Giustizia: una riforma per le carceri, dopo le chiacchiere estive di Franco Corleone Il Manifesto, 25 agosto 2010 Agosto sta finendo e la vita nelle carceri prosegue nell’ordinarietà della illegalità permanente. Qualche cinico potrà vantarsi dell’assenza di rivolte e dire che non è successo nulla; che si può continuare tra morti sospette, suicidi (siamo a quota 42), malattie e autolesionismo. Mauro Palma sul “manifesto” del 13 agosto, analizzando l’iniziativa del “Ferragosto in carcere” ha giustamente sottolineato che non mancano analisi e fotografie di una realtà che è andata degenerando. Ancora più puntualmente ha voluto richiamare il senso dell’iniziativa, forte solo se indirizzata in maniera inequivoca a voltare pagina. Purtroppo non è né facile né semplice definire un progetto per il cambiamento radicale del carcere. Travolti dall’emergenza del sovraffollamento, anche le associazioni e i movimenti impegnati sul terreno riformatore sono stati risucchiati nell’arida contabilità della capienza reale degli istituti penitenziari, trovandosi a contestare le cifre offensive (verso la dignità delle persone) della capienza “tollerabile”. Fiumi di parole e un enorme volume di tempo ed energie nel tentativo di vuotare il mare con un secchiello. Certo l’attività di pronto soccorso va proseguita, ma vanno anche denunciati gli autori dei crimini; in questo caso i responsabili della distruzione dei valori costituzionali sul carattere della pena e sulle modalità della sua esecuzione. Per questo non si può dare alcun credito alle promesse del ministro Alfano di facilitare le misure alternative. Meglio concentrarsi dunque sui nodi cruciali della questione. L’attenzione al carcere è fondamentale per molte ragioni e sul significato della detenzione le parole di Aldo Moro rimangono le più umane, in particolare quelle contro l’ergastolo. Il carcere ci parla anche della giustizia, del suo funzionamento concreto e dei destinatari odierni della politica criminale dietro le leggi suggerite dall’ossessione securitaria. Se il carcere contiene la metà dei detenuti per reati (per lo più minori) di violazione della legge sulle droghe o per reati compiuti in quanto tossicodipendenti, vuol dire che la macchina della giustizia è soffocata e ingolfata da indagini e processi per la repressione di un tabù ideologico. Qui sta l’origine della lentezza e della crisi della giustizia, altro che processo breve. Che aspetta il Partito Democratico a porre questa discriminante al partito della Proibizione e dello Stato etico? Se aggiungiamo gli effetti della legge contro gli immigrati e la persecuzione contro i soggetti più deboli a causa della legge Cirielli, ci scontriamo con il volto feroce della giustizia di classe. Allora dobbiamo urlare senza mezzi termini che il sovraffollamento non è una calamità naturale ma un effetto voluto dagli imprenditori della paura; e che l’unica misura accettabile di capienza è quella costituzionale. Se si rispettasse lo stato di diritto, mite e laico, in Italia i detenuti non dovrebbero superare le trentamila unità. Che fare dunque? Bisogna convincersi che la crisi non può essere un alibi; il governo e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono privi di un progetto sul carcere e sono capaci solo di parlare a vanvera di edilizia carceraria, senza neppure confrontarsi sulla qualità architettonica e la sua funzione rispetto alla riforma penitenziaria. Forse bisogna decidere di ripartire dal quel testo del 1975 e dal regolamento di attuazione del 2000 rimasto nel cassetto: non è più il caso di accontentarsi delle giaculatorie pseudo riformiste. Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario dell’istituzione della Polizia Penitenziaria. Non è il caso di fare un bilancio della smilitarizzazione degli agenti di custodia (battaglia che vide allora impegnata Adelaide Aglietta con un lungo sciopero della fame)? Io non me la sento di unirmi al coro cerchiobottista di chi sostiene che vi sono troppo pochi agenti. Dico invece che bisogna ipotizzare una nuova riforma: ad esempio concentrando i compiti della Polizia Penitenziaria sull’Alta Sicurezza, sul 41 bis, sulle traduzioni e sulla vigilanza esterna e investendo un nuovo Corpo civile dei compiti trattamentali e del reinserimento sociale dei detenuti, come avviene ad esempio in Catalogna. E da subito iniziare una campagna d’autunno per la liberazione a Natale di 10.000 tossicodipendenti illegalmente sequestrati in galera. Giustizia: i Garanti; ddl Alfano, ovvero come non ridurre il sovraffollamento carcerario Comunicato stampa, 25 agosto 2010 Il Coordinamento Nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale istituti a livello comunale e provinciale ritiene che il disegno di legge Alfano, che prevede l’esecuzione presso il domicilio di pene detentive non superiori ad un anno, approvato dalla II Commissione permanente della Camera dei Deputati il 30 luglio 2010 e trasmesso il 2 agosto al Presidente della Camera dei Deputati, nella versione attuale, anche se approvato, non sia assolutamente idoneo a far fronte alla ormai insostenibile situazione carceraria. Tramontata la possibilità che il Governo adotti un decreto legge, stante l’urgenza imposta dal numero di persone detenute, che vivono da troppo tempo in una condizione che è inumana e degradante, il disegno di legge rappresenta un inutile doppione di una misura alternativa, anche se atipica, come la detenzione domiciliare, di cui molti detenuti potrebbero già beneficiare anche in limiti temporali più ampi. Il testo attuale del ddl Alfano, nel rimettere alla valutazione discrezionale della Magistratura di Sorveglianza l’applicazione della misura, e venendo meno la rapidità di una decisione che nella versione originaria era ancorata alla mera verifica della disponibilità alloggiativa, snatura un intervento che doveva portare alla liberazione in tempi rapidi di alcune migliaia di detenuti con imminente fine pena, e la cui pericolosità si presumeva diminuita e tale da giustificare la attenuazione del regime detentivo. Il provvedimento, rivolto a quella categoria di detenuti che nelle ultime circolari Dap dovrebbero essere fruitori di un diverso regime di custodia, proprio in ragione dell’imminente fine pena, rischia oggi di diventare ancor più punitivo, attesa la previsione di pene più severe per l’evasione e l’introduzione di una aggravante, per i reati commessi in costanza di detenzione domiciliare, che erano censurabili prima, ma adesso ancor di più essendo venuto meno l’effetto deflattivo di cui si è detto. C’è invece da chiedersi come mai un istituto già esistente, ed in limiti più ampi, essendo la detenzione domiciliare già presente nell’Ordinamento penitenziario per pene comminate o residue inferiori ad anni due, a prescindere dalle ipotesi speciali, non abbia trovato sufficiente applicazione, se il Ministro di Giustizia ha ritenuto di presentare un disegno di legge per una ipotesi che è già ricompresa nell’istituto già esistente. In ogni caso, nell’evidenza che anche questo intervento legislativo appare inutile, la richiesta è che si metta mano con serietà ad una vera riforma del codice penale, ricordando che, già nelle precedenti legislature, la Commissione Nordio nel 2005 e la Commissione Pisapia nel 2008 avevano elaborato progetti in tal senso, con la ridefinizione delle condotte illecite e introducendo un diverso e articolato sistema sanzionatorio che preveda il carcere come extrema ratio, e alla revisione delle leggi che producono carcerizzazione inutile, da quella sull’immigrazione a quella sugli stupefacenti, all’abolizione della disciplina attuale della recidiva e alle norme restrittive via via introdotte con i “pacchetti-sicurezza”, che si dia luogo ad una piena valorizzazione delle misure alternative e si cerchino per gli stranieri soluzioni dignitose per incentivare i rientri e i non ritorni, come l’introduzione della misura del rimpatrio assistito anche per i detenuti, consentendo un ritorno ai paesi di origine con un progetto di reinserimento, e con innegabili vantaggi economici per il nostro Paese, considerato il costo della gestione delle carceri, e con auspicabile cambiamento di rotta nella politica criminale di questo Paese. Avv. Desi Bruno Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna Coordinatrice Nazionale dei Garanti territoriali Giustizia: Osapp; Alfano non lasci Polizia penitenziaria in stato abbandono e sudditanza Adnkronos, 25 agosto 2010 “Quando parlamentari del Pdl difendono, per carità o per legittimo onore di schieramento, l’opera e le iniziative del ministro della Giustizia Alfano in ambito penitenziario, dovrebbero anche raccontare ai 40.000 poliziotti penitenziari in servizio quale azione meritoria e tangibile del guardasigilli li abbia riguardati, in una qualche misura, in questi ultimi due anni”. È quanto afferma il segretario dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, Leo Beneduci, dopo aver ricordato come siano stati sventati dagli agenti il secondo suicidio in una settimana di un detenuto a Verona e un’evasione di gruppo a Fossano. Per l’Osapp, “sarebbe rilevante che Alfano favorisse per le donne e gli uomini del Corpo la piena autonomia gerarchica e funzionale nella gestione dell’ordine e della sicurezza, nonché delle attività di polizia giudiziaria interne agli istituti di pena. In tal caso potremmo affermare, con orgoglio, di avere oltre che un ministro della Giustizia anche un ministro della Polizia penitenziaria, la quale merita ben altro che le attuali condizioni di abbandono e di sudditanza”. Lettere: questi pellegrinaggi inutili del Ferragosto nelle carceri di Bruno Temil (Associazione Vita Nuova, Tolmezzo) Messaggero Veneto, 25 agosto 2010 Ormai sono credo almeno 3 anni che i nostri parlamentari entrano a far visita nelle carceri italiane per verificare le condizioni di vita dei detenuti e le vari problematiche di quanti operano all’interno. Ogni anno a Ferragosto si elencano gli stessi problemi che riscontriamo sempre da decenni (sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, suicidi, personale di custodia non sufficiente a far fronte alle diverse esigenze di sicurezza eccetera). A me personalmente sembra un pellegrinaggio inutile anzi strumentale e di facciata. Non basta entrare una volta l’anno per ripetere poi le stesse cose ed evidenziare le lacune del nostro sistema penitenziario. Occorre che ci sia una volta per tutte una chiara volontà di arrivare a una soluzione a tantissimi problemi di questa realtà. Per esempio si sono chiesti i radicali italiani cosa può produrre una nuova chiamata alle elezioni, come tutto sembra lasciare intendere visto le ultime vicende politiche? Per il mondo carcerario significa prorogare ancora almeno di un altro anno la situazione senza che nulla possa essere fatto. Anzi a mio parere aggraverà ulteriormente quello che è il sovraffollamento (oggi ci sono 68.200 detenuti circa, fra un anno sicuramente oltre i 70.000), i suicidi tra i detenuti (al 15 agosto sono già 41 i decessi), la carenza di personale di polizia penitenziaria, le difficoltà a gestire situazioni a dir poco ingovernabili. Andare alle elezioni anticipate sarebbe come procrastinare per un ammalato grave le cure di cui necessita già da subito. Se davvero tutti i politici che hanno visitato in questi giorni le carceri italiane hanno a cuore di risolvere questi problemi si impegnino prima di tutto per evitare lo scioglimento delle Camere e allo stesso tempo si adoperino per proporre significative misure legislative (misure alternative alla detenzione in carcere, depenalizzazione di certi reati, riduzione della custodia cautelare, agevolazioni alle imprese e cooperative nell’assunzione di detenuti in semi-libertà ed ex detenuti) e chiaramente un potenziamento del personale di custodia. Lo so che trovare una soluzione idonea ad assicurare da una parte la giusta necessità di custodia e sicurezza nei confronti di tanti reati che sono commessi e dall’altra una corretta e dignitosa espiazione della pena non sia così facilmente individuabile, ma è altresì evidente che la situazione attuale (a Tolmezzo nel carcere che frequento in 11 metri quadrati di spazio in cella vivono 3 detenuti) è di tale gravità che richiede urgenti misure non in senso repressivo - come qualche parte politica vorrebbe -, ma piuttosto di aperture alle misure alternative (forse ci siamo dimenticati troppo presto della ancora attuale ma scarsamente applicata Legge Gozzini). Questo se non vogliamo registrare nei prossimi mesi una lista lunghissima lista di suicidi nei nostri penitenziari italiani. Lettere: le visite di Ferragosto sono state utili, il carcere di Lucca è un inferno di Adriano Paoli (Circolo Centro Storico Partito Democratico) Il Tirreno, 25 agosto 2010 Utile la visita dei parlamentari del Pd al carcere di S. Giorgio, dove hanno verificato la drammatica situazione di quanti sono detenuti e lavorano nella struttura inadatta ad accogliere tante persone. La vita dentro il San Giorgio è sopravvivenza e non solo per i detenuti. Le difficili condizioni di lavoro in cui versa il personale addetto, la mancanza di figure specializzate come educatori o psicologi rende improbabile qualsiasi intervento reale di recupero e reinserimento sociale. Il carcere, non dimentichiamo, è solo l’ultimo tassello riparatorio quando i meccanismi di autoregolazione di una società s’incrinano e si rompono ma ha funzioni di educazione e riabilitazione. Sarebbe più opportuno concentrare le forze e le risorse per combattere quei reati che compromettono gravemente la convivenza civile e ledono i diritti dei cittadini e lavorare sul fronte della prevenzione per disinnescare le cause ultime del reato. Povertà, ignoranza, emarginazione economica e sociale. Nel programma di governo del Pd il carcere non è l luogo in cui riversare tutti gli esclusi sociali e i soggetti deboli della società, ma una questione culturale, civile, di dignità umana. Meritano una riflessione anche le logiche della nuova edilizia penitenziaria che ha costi ingenti e tempi lunghi richiamando appetiti di varia natura in un gioco a somma zero dove chi rimane schiacciato è la comunità locale. Ricordiamo per inciso che l’amministrazione Fazzi annunciò di concerto con l’allora sottosegretario alla giustizia, Valentino, la realizzazione di un nuovo carcere a Lucca ma il governo non stanziò mai le risorse e non fu definita la localizzazione. Intanto per settembre sarà pronto un progetto, targato Pd, che risponda alle esigenze più immediate e concrete dei detenuti, spesso privi dei beni più elementari e in cantiere l’idea di supportare e potenziare le attività interne di natura educativa e ricreativa, perché il carcere respira dentro le nostre mura e non possiamo ignorarlo. Sardegna: manca personale… anche per accudire i cavalli della Polizia penitenziaria Agi, 25 agosto 2010 I cavalli della polizia penitenziaria sono stati trasferiti in Sardegna. La decisione è stata assunta dal Dap nell’ambito di una razionalizzazione e di un rilancio dell’attività del servizio a cavallo istituito dal ministero della Giustizia nel novembre del 2003. “La scelta della Sardegna - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme - è positiva in quanto determinata dalla presenza degli istituti penitenziari all’aperto di Is Arenas nel comune di Arbus; Isili e di Mamone nel comune di Onanì e della scuola per i servizi di polizia a cavallo aperta a Foresta Burgos in attuazione della convenzione tra il ministero degli Interni e la Regione. Gli istituti all’aperto dell’isola, dove sono in corso programmi ambiziosi di rieducazione e di specializzazione lavorativa per i detenuti, nonostante il sovraffollamento, possono costituire un’importante alternativa alla detenzione nelle case circondariali”. “È però necessario - sottolinea la Presidente di Sdr - che l’impegno del Dap serva a rimediare agli errori commessi nel passato quando i reparti a cavallo sono stati praticamente abbandonati ed il personale, peraltro insufficiente, è stato adibito ad altri servizi. Gli immobili, in particolare quello delle Capannelle a Roma, ed i mezzi sono rimasti privi di manutenzione con risultati facilmente intuibili. Anche il bando per potenziare il Servizio, che prevede un interpello per l’utilizzo di 8 unità, di cui tre donne, è insufficiente per un serio rilancio del servizio. Occorre quindi che nell’ambito delle 2.000 assunzioni previste dal Ministro Alfano sia assegnato un maggiore numero di agenti-assistenti per il Reparto a cavallo. Analogo discorso va fatto per la scuola di Foresta Burgos che, secondo la convenzione tra il ministero e la Regione, puntava al rilancio dell’intera area costituita da un maneggio coperto tra i più belli e funzionali d’Italia, un albergo, un borgo con annessa l’antica chiesa campestre di S. Salvatore. I beni immobili sono a disposizione della Polizia di Stato, del Corpo Forestale e della Polizia Penitenziaria per 30 anni in uso gratuito. L’organico complessivo della scuola è stato fissato in 45 unità, appartenenti ai vari ruoli della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale dello Stato, rispettivamente in ragione di 30, 10 e 5 unità. Ad oggi, però, sono stati assegnati alla scuola solamente 14 appartenenti alla Polizia di Stato, compreso il direttore, che devono garantire la cura dei 13 cavalli presenti ed i servizi essenziali. È indispensabile - conclude Caligaris - che al più presto avvenga l’assegnazione del personale previsto dalle tre Forze di Polizia e di quello civile specializzato e non, che si occupi della pulizia degli animali e delle stalle”. Bologna: senza il Garante dei detenuti più difficile la mediazione con le istituzioni Redattore Sociale, 25 agosto 2010 “Le istituzioni non hanno interesse che si metta il naso dentro al carcere”. È il commento del regista Paolo Billi (Teatro del Pratello) sul mancato rinnovo del mandato del garante. Desi Bruno, intanto, torna a parlare di sovraffollamento “Non so cosa potrà accadere dopo il 31 agosto”. Paolo Billi, regista che da anni lavora dentro al carcere, in occasione della presentazione della rassegna estiva del Teatro del Pratello interviene sulla scelta di non rinnovare il mandato del garante dei diritti dei detenuti. Una scelta che, afferma, “è di tipo politico e non tecnico come invece cercano di farci credere”. Testardaggine, presenza continua e voglia di sporcarsi le mani. Sono le caratteristiche che, secondo Billi, hanno permesso a Desi Bruno, in carica fino al prossimo 31 agosto, di raggiungere risultati importanti in questi cinque anni. “Il garante è stato il mio referente nei rapporti con le istituzioni – afferma il regista – e ha svolto un ruolo da mediatore. Senza questa figura sarà tutto più difficile. Evidentemente le istituzioni non hanno interesse che qualcuno metta il naso dentro al carcere”. Il garante dei detenuti, intanto, continua a far sentire la sua voce anche negli ultimi giorni del mandato e torna a parlare di sovraffollamento carcerario. In particolare, Desi Bruno interviene sul disegno di legge Alfano (approvato lo scorso 30 luglio dalla Commissione permanente della Camera dei deputati) sull’esecuzione presso il domicilio di pene detentive non superiori a un anno. “Nella versione attuale – chiarisce il garante – il ddl non è idoneo a far fronte all’insostenibile situazione carceraria. Anzi, costituisce un inutile doppione della misura alternativa della detenzione domiciliare”. Misura, quest’ultima, di cui molti detenuti potrebbero già beneficiare anche in limiti temporali più ampi. Senza dimenticare che, rimettendo l’applicazione della misura alla valutazione discrezionale del Magistrato di sorveglianza, laddove prima era ancorata alla verifica della disponibilità di alloggi, “si snatura un intervento che avrebbe portato alla liberazione in tempi rapidi di alcune migliaia di detenuti, con imminente fine pena, la cui pericolosità si presumeva diminuita e tale da giustificare un’attenuazione del regime detentivo”. Un intervento legislativo reputato superfluo da Desi Bruno che sottolinea, al contrario, “l’importanza di mettere mano a una vera riforma del Codice penale, alla piena valorizzazione delle misure alternative già previste dal sistema giudiziario e – conclude – alla revisione di leggi che producono carcerazioni inutili, come quelle sull’immigrazione o gli stupefacenti”. Sassari: A Buon Diritto; il carcere di San Sebastiano va chiuso subito, non è riformabile Il Velino, 25 agosto 2010 Il presidente di “A Buon Diritto”, Luigi Manconi, i parlamentari sardi del Pd Guido Melis, Gianpiero Scanu, Arturo Parisi e il segretario dell’associazione “Il Detenuto Ignoto”, Irene Testa, hanno chiesto la chiusura immediata del carcere di San Sebastiano (Ss) perché, nel collasso generale del sistema penitenziario italiano, rappresenta una situazione particolarmente drammatica e palesemente non riformabile. Lo si legge in una nota dell’ufficio stampa dell’associazione “A buon Diritto”. “Un istituto fatiscente dove i wc sono a vista, collocati nello stesso ambiente dove i detenuti dormono e cucinano, dove sono ospitati 90 tossicomani senza il supporto di alcun psicologo, dove il caldo d’estate e il freddo d’inverno costituiscono due autentiche forme di supplizio. Il sovraffollamento - continua - è superiore a quello medio delle carceri italiane e mancano beni di primissima necessità. Tutto ciò mentre i lavori per la realizzazione del nuovo carcere di Sassari, in località Bancali, appaltati alla ditta Anemone, sono tenuti in stato di assoluta e immotivata segretezza, senza che alcuna informazione venga fornita agli amministratori locali, ai cittadini, ai parlamentari che, da tempo, sollecitano risposte adeguate. Si conferma così che il piano carceri costituisce un vero e proprio diversivo per un governo che si mostra totalmente incapace di assumere qualunque provvedimento in materia”. Su tutto ciò Manconi Melis Scanu Parisi e Testa hanno presentato un esposto denuncia alla Procura della Repubblica di Sassari perché intervenga nei tempi più rapidi possibili per accertare lo stato di illegalità in cui versa San Sebastiano e alla Asl di Sassari e al sindaco della città, titolari di competenze in materia igienico sanitaria. Parma: Motta e Soliani (Pd); il suicidio nel carcere ci riempie di tristezza Asca, 25 agosto 2010 “La notizia del suicidio di un detenuto nel carcere della nostra città ci riempie di tristezza e di grande preoccupazione. - Lo dichiarano la senatrice Albertina Soliani e l’onorevole Carmen Motta - Se vero che non tutto è prevedibile nella quotidianità degli istituti penitenziari, altrettanto vero è che bisogna operare ed intervenire per far sì che le condizioni carcerarie siano le più umane possibili. Ripetutamente, con visite e interrogazioni parlamentari, anche recenti abbiamo chiesto al ministro della Giustizia di intervenire per aumentare il numero degli agenti, degli educatori, degli psicologi e del personale qualificato. - continuano le due parlamentari del Pd - Alla luce di quanto accaduto ieri è urgente che il governo intervenga. Di fronte a 42 suicidi nelle carceri italiane dal primo gennaio ad oggi la politica deve assumersi le sue responsabilità. A settembre al Senato dovrà concludersi l’iter di approvazione della legge che consentirà di terminare la pena con misure alternative al carcere. Devono essere snellite le procedure soprattutto nei confronti dei tossicodipendenti che hanno bisogno di interventi di cura in comunità di recupero. È una vergogna la discussione politica di queste settimane, mentre i problemi e del Paese non vengono affrontati. Occorre fare di più anche per l’istituto penitenziario della nostra città - concludono Soliani e Motta - per fare della pena uno strumento di recupero e di reinserimento”. Gorizia: la madre di Ramon Berloso; ho dei dubbi sul suo suicidio Il Piccolo, 25 agosto 2010 Il mistero delle lettere che non sono mai state consegnate ai famigliari. È rimasto impiccato a lungo, senza che nessuno intervenisse”. Gloria Berloso, la madre di Ramon, reo confesso dell’omicidio di due prostitute, lancia accuse. Pesanti. E lo fa in un’intervista televisiva. Sottolinea di aver provato “strazio, orrore, rabbia” per la morte delle due escort, “ma non dolore perché non conoscevo la loro storia personale”. Ha rivelato anche un altro particolare. “Le lettere che Ramon mi avrebbe indirizzato non mi sono mai state consegnate. Non so cosa abbia scritto, non conosco i suoi pensieri”. Gloria Berloso ripete, quindi, un concetto più volte espresso. “La verità è che hanno lasciato Ramon solo. Era una persona che aveva bisogno di aiuto ma nessuno gli ha fornito l’assistenza necessaria”. Nell’intervista televisiva la madre ha ripercorso, dunque, le tappe della caccia all’uomo. “Non sapevo cercassero mio figlio. Soltanto in un secondo momento mi hanno avvisato. Forse, si sarebbe potuto fare qualcosa”. Intanto, è nebbia fitta sui funerali. “I funerali di Ramon Berloso? Non possiamo dire nulla. La consegna che ci è stata data dalla madre è di non rivelare alcunché: né il luogo, né dove si procederà con la tumulazione. Ci dispiace”. È la (gentile) risposta dell’operatore dell’Agenzia di pompe funebri. Non fornisce particolari. Anzi, non dice proprio nulla di più. Sono esequie “secretate”. Come si ricorderà, Berloso, trentacinque anni, reo confesso per l’omicidio di due escort, era morto nella mattinata di venerdì all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. Erano da poco passate le 5.40 quando il suo cuore aveva cessato di battere. Da 15 giorni ormai era ricoverato, senza più speranze, al reparto di Rianimazione del nosocomio dell’ospedale friulano. “La morte - aveva spiegato Fabio Pasquariello, comandante del nucleo investigativo di Udine - è stata causata da gravi complicanze cardio-respiratorie e neurologiche successive al tentativo di suicidio in carcere del 4 agosto scorso. Come hanno spiegato a più riprese i medici, la situazione era talmente compromessa che sarebbe potuta evolvere soltanto in due maniere: la morte (com’è stato) o lo stato vegetativo”. Berloso era stato ricoverato in condizioni disperate dopo che nel carcere udinese di via Spalato, in cella di isolamento, aveva tentato il suicidio legandosi attorno al collo un lenzuolo appeso poi alle inferriate. Era stato trovato agonizzante e ormai privo di sensi dagli agenti penitenziari che avevano fatto scattare l’allarme. Erano intervenuti i sanitari che l’avevano condotto al reparto di Terapia intensiva nel nosocomio udinese dove era stato posto in coma farmacologico. Caltanissetta: Pagano (Pdl); visite al “Malaspina” e San Cataldo, due carceri sovraffollate La Sicilia, 25 agosto 2010 Alcuni reparti delle carceri di Caltanissetta e San Cataldo sovraffollate, anche se il livello di pulizia è soddisfacente. È quanto emerso dalle verifiche di ferragosto per il progetto nazionale, al quale hanno aderito ben 65 fra deputati e senatori della Repubblica, tra i quali l’on. Alessandro Pagano del Pdl. Il progetto dei parlamentari, appartenenti a tutti i partiti dell’arco costituzionale, è quello di realizzare “visite umanitarie a favore della popolazione carceraria”. L’on. Pagano ha visitato il carcere di Caltanissetta e di San Cataldo, ha partecipato alla celebrazione della Santa Messa, ha visitato i reparti di media e massima sicurezza e si è accertato delle condizioni igieniche, vivibilità e sicurezza dei reparti di entrambe le comunità penitenziarie. Il deputato del Pdl ha verificato che i “servizi essenziali a Caltanissetta sono garantiti, le celle sono dotate di luce naturale nonché di bagni e doccia con acqua calda. Anche le ore d’aria sono sufficienti e soddisfano le esigenze della popolazione carceraria. Non sempre è così a San Cataldo, ma la situazione per fortuna non è grave”. Il deputato nazionale intrattenendosi con i detenuti ha con loro colloquiato e condiviso, da un punto di vista umano, il loro stato d’animo. Anche con il personale dipendente e gli agenti di Polizia penitenziaria, “ l’incontro è stato cordiale e pieno di reciproci apprezzamenti. Gli agenti svolgono un difficile compito, delicato e complesso ed operano con grande professionalità e puntualità nonostante l’organico sia ridotto ed i detenuti sono in forte esubero”. Questi alcuni dati raccolti nel reparto di media sicurezza di Caltanissetta dove sono presenti 166 detenuti rispetto agli 88 prevista dalla capienza regolamentare. In una cella di 20,8 metri quadrati erano presenti 6 detenuti, le celle sono dotate di bagni separati, docce e acqua calda, nelle celle entra la luce naturale, di notte le porte blindate vengono lasciate aperte, le condizioni igieniche sono buone, le ore d’aria sono quattro (due al mattino e altrettante al pomeriggio). Nel carcere di San Cataldo (reclusione ordinaria) erano presenti 109 detenuti su 89 previsti dalla capienza regolare. In una cella da 20 a 130 metri quadrati erano presenti da 8 a 16 detenuti, il bagno era in un vano separato, le celle sono dotate di docce (8 quelle in Comune con condizioni igieniche buone), acqua calda, entra la luce naturale, le opre d’aria sono quattro, L’on. Pagano, durante gli incontri, si è impegnato per favorire convenzioni fra l’Amministrazione Penitenziaria della Provincia di Caltanissetta ed alcuni Enti pubblici e privati, al fine di migliorare lo stato dei detenuti e del personale. Parole di incoraggiamento da parte dell’on. Pagano sono venute anche a seguito dell’imminente prossima apertura del carcere di Gela, i cui lavori procedono così come gli è stato garantito dal Provveditore Regionale, dott. Orazio Faramo. Foggia: Sappe; un solo psichiatra per 180 detenuti affetti da patologie psichiatriche Ansa, 25 agosto 2010 Nel carcere di Foggia c'è un solo psichiatra a fronte di 190 detenuti affetti da patologie psichiatriche: il medico è al lavoro per 50 ore mensili, quindi può dedicare in media 16 minuti al mese a ciascun detenuto. Lo denuncia il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che sottolinea come nella struttura vi sia una "grave carenza" di psico-farmaci e di medicinali di fascia C. "La cosa drammatica - prosegue il Sappe - è che l'effetto di tale carenza ricade proprio sulla polizia penitenziaria che, essendo a contatto con i detenuti, subisce tutta una serie di intimidazioni e proteste, non solo verbali". Il sindacato sottolinea che sui 750 detenuti rinchiusi a Foggia, oltre ai 190 con problemi psichiatrici, vi sono "centinaia di detenuti affetti da altre patologie anche importanti, mentre l'assistenza infermieristica è assicurata per circa 32 ore al giorno". Roma: il Garante; al Cie alcuni ex detenuti lavoranti non possono ritirare lo stipendio Il Velino, 25 agosto 2010 In carcere hanno lavorato regolarmente e devono essere retribuiti. Scontata la pena, sono stati considerati stranieri clandestini e quindi trasferiti al Cie di Ponte Galeria in attesa di espulsione. Ma lo status di clandestino non consente loro di incassare i compensi per il lavoro svolto in carcere. Il caso è stata denunciato dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, cui si sono rivolti diversi ospiti del Centro di Espulsione ed Identificazione di Ponte Galeria. Quando, dal Cie, lo straniero chiede il pagamento delle ultime spettanze per il lavoro svolto in carcere, la Direzione dell’Istituto di provenienza spedisce rapidamente all’ex lavorante un assegno non trasferibile da ritirare all’Ufficio postale di Ponte Galeria. Il problema è che l’assegno può essere riscosso solo dall’immigrato, impossibilitato ad uscire liberamente dal CIE; per farlo avrebbe bisogno di una scorta e, soprattutto, di un documento di identità che non possiede perché clandestino e che invece aveva quand’era in carcere. L’alternativa è quella di delegare alla riscossione il Direttore del Cie, ma senza documento anche questa è impercorribile. La sostanza è che molti assegni non vengono incassati dai legittimi titolari e rientrano nelle casse del Ministero di Giustizia. “Abbiamo posto il problema al carcere di Rebibbia N.C. - ha detto il Garante Marroni - e il direttore è stato disponibile a prevedere una metodologia diversa per garantire il diritto agli ex detenuti a riscuotere la paga, accordandosi con la Coop che gestisce il Cie. Ora occorre trovare una soluzione con le altre 13 carceri della regione. I Cie sono ambienti estremamente difficili, come dimostrano i casi di questi giorni in tutta Italia, e il mancato rispetto del diritto alla paga potrebbe creare ulteriori tensioni. Della questione ho investito anche il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria: occorre disinnescare alla svelta questo ulteriore elemento destabilizzante all’interno del Centro di Ponte Galeria”. Parma: detenuto ritrovato morto il 7 ottobre 2009 fu ucciso dall’assunzione di eroina Ansa, 25 agosto 2010 Giuseppe Saladino, detenuto trovato morto nel carcere di Parma il 7 ottobre 2009, fu ucciso dall’assunzione di eroina, che il giovane sniffò quando era già in cella. È la conclusione della consulenza medico-legale richiesta dalla Procura sulla morte avvenuta 20 ore dopo l’arresto per aver contravvenuto all’obbligo degli arresti domiciliari. Lo scrive la Gazzetta di Parma. Come già noto, il decesso fu provocato dall’eroina. Dal supplemento di indagine chiesto dalla procura, emerge oggi però che la droga fu assunta due o tre ore prima della morte, quando già il giovane era nell’istituto di pena. ‘È molto difficile ipotizzare che la droga gli sia stata ceduta in carcere, anche perché non entrò in contatto con altri detenuti, se non il suo compagno di cella, una persona in carcere da tempo su cui pare non ci siano dubbi. L’ipotesi più probabile - ha spiegato il procuratore Gerardo Laguardia - è che la droga sia sfuggita alla perquisizione nel momento del suo ingresso in carcere”. Verona: tenta di uccidersi in carcere ma viene salvato, è il secondo caso in una settimana L’Arena di Verona, 25 agosto 2010 Il tonfo dello sgabello che cade. Non ci vuole molto quando si sente questo rumore in una cella dove si sa che c’è qualcuno che è depresso e che fino a qualche tempo prima per giunta aveva la sorveglianza a vista, a capire che quel rumore potrebbe essere il segnale, l’ultimo di una vita che se ne va. È accaduto di nuovo, a distanza di una settimana. È successo che un’altra volta un detenuto che proprio per il suo stato di salute psichico era sorvegliato, abbia tentato di ammazzarsi. A salvargli la vita è stato l’agente in turno lunedì pomeriggio. Non appena ha sentito quel rumore, i suoi sensori si sono allertati perché da anni sta in quei corridoi, da anni teme di sentire quel rumore. Anche i detenuti che stavano nella cella di fronte hanno sentito lo sgabello cadere e hanno urlato. L’unico a non accorgersi di nulla è stato il compagno di cella di questo detenuto, in carcere per rapina ed estorsione, arrivato a Montorio da un altro carcere. Era in bagno e non s’è accorto della tragedia che si stava consumando. L’uomo ha strappato la sua maglietta, ne ha fatto un cappio ed ha tentato di impiccarsi alle sbarre della finestra della cella. Era l’unica cosa che aveva a disposizione. Proprio perché le sue manie suicide erano state accertate clinicamente non gli erano stati lasciati che gli effetti personali. “Il detenuto è stato salvato dagli agenti di servizio in quella sezione, richiamati dalle grida dei detenuti della cella di fronte, che non hanno esitato un attimo ad entrare in cella, sollevarlo di peso dalle gambe verso l’alto e togliergli la stoffa dal collo dopo che si era già lasciato andare. In quel momento nella camera vi era solo un altro detenuto che si trovava chiuso nel bagno e che non si è accorto dell’accaduto”, sottolinea il poliziotto Alfredo Santagata, segretario provinciale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma, “a giugno il detenuto era stato trasferito a Verona e sin dall’inizio ha presentato problemi psichici ed è seguito costantemente dai sanitari e dal personale di polizia penitenziaria. Caso analogo è successo la settimana scorsa, autore un detenuto imputato per l’omicidio del padre. Fino a oggi, in un anno, nelle nostre carceri si sono ammazzati 40 detenuti. Spesso noi poliziotti veniamo accusati di non vigilare abbastanza. Qui a Verona, abbiamo salvato due vite in una settimana, nonostante una carenza cronica di personale”, conclude Santagata, “noi facciamo il possibile affinché non accada ancora”. Rom: Santori (Comune); troppi detenuti stranieri, scontino la pena nel paese di origine Ansa, 25 agosto 2010 “I campi nomadi si rivelano ancora una volta luoghi dove si nascondono traffici illeciti ed altre forme di illegalità. I continui controlli permettono di individuare chi delinque, ma è necessario che poi chi è espulso se ne vada e chi è condannato per un reato sconti veramente la pena, e la sconti nel suo paese d’origine. È il momento di estendere gli accordi bilaterali che già esistono con la Romania, che consentono di far scontare la pena nel loro paese ai cittadini romeni che hanno compiuto reati in Italia, anche alle altre nazioni cui appartengono i rom. Si limiterebbe così il sovraffollamento delle carceri, un altro problema che viene aumentato appunto a causa dalla massiccia presenza di stranieri nei nostri istituti di pena”, lo dichiara in una nota Fabrizio Santori, presidente della Commissione Sicurezza del Comune di Roma, a margine dell’operazione compiuta dai Carabinieri nel campo nomadi di Castel Romano, nel corso della quale sono state anche arrestate due donne bosniache che non avevano ottemperato al decreto di espulsione e che “vivevano nelle strutture autorizzate del Comune a spese dei cittadini romani”. “È necessario dare segnali forti all’Europa e alle comunità rom anche per evitare che le 700 espulsioni di nomadi, previste in questi giorni in Francia, possano ricadere sull’Italia senza colpo ferire e i rom si accampino indisturbati esasperando i cittadini romani, già provati da una presenza invasiva non più tollerabile - conclude Santori - Roma è satura: chi non vuole integrarsi e rifiuta di stare alle regole e di rispettare le leggi italiane non può rimanere in Italia, nel contempo è necessario evitare il moltiplicarsi di persone che vivono di espedienti, senza casa né lavoro, mettendo a rischio la sicurezza dell’intera città”. Fossano (Cn): sventata maxi evasione, con una ruspa per togliere le sbarre a una finestra La Stampa, 25 agosto 2010 Avevano progettato un’evasione. Fuga favorita dall’esterno: una ruspa per strappare le sbarre di una finestra che s’affaccia direttamente sulla strada. Era il piano ideato da un gruppo di detenuti nel carcere di Fossano (una delle quattro in provincia di Cuneo) è stato sventato grazie alle indiscrezioni raccolte e alle indagini della Polizia penitenziaria. Secondo il comandante degli agenti, Stefano Seda, l’evasione era “soltanto una possibilità”, appresa da alcune segnalazioni. Ma un’ipotesi non trascurabile. I cinque detenuti “sospettati” sono stati trasferiti, lunedì, nelle carceri di Cuneo, Aosta, Ivrea, Saluzzo e Novara. La ricostruzione dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), attraverso una nota diffusa ieri dal segretario generale, Leo Beneduci, riferisce di un’”evasione di gruppo, da realizzarsi entro breve, e che avrebbe avuto un’eco clamorosa perché attuata con un mezzo meccanico”. Particolare che il comandante di Fossano non conferma. “L’evasione - prosegue Beneduci - è stata sventata dall’intelligence degli agenti, che hanno anche individuato tutti i detenuti coinvolti, tra cui un lavorante all’esterno, immediatamente denunciati all’autorità giudiziaria e trasferiti ad altre sedi”. Dei cinque potenziali fuggitivi (tutti reclusi per reati comuni e condanne definitive) tre sarebbero romeni e due italiani (uno dei quali in regime di articolo 21, cioè in libertà di giorno e obbligato a rientrare in cella per la notte). L’intesa sarebbe nata fra gli stranieri e un detenuto calabrese: la fuga avrebbe dovuto concludersi in Romania. Tutto da realizzare entro sabato o domenica. L’intervento della Polizia penitenziaria ha sventato ogni possibilità. Il carcere di Fossano ha una capienza di 111 detenuti, che possono salire a 140, ma ne ospita ora centosettanta. L’organico stabilito dal ministero per gli agenti è di 85 unità, ma sono dieci di meno. “I colleghi sono costretti a una mole di lavoro massacrante - sottolineano i sindacalisti dell’Osapp -. Una situazione che purtroppo si ripete. Per questo la loro prontezza va rimarcata”. “Ho fatto visita a Ferragosto nel carcere di Fossano - interviene l’onorevole Enrico Costa (Pdl), della Commissione Giustizia della Camera -, con Bruno Mellano, presidente dei Radicali italiani, e il presidente provinciale del Pd, Davide Ghirardi. Ne ho tratto un’impressione diversa rispetto ad altre situazioni. Tutti i reclusi sono soddisfatti per le condizioni di vita, soprattutto quelli provenienti da altre carceri. Reputo anomala l’ipotesi di evasione, perché si tratta in gran parte di detenuti a fine pena”. Massa Carrara: inchiesta su appalti “pilotati”, l’ex direttore del carcere rimane in cella Ansa, 25 agosto 2010 Rimane in carcere l’ex direttore del penitenziario di Massa Salvatore Iodice, recluso in isolamento a Prato dopo esser stato arrestato il 6 luglio scorso nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti ‘pilotatì nel carcere da lui stesso diretto. Il gip Giuseppe Laghezza ha respinto la richiesta degli arresti domiciliari fatta dagli avvocati di Iodice ipotizzando un’incompatibilità tra le condizioni psico-fisiche dell’ex direttore e la permanenza in carcere. Secondo la difesa, Iodice avrebbe gravi problemi di salute e intenti autolesionistici, ma il gip ha tenuto conto della perizia del medico legale Maurizio Ratti che lo ha dichiarato pienamente compatibile con la misura carceraria in corso. Nel pomeriggio i legali difensori dell’ex direttore del carcere di Massa, Salvatore Iodice, hanno affermato di non condividere la decisione del gip, né tanto meno la perizia medico-legale con cui il nostro assistito è stato giudicato compatibile alla misura carceraria; avevamo presentato anche una controperizia di cui non è stato tenuto conto. Prendiamo atto della decisione. Iodice, riferiscono i legali, ha perso 13 chili, si rifiuta di mangiare e di prendere alcuni medicinali, e sembra perfino che abbia intenti autolesionistici. È stanco, provato e scosso, aggiungono. Tutto questo, però, non risulta al medico legale incaricato dalla procura massese Maurizio Ratti che invece lo ha dichiarato compatibile con la misura carceraria. Iodice è in carcere con le accuse di corruzione, peculato, truffa aggravata, turbativa d’asta. Assieme a lui furono arrestati il 6 luglio scorso altre nove persone, tra funzionari pubblici e imprenditori, che erano stati facilitati nelle gare di appalto per lavori interni al carcere. Una sorta di cricca ai piedi delle Alpi Apuane: secondo le accuse, i soliti imprenditori si aggiudicavano i lavori nel carcere; in cambio i funzionari pubblici avrebbero ottenuto ristrutturazioni gratis nei loro appartamenti. Sarebbero girati anche mazzette in denaro e regali. Dei nove arrestati, rimangono in carcere, oltre a Iodice, anche l’ex contabile del carcere e altri due funzionari pubblici. Ai domiciliari tutti gli imprenditori coinvolti. Bologna: Ricercando Don Chisciotte, al via la rassegna estiva del Teatro del Pratello Redattore Sociale, 25 agosto 2010 Il Teatro del Pratello esce dal carcere e va nelle corti e nei cortili del quartiere. A partire dal 31 agosto, sette giorni tra film, concerti e letture. All’insegna di Don Chisciotte. Un percorso di integrazione che vuole erodere i luoghi comuni. “In un’interpretazione superficiale si può vedere Don Chisciotte solo come uno strampalato cavaliere che combatte contro i mulini a vento. In un approccio più complesso il poema di Cervantes è una metafora di tutte quelle persone, giovani o meno, che non accettano di dover rimanere per sempre collocate in una categoria”. Giuseppe Centomani, dirigente del Centro di Giustizia Minorile per l’Emilia Romagna, sottolinea l’importanza di superare luoghi comuni e stereotipi per costruire la speranza di un futuro diverso per i ragazzi che si trovano negli Istituti Penali Minorili. Come quelli del carcere del Pratello che, dal 31 agosto al 6 settembre, saranno impegnati nella realizzazione di “Ricercando Don Chisciotte”, terza rassegna estiva curata dalla Cooperativa sociale Teatro del Pratello. “In tempi di tagli alla cultura abbiamo difeso con grande sforzo questa rassegna – afferma Paolo Billi, regista – , ma per fortuna abbiamo avuto il sostegno di ristoratori, osti e associazioni del quartiere che, con il loro contributo, ci hanno consentito di portare il teatro nelle corti e nei cortili del Pratello”. Un’opportunità di conoscenza e di riconoscimento reciproco perché, come sottolinea Centomani, “il teatro fa scoprire la dimensione del disagio, che non abita un mondo isolato ma è organico al contesto sociale, e ciò che gli gravita intorno. È importante per la crescita culturale e per superare le teorie di senso comune che, in questo periodo più che mai, sono orientate in una dimensione securitaria”. “La scelta del tema – spiega Billi – è legata allo spettacolo che allestiremo a novembre, Don Chisciotte appunto. In questa rassegna, abbiamo cercato di guardare ciò che sta intorno al personaggio di Cervantes”. Nascono così “Una traversata con Don Chisciotte”, in cui Angela Malfitano legge un testo poco conosciuto di Thomas Mann, Una traversata con La felicità di Medvedkin”, proiezione del film con musiche dal vivo di Daniele Furlati, e “Don Chisciotte a concerto”, viaggio nelle musiche che Don Chisciotte ha ispirato nel Novecento (da Brel a Ravel). L’edizione 2010 della rassegna vede inoltre la nascita di nuove collaborazioni, come quella con la Cineteca, che ha portato alla realizzazione delle serate dedicate ai “Film che Don Chisciotte amava”, o quelle con l’Istituzione Minguzzi, l’Istituto Storico Parri e le Associazioni Ottovolante e Eden Parkour. Prosegue anche quest’anno la sinergia con l’Università Primo Levi, che propone due eventi: una lettura dell’opera di Cervantes che vede come protagonista Matteo Belli e un lezione-incontro di Alessandro Zacchi. Ciò che caratterizza la rassegna estiva del Teatro del Pratello sono i luoghi in cui si svolge. “Se negli spettacoli invernali portiamo gli spettatori dentro il carcere (1.300 persone in due settimane di repliche) – spiega Billi – in estate sono i ragazzi a uscire. È un lavoro difficile, forse perché il pubblico si sente più al sicuro all’interno dell’istituto”. Sono cinque i ragazzi che stanno lavorando per la rassegna curando gli allestimenti, la promozione e due letture che faranno da prologo ad alcune serate: “Asini e ronzinanti”, un gioco sulla funzione dell’asino, ed “Esilio e nostalgia”, due parole queste che, come racconta Billi, “assumono un significato particolare per alcuni dei ragazzi che si trovano nel carcere del Pratello”. Immigrazione: arriva una bella barca carica di…. merce umana Il Manifesto, 25 agosto 2010 Via i gommoni e le carrette, adesso si viaggia su imbarcazioni di lusso, ma i migranti soffrono ancora condizioni disumane. Il nuovo traffico passa per il canale di Otranto, dopo la chiusura di quello di Sicilia. In fuga da paesi in guerra, i “clandestini”, diretti in nord Europa, non chiedono asilo politico. E così rischiano il rimpatrio. Hanno riaperto la vecchia rotta dei curdi, quella attraverso la quale, partendo dalla Turchia e arrivando in Calabria o nel Salento, per tutti gli anni ‘90 le organizzazioni criminali turche hanno trasportato i curdi in fuga verso l’Europa. Strada più meridionale rispetto alla tradizionale rotta Valona-Otranto usata negli stessi anni dagli scafisti albanesi, e in seguito abbandonata ma mai chiusa davvero e rimasta lì inutilizzata fino a quando gli accordi fatti dal governo italiano con la Libia del colonnello Gheddafi, e la conseguente fine degli sbarchi a Lampedusa, ha convinto i trafficanti di uomini a ripristinarla. Chiuso il Canale di Sicilia, ecco allora che si è riaperto quello di Otranto. Stessa strada degli anni passati, stessi criminali con base in Turchia, ma nuove merci. Il posto dei curdi oggi lo hanno preso afghani, iraniani, iracheni, uomini donne e bambini in fuga da regimi o paesi in guerra e diretti anch’essi in nord Europa, Germania in particolare. Non si tratta però dell’unica novità. Sono cambiati anche i mezzi di trasporto. Messi da parte i gommoni e le carrette, adesso si viaggia in barca a vela, metodo escogitato dai trafficanti nella speranza (rivelatasi vana) di sfuggire ai minuziosi controlli fatti dalla Guardia di finanza nello Jonio. E così sono ricominciati gli sbarchi in Calabria e nel Salento meridionale. Poca roba se si pensa agli anni in cui lungo queste stesse coste, da Riace fino a Santa Maria di Leuca e Otranto, sbarcavano a decine di migliaia, e niente anche in confronto agli oltre 20 mila arrivati fino a luglio dell’anno scorso a Lampedusa, fino a quando Gheddafi, profumatamente pagato dal nostro governo, si è deciso a chiudere (per ora) il rubinetto delle partenze. Ma i disperati che approdano oggi in Calabria e Salento sono pur sempre il segnale di un fenomeno in ripresa. In tutto, da gennaio a oggi, ne sono arrivati 914 la maggior parte dei quali, 534, afghani ma anche iraniani, iracheni, nordafricani e perfino sei birmani. Altissima la percentuale di bambini, ben 315, mentre 99 sono le donne. Il triplo rispetto al 2009, quando in tutto l’anno ne sono arrivati appena 315 (70 nel 2008). “Lo scacchiere mediterraneo è un grande gioco di apertura e chiusura di nuove rotte. Ora che la Libia ha chiuso il canale di Sicilia, per il principio dei vasi comunicanti una parte di quel flusso migratorio si è riversata sullo Jonio. Non si può pensare di arginare fenomeni come questo” spiega Cataldo Motta, il procuratore della Repubblica di Lecce che coordina le indagini sul traffico di uomini. Il fatto che oggi si spostino in barca a vela potrebbe far pensare che le condizioni di viaggio per gli immigrati siano migliori rispetto al passato, ma non è così. Per i trafficanti di uomini i clandestini sono e restano una merce e come tale vengono trattati: fino a 50, 60 a viaggio vengono stipati sino all’inverosimile nelle stive, dove restano per i cinque giorni della traversata in condizioni che si possono immaginare. Per ciascuno di loro il viaggio dal paese di origine fino in Germania può arrivare a costare dai 5.000 ai 10.000 dollari, tariffa all inclusive che comprende anche il costo della traversata del Mediterraneo e un biglietto per arrivare in treno fino a destinazione. Stando ai calcoli fatti dagli inquirenti un viaggio con la barca a vela può fruttare ai trafficanti fino a 300 mila euro. Ma le indagini della magistratura hanno permesso di stabilire alcuni punti fermi. Primo luogo di raduno per tutti è Aksary, un quartiere di Istanbul dove i profughi si ritrovano dopo aver viaggiato via terra per migliaia di chilometri. È qui che si procede all’organizzazione dei viaggi in mare. Da Istanbul si prosegue sempre via terra fino ad Antalya, Smirne e Tekirdag, i tre porti dai quali salpano le barche a vela. A questo punto agli inquirenti non è ancora chiara la rotta imboccata dalle navi. Le possibilità sono due. La strada più corta prevede il passaggio in Grecia attraverso lo Stretto di Corinto, via più breve ma più rischiosa per la maggiore sorveglianza a cui è sottoposta. L’alternativa è il passaggio a sud della Grecia per poi risalire verso la Calabria e il Salento meridionale. Importanti informazioni in più per quanto riguarda rotte, durata dei viaggi ed eventuali soste gli investigatori contano di averle ai primi di settembre, quando al pm Guglielmo Cataldi arriveranno i risultati delle analisi effettuate sui Gps delle barche sequestrate dalla finanza. Un’altra cosa però gli inquirenti hanno potuto stabilirla. Nel loro viaggio gli scafisti fanno almeno una sosta in Grecia, nel porto di Lefkada che potrebbe essere un nuovo punto di partenza o solo un approdo utile a caricare altri clandestini. Che comunque la città greca sia coinvolta nel traffico di essere umani non sembrano esserci dubbi. A bordo di una barche a vela gli inquirenti hanno infatti rinvenuto sia uno scontrino per l’acquisto di sigarette effettuato in un negozio di Lefkada, sia la ricevuta per la riparazione di un motore eseguita sempre nel porto greco. “Rispetto ai gommoni, le barche a vela presentano più di un vantaggio. - spiega ancora Motta che del Mediterraneo, e di chi lo naviga, conosce molti misteri - Prima di tutto la velocità. I gommoni vengono individuati più facilmente dai radar proprio per la loro velocità. La barca a vela invece, navigando a 4 nodi, desta meno sospetti. Ma a differenza dei gommoni e dei pescherecci, le barche a vela possono nascondere il loro carico illegale, rendendolo invisibile per gli aerei e gli elicotteri”. Il tallone d’Achille degli scafisti, quello che li tradisce agli occhi esperti delle motovedette della Finanza, è però la linea di galleggiamento troppo bassa. A causa del loro carico, l’acqua sfiora infatti pericolosamente i bordo delle barche, rendendo lampante il motivo del loro navigare. Fino a oggi la Guardi finanza ha sequestrato un gommone e sette barche a vela. Belle navi da crociera, nate per scopi ben diversi da quelli per cui oggi gli scafisti (quasi tutti turchi e marinai esperti, non più i vecchi malavitosi di un tempo) le utilizzano. A parte una, di proprietà di un turco, tutte sono state prese a noleggio. Una ricevuta trovata a bordo di uno scafo battente bandiera francese certifica il noleggio per un mese per 5.000 euro effettuato presso una società francese. Ma a bordo di una di queste splendide imbarcazioni gli investigatori hanno trovato anche una strana lista. Un elenco di 27 nomi, 19 dei quali sono in seguito risultati essere i nomi di 16 afghani e 3 iraniani fermati sulle coste salentine dalle forze dell’ordine. Lo scopo della lista è ancora da accertare, anche se gli inquirenti sono convinti che ad attendere a terra i clandestini ci sia una banda di italiani che ha il compito di rivestirli e di dargli un biglietto di treno per proseguire il loro viaggio. Per fortuna, però, ad attendere gli immigrati non ci sono solo i trafficanti. Da quando sono ripresi gli barchi, è ricominciata infatti anche la solidarietà. II primi immigrati, bagnati e provati dal viaggio, sono stati ospitati nelle scuole di Otranto, ma poi il sindaco Luciano Cariddi e l’assessore alle politiche sociale Lavinia Puzzovio hanno deciso di intervenire. “Non si poteva tenerli nelle scuole, dove non c’era neanche una doccia per lavarsi”, spiega oggi Cariddi. Si è decido quindi di riaprire agli immigrati il vecchio centro Don Tonino Bello, chiuso dal 2005, dopo averlo ripulito e attrezzato. Tutto a spese del Comune di Otranto, che ancora oggi provvede a rifornire gli immigrati di pasti caldi e vestiti. “Pur avendone diritto, nessuno di loro chiede asilo politico, perché vogliono andare in Germania, Per loro l’Italia è solo un paese di transito. - aggiunge don Maurizio Tarantino, direttore della Caritas di Otranto - Non capiscono che così rischiano di essere rimpatriati”. Al don Tonino Bello restano poche ore, il tempo di riposare prima di essere smistati nei vari Cie. Come per la Libia, in questi giorni il governo sta cercando di fare accordi con la Grecia e Turchia perché collaborino nel fermare gli immigrati. Ad Atene e Ankara si chiedono maggiori controlli sulle imbarcazioni, ma anche più informazioni visto che fino a oggi, sia la Grecia che la Turchia hanno preferito chiudere gli occhi. “In vent’anni non è cambiato niente, l’approccio all’immigrazione è sempre e solo politico. - dice sconsolato don Maurizio - Non capiscono che non si può impedire alla gente di fuggire dalla guerra e dalle fame. Non ci riusciranno mai”. Immigrazione: se lo straniero ha l’aids non ha diritto al permesso di soggiorno di Serena Giannico Il Manifesto, 25 agosto 2010 Affetto da Aids, ma non può restare in Italia per cure specifiche: è un clandestino e, per questo, dovrà tornare in Cina, la propria terra d’origine, ed è lì che riceverà l’assistenza sanitaria necessaria. Nessuna dispensa, nessuno strappo alle norme, nessuna pietà, nessuna scappatoia, nessuna concessione all’abusivo, seppure si trovi bloccato nel letto del reparto infettivi di un ospedale. Lo hanno stabilito i giudici del Tar (Tribunale amministrativo regionale) dell’Abruzzo, sezione di Pescara, respingendo la richiesta di permesso di soggiorno di un extracomunitario da 9 anni nel nostro Paese e ora ricoverato a Chieti. L’uomo era arrivato bypassando le leggi. Facendo ricorso all’arte di arrangiarsi e degli espedienti, anche con il lavoro. Irregolare, da lungo tempo, e finché le condizioni di salute glielo hanno consentito ha tirato avanti. Adattandosi, sistemandosi alla bell’e meglio. Ma, lentamente, il virus dell’Hiv ha fatto il proprio corso. Lui è peggiorato ed è stato costretto a rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica. Non può più nascondersi, adesso. Non può più servirsi di stratagemmi. Non può sfuggire ai controlli. La sua vicenda, che si snoda tra illegalità e povertà, è emersa appena ha messo piede in ospedale. Da qui un tentativo, ovvero il ricorso alla magistratura per non essere espulso. Per non incappare nei guai che già s’intravedevano. “Devo curarmi -, ha fatto presente - e, per ciò, devo rimanere dove sono e dove vivo da un pezzo”. Ci ha provato. Ma il collegio giudicante, presieduto da Umberto Zuballi, non ha accolto l’istanza. Richiesta respinta. “Le ragioni della solidarietà - , dice il dispositivo del Tar - non possono essere sancite al di fuori di un bilanciamento dei valori in gioco. Tra questi, la difesa dei diritti umani, la tutela dei perseguitati e l’asilo, ma anche, e non di minore rilevanza, il presidio delle frontiere (nazionali e comunitarie), la tutela della sicurezza interna del Paese, la lotta alla criminalità e lo stesso principio di legalità per cui chi rispetta la legge non può trovarsi in una posizione deteriore rispetto a chi la elude”. Aiuto sì, fratellanza sì, sostegno sì, ma i sentimenti e la benevolenza non gli consegneranno i documenti di cui ha bisogno e nei quali sperava, facendo appello alla gravità della patologia che lo consuma e al dramma che lo accompagna. Dalla scure della denuncia e del rimpatrio non lo salveranno neppure la disperazione e la malattia, che si sono insieme acuite. Perché prima del suo bene - hanno decretato sostanzialmente i giudici - c’è il bene comune, nelle sue molteplici sfaccettature, e c’è la legge. La Costituzione garantisce anche ai clandestini l’assistenza medica indispensabile. “Tuttavia, - evidenzia il Tar - , la concessione di un permesso per cure è prevista solo per speciali ragioni umanitarie, quando cioè quel tipo di cure non sia possibile nella patria d’origine”. “E - aggiunge - in questo caso, risulta da accertamenti effettuati dai Consolati italiani in Cina che le cure dell’Aids siano praticabili e disponibili anche in quel Paese”. I giudici dunque tracciano un solco preciso nella concessione dei permessi di soggiorno e fissano i princìpi imprescindibili, intorno ai quali deve ruotare l’ingresso in Italia dei cittadini extracomunitari. “Questo collegio - viene ancora spiegato - si rende ben conto che il rilascio di un permesso di soggiorno a qualsivoglia titolo farebbe uscire il ricorrente dalla clandestinità, rendendogli più agevole la permanenza in Italia, ma allo stato, ferme restando le possibilità di cura, l’ordinamento non consente di tenere conto di questi interessi, in assenza dei requisiti di legge per ottenere un permesso di soggiorno per ragioni di lavoro o simili”. Brasile: una Polizia Penale all’interno dei penitenziari? la Pastoral Carcerária è contraria Ansa, 25 agosto 2010 La probabile creazione della Polizia Penale all’interno delle carceri brasiliane sta suscitando un vasto e partecipato dibattito nel paese. Sulla Proposta de Emenda Constitucional (Pec) 308/2004, numerose organizzazioni della società civile si sono mobilitate inviando una lettera a deputati e senatori affinché respingano la costituzione di un nuovo corpo di polizia, quella carceraria. In particolare, ha preso la parola la Pastoral Carcerária, che svolge il suo lavoro proprio nelle carceri brasiliane. Una Polizia Penale creerebbe una sorta di conflitto di interessi tra il compito di custodia dei carcerati e al tempo stesso quello di dover svolgere un’attività di indagine sui crimini che questi hanno commesso. Inoltre, spiega ancora la Pastoral Carcerária, la nascita di un nuovo organo poliziesco andrebbe contro le finalità della Costituzione del 1988, cioè quelle di liberare il paese dall’ideologia intrisa di militarismo risalente alla dittatura, all’interno della quale i corpi militari avevano assunto un ruolo di primo piano. Sulle funzioni della Polizia Penitenziaria, le cui condizioni di lavoro non sono delle migliori, la Pastoral Carcerária invita il Congresso ad avanzare nel campo di una riforma generale in grado di soddisfare le richieste degli agenti penitenziari, pur senza approvare la nascita di un nuovo organo poliziesco. La costituzione della Polizia Penale, conclude la Pastoral Carcerária, aumenterebbe la mancanza di trasparenza ed aggraverebbe i problemi di corruzione, violenza e violazione dei diritti, già di difficile soluzione nelle carceri brasiliane.