuto morto per edema polmonare, la droga non c’entra Il Messaggero, 27 agosto 2010 L’autopsia conferma in linea di massima la morte per cause naturali: un edema polmonare, probabilmente, è ciò che ha stroncato la vita di Raffaele Panariello, trentenne di Castellamare di Stabia trovato morto l’altro ieri in una cella del reparto internati del carcere di Sulmona. L’esame autoptico eseguito ieri da Ildo Polidoro non ha mostrato segni apparenti di morte per cause indotte, ma saranno comunque gli esami istologici e tossicologici (tra sessanta giorni) a dire se quella “morte naturale” sia stata “aiutata” da qualche fattore esterno. Si pensa alla droga in particolare, per i precedenti dell’uomo e perché l’ipotesi del soffocamento per inalazione di gas (sostenuta dalla Uil penitenziari) è stata esclusa dal medico legale. Il cuore del trentenne ha ceduto, forse stressato dall’edema e dal suo fisico debilitato. Alle analisi stabilire poi se l’eventuale assunzione di droga abbia contribuito a indebolirlo. Ma una morte dietro le sbarre, dietro le sbarre di Sulmona, non può passare inosservata, anche se naturale. Perché se quel cuore ha ceduto è stato forse anche a causa delle difficoltà nella gestione sanitaria dell’istituto, che continua ad essere sovraffollato di reclusi (oltre 450 attualmente) e carente in personale medico e di polizia. “Speravamo dopo i dati di qualche giorno fa che parlavano di 275 detenuti a Sulmona che ci fosse stato un alleggerimento sul sovraffollamento, in realtà evidentemente non è così, la situazione è e resta drammatica - scrive Giulio Petrilli, responsabile provinciale per i diritti e le garanzie del Pd - Sulmona rimane quel carcere che quando entri nelle sezioni vedi che tutti gli orologi grandi nei corridoi sono fermi, un gelo ti assale, vorresti chiedere il perché a chi ti accompagna ma non ne hai il coraggio, perché capisci da solo il significato”. Il tempo si è fermato a Sulmona e nonostante le proteste, i proclami e le promesse (che fine ha fatto il piano carceri sbandierato da qualche parlamentare nostrano?) Sulmona: tante tragedie e aggressioni agli agenti, così la prigione è diventata inferno Il Centro, 27 agosto 2010 Un carcere difficile, finito troppo spesso alla ribalta per i numerosi suicidi che si sono verificati fra le sue mura. Ma anche per le tante situazioni di disagio che hanno vissuto e continuano a vivere detenuti e agenti di custodia per i noti problemi legati al sovraffollamento e alla carenza di organico. Soltanto pochi giorni fa un detenuto ha tentato di dare fuoco alla sua cella. Quest’anno sono stati due i suicidi. Ci sono poi i casi eclatanti. Il sindaco di Roccaraso, Camillo Valentini , si uccise la notte del 16 agosto del 2004 nella sua cella, due giorni dopo il suo arresto. Poi fu la volta della direttrice del carcere, Armida Miserere, che si sparò con la pistola d’ordinanza nel suo appartamento, a pochi metri dalle celle dei detenuti, la sera del Venerdì Santo di cinque anni fa. Poi tanti altri atti autolesionistici messi in atto e numerosi sventati grazie all’intervento degli agenti. Questi ultimi oggetto di numerose aggressioni da parte dei carcerati. Una situazione difficile accentuata dalla presenza della sezione degli internati, detenuti che hanno finito di scontare la loro pena ma che sono ritenuti socialmente pericolosi e per i quali viene disposto un periodo di detenzione alternativa in una Casa lavoro. Ma nel carcere di Sulmona questi detenuti lavorano solo per pochissime ore al giorno. E spesso in tre vengono rinchiusi in celle realizzate per ospitare un solo detenuto. Attualmente sono detenute 272 persone, ma per legge ce ne dovrebbero stare 201. Gli agenti in servizio sono 135 ma stando alla pianta organica ce ne dovrebbero essere 185. Bologna: i detenuti vogliono lavorare, ma il Dap taglia i fondi Redattore Sociale, 27 agosto 2010 Solo 1 su 5 tra i detenuti ammessi al lavoro è impiegato in un’attività. Colpa del sovraffollamento. Ma anche dei tagli: Desi Bruno segnala, infatti, che le risorse disponibili sono ulteriormente diminuite rispetto alla fine del 2009. “Non ho dati precisi, ma la Direzione della Casa circondariale della Dozza segnala un ulteriore taglio, oltre a quello avvenuto a fine 2009, nel capitolo di bilancio relativo al lavoro in carcere”. Desi Bruno, garante dei diritti dei detenuti in carica fino al 31 agosto, pubblica i dati sulla popolazione carceraria bolognese e si sofferma in particolare sul tema “lavoro” che, afferma, “da diritto per vivere la detenzione in modo dignitoso e dare un contributo alla collettività, è sempre più spesso una mera concessione”. Oltre a essere necessario per una popolazione carceraria poverissima, il lavoro è un aspetto fondamentale del trattamento previsto dalla normativa penitenziaria. A Bologna, però, su una popolazione totale di 1.126 detenuti (per una capienza di 483) circa la metà (557) sono iscritti nelle liste del lavoro (407 generici e 150 qualificati), ma di questi solo 111 lavorano (45 come addetti alle pulizie e 66 in lavori che richiedono una qualifica, come il barbiere o il cuoco). Le cause? Secondo la garante, “il sovraffollamento e la mancanza di fondi”. La Dozza è tra i carceri più sovraffollati del Paese: in celle di 10 mq di superficie sono rinchiusi 2 o anche 3 detenuti con il conseguente peggioramento delle condizioni di vita e privacy e l’insorgere di problematiche di carattere igienico. Da segnalare, inoltre, l’elevata percentuale di detenuti stranieri (63%) e di tossicodipendenti (25-30%) che, sottolinea la garante, “dovrebbero trovare collocazione in strutture di recupero o essere sottoposti a programmi di cura”. Altro dato importante: è aumentato il numero delle persone con condanna definitiva (oltre 500) rispetto a quelle in custodia cautelare. Come già segnalato con un comunicato dello scorso 25 agosto in cui definiva “inutile” il disegno di legge del ministro Alfano sull’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a 1 anno, il garante torna a parlare di misure alternative. Secondo la garante, alla Dozza oltre la metà delle persone con sentenza definitiva sono nei termini per essere ammessi a tali misure, avendo una pena da scontare, anche come residuo di una condanna maggiore, inferiore a tre anni. “Le ragioni della scarsa concessione di queste misure da parte del Tribunale di sorveglianza – afferma Desi Bruno – sono da ricercare in una legislazione sempre più restrittiva”. Un utilizzo puntuale delle misure alternative alla detenzione e la riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere (prevista come extrema ratio dal nostro sistema) sono le misure che il garante indica come necessarie per ridurre nell’immediato i numeri del sovraffollamento. “A queste misure – conclude – deve aggiungersi l’adozione di politiche di contingentamento degli ingressi presso la locale Casa circondariale in un’ottica di contenimento delle presenze”. Firenze: Radicali; taglio dei fondi per l'istruzione in carcere, niente scuola ai detenuti Redattore Sociale, 27 agosto 2010 Si prevede una forte riduzione degli insegnanti scolastici al carcere fiorentino di Sollicciano. L'allarme è stato lanciato dai senatori radicali Marco Perduca e Donatella Poretti. "Il 26 agosto - si legge nella nota dei due senatori - il Ministero dell'Istruzione ha informato gli istituti scolastici che partecipavano al progetto di scolarizzazione degli ospiti del carcere di Sollicciano di una riduzione della pianta organica che li coinvolge. Lo ha deciso l'Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana nella sua assegnazione dei posti alla provincia di Firenze, di fatto non consentendo la tenuta dei corsi scolastici regolari o serali che erano previsti anche per l'anno scolastico 2010-2011 nel carcere". In sostanza, molti detenuti potrebbero essere costretti a rinunciare alle lezioni scolastiche abituali. Per scongiurare la riduzione dell'organico scolastico, i senatori lanciano un appello a Enrico Rossi e Matteo Renzi, rispettivamente presidente della regione Toscana, sindaco di Firenze e sindaco di Scandicci. "Riteniamo che provincia e regione debbano fare tutti gli sforzi possibili per garantire la ripresa regolare dei corsi dai primi di settembre - spiegano i radicali - è in gioco la credibilita' delle istituzioni in un campo delicato e costituzionalmente centrale, quello del rispetto dei diritti anche di chi delinque". Perplessita' espressa anche dal direttore dell'ufficio scolastico regionale Cesare Angotti: "è un problema - commenta - ma non sappiamo ancora quale sara' l'entita' dei tagli. è ancora tutto da vedere. Cercheremo di risolvere in qualche modo questa situazione spiacevole". Molto colpita anche Rosa Maria Di Giorgi, assessore all'istruzione del comune di Firenze. "è un fatto grave che vengano tagliati gli insegnanti in un luogo, come quello del carcere, dove l'istruzione puo' essere fondamentale per il recupero e il reinserimento dei detenuti. Anche se non è competenza comunale, faremo di tutto per garantire il regoalre svolgimento delle lezioni, magari cercando di coinvolgere i tanti volontari e gli ex insegnanti in pensione che cercano di essere operativi nel sociale". Verona: Uil; rissa tra detenuti, aggrediti anche gli agenti intervenuti Il Velino, 27 agosto 2010 “Occorre sicuramente fare un grande elogio al personale di polizia penitenziaria, seppure numericamente esiguo, che è intervenuto all’interno della sezione ripristinando l’ordine e riportando la situazione alla normalità”. Lo ha detto Angelo Urso, segretario nazionale Uil Pa Penitenziari, riferendosi alla rissa, scoppiata ieri mattina, tra detenuti tunisini e marocchini. “Peccato però - ha affermato il sindacalista - che tre degli intervenuti e cioè il vice comandante, un sovrintendente e un assistente abbiano riportato gravi lesioni con prognosi superiore ai 20 giorni. Già ieri abbiamo dato notizia di un morto all’interno dell’istituto di Sulmona - ha continuato Urso -, ma la notte precedente un altro detenuto è stato miracolosamente salvato da un tentativo di suicidio mediante impiccagione all’interno del carcere di Lecce. Nella stessa giornata quindi tre eventi critici di rilievo a testimonianza del clima che si respira all’interno delle carceri”. Urso ha concluso affermando: “Non ci stancheremo mai di dire che la situazione merita certamente un’analisi approfondita e l’adozione di provvedimenti adeguati da parte della compagine governativa. A Verona, ovviamente, auspichiamo che l’amministrazione, a tutti i livelli, intervenga con adeguati provvedimenti nei confronti dei responsabili dell’aggressione”. “Già ieri abbiamo dato notizia di un morto all’interno dell’istituto di Sulmona - spiega il segretario nazionale di Uil Pa Penitenziari - ma la notte precedente un altro detenuto è stato miracolosamente salvato da un tentativo di suicidio mediante impiccagione all’interno del carcere di Lecce. Nella stessa giornata quindi tre eventi critici di rilievo a testimonianza del clima che si respira all’interno delle carceri”. “Non ci stancheremo mai di dire - conclude Urso - che la situazione merita certamente un analisi approfondita e l’adozione di provvedimenti adeguati da parte della compagine governativa. A Verona, ovviamente, auspichiamo che l’amministrazione, a tutti i livelli, intervenga con adeguati provvedimenti nei confronti dei responsabili dell’aggressione”. Rieti: quattro detenuto in celle da due, cresce la tensione, aggredito un agente Il Messaggero, 27 agosto 2010 Non bastavano le promesse, per ora non mantenute, i turni massacranti, la carenza di fondi e mezzi. Adesso chi lavora al nuovo complesso carcerario di Vazia rischia pure la pelle. È quanto accaduto martedì scorso a un assistente capo della polizia penitenziaria reatino aggredito e ferito da un detenuto campano. La situazione al carcere - lo gridano da settimane i sindacati della Polpen - presto potrebbe diventare esplosiva perché i detenuti, da mesi, sono sul piede di guerra per via del sovraffollamento della struttura. L’assistente capo, reatino, diciotto anni di servizio alle spalle, di cui per ovvi motivi non è stata resa nota l’identità, è finito in ospedale con una prognosi di 7 giorni. “Dopo l’ennesimo appello alle istituzioni sulle problematiche dell’istituto penitenziario di Rieti - ha spiegato, rendendo nota la vicenda, il segretario provinciale dell’Osapp Francesco Spognardi - siamo arrivati all’aggressione di un collega. L’insofferenza della popolazione detenuta, dovuta al sovraffollamento, è sfociata in un accanimento verso il personale di polizia. C’erano già stati dei segnali che davano la sensazione che nella struttura potevano venire meno gli standard minimi di sicurezza, ma solo l’attaccamento e il senso del dovere fanno si che il personale della Penitenziaria di Rieti - conclude l’esponente dell’Osapp - continui a svolgere dignitosamente la propria attività”. Nel carcere di Vazia, inaugurato quasi un anno fa, il problema - a quanto pare - è legato proprio alla carenza di personale che non permette l’apertura di altre sezioni detentive. Al momento, gli oltre 110 detenuti presenti sono letteralmente ammassati in due sole sezioni su 11 disponibili. Questo vuol dire che le celle, inizialmente progettate per ospitare due detenuti, ora ne ospitano quattro, in pessime condizioni di vivibilità. Il detenuto che ha aggredito l’agente della Polpen è stato denunciato per lesioni e oltraggio, la direzione del carcere ha, ovviamente, inviato un dettagliato rapporto all’amministrazione penitenziaria. Augusta (Sr): sindacato Fsa-Cnpp invia lettera ad Alfano sui problemi del carcere Il Velino, 27 agosto 2010 In data odierna la segreteria provinciale della Fsa/Cnpp ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia Alfano nonché ai massimi vertici dell’Amministrazione Penitenziaria per denunciare l’episodio di aggressione e violenza ai danni di un assistente capo della Polizia Penitenziaria avvenuto nel carcere di Augusta il 23 agosto scorso. Predetta nota viene inoltrata per doverosa notizia agli Organi ed Agenzie d’informazione facendo seguito a precedente comunicato stampa del 24 agosto u.s. Ecco il testo della lettera: “Questa Organizzazione Sindacale, rappresentativa del personale di Polizia Penitenziaria, intende denunciare l’episodio di aggressione e violenza verificatosi il 23 agosto scorso e messo in atto da un detenuto extracomunitario ai danni di un Assistente Capo di Polizia Penitenziaria. Il Cnpp, in più occasioni, aveva segnalato l’assenza, nel penitenziario di Augusta, di strategie per la sicurezza, necessarie per fronteggiare l’eccessiva presenza di detenuti nelle celle e la carenza del personale. Il penitenziario di Augusta ospita circa 673 ristretti - ammassati in celle che dovrebbero ospitare 1 detenuto - rispetto ad una capienza regolamentare di 320 posti letto e, a quanto pare, il dato sembra destinato a crescere. Il sovraffollamento, oltretutto, si scontra con la carenza d’organico che per il carcere di Augusta è ridotto a circa 220 unità rispetto alle 357 previste dal D.M. 6.12.2001. Questa O.S. aveva più volte chiesto alla Direzione Generale del Personale e della Formazione di rivedere le piante organiche del personale di Polizia Penitenziaria in quanto quelle indicate dal citato decreto ministeriale non trovano riscontro con l’attuale realtà. Il disagio del personale che vi opera è chiaro a tutti: i poliziotti impiegati nei reparti sembrano abbandonati a se stessi, correndo il rischio di perdere la vita perché qualcuno non intende porre in essere un’adeguata gestione strategica dell’emergenza sovraffollamento e carenza del personale. Il Cnpp esprime piena solidarietà al collega aggredito, tale vile atto va ad aggiungersi ad altri episodi di violenza a cui, purtroppo, non segue un provvedimento ministeriale adeguato a fronteggiarli. Considerato il notevole sovraffollamento della popolazione detenuta presso la casa di reclusione di Augusta, si ritiene opportuno valutare la possibilità di impedire ulteriori ingressi di detenuti, di ridurre il numero dei presenti e di rafforzare l’organico di Polizia Penitenziaria in atto, insufficiente per garantire un minimo di sicurezza. Distinti saluti”. Bergamo: tirocini in Asl per chi sta uscendo dal carcere L’Eco di Bergamo, 27 agosto 2010 Bergamo - Quando un detenuto ha scontato la propria pena non sempre trova una situazione facile ad attenderlo fuori dal carcere. Anzi. Nella maggior parte dei casi non trova proprio nulla: non una casa, un lavoro o la famiglia ad aspettarlo. Il risultato è che spesso, anziché ricostruirsi una vita, torna a delinquere. Per sostenere i carcerati che si avviano al termine della detenzione ed evitare la recidività , sono stati attivati, tra Bergamo e provincia, 23 tirocini che hanno l’obiettivo di inserire lavorativamente le persone sottoposte a provvedimenti giudiziari che possono godere di benefici di legge. Le esperienze rientrano nel Piano di inclusione sociale, finanziato dalla Regione Lombardia. Il soggetto capofila è il Consorzio dei mestieri e i progetti sono monitorati da un’equipe di cui fanno parte, tra gli altri, gli Ambiti territoriali e l’Asl di Bergamo. I tirocinanti, tutti adulti vicini alla conclusione della detenzione o in pena alternativa che hanno chiesto esplicitamente di far parte dell’iniziativa, lavorano dallo scorso gennaio in cooperative o aziende con uno stage della durata di 6 mesi, retribuito grazie a Borse lavoro. Oltre ai 23 utenti già inseriti, ce ne sono altri 12 attualmente in lista d’attesa per uno stage. La proposta che arriva dall’Asl è di farsi carico di parte di essi: “Dal nostro territorio nasce la forte esigenza di reperire nuovi posti per quei detenuti che vorrebbero essere inseriti lavorativamente, spiega Massimo Giupponi, direttore sociale dell’Asl di Bergamo. L’Asl si rende disponibile offrendo la possibilità di fare uno stage nella nostra azienda. Siamo tutti consapevoli che una persona fragile per il proprio passato difficile, se con un lavoro e inserita nella società , ha più possibilità di riscattarsi dai propri sbagli e costruirsi una nuova vita. A beneficio di tutti, perché l’ex carcerato che ha scontato la sua condanna esprime una volontà di riscatto sociale che, se colta dalla società civile, comporta meno recidive e la delinquenza cala”. Le iniziative di inclusione sociale e lavorativa sono anche sostenute dal Consiglio di Rappresentanza dei Sindaci di Bergamo: “I Comuni e gli Ambiti territoriali sono sempre stati soggetti capofila nel sostegno all’associazione ‘Carcere e Territoriò per i progetti di reinserimento sociale, lavorativo e abitativo con un finanziamento attivo da circa 10 anni e pari nell’ultimo anno a 80 mila euro l’anno”, ha aggiunto Leonio Callioni, presidente del Consiglio di Rappresentanza dei Sindaci. Per le persone in una situazione di fragilità , come i detenuti, non esistono attualmente altri piani di inclusione strutturati. Da qui una seconda proposta: “L’obiettivo, a lungo termine, è fare in modo che venga inserita sistematicamente, e non sporadicamente come accade oggi, negli appalti pubblici una clausola per destinare una percentuale dei posti di lavoro dalla sistemazione del verde alle pulizie, ecc. a soggetti fragili. Sarebbe un grande passo avanti in termini di sicurezza e coesione sociale” , conclude Giupponi. Forlì: una sessantina di detenuti sfollati per il crollo del tetto di una sezione Ansa, 27 agosto 2010 Evacuata un’aula del carcere di Forlì. Una parte del tetto della sezione attenuata della casa circondariale (quella che ospita normalmente soggetti con problemi di tossicodipendenza) è a rischio crollo. Per questo motivo martedì almeno una sessantina di detenuti sono stati fatti uscire dalle celle e trasferiti nella sezione ordinaria, già in condizioni di sovraffollamento. Una trentina sono stati trasferiti nelle carceri di altre città, in particolar in Sardegna e Sicilia. La situazione non ha fatto altro che peggiorare all’interno delle mura. La struttura ospitata all’interno della Rocca, costruita nel 1481, potrebbe esser dismessa nel 2012, anno zero per il carcere in fase di costruzione presso il quartiere Quattro. Nuoro: sindacati e amministratori locali contrari al ritorno del “carcere speciale” Asca, 27 agosto 2010 I sindacati e gli amministratori locali nuoresi prendono posizione contro la possibilità che “Badu ‘e Carros” torni ad acquistare il ruolo di carcere speciale. Il rischio sarebbe elevato dopo la decisione del ministero di realizzare all’interno del perimetro del penitenziario una nuova ala. I lavori sono arrivati quasi alla conclusione. Si teme che il padiglione possa essere di massima sicurezza, per accogliere esponenti del terrorismo e della criminalità organizzata, sottoposti al cosiddetto “41-bis”, quello del carcere duro. Un regime già presente a cavallo degli anni ‘80, quando “Badu ‘e Carros” ospitava i massimi esponenti dell’eversione rossa e nera, oltre ad affiliati a mafia, camorra, sacra corona unita e ‘ndrangheta. Domani una delegazione di amministratori, con il sindaco Sandro Bianchi e alcuni parlamentari, visiterà il carcere, per sincerarsi della reale situazione. Il primo cittadino ha oggi anticipato i termini della preoccupazione presente tra le forze sociali: “Non vorremmo che uno Stato che da noi arretra in varie parti su servizi e uffici pubblici, stia preparando invece il regalo di un carcere di nuovo speciale”. I timori di Bianchi sono gli stessi che esprime Giorgio Mustaro, segretario di categoria della Cisl: “È il solito sistema del silenzio: si fa tutto senza che nessuno sappia niente”. Il carcere di “Badu ‘e Carros” fu costruito nella seconda metà degli anni 60, in quella che allora era una delle periferie del capoluogo. La struttura andò a sostituire la rotonda di via Roma, che qualche anno dopo sarà abbattuta. La stagione dell’eversione e l’escalation della criminalità organizzata portarono lo Stato a inserire il penitenziario nuorese tra i bunker per detenuti particolarmente pericolosi. La società civile e il mondo politico guardarono con fastidio a quella presenza, preoccupati dei fenomeni di contagio in un territorio di per sé già problematico sotto l’aspetto dell’ordine pubblico. Lo smantellamento arrivò a metà degli anni 80. Sulla scelta di chiudere il braccio speciale furono determinanti anche le proteste di alcuni terroristi dissociati, protagonisti di uno sciopero della fame, proprio sotto Natale, dove si denunciavano “le condizioni disumane di vita dentro “Badu ‘e Carros”. Una lotta che ebbe la solidarietà del vescovo di Nuoro, Giovanni Melis, e del cappellano, don Salvatore Bussu. Entrambi si rifiutarono di celebrare la messa, per evitare di solennizzare la festa in un momento così duro per diversi detenuti. Nuoro: Badu ‘e Carros; no al carcere speciale, visita dei deputati Melis e Calvisi (Pd) L’Unione Sarda, 27 agosto 2010 Stamattina, alle 9,30, i deputati del Pd Guido Melis e Giulio Calvisi, il consigliere regionale Giuseppe Luigi Cucca, il sindaco Sandro Bianchi, il presidente del Consiglio comunale Gianni Salis e il garante dei detenuti Carlo Murgia hanno visitato il carcere di Badu ‘e Carros per verificare se il padiglione che si sta costruendo sia o meno destinato ad ospitare i detenuti in regime di sorveglianza speciale. In sostanza se ci sarà il ritorno al carcere speciale che con la presenza di terroristi e mafiosi tanti problemi ha creato alla città e al territorio negli anni Ottanta. L’iniziativa fa seguito alla lettera che il sindaco Bianchi aveva inviato nei giorni scorsi a tutti i deputati e i senatori sardi nella quale si chiedeva una interrogazione parlamentare urgente al ministro Alfano in merito ai criteri che verranno adottati per la destinazione del nuovo padiglione in costruzione all’interno del carcere di Badu ‘e Carros. Nella missiva del sindaco veniva manifestata la disapprovazione dell’amministrazione comunale alla possibilità che nel carcere nuorese vengano trasferiti detenuti in regime di sorveglianza speciale. Ma la burocrazia statale, come ben sanno i nuoresi, è spesso sorda alle istanze locali. Così l’unica struttura che viene potenziata - hanno denunciato di recente i sindacati - è quella carceraria mentre altri uffici importanti come la Banca d’Italia e l’Esercito stanno smantellando. Venezia: “Design in gabbia”, con la cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri www.exibart.com, 27 agosto 2010 Il progetto rientra tra le iniziative socio-educative a favore di persone detenute negli istituti penitenziari, finanziato dalla Regione Veneto per l’anno 2010 e si svolge all’interno della Casa Circondariale maschile di Santa Maria Maggiore a Venezia. Il progetto rientra tra le iniziative socio-educative a favore di persone detenute negli istituti penitenziari, finanziato dalla Regione Veneto per l’anno 2010 e si svolge all’interno della Casa Circondariale maschile di Santa Maria Maggiore a Venezia. L’obiettivo del progetto è l’ideazione e la creazione, assieme ai detenuti, di una linea di oggetti/accessori utilizzando i macchinari già presenti nei laboratori all’interno del carcere. Il progetto è stato diviso in due trance coinvolgendo in totale circa quaranta reclusi italiani e di altre nazionalità. Innanzitutto si è cercato di capire in che modo coinvolgere i partecipanti nella fase creativa ed esecutiva del progetto proprio partendo dalla condizione di essenzialità in cui i detenuti sono costretti a vivere per il periodo della pena. Tale aspetto infatti ci è sembrato il punto di forza del progetto in quanto favorisce l’immaginazione e stimola la creatività. Gli oggetti/accessori realizzati assieme ai detenuti durante la prima fase di “Design in gabbia” sono stati: un grembiule multiuso, una shopping bag, un pouf, un pannello multiuso da parete e relativi accessori. La particolarità dei progetti realizzati è di essere stati confezionati con un unico tessuto in cotone 100%, fasce di Velcro® e con accessori intercambiabili, acquistabili separatamente. La shopping bag è stata pensata come borsa da spesa con tasche porta-bottiglie all’interno e accessorio esterno allungabile per tenere sempre “a portata di mano” il proprio bambino anche quando le mani sono occupate. Inoltre, grazie al Velcro® a vista applicato all’esterno della borsa è possibile integrare l’accessorio con la serie “Pupazzi” in feltro di lana e in cotone, un modo semplice per intrattenere i propri bambini durante le attese al supermercato. Il grembiule multiuso è stato rivestito quasi interamente da strisce di Velcro® in modo da renderlo funzionale durante l’uso. Il Velcro® infatti consente di tenere sempre a portata di mano gli accessori e può essere completato a scelta con accessori come: presine, manopole, canovacci, tasche, che possono essere velocemente attaccati e staccati al grembiule rendendolo utile per ogni attività. Il pouf è stato pensato come un grande contenitore, una sorta di spazio dove mettere indumenti, coperte e cuscini per gli ospiti, cose che durante il cambio di non si sa mai dove riporre. Esso infatti si trasforma in una comoda seduta che può essere completata a scelta con la serie degli accessori disponibili singolarmente. Il pannello multiuso da parete è un accessorio che misura 50X70 cm. Può essere appeso sia in orizzontale che in verticale, le fasce di Velcro® consentono di organizzare con gli accessori il proprio wall. Il progetto “Design in gabbia” nasce da un’idea di: Anthony Knight, lo studio Imegadito e Raffaella Brunzin in collaborazione con la Cooperativa Sociale “Rio Terà dei pensieri”. Rimini: detenuti e agenti di Padova in una partita di calcio contro il “resto del mondo” Redattore Sociale, 27 agosto 2010 La partita si è svolta ieri nell’ambito del Meeting di Rimini. Il risultato finale (2-4) ha penalizzato la delegazione dei reclusi del Due Palazzi. Ionta ha dato il calcio d’inizio. Nomi eccellenti anche per i cronisti: Nando Sanvito e Paolo Cevoli. Quella che si è giocata ieri nella cornice del Meeting di Rimini era una sfida degna di un film: ancora una volta il gioco del calcio ha significato qualcosa di più di un semplice match sportivo, offrendo la possibilità di gettare un ponte, mediare, sdrammatizzare un mondo difficile come quello carcerario. Reduci dal pareggio in campo padovano nella partita del 13 marzo tra Detenuti e Ospiti nella casa di reclusione, i ristretti del Due Palazzi hanno tentato una rivincita nell’incontro Detenuti contro la squadra “Resto del Mondo”, una compagine davvero multietnica, con giocatori da Inghilterra, Usa, Italia, Brasile, Haiti, Terra Santa, Etiopia, Uganda, Spagna, Cina, Kazakistan. Il risultato finale ha penalizzato (4-2) la delegazione dei detenuti padovani, ma la soddisfazione per un evento che ha fatto incontrare l’intero mondo del carcere ha superato le aspettative: accanto ai detenuti hanno infatti giocato agenti, educatori, operatori e un vicedirettore. “Abbiamo perso la partita, ma di certo abbiamo vinto la giornata” è il commento di un entusiasta Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Rebus e in questa occasione portavoce della delegazione padovana. Lo scontro ha avuto anche un fischietto d’eccezione, considerato che ad arbitrare la partita si è prestato Paolo Tosoni, presidente della Laf, la Libera Associazione Forense, spalleggiato in qualità di guardalinee da due commissari della polizia penitenziaria. A sovrintendere al tutto, e a dare il calcio d’inizio, è stato il numero uno del sistema carcerario italiano Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e presidente della squadra di calcio della polizia penitenziaria “A.S. Astrea Calcio”. Nomi eccellenti anche per i cronisti a bordo campo: Nando Sanvito, voce nota di Sport Mediaset, e Paolo Cevoli nelle inedite vesti di commentatore tecnico. L’evento ha registrato il tutto esaurito negli spalti e per l’occasione è stato anche concesso alla tifoseria di detenuti padovana di raggiungere Rimini per sostenere i compagni, accanto a operatori e agenti. “È stato un momento davvero speciale - conclude Boscoletto - a coronamento di una giornata importante in materia di giustizia”. Gran Bretagna: la minaccia dei terroristi reclutati e addestrati in carcere Asca, 27 agosto 2010 Più di 800 musulmani radicali "potenzialmente violenti" potrebbero essere rilasciati dalle prigioni britanniche nei prossimi 5-10 anni e provocare una "nuova ondata" di terrorismo, con attacchi difficili da contrastare e impedire: è quanto si legge in un rapporto elaborato dal Royal United Services Institute, pubblicato oggi. Circa 800 musulmani "radicali potenzialmente violenti" potrebbero uscire dal sistema carcerario nei prossimi anni dopo essere stati indottrinati da jihadisti in prigioni di massima sicurezza, si afferma nella relazione. "La radicalizzazione jihadista, secondo le autorità penitenziarie, procede ad alta velocità", si spiega nel rapporto, intitolato "Terrorismo: la nuova tendenza". "Circa 800 radicali potenzialmente violenti che non sono stati riconosciuti colpevoli di terrorismo saranno forse di ritorno nella società nei prossimi cinque o dieci anni", si commenta, ricordando che le autorità penitenziarie britanniche ritengono che almeno un detenuto su dieci ha ricevuto un addestramento radicale in prigione tale da rappresentare una grave minaccia per la sicurezza del paese non appena uscito di carcere. Stati Uniti: quasi 90.000 detenuti hanno denunciato di aver subito abusi sessuali Agi, 27 agosto 2010 Oltre ai disagi della detenzione 88.500 prigionieri hanno denunciato di aver subito abusi sessuali da parte di altri prigionieri o dalle guardie. Questi i dati forniti dal ministero della Giustizia per il biennio 2008-2009. Secondo la ricerca le detenute hanno subito il doppio delle violenze dei prigionieri maschi.