Giustizia: ripensiamo senso e peso delle pene, oltre la “logica delle sbarre” di Francesco D’Agostino Avvenire, 26 agosto 2010 Chi può negare che da anni esista in Italia lina tragica emergenza carceraria? Le cifre parlano da sole: se nel 1975 i detenuti erano 30mila, nel 2008 avevano raggiunto i 57mila, nel 2009 si è toccata la quota di 60mila e, ora, siamo poco sotto i 70mila L’affollamento delle carceri ha raggiunto in Emilia Romagna il picco del 186,4 per cento; il tasso di suicidi, tra i detenuti (è tornato a rilevarlo un recente documento del Comitato Nazionale per la Bioetica), è sette volte superiore rispetto al tasso suicidario della popolazione generale; i percorsi di reinserimento sociale di chi abbia scontato una pena detentiva sono praticamente inesistenti. I grandi quotidiani nazionali non omettono certo di divulgare queste notizie, ma - tranne qualche rara eccezione, e Avvenire è tra queste -, lo fanno con stanchezza, ritenendole con ogni probabilità di ben poco interesse per la maggior parte dei lettori. Probabilmente è vero: l’opinione pubblica italiana, che è generalmente ben consapevole che la situazione carceraria del nostro Paese è terribile, ha assunto da tempo nei confronti di questo problema un atteggiamento di rassegnazione, come se si fosse definitivamente convinta che il problema è insolubile e che ogni tentativo di modificare le cose può, sì, produrre qualche benefico effetto in situazioni circoscritte, ma in una prospettiva generale va considerato assolutamente velleitario. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: se dal trattamento dei detenuti possiamo trarre un’indicazione in merito al livello di civiltà di un Paese e alla sua capacità di rispettare i diritti umani, la situazione italiana è sconfortante. Non usciremo certo da questa situazione continuando a stracciarci le vesti, a moltiplicare le denuncie, a promuovere inutili manifestazioni di protesta, a invocare sempre più fondi per costruire nuove carceri (come se non si sapesse da tempo che quanto più aumentano i posti in carcere, tanto più aumenta la popolazione carceraria!). Dobbiamo prendere atto che è del tutto vano strumentalizzare politicamente questo problema, che non è politico, ma strutturale e che concerne non le modalità di applicazione delle pene, ma la loro stessa natura. È giunta l’ora di dire apertamente qualcosa che a molti continua ad apparire politicamente scorretto e cioè che il paradigma penalistico moderno, inventato nel Settecento nel contesto dell’illuminismo giuridico, è miserevolmente fallito, dopo essere stato sottoposto a un’accanita sperimentazione, durata per ben due secoli. È fallita la sua ingenua pretesa di poter trasformare il carcere, da ciò che storicamente è sempre stato, cioè il luogo di detenzione di soggetti socialmente pericolosi, in un luogo di rieducazione e di reinserimento sociale dei criminali. Solo se saremo in grado di ammettere questo fallimento, potremo trovare il coraggio di metterci alla ricerca di nuove modalità punitive, da pensare come forme di sanzione primaria e non come mere (e spesso ipocrite) alternative alla sanzione carceraria. Non sto certo auspicando il ritorno a forme vendicatone di pena criminale, oltre tutto incompatibili col rispetto dei diritti umani fondamentali, ma a nuove modalità di punire i reati, colpendo il rango e il ruolo sociale del colpevole, imponendogli forme socialmente utili di lavoro coercitivo o ridando spessore e rendendo effettuali forme di sanzione, come quelle pecuniarie, alle quali oggi è relativamente semplice sottrarsi. In una società, come quella moderna, nella quale la persona identifica sempre di più se stessa attraverso la funzione sociale che ricopre, un intervento mirato su questo livello può, del tutto indipendentemente dalla limitazione della libertà personale, attivare forme di afflittività adeguate a punire un’amplissima gamma di reati. Il carcere, nelle sue forme attuative più severe, dovrebbe essere la pena residuale per criminali ad altissima pericolosità e per coloro che, condannati a scontare giuste sanzioni non detentive, cercassero di sottrarsi ad esse. Utopie, astrazioni? Queste sono le eterne obiezioni di coloro che non riescono a pensare al nuovo e si ancorano spasmodicamente a un’esperienza che ritengono consolidata e “moderna”, senza accorgersi che la”modernità” si è liquefatta sotto i nostri occhi e che non può più essere invocata per difendere l’indifendibile. Giustizia: pene alternative efficaci, ma si utilizzano poco di Ilaria Sesana Avvenire, 26 agosto 2010 Un sistema al collasso. Per rendersene conto è sufficiente osservare i numeri (impietosi) che fotografano le drammatiche condizioni del sistema penitenziario italiano: 68mila detenuti ristretti in spazi pensati per ospitarne poco più di 44mila. Strutture spesso fatiscenti, dove in molti casi sono costretti a vivere (accanto ai criminali) malati, sieropositivi e sofferenti psichici. E ancora, il dramma dei suicidi. Ieri si è registrata la 43ma vittima: Raffaele Panariello, 31 anni, di Castellammare di Stabia che si è tolto la vita all’interno del super carcere di Sulmona dove, dall’inizio dell’anno, si sono uccise già quattro persone. Mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 116. “Il sistema ha superato i livelli di guardia da un pezzo”, denuncia segretario nazionale della Uil-Penitenziari, Angelo Urso. Strumenti importanti per garantire condizioni di vita migliori ai detenuti e attuare il dettato costituzionale sono le pene alternative. La loro efficacia viene dimostrata da un fatto: tra chi sconta la pena in carcere fino all’ultimo giorno, coloro che tornano a delinquere sono il 66 per cento. Mentre tra quelli che hanno usufruito delle pene alternative, la recidiva crolla al 5 per cento. Detenzione domiciliare, affidamento in prova e semilibertà: al 30 giugno 2010 erano più di 13mila quelle in corso. Ma il ricorso a questi strumenti si è molto ridotto in questi anni. Basti pensare che prima dell’indulto del 2006 erano 50mila le persone che beneficiavano di questi provvedimenti. Oggi, per diversi motivi, se ne concedono sempre meno. Giustizia: Bernardini (Radicali); basta morti in carcere, varare in fretta misure deflattive 9Colonne, 26 agosto 2010 “Il tempo dell’illegalità e dell’inciviltà carceraria italiana è scandito ad un ritmo impressionante dalle morti, dai suicidi. Dico al Governo e ai miei colleghi parlamentari che così numerosi hanno partecipato all’iniziativa del Ferragosto in carcere, che occorre fare in fretta a varare, intanto, misure adeguate a decongestionare la sovrappopolazione carceraria”. Lo afferma Rita Bernardini, deputata Radicale, membro della Commissione Giustizia della Camera, dopo la morte di un detenuto a Sulmona. “Il disegno di legge Alfano - così come svuotato dalla Commissione Giustizia della Camera - non serve a spegnere l’incendio di disperazione e di morte che sta divampando - prosegue. Affidare infatti ai Tribunali di sorveglianza la valutazione della pericolosità sociale e l’idoneità del domicilio per consentire di scontare ai domiciliari pene residue sotto i 12 mesi, significa paralizzare tutto: la valutazione arriverà troppo tardi! Si dia ai direttori degli istituti penitenziari questo compito che saprebbero fare meglio e più in fretta dei magistrati di sorveglianza. Ridimensionata almeno un po’ la popolazione detenuta, occorre immediatamente riformare il sistema come previsto dalle mozioni approvate in gennaio dalle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama a partire dallo stop all’uso indiscriminato della carcerazione preventiva e alla depenalizzazione dei reati minori, per arrivare alle misure e pene alternative che si rivelano molto più efficaci del carcere ai fini della rieducazione e del reinserimento sociale, all’adeguamento degli organici penitenziari (agenti, educatori, psicologi, assistenti sociali), alle possibilità di lavoro per i detenuti, agli istituti di custodia attenuata dove i tossicodipendenti possano curarsi”. Giustizia: impegno della pastorale penitenziaria; il carcere come “città della rieducazione” di Giulio Battioni www.ffwebmagazine.it, 26 agosto 2010 Si moltiplicano le iniziative di solidarietà nei confronti dei detenuti. “Ferragosto in carcere” è una significativa ma non isolata campagna sul dramma della vita penitenziaria in Italia nel preoccupante scenario statistico di oltre 30 suicidi nella prima metà del 2010 su una popolazione di quasi 68 mila carcerati. In Romania su 40 mila “residenti” dietro le sbarre sono circa 5 gli episodi all’anno in cui ci si toglie la vita. In Polonia, i penitenziari registrano il doppio dei detenuti “italiani” ma di gesti estremi se ne contano poco più di una decina all’anno. Negli Stati Uniti un apposito ufficio, il “Dipartimento Federale per la prevenzione del suicidio”, ha ridotto del 70% i suicidi nell’arco di 25 anni. Nonostante il secondo piano cui è stata relegata dai grandi mezzi d’informazione, è di queste settimane l’approvazione di un disegno di legge che, dopo un braccio di ferro interno alla stessa maggioranza parlamentare, ha ottenuto un largo consenso sulla proclamazione di uno “stato di emergenza” che, fino al 2013, rinuncia alla originaria impostazione “svuota-carceri”, la previsione di una doppia norma di accompagnamento che in automatico avrebbe trasformato un anno di pena in arresti domiciliari, ipotesi ora affidata alla “valutazione d’idoneità” del magistrato di sorveglianza, e in parallelo introdotto la “messa in prova” in lavori di pubblica utilità, con relativa sospensione del processo, degli imputati per reati fino a tre anni. Nel nostro Paese le prigioni versano in grave stato di sovraffollamento da molto, troppo tempo: sono 216 gli istituti penitenziari distribuiti sul territorio nazionale per una capienza regolamentare di circa 43.500 unità, superata dall’esorbitante numero effettivo dei detenuti. La Finanziaria impone rigore e austerity un po’ovunque ma il sistema penitenziario italiano dovrebbe beneficiare di circa 600 milioni per l’espansione e l’implementazione delle strutture carcerarie esistenti, oltre a un fondo per l’assunzione di nuove forze di polizia e carabinieri. All’estero la formula dell’esecuzione penale esterna ha riscosso un discreto successo: nel Regno Unito sono circa 243 mila i soggetti che scontano la pena attraverso i servizi sociali, mentre in Francia sono 160 mila. Ovviamente, vincoli disciplinari, rigore delle procedure e attenta e determinata volontà politica mantengono elevato il livello di guardia e costante l’attenzione verso l’ordine pubblico. In Italia, però, per essere efficace ed efficiente, tale metodica necessiterebbe di un supplemento culturale di fiducia collettiva verso le istituzioni, la rinnovata convinzione che sono la certezza della pena e lo stato di diritto le basi di una convivenza sociale ordinata e indirizzata da una autorità politica legittima e forte. Purtroppo, l’atavica insofferenza verso i pubblici poteri, la fragilità dei sentimenti civili e l’eccessivo disincanto verso l’appartenenza a un destino e a una storia comuni rendono il nostro Paese allergico alla decisione, alla continuità del suo modus operandi e al rispetto degli obblighi che ne derivano. Così, certezza della pena e stato di diritto restano astrazioni sprovviste dell’adeguato sostegno pratico da parte di istituzioni e cittadini, davanti e dietro le sbarre. Il carcere, però, non è soltanto uno spazio di reclusione ed esclusione pubblica. Il carcere è un luogo umano, e dunque “pre-politico”, nel quale persone umane non sono scaraventate in un dimenticatoio di grate e serrature ma sono allontanate dalla società civile, a volte anche per una vita, per essere recuperate e in fondo restituite a una vera solidarietà con i propri simili e concittadini. “Al gabbio” vive un’altra città in cui i detenuti debbono essere rieducati, e se possibile socialmente reinseriti, nella doverosa preoccupazione per il bene comune e la dignità umana. Tra i vari soggetti che operano nel mondo carcerario è certamente la Chiesa che vede nell’uomo, in ogni uomo, la sua “prima via fondamentale”. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt. 25, 36). L’”altra città” è territorio privilegiato di evangelizzazione, polis teologica in cui la comunità cristiana esprime la sua sollecitudine salvifica e missionaria, si adopera per i diritti umani e la promozione del bene al quale l’intera civitas, politica e umana, tende per sua natura. La pastorale penitenziaria è uno dei fiori all’occhiello della “nuova evangelizzazione” che papa Giovanni Paolo II volle implementare a partire dal grande Giubileo del 2000. La pastorale carceraria, oggi affidata a mons. Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani delle carceri, figura giuridica ibrida, religiosa ed ecclesiastica nello status, civile nella sua istituzione, sancita con decreto ministeriale negli anni 20 dello scorso secolo presso il dicastero di Grazia e Giustizia, è una delle manifestazioni più chiare della identità laica della Chiesa e dell’alto valore sociale delle sua attività missionaria. Con il realismo giuridico e lo spirito di profezia che contrassegna la sua dottrina sociale, la pastorale penitenziaria attesta la capacità spirituale e pratica del cristianesimo storico di saldare le ragioni della giustizia alle ragioni della speranza e della carità, la necessità della sicurezza e dell’ordine pubblico all’apprezzamento della vita umana anche quando questa infrange le regole della convivenza, pregiudica l’esistenza del prossimo o si oppone alla volontà politica. Maestra di misericordia, la Chiesa sa bene che il carcere è un luogo di penitenza, una pubblica riparazione dal valore santificante agli occhi della fede, necessario ed ordinante agli occhi del diritto e della vita sociale. Giustizia: l’Osapp scrive a Napolitano; separare i detenuti dai “fermati” Ansa, 26 agosto 2010 L’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al vicepresidente del Csm Michele Vietti, per sottolineare “la sempre più crescente gravità operativa delle oltre 216 strutture penitenziarie italiane a causa di un dato inconfutabile in ascesa pari a 70.000 persone ospitate”. Inoltre, “se a ciò si aggiunge che secondo la disciplina vigente del codice di procedura penale le persone fermate o sottoposte a fermo di polizia giudiziaria, invece di essere trattenuti dalle forze di polizia presso le camere di sicurezza dei propri comandi di appartenenza, vengono associati prima ancora della convalida dell’arresto da parte della competente magistratura inquirente presso i penitenziari, ciò appare ancor più critico”. Per l’Osapp, “è davvero assurdo, per non dire sconcertante, che per quanto riguarda il sistema carcere non venga assunto alcun provvedimento concreto in materia di esecuzione delle pene, di misure alternative, disciplinando concretamente e separando l’arrestato dal detenuto, al fine di porre una graduale deflazione della popolazione detenuta. Scrive ancora l’Osapp al Quirinale e al Csm: “In attesa che Parlamento, ministro della Giustizia e politica in generale si accorgano di noi e del sistema carcere, sarebbe auspicabile che almeno le persone arrestate o sottoposte a fermo di polizia giudiziaria, con posizione giuridica di attesa della convalida del fermo o dell’arresto, potessero soggiornare presso le camere di sicurezza come originariamente previsto dal nostro codice di procedura penale”. Su questo tema, l’Osapp fa appello al Presidente della Repubblica e al Consiglio superiore della Magistratura. “Sembra quasi - si afferma nella lettera - che il mondo istituzionale, lo stesso ministro della Giustizia e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria siano indifferenti, inerti, non in grado di intervenire con la dovuta autorevolezza, in un settore delicatissimo quale è quello del pianeta carcere, connesso in modo imprescindibile con l’ordine e la sicurezza della comunità sociale”. Giustizia: Osapp; abolire “trattamento” e “benefici” ai detenuti condannati per mafia Il Velino, 26 agosto 2010 “Siamo favorevoli all’abolizione del trattamento e delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei detenuti condannati per l’appartenenza alle associazioni a delinquere di stampo mafioso (sottoposti al regime di Alta Sorveglianza)”. Il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, torna sul tema del trattamento in carcere e in particolar su quello dei soggetti affiliati alle mafie all’indomani dell’attentato che ha colpito la procura generale di Reggio Calabria e a due giorni dall’atto intimidatorio contro il senatore del Pd Giuseppe Lumia. “Anche l’Osapp ovviamente esprime piena solidarietà al procuratore di Reggio Calabria Salvatore Di Landro che la scorsa notte è stato colpito da un grave attentato, siamo certi che come in altre e purtroppo numerose occasioni, il procuratore non si lascerà intimidire e continuerà il suo tradizionale impegno quotidiano nella lotta alla criminalità organizzata. Con altrettanta convinzione sosteniamo che la lotta alle mafie si debba fare in qualunque modo possibile riaffermando la centralità della pena, proprio sul principio della pericolosità e del rischio sociale”. “A questo riguardo - spiega Beneduci - è giunta l’ora di rivedere il trattamento all’interno di certe sezioni particolari: non basta, infatti, che il ministro della Giustizia Alfano si adoperi per imporre condizioni di carcere duro ai pezzi grossi della mafia e conceda, al tempo stesso, un trattamento ordinario, che contempli anche misure alternative, ai tanti affiliati che a conti fatti non hanno ancora reciso il rapporto con la cosca di appartenenza”. Leo Beneduci lancia l’allarme su un possibile rischio che il sistema “tanto decantato dal Guardasigilli si incrini proprio lì dove sono individuati i punti di maggior pressione, a causa dei disastri che sta vivendo adesso il carcere per effetto del sovraffollamento”. Per il segretario sindacale, “vi è la necessità che le maglie si stringano: laddove proprio lo scandalo degli sms ha gettato ombra sulla possibilità che certi controlli siano effettivamente impeccabili. Ai tanti stratagemmi - conclude Beneduci - agli avvocati compiacenti, ai pizzini passati sottobanco durante i colloqui, si aggiunge un altro elemento di disturbo che può benissimo essere quell’attività che compie un soggetto, beneficiario di trattamento alternativo al carcere duro e che è in grado di mantenere i rapporti al di fuori dell’istituto”. Lettere: l’orribile normalità della vita da detenuto di Claudio Marmugi Il Tirreno, 26 agosto 2010 Non si può tornare a casa, non si può guidare la macchina, accendere una sigaretta a piacimento, scegliere cosa mangiare. Per anni, magari. Decenni. Le facce dei detenuti: gente normale. Come ce n’è tanta fuori, né più e né meno. Guardando negli occhi un recluso o conversando con lui, non puoi risalire al suo crimine, non ce l’ha scritto in faccia. Anzi, il primo pensiero è: “Ma perché questa gente è rinchiusa qui?”. Eppure molti sono assassini, ergastolani. Io ero andato lì per fare quello che normalmente so fare: far ridere. Mi avevano invitato a fare il “comico”, là dentro. Assurdo. Mi sembrava una scommessa persa in partenza. Ero terrorizzato. La domanda che mi scavava era: con che “ghigna”, io, potevo entrare lì a parlar male del mondo “esterno” e farli ridere sul nostro (stupido) quotidiano, quando anche la cosa più schifosa che abbiamo noi, fuori, è puro lusso in carcere? Eppure hanno riso. Si son divertiti. Risate come erano anni che non ne sentivo. Stupore. Meraviglia. Forse avevano voglia di quotidiano. Sete di normalità. “Non vedevo il cabaret da dieci anni” mi ha detto un ragazzo. Ho preso coraggio. Sono andato a Porto Azzurro, allora, con un progetto della Provincia, “Volontariando”. Ci sono tanti volontari, tante energie, che lavorano intorno al carcere per renderlo un posto migliore. C’è bisogno che sia un posto migliore - me lo ripeto sempre - metti che un giorno ci finisci per sbaglio... A Porto Azzurro il carcere si presenta subito come una beffa colossale, come la legge del contrappasso fatta realtà: il carcere sorge al centro di un paradiso terrestre, in un luogo dove vorresti vivere una vita intera, un posto pensato più per una villa da ricchi sfondati che per un istituto penitenziario. I detenuti dalla collinetta che domina il porto vedono tutto quello che c’è sotto, come a dire: “Ciccio, non solo la libertà ti è negata, ma per renderti meglio il concetto, la libertà te la presentiamo sottoforma di mare, gabbiani e di ragazze straniere in vacanza con costumini mozzafiato”. Mille volte meglio Porto Azzurro, comunque, con la sua disumana bellezza, delle nostre “Sughere”. Cupe, angoscianti anche da fuori, dentro sono peggio. Non per colpa di nessuno. Sono peggio e basta. Lì, per la prima volta, mi son trovato davanti ad una realtà che non avevo mai visto: le donne. Le donne in carcere. Il braccio femminile. Non penso ad altro da giorni: ragazze, ragazzine, signore, nonne, donne di ogni tipo ed età, bimbe normali, come le troveresti in baracchina la sera o all’Ipercoop il pomeriggio, che son lì dentro, e lì stanno. Una racconta una barzelletta al microfono e penso: “Ma cos’è successo qui? Cosa si è rotto? Perché, questa, che ride, scherza e si vergogna della sala che la guarda, è qui dentro?”. Non riesco a levarmi dagli occhi una signora bionda sui 60, con la cappina azzurra che, vi giuro, poteva tranquillamente essere la mia vicina di casa o mia madre. Brutta storia, il carcere. La regola “sbattiamoli in carcere e buttiamo via le chiavi” non so se vale per tutti. Non ho visto manager, né broker o amministratori. O magari c’erano, e non li ho riconosciuti. Io una cosa di certo ora la so: se tutti vedessero il carcere com’è davvero prima, preventivamente intendo, son convinto, qualcuno ne rimarrebbe scioccato come ne son rimasto io. Butto qui una proposta “provocatoria” ma fino ad un certo punto: tra una gita culturale e l’altra, tra una città d’arte e l’altra, portiamo i nostri giovani a visitare un carcere. Prima di fare qualche cazzata, qualcuno, dopo, ci penserebbe due volte. Lettere: pene esemplari… ma attenti ai semi d’odio gettati dalla politica di Adina Agugiaro Il Mattino di Padova, 26 agosto 2010 Non rubare. Non uccidere. La legge di Mosè non regola solo la morale interiore; ma detta anche i comportamenti, che sovrintendono alla convivenza civile. Rom, sinti, giostrai, migranti, stanziali, clandestini: finiamo per fare d’ogni erba un fascio delle categorie di “diversi”, che nell’immaginario collettivo - ma talvolta ahimè anche nella cronaca nera - segnano il quotidiano con le impronte del crimine e del sangue innocente. Ispirandoci sentimenti razzisti, che mai vorremmo in noi riconoscere. Mani che forzano le porte delle nostre case. Corpi sottili di ragazzini, che si calano dai tetti, scivolano lungo le grondaie, s’infilano in stretti pertugi, sino a impadronirsi delle cose che abbiamo più care. Convinti di agire impuniti e comunque, anche se catturati, di non finire in carcere. Nella dicotomia che ci contrappone - loro i carnefici, noi le vittime - è proprio l’impunità di cui godono a renderci furibondi: perché ci umilia senza possibilità di castigo e di risarcimento. Morale, più ancora che materiale. In queste settimane, dall’espulsione regolamentata dei rom dalla Francia, con cui Sarkozy intende recuperare parte del consenso perduto, alle dichiarazioni roboanti in Italia di Maroni e Moratti che, sempre per propaganda elettorale, prevedono rimpatri più duri, “gli ospiti sgraditi e i cittadini indesiderati” sono balzati ai vertici delle cronache. A Padova, l’uccisione d’una donna, travolta dall’auto di due giostrai in fuga contromano dopo un furto, ha riempito la città d’orrore e sgomento; esplicitati dai referenti di tutti i partiti con accenti durissimi. Il Papa ha invitato i francesi nella loro lingua alla fratellanza universale; ma i cattolici, in veste di membri dell’odierna società, sono consapevoli che l’esortazione evangelica all’amore verso l’altro non può trovare ascolto, laddove non sia prima stata soddisfatta l’esigenza di giustizia, intrinseca alla natura dell’uomo. Mentre l’impunità non è giustizia, bensì odioso sberleffo all’impotenza di chi subisce senza potersi difendere. Da anni la politica d’ogni segno invoca una soluzione, da nessuno finora adottata: la certezza della pena. In Romania, patria dei rom, per i delitti in cui il colpevole è colto nel fatto senza ombra di dubbio, si spalancano a quest’ultimo le porte del carcere, senza passare per il tribunale. Per pene magari brevi, ma immediate e in stato di detenzione. In Italia, l’incrocio dei dati tra forze dell’ordine ha evidenziato migliaia di recidivi, arrestati numerose volte e rilasciati senza un’ora di prigione. Anche il vicecapo della polizia italiana ha chiesto pene abbreviate, ma effettivamente scontate. Se è vero che le nostre carceri scoppiano, bisognerà ripensare le lunghe detenzioni senza riabilitazione (come per i drogati), pur di lasciare spazio a punizioni irrefutabili per chi identifica nel nostro Paese il colabrodo del crimine. Il garantismo delle nostre leggi non può sopravanzare il diritto/dovere dei cittadini d’essere puniti per le loro colpe e risarciti per gli abusi subiti. Senza che tutto ciò venga definito giustizialismo e a patto che valga per il più importante dei colletti bianchi come per lo zingarello recidivo. Tutto il resto è manipolazione politica. Semi d’odio, gettati a bella posta tra la gente. Trappole, in cui non deve finire imprigionata la nostra capacità critica. Sulmona (Aq): detenuto di 31 anni ritrovato morto, forse si è suicidato con il gas Ansa, 26 agosto 2010 Ancora un detenuto morto nel carcere di Sulmona. Si tratta di Raffaele Panariello, 31 anni, di Castellammare di Stabia (Napoli), trovato morto nella sua cella. Dopo un primo esame, sembrava che la causa del suo decesso potesse essere riconducibile a cause naturali o addirittura ad una orvedose, particolare che aveva destato non poche preoccupazioni. Infatti, in un carcere di massima sicurezza come quello abruzzese è preoccupante che possa circolare droga tra i detenuti. Poi, nel tardo pomeriggio di ieri è arrivata la comunicazione da parte di Angelo Urso, segretario nazionale della Uil-Pa penitenziari, primo a parlare di un suicidio attuato con l’inalazione di gas. Per fare chiarezza, il Procuratore della Repubblica del tribunale di Sulmona, Federico De Siervo, ha disposto l’autopsia per oggi: l’esame autoptico sarà svolto in giornata presso l’ospedale di Sulmona e potrebbe chiarire definitivamente le cause del decesso. Sulla vicenda sta indagando la squadra anticrimine del commissariato che ha già provveduto ad ascoltare i due compagni di cella del 30enne boschese, i quali al momento del fatto erano usciti per l’ora d’aria. Dall’inizio dell’anno, nelle celle del carcere di Sulmona si sono già suicidati quattro detenuti. E pochi giorni fa un detenuto dello stesso penitenziario - noto come “carcere dei suicidi” - aveva tentato di uccidersi dando fuoco ad un materasso dell’infermeria dove era ricoverato. “Purtroppo - afferma in una nota Angelo Urso - è il 44esimo suicidio che si registra nelle carceri italiane ed è avvenuto in un istituto tristemente noto per casi del genere. La situazione del sovraffollamento, della carenza di risorse umane di tagli nei bilanci, di scarsità di mezzi e strumenti di lavoro non fa più notizia”. Panariello era un tossicodipendente ed era finito in carcere nel 2006. Mentre era detenuto ai domiciliari presso la sua abitazione del rione popolare “Piano Napoli” di Boscoreale, picchiò e drogò la moglie, F.R. allora appena 22enne, per poi fuggire di casa ed essere raggiunto dai carabinieri solo dopo 24 ore di latitanza. L’uomo, agli arresti domiciliari per reati contro il patrimonio, fu denunciato dalla propria consorte per violenza, minacce e percosse. Dopo le 20 di una serata come tante quando, probabilmente in piena crisi d’astinenza, Panariello iniziò ad inveire contro la donna, perché lei si rifiutava di assolvere ai doveri coniugali. Dopo un po’, dalle parole l’uomo passò ai fatti, schiaffeggiando la moglie e costringendola, a suon di calci e pugni, ad ingerire a forza alcune compresse si sonnifero. Mentre la moglie era intontita dai sonniferi, Panariello afferrò una siringa, sciolse un po’ di cocaina e gliela iniettò nel braccio. Dopo quella folle vendetta, il pregiudicato fece perdere le sue tracce per un giorno, fino al suo arresto. Il Comunicato della Uil Pa Penitenziari È di oggi la notizia che presso la casa reclusione di Sulmona un internato trentenne di origini napoletane si è suicidato all’interno dell’istituto di Sulmona mediante l’inalazione di gas. A darne notizia è Angelo Urso - segretario nazionale della Uil Penitenziari - che aggiunge “purtroppo è il 44° suicidio che si registra all’interno delle carceri italiane e questo è avvenuto all’interno di un istituto tristemente noto per casi del genere”. Non ci sono altri particolare sulla vicenda ne sullo sviluppo delle conseguenti indagini. È, infatti, il 4° suicidio che si registra dall’inizio dell’anno all’interno della casa di reclusione di Sulmona e questo dovrebbe indurre una qualche riflessione in chi amministra il sistema carcere. “La situazione del sovraffollamento, della carenza di risorse umane di tagli nei bilanci, di scarsità di mezzi e strumenti di lavoro non fa più notizia - aggiunge Urso - tuttavia la scomparsa di un essere umano dovrebbe in qualche modo smuovere le coscienze di tutti coloro che hanno qualche competenza in materia”. Il sistema in maniera lenta ma cotante sta andando alla deriva e si regge soltanto sullo spirito di appartenenza e sul senso di responsabilità di coloro che operano all’interno delle carceri a partire dalla Polizia Penitenziaria. “Questo, però - continua il segretario della Uil - non può reggere a lungo nonostante gli sforzi profusi per garantire, nei limiti del possibile, condizioni detentive accettabili. Il sistema ha superato i livelli di guardia da un pezzo e a testimoniarlo ci sono i 44 sucidi in carcere, le evasioni andate a buon fine e quelle tentate, le numerose aggressioni subite dal personale di Polizia Penitenziaria, l’impossibilità di garantire spazi essenziali per un essere umano, addirittura il posto letto”. Tutto ciò genera frustrazione tra coloro che operano nelle carceri e coloro che sono invece privati della libertà. “La speranza - conclude Angelo Urso - è che alla ripresa dei lavori parlamentari il Governo voglia in qualche modo aggiungere all’agenda politica la questione carceraria in modo da riempire di contenuti il proclamato stato di emergenza delle carceri italiane da parte del Presidente del Consiglio, fino ad oggi purtroppo rimasto soltanto un proclama”. Il commento di Giulio Petrilli (Pd) Un detenuto di 31 anni, di origini napoletane, è deceduto nella casa di reclusione di Sulmona, l’ipotesi è quella del suicidio con overdose o inalazione di gas, l’autopsia permetterà per far luce sulla vicenda. Si tratterebbe del 44esimo suicidio all’interno delle carceri italiane da gennaio, il quarto nel carcere di Sulmona dall’inizio dell’anno. “Speravamo dopo i dati di qualche giorno fa che parlavano di 275 detenuti a Sulmona che ci fosse stato un alleggerimento sul sovraffollamento, in realtà evidentemente non è così, la situazione è e resta drammatica - ha commentato Giulio Petrilli, responsabile provinciale Pd dipartimento diritti e garanzie - Sulmona rimane quel carcere che quando entri nelle sezioni vedi che tutti gli orologi grandi nei corridoi sono fermi, un gelo ti assale, vorresti chiedere il perché a chi ti accompagna ma non ne hai il coraggio, perché capisci da solo il significato. È scritto dentro quegli orologi fermi e immobili da anni il senso del carcere di Sulmona. Un senso che racconta di tre detenuti in celle da nove metri quadri, che parla di tanti malati psichici abbandonati così come i tanti tossicodipendenti, di una casa lavoro dove non c’è lavoro e una pena senza tempo,perché accusati di una vaga pericolosità sociale, senza la contestazione del reato”. “Poi magari nelle visite - prosegue Petrilli - vedi i laboratori, i dipinti, vedi magari delle cose normali, ma quelle lancette ferme spiegano i tanti suicidi, le tanti morti di overdose e anche i detenuti uccisi appena usciti dal carcere di Sulmona, appena rientravano a casa, un anno fa successe anche questo. Si perché il tempo si ferma dentro quel carcere, bisogna soffrire al massimo e se non si sopporta si muore: suicidio, overdose, qualche morte strana. Oltre al record dei suicidi, ora magari avrà quello dei morti per overdose, adesso ci saranno nuovamente le proteste poi tutto tornerà come prima. Tutti si discolpano dal ministero, dalla direzione. dai comandanti degli agenti e rimangono solo quei tanti, troppi morti che testimoniano che dentro quel carcere come in tanti altri il diritto è scomparso”. Opera (Mi): rissa in ora d’aria tra italiani ed egiziani, un detenuto ha rischiato di essere sgozzato Asca, 26 agosto 2010 Ancora da accertare i motivi dello scontro. Molti già trasferiti Carcere di Opera, rissa nell’ora d’aria Botte tra italiani ed egiziani, dieci contro dieci. Un detenuto ha rischiato di essere sgozzato ancora da accertare i motivi dello scontro. Molti già trasferiti Carcere di Opera, rissa nell’ora d’aria Botte tra italiani ed egiziani, dieci contro dieci. Un detenuto ha rischiato di essere sgozzato. L’ora d’aria è durata un attimo. Forse se l’erano giurata da tempo, di certo se la sono cercata: pochi passi sotto il sole e appena si sono incontrati si sono affrontati. Due gruppi, due clan, due continenti: italiani contro egiziani e viceversa. Grosso modo erano in numero pari, circa dieci contro dieci. Insulti, calci, pugni, di nuovo insulti, calci, pugni. Un egiziano ha tirato fuori una lametta, stava per sgozzare un italiano. L’ha fermato una guardia. L’agente si è accorto al volo, quasi s’è lanciato, per placcare. Sul collo, la lametta ha lasciato il segno, l’italiano, 46 anni, è rimasto ferito, ma non è grave. In un primo tempo, si era pensato di portarlo in ospedale, poi l’hanno medicato sul posto. Dei venti, una buona parte è stata trasferita d’urgenza in altre prigioni. Sia mai che nel carcere di Opera, adesso, scattino ritorsioni interraziali. Il rischio di contatti, conflitti, vendette è alto: nelle celle, perse nel solito sovraffollamento, convivono nazionalità diverse. Erano le quattro e mezza del pomeriggio di martedì. La causa dello scontro? Ancora da capire. Chi ha fatto la prima mossa? Pare uno degli egiziani. C’era da vendicare qualcosa? Se sì, da quanto covava? Cosa mai c’è in ballo? I siciliani, perché siciliani erano in larghissima parte gli italiani, cosa possono aver combinato? Pensare che di problemi, a Opera, ce ne sono già all’infinito senza bisogno di sfide aggiuntive. Opera è il supercarcere dei boss, dei padrini, delle celle in isolamento, degli ergastoli, degli ‘ndranghetisti. Orvieto: Sappe; sventato tentativo di evasione da parte di un detenuto extracomunitario Agi, 26 agosto 2010 Un tentativo di evasione da parte di un detenuto extracomunitario è stato sventato dalla polizia penitenziaria nel carcere di Orvieto. A renderlo Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria ricordando come i colleghi di Orvieto “lavorano costantemente in condizioni difficili, con una presenza di detenuti che si attesta sulle 150 presenze rispetto alla capienza regolamentare di 100 posti letto ed un organico della polizia penitenziaria carente di 15 unità”. “Questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere - dichiara Capece -. La situazione delle carceri in Italia è drammatica a causa del sovraffollamento, dovuto ad una costante crescita dei detenuti che dall’inizio del 2009 sono aumentati di oltre 10.000 unità, mentre il personale di polizia penitenziaria continua a diminuire di circa 1.000 unità all’anno, tant’è che allo stato attuale mancano oltre 6.000 agenti rispetto alle piante organiche previste dal decreto ministeriale del 2001”. “Una prima soluzione deflattiva per il sistema carcere - secondo Capece - è quella di espellere i detenuti stranieri presenti oggi in Italia per far scontare loro la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza. Stiamo parlando di quasi 25 mila detenuti, il 37% dei presenti. L’amara constatazione fatta qualche giorno fa dal ministro della giustizia Angelino Alfano sulla sostanziale inefficacia dei trattati bilaterali in materia di trasferimento dei detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi di provenienza dovrebbe indurre, ad avviso del primo e più rappresentativo sindacato della polizia penitenziaria, a rivedere certe norme eccessivamente garantiste, che alla fine non consentono di risolvere criticità e problematiche importanti, come quella legata appunto alla eccessiva presenza di stranieri nelle carceri italiane”. Sassari: quotidiane violazioni dei diritti; esposto sul carcere di San Sebastiano Apcom, 26 agosto 2010 Vivono in sei in celle piccole, fanno i bisogni a pochi passi dal letto in compagnia di insetti e anche topi. Queste sono le condizioni di vita del carcere di San Sebastiano, secondo i parlamentari sardi del Pd che ieri hanno presentato un esposto in Procura. Poco prima di ferragosto la visita nel carcere, ora la denuncia pubblica e formale firmata da Guido Melis, Arturo Parisi, Giampiero Scanu e l’ex senatore Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”. “La nostra - dicono - non è una provocazione ma una denuncia ben precisa. Il San Sebastiano è fuori legge. Sono violati i diritti fondamentali delle persone, i regolamenti penitenziari, le leggi dello Stato italiano”. I numeri. Il sovraffollamento è il problema principale. La capacità in una struttura definita fatiscente, risale infatti a fine 800, è di 154 detenuti. Ce ne sono 214, di cui 82 in attesa di giudizio. Molti i tossicodipendenti, secondo i dati dei parlamentari, circa 90. Altri 60 avrebbero patologie psichiatriche. Il futuro. Nella borgata di Bancali è in costruzione il nuovo carcere di Sassari. I lavori sono stati affidati alla ditta Anemone, coinvolta, secondo i magistrati, in spartizioni illecite in appalti pubblici. I deputati sostengono si sappia poco dello stato e chiedono al governo informazioni e tempi. Ecco il testo dell’esposto: “Al Signor Procuratore della Repubblica del Tribunale di Sassari I sottoscritti, Guido Salvatore Melis, deputato al Parlamento, Luigi Manconi, presidente della Associazione “A Buon diritto”, Arturo Mario Luigi Parisi, deputato al Parlamento, Gianpiero Scanu, senatore della Repubblica, intendono con il presente esposto segnalare alla S.V. la gravissima situazione determinatesi nelle carceri di San Sebastiano, a Sassari. Come accertato dall’on. Melis e dal sen. Scanu nel corso di una visita al carcere nel giorno 13 agosto c.a. compiuta nell’ambito delle loro prerogative parlamentari, erano quel giorno custoditi presso l’Istituto 214 detenuti, ove la capienza regolamentare risulta essere di 154 posti (così dal questionario compilato a cura della direttrice del carcere dott.ssa Teresa Mascolo). Come evidente alla visita ai vari bracci del carcere lo spazio a disposizione di ciascun detenuto risulta assai inferiore rispetto a quello standard fissato nelle norme europee e pari a mq 7,5 (a San Sebastiano lo spazio è comunque inferiore anche alla media italiana, essendo ammassati 4, talvolta 6 detenuti in spazi di non più di 2 metri per 1,5). È noto che su questo punto la Corte europea ha di recente condannato l’Italia. Nelle celle, il cui stato generale è di abbandono non essendo da tempo operati i normali restauri in attesa del ventilato trasferimento nelle nuove strutture in corso di edificazione in località Bancali, il gabinetto, “alla turca”, è collocato a pochi passi dai giacigli dei detenuti e dalle piccole cucine ove essi si riscaldano i pasti o si preparano il caffè; solo un abbozzo di muretto, che però non arriva al soffitto, separa una distanza tra servizio igienico e zona pasto a volte di nemmeno 1 metro. Ciò configura uno stato di vita inaccettabile, contrario a tutte le norme sulla pubblica igiene attualmente vigenti in Italia e in Europa. Si ricorda che secondo la legge penitenziaria del 1975 i locali adibiti ai servizi sanitari debbono essere “privati, decenti e di tipo razionale”. Nessuna privacy è riscontrabile a San Sebastiano, e quanto alla decenza e alla razionalità non occorre formulare ulteriori osservazioni rispetto alla semplice descrizione degli ambienti. In molte celle, a detta di numerosi detenuti, sono presenti insetti, animali vari provenienti dai gabinetti stessi. Alcuni parlano di topi. Nei corridoi, privi di reti, volano frequentemente piccioni e altri volatili, lasciandovi le relative deiezioni. La temperatura delle celle è (la visita si è svolta nel mese di agosto) elevata, tale da rappresentare condizioni di vivibilità allarmanti (per altro in una precedente visita, in epoca invernale, l’on. Melis potè riscontrare la sospensione del riscaldamento dovuta ai ritardi burocratici nel pagamento delle fatture alla ditta fornitrice da parte del Ministero). Sono attualmente ospitati nel carcere 90 tossicodipendenti, di cui 46 in terapia metadonica, e 56 detenuti con patologie di tipo psichiatrico che presumibilmente richiederebbero altro tipo di trattamento diverso da quello somministrabile nel carcere. Non figurano psicologi in servizio. Gli educatori sono solo 4 sui 6 previsti in organico. L’ora d’aria si svolge in un angusto cortile interno, senza adeguati ripari. Gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente in servizio il 13 agosto risultavano in numero di 156 su 212 della pianta organica e 172 effettivamente assegnati. Il che, a prescindere dalla professionalità e abnegazione degli agenti presenti (fuori discussione) e degli sforzi della direzione dell’Istituto, rende comprensibilmente difficilissimo, per non dire impossibile, lo svolgimento del servizio nei termini “normali” previsti dai regolamenti. I sottoscritti ritengono di sottoporre all’attenzione della S.V. la gravissima situazione che si è venuta producendo negli anni e che è giunta (dopo un degrado documentabile di anno in anno) a uno stato assolutamente allarmante per la pubblica salute e in evidente conflitto con una concezione della pena ispirata ai più elementari principi costituzionali. Chiedono pertanto accertarsi la sussistenza di eventuali reati, anche di omissione, da parte delle autorità competenti. Delegano al deposito del presente esposto l’avv. Stefano Melis del Foro di Sassari eleggendo domicilio presso il suo studio in Sassari, via Enrico Costa n. 66. Sassari, 25 agosto 2010 Prof. Luigi Manconi On. Guido Melis On. Arturo Mario Luigi Parisi Sen. Giampiero Scanu Asti: salvato un detenuto italiano che tenta suicidio appiccando il fuoco nella propria cella Ansa, 26 agosto 2010 Un detenuto ha tentato il suicidio nel carcere di Asti appiccando il fuoco nella propria cella. È stato salvato dagli agenti accorsi immediatamente. Ne dà notizia la Uil aggiungendo che si tratta di un pluri pregiudicato italiano e che il fatto è accaduto durante la notte di ieri. “Un gesto estremo - scrive il vice segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari Piemonte, Orazio Malatesta - che non è diventato drammatico grazie al pronto intervento degli agenti della polizia penitenziaria, che hanno tirato fuori dalla cella tutti i detenuti occupanti. Gli agenti intervenuti hanno dimostrato senso del dovere e professionalità - aggiunge Malatesta - pur intossicati dal fumo hanno continuato imperterriti il loro dovere, salvando presumibilmente la vita del detenuto e quella degli altri occupanti. È l’ennesimo episodio grave - conclude - che viene registrato all’interno dei penitenziari nazionali. È una esasperazione che nasce dall’invivibilità del sistema detentivo. Il detenuto ha tentato il suicidio dando fuoco al materasso. Con lui c’erano altri due reclusi. È accaduto ieri sera poco dopo le 23. L’aspirante suicida, 45 anni, di Asti, è un noto pregiudicato e tossicodipendente che deve scontare due anni di reclusione. Rossano (Cs): Sappe; un carcere modello di organizzazione, ma ci sono troppi detenuti Agi, 26 agosto 2010 Una delegazione del Sappe il sindacato della polizia penitenziaria più rappresentativo della categoria, guidata dal segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante, ha visitato, questa mattina, la casa di reclusione di Rossano Calabro (Cosenza). Nel corso della visita i rappresentanti del Sappe hanno tra l’altro verificato le condizioni logistiche dei luoghi di lavoro del personale della polizia penitenziaria. L’Istituto penitenziario di Rossano - affermano - registra sovraffollamento come nel resto delle carceri italiane e anche in quelle della Calabria, dove nel corso dell’ultimo anno la percentuale di sovraffollamento rispetto alla capienza regolamentare è aumentata di circa 17 punti, passando dal 54% dell’agosto 2009 al 71% di questi giorni. È stata superata la soglia di tollerabilità fissata dall’Amministrazione penitenziaria in 3033 posti, i detenuti presenti sono infatti oltre 3.200 (ad agosto 2009 erano 2.749), l’attuale capienza regolamentare è invece fissata in 1.867 posti. A Rossano Calabro in particolare si è passati dai 313 detenuti (89 stranieri) dell’agosto 2009 ai 367 detenuti (110 stranieri) dell’agosto di quest’anno. Il carcere di Rossano è sicuramente un modello da seguire per organizzazione e professionalità, rileva Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria più rappresentativo, con 11.000 iscritti a livello nazionale e 700 nella Regione Calabria, anche se abbiamo constatato una scarsa attenzione, soprattutto da parte dei vertici regionali dell’Amministrazione penitenziaria, rispetto alla risoluzione dei problemi segnalati. Inoltre, dal Provveditorato continuano ad inviare detenuti a Rossano da altre strutture della Calabria, nonostante il grave sovraffollamento esistente nel carcere rossanese. Quella della gestione del provveditorato calabrese è diventata una vera emergenza. È urgente ed indifferibile che in Calabria venga assegnato definitivamente un dirigente generale, capace di riorganizzare una regione ormai allo sbando, senza una guida autorevole”. In tutte le visite che abbiamo fatto negli istituti calabresi, nei mesi di luglio ed agosto, abbiamo constato due esigenze fondamentali: la revisione delle piante organiche, in modo da poter incrementare l’organico della polizia penitenziaria (in Calabria, negli ultimi anni, sono aumentati i detenuti di 1200 unità e sono stati aperti nuovi padiglioni detentivi e nuovi istituti, come Laureana di Borrello) e la riorganizzazione del Provveditorato regionale. Dobbiamo infine ricordare che la Calabria ospita due sezioni detentive con terroristi interni (a Catanzaro sono ristretti appartenenti alle brigate rosse) ed internazionali (a Rossano sono ristretti 9 terroristi islamici). Questa mattina, nel corso della visita effettuata a Rossano, abbiamo potuto constatare le difficoltà operative ed organizzative dovute alla gestione dei terroristi islamici. È stato necessario aprire una nuova sezione, all’interno della quale i reclusi devono restare in cella singola, una stanza è stata adibita alla preghiera collettiva e agli stessi deve essere garantito il vitto differenziato, che consiste anche nell’assicurare loro la carne macellata secondo il rito islamico. In questo periodo, inoltre, è previsto il Ramadan, per cui gli stessi mangiano solo di sera e pregano nella ore diurne. A Rossano - per Damiano Bellucci segretario regionale del Sappe - a fronte del continuo aumento dei detenuti e del carico di lavoro, bisogna ricordare che è stata recentemente aperta una sezione detentiva per i detenuti ristretti per reati di terrorismo internazionale, si registra una considerevole carenza di personale della Polizia Penitenziaria e del comparto ministeri. Carente ai limiti dell’emergenza è il personale appartenente al ruolo degli ispettori e dei sovrintendenti nonché quello femminile della polizia penitenziaria. Si registra, inoltre, un intollerabile arretrato nella liquidazione dei servizi di missione effettuati dal personale a partire dal settembre 2009. Per questo riteniamo indispensabile si proceda con assoluta urgenza all’aumento del personale della polizia penitenziaria ma anche di quello amministrativo, all’assegnazione di fondi per i sistemi tecnologici e di sicurezza e la manutenzione, all’adeguamento del parco automezzi utilizzato per il trasporto dei detenuti. Parma: Cgil; suicidio in carcere colpa anche di un Governo assente che fa solo vaghe promesse Dire, 26 agosto 2010 Un “bollettino di guerra” che denuncia “una situazione gravissima”, che si aggrava ancora di più dopo l’estate. Anche la Fp Cgil di Parma interviene dopo il suicidio in carcere di qualche giorno fa. Un dramma, spiega la segretaria Luisa Diana, che poteva aggiungersi ad altri, visto che la polizia penitenziaria ha evitato in tutta la regione otto tentativi di togliersi la vita da parte dei detenuti, tre solo quest’estate. Diana, ancora una volta, dà i numeri sulla struttura: “Il carcere di Parma ha una capienza di 418 posti e ospita 539 detenuti”. Già da tempo “denunciamo come sindacato di categoria la grave situazione di sovraffollamento; altrettanto grave è la carenza degli organici”: di polizia, educatori, assistenti sociali, contabili, e di tutte le altre professionalità presenti in carcere. “È appunto questa carenza di personale- precisa Diana- la causa primaria delle difficoltà nelle relazioni umane all’interno del carcere”. In “questo stato di emergenza” il Governo “è assente e propina solo vaghe promesse di assunzione di ulteriori duemila unità senza alcuna copertura finanziaria”. La “stessa polizia penitenziaria - conclude la segretaria Fp Cgil - soffre fortemente di questa condizione. Ed è proprio alla polizia penitenziaria che viene poi richiesto di far fronte alle esigenze e di adibirsi a compiti che non le sono propri, quali quelli di educatori, assistenti sociali, uscieri e contabili”. Ascoli: Sappe; nel carcere di Marino del Tronto mancano 28 agenti Corriere Adriatico, 26 agosto 2010 La polemica sul sovraffollamento delle carceri italiane resta sempre viva e d’attualità. Su iniziativa di alcuni parlamentari, il grave problema è stato riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica. Basti ricordare che nel 2007 il governo del tempo, al fine di trovare una soluzione all’annoso problema, decise di concedere l’indulto. Nella carceri italiane si trovavano recluse 61 mila persone. Alla data odierna, nonostante l’applicazione del provvedimento legislativo, la popolazione carceraria risulta essere di 68 mila 448. Un aumento del 12% che ha acuito ulteriormente il fenomeno del sovraffollamento. Al carcere di Marino del Tronto, invece, la situazione è ben diversa rispetto alle altre case circondariali. “Il problema che affligge il carcere di Marino del Tronto - sottolinea Aldo Di Giacomo, segretario nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria - è di altra natura. Si registra, infatti, una pesante carenza di personale con ventotto agenti in meno rispetto a quanto prevede l’organigramma. Chiaramente è una situazione che penalizza pesantemente gli agenti che sono costretti a sobbarcarsi un lavoro massacrante per far fronte alle esigenze della struttura”. “Rispetto alla media nazionale - conclude Aldo Di Giacomo - la casa circondariale di Ascoli evidenzia un sovraffollamento, per quanto riguarda il settore giudiziario, di non eccessiva rilevanza tanto più che non deve fronteggiare particolari eventi critici. Ciò perché nelle Regione Marche sono funzionanti due carceri, quello ascolano e di Fossombrone, che accolgono detenuti molto pericolosi, sottoposti al rigoroso regime del 41/bis. Tutti devono scontare pene pesantissime per cui la legge dispone che debbano vivere in celle singole. Quindi nel penale non si può registrare il sovraffollamento. Una volta esauriti i posti disponibili il recluso viene dirottato in un altro carcere che abbia la disponibilità”. Immigrazione: reportage dal Cie di Restinco; dormitorio all’inferno e storie di ordinari rimpatri di Carlo Lania e Maria Luisa Mastrogiovanni Il Manifesto, 26 agosto 2010 “Non si tratta di detenzione. Non sono detenuti. Quindi non si configura il reato di evasione. Loro lo sanno e ci provano”. Erminia Cicoria, il capo di gabinetto della prefettura di Brindisi, ci accompagna nelle tre ore che trascorriamo al Restinco, il Cie che accoglie gli ultimi migranti sbarcati in questi giorni di scirocco nel basso Salento, stipati nelle stive di barche a vela di lusso. Li incontriamo: hanno passato quattro giorni nella stiva della barca. Hanno passato il confine con la Turchia a piedi, provenienti dall’Iraq. Ad Aksaray, un quartiere di Istanbul, hanno incontrato l’organizzazione a cui hanno pagato settemila dollari a persona. Ieri sera da Restinco hanno chiesto asilo politico. Gli altri, da lì, solo in agosto, ci hanno provato cinque volte a scappare. La maggior parte sono stati ripresi, con le buone o con le cattive. E ne portano tutti i segni. Cinque di loro, che fanno parte del gruppetto che sotto ferragosto hanno impilato un po’ di armadietti per salire sul tetto e poi scavalcare il muro di sei metri, hanno un braccio o una gamba rotti. “Sono caduti dal muro”, spiega Erminia Cicoria. Ma tre su cinque negano. L’interprete dall’arabo, messa a nostra disposizione dal direttore del Centro, Nicola Lonoce, ci traduce la loro versione: “Macché cadute. Ci hanno picchiato con i manganelli”. Disteso per terra su un materasso trascinato nel cortile dagli altri ospiti del centro, Morad Bigawi tunisino di 18 anni, con piede e gamba sinistra ingessati, ci mostra vistosi ematomi sul braccio, spalla e coscia destra. Racconta di essere stato picchiato dagli agenti di polizia e guardia di finanza, che lo hanno riacciuffato per le campagne, mentre cercava di scappare. È più o meno quello che racconta Jbeli Moura, tunisino di 34 anni. È stato in prigione un anno e sei mesi per spaccio. Ha scontato la sua pena ma, per una beffa kafkiana tipica della burocrazia italiana, invece di essere rimpatriato direttamente dopo essere uscito dal carcere, come tutti quelli nella sua condizione, passa da un Cie, dove può accadere che trascorra anche diversi mesi prima di tornare in patria. Così Moura, che ha la famiglia in Belgio, cerca di fuggire, si rompe o, a quanto dice lui, gli rompono un braccio per impedirgli la fuga. Intanto è lì, in un “centro di identificazione ed espulsione”, nonostante non abbia bisogno di essere identificato, perché è già stato in un carcere italiano. Storia simile a quella di Rezamag Mahdi, tunisino di 38 anni, ha sposato una cittadina francese da cui ha avuto tre figli, di dieci, sette e cinque anni. Viveva a Grenoble con la sua famiglia. In Italia in vacanza, racconta di aver picchiato un poliziotto che a suo dire aveva offeso sua moglie e per questo ha scontato due mesi nel carcere di Ravenna e quattro a Foggia. Ora è stato trasferito a Restinco, nonostante non solo sia stato abbondantemente identificato nel carcere, ma, soprattutto, nonostante abbia permesso di soggiorno, patente e carta d’identità francesi. È arrivato lì da poche ore e il capo di gabinetto chiede al direttore del Centro di verificare quella che sembra una situazione a dir poco anomala. Rezamag faceva l’artigiano, ristrutturava appartamenti. Ci mostra la sua tessera di iscrizione alla Camera di commercio francese. Parla a bassa voce, ha modi pacati ma decisi. Fanno a gara per poter raccontare la loro storia. Ci seguono mentre visitiamo le stanze per i colloqui che si tengono con gli psicologi, i consulenti legali, gli assistenti sociali, i mediatori culturali. Sono servizi, questi, previsti dal capitolato d’appalto della gara vinta dal consorzio Connecting people, che gestisce Cie e Centri di accoglienza in tutta Italia. In particolare devono garantire: 54 ore settimanali di assistenza legale; 24 di assistenza psicologica; 24 di assistenza sociale; 156 di mediazione; 24 ore di insegnamento della lingua italiana. Sono corsi frequentati soprattutto dai migranti ospitati all’interno del “Cara”, il centro di accoglienza per i richiedenti asilo politico che oggi accoglie 60 persone. Vivono in moduli prefabbricati che diventano roventi sotto il sole del Salento, anche perché l’aria condizionata è rotta e in tutto il Centro non c’è una chiazza d’ombra o la traccia di un albero che dia un po’ di tregua e di respiro. Per questo gli ospiti del Cie, oggi 40, si trascinano dalle stanze alla mensa e dalla mensa al cortile. Nel cortile il sole è a picco e l’unica ombra è quella di due grandi gazebo sotto i quali nessuno trova ristoro, perché il pavimento di cemento restituisce il doppio del calore che assorbe. Per questo, siccome l’unico posto fresco è la mensa, portano lì i materassi, e passano le ore, i giorni, i mesi. Fino a sei, entro i quali devono ritornare in patria. In fondo al corridoio, alcuni tappeti sono sistemati per la preghiera. È il periodo del Ramadan e la maggior parte di loro è osservante. Ci fanno vedere i dormitori, stanze da 12 posti con sei letti a castello; i bagni, alla turca, dove mancano molte porte. “Le divelgono - dice il capo di gabinetto della Prefettura - e dal nostro punto di vista è educativo che comprendano che, se rompono una cosa, questa non viene automaticamente sostituita. Devono essere responsabili. Intanto noi eliminiamo tutto ciò che può essere utilizzato per la fuga”. Come le porte del campetto di calcetto. Fino ad un anno fa, quando Restinco era solo un Centro di accoglienza, prima di diventare Cie il 14 agosto dell’anno scorso, il campetto era usato dai “richiedenti asilo”. Da allora, da un lato un muro e dall’altro un semplice cancello rinforzato separano una zona dall’altra. Di fatto è un’unica struttura presidiata da Carabinieri, polizia, Guardia di finanza e dal vicino Battaglione San Marco, che anche per ragioni di “contiguità” viene chiamato per le emergenze. Come per esempio sedare le risse o le rivolte, anche perché, come più volte lamentato dai rappresentanti del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziari) di Brindisi, si lavora in carenza di organico e si ha la tentazione di lasciar fare agli altri il “lavoro sporco” dell’acciuffare chi scappa o bloccare i tafferugli. Intanto ogni giorno continuano ad arrivare qui, come dice Cherif Hamdi, mostrando il suo braccio contuso che non riesce a muovere, “per lavorare, non per essere picchiati”.