Giustizia: più ore d’aria per “ridurre il danno” da sovraffollamento Affari Italiani, 22 agosto 2010 Il vecchio adagio secondo cui uniti si fa la forza è alla base dell’iniziativa di dieci tra associazioni di categoria, di volontariato e sindacati padovani, che hanno deciso di chiedere all’unisono la “riduzione del danno da sovraffollamento” nelle carceri in generale e negli istituti di Padova in particolare. Il gruppo lancia infatti la proposta di adottare piccoli ma immediati espedienti in grado di dare un po’ di sollievo ai detenuti dalla calura estiva. Per la prima volta con una sola voce parlano le Acli, l’associazione “Antigone”, i “Beati i costruttori di pace”, la Camera penale di padova, la Cgil e la Fp-Cgil, la Conferenza regionale volontariato e giustizia, i Giuristi democratici, Magistratura Democratica e Ristretti Orizzonti. Le proposte per alleviare la detenzione sono contenute in un documento già indirizzato al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, ai direttori delle carceri, ai magistrati di Sorveglianza e al comune. Le indicazioni, basate su reali richieste dei detenuti cui Ristretti Orizzonti ha fatto da tramite, sono l’apertura notturna dei blindi per favorire la ventilazione e il ricambio d’aria, l’apertura diurna delle celle con libero accesso alle docce, la possibilità di acquistare dei mini-frigoriferi da mettere in cella per conservare generi alimentari. Tra le richieste c’è anche l’autorizzazione all’impiego di ventilatori in cella, un utilizzo più ampio dell’area verde, un’ora aggiuntiva di passeggio e un aumento delle attività sportive in campo o in palestra, che ora si limitano a due ore settimanali. Anche garantire una maggiore presenza del volontariato sarebbe, secondo i firmatari, un’opportunità in più per alleviare le condizioni dei detenuti. “Con il caldo e le condizioni dei giorni scorsi non sarebbe azzardato avanzare l’ipotesi di un reato di tortura verso i detenuti - sottolinea Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, parlando a nome del gruppo: si stanno violando i diritti umani minimi, la gente in cella sta impazzendo”. Attualmente la casa di reclusione di Padova conta 820 detenuti, contro una capienza regolamentare di 300 e una tollerabile di 400. Non va meglio al circondariale, dove i detenuti sono 250, per una capienza di 80 e una tollerabilità di 130. All’interno della casa di reclusione i detenuti impegnati in qualsivoglia attività sono 350, mentre per tutti gli altri la giornata inizia e finisce in cella, con la sola eccezione di colloqui e passeggio. Le dieci associazioni chiedono anche di intervenire per aiutare i familiari che si recano in carcere, dotando le sale di ventilatori, migliorando gli ambienti, consentendo due telefonate supplementari e aumentando le ore di colloquio. Giustizia: carceri a “bassa sicurezza”, per combattere il sovraffollamento di Guido Brambilla (Magistrato di Sorveglianza a Milano) www.ilsussidiario.net, 22 agosto 2010 A mio parere giustizia e legalità, oggi ampiamente oggetto di accesi dibattiti a livello politico, scientifico e tecnico, sono esperienze ormai defraudate della loro sorgente nativa, quasi fossero semplici ingranaggi di un meccanismo che si vorrebbe solamente più efficiente e celere, limitato, nelle sue finalità, alla pratica soluzione dei conflitti sociali, quale essa sia e indipendentemente da una domanda di senso. Ecco perché ritengo che, anche con riguardo alla giustizia e alla legge, il nodo cruciale da affrontare sia quello educativo. Riguardando i più svariati e complessi bisogni dell’uomo, nei suoi rapporti interpersonali e con la realtà tutta, la giustizia è prima di tutto un’esigenza costitutiva e originaria del cuore umano, di come questo possa essere condotto al suo compimento e poi, ma solo come conseguenza necessaria, un percorso risolutivo dei problemi che attengono all’ordinata convivenza sociale e alla soddisfazione dei bisogni dei singoli. L’io non è un prodotto del cervello, come affermava il premio Nobel John Eccles; così come la giustizia non è un prodotto della legge, non è l’esito automatico di una norma positiva, bensì un bisogno che preesiste come urgenza di compimento dell’essere, che va dunque riconosciuto, sostenuto e favorito dalla legge stessa. Per cui alla domanda, oggi ampiamente diffusa, di come può efficacemente tradursi la giustizia a livello normativo e processuale, mi sembra corretto anteporne un’altra, più importante: “quando l’uomo è giusto?” o, meglio, “cosa rende l’uomo giusto?”, sì da poter conformare a giustizia la stessa interpretazione e applicazione della legge. Perché è evidente, per esempio, che la sentenza di un giudice, benché tecnicamente corretta e immune da vizi logici, può essere sostanzialmente iniqua se l’uomo che la redige non è in un rapporto adeguato con il reale, non “legge” la realtà in modo equilibrato, tenendo conto della pluralità dei fattori in gioco. Si tende infatti a spostare il tema del giusto e del vero dal soggetto alla tecnica normativa, trasformandolo quindi in un’astratta retorica della “professionalità”, spesso dominata dalla reattività del momento e quindi succube della mentalità dominante e del consenso sociale. Si tratta, a ben vedere, di un problema non del solo oggi. Chi non ricorda la famosa “Storia della Colonna Infame” di Manzoni? Già allora la stessa vicenda processuale che vide coinvolti, nel 1630, due innocenti cittadini milanesi, accusati di essere gli “untori” della peste che affliggeva la città, venne spiegata in modo diverso dal citato autore rispetto alla versione dell’illuminista lombardo Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura”. Quest’ultimo aveva infatti accentrato la sua attenzione sulla disumanità della tortura praticata dai giudici, a fini confessori, sui due malcapitati e quindi sulla giusta necessità di abolire tale crudele strumento procedurale. Manzoni, invece, pur criticando l’efferatezza del mezzo, aveva affermato che quei giudici, se avessero tenuto conto della retta ragione e delle stesse leggi del tempo, così com’erano, sarebbero comunque pervenuti a una diversa soluzione, salvando conseguentemente gli accusati dall’esecuzione capitale. Si legge infatti nel testo manzoniano “Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse? Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di què giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia….” Il problema della giustizia, di tutta la giustizia, quindi, è innanzitutto una questione, un’urgenza educativa, e che, per tale natura, non vede come unico soggetto risolutore, lo Stato e le sue varie articolazioni istituzionali. Ed è per questo motivo che - passando ora ad argomenti di mia maggiore competenza - anche i problemi dell’esecuzione penale, della sicurezza, della prevenzione, della varietà dei sistemi punitivi possono e devono essere primariamente ricondotti a una predominante esigenza educativa. L’art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana, afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La citata norma costituzionale riveste un’importanza eccezionale perché, innanzitutto, rispetto alla pregressa normativa fascista, si discosta da una logica meramente retributiva dei sistemi sanzionatori, affermando che tutte le pene, per loro natura sempre afflittive, devono però “tendere” alla rieducazione. La Corte Costituzionale, successivamente, nella storica sentenza nr. 204/1974, nel dichiarare illegittima l’attribuzione al Ministro della Giustizia della facoltà di concedere, con proprio decreto, la liberazione condizionale, ebbe ad affermare “il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”. Si è così vincolato il legislatore a strutturare l’esecuzione delle pene a fini di risocializzazione. Al dettato costituzionale sono pertanto conseguite leggi ispirate a tale finalità: la legge 25.07.1975 n. 354 sull’ordinamento penitenziario, la legge 10.10.1986 n. 663 (più conosciuta come legge cd. “Gozzini”), il Dpr 30.06.2000 n. 230, per citare le più importanti, ed altre ancora. Senza addentrarmi nelle novità apportate da tale corpo normativo (che ha introdotto istituti sconosciuti in altri ordinamenti, come le misure alternative al carcere) e per rimanere su un piano sistematico, rilevo, tuttavia, che il suddetto principio costituzionale presenta comunque aspetti di problematicità interpretativa. Mette conto osservare, infatti, che l’art. 27 della Costituzione non precisa cosa si debba intendere per “rieducazione”, né lo hanno fatto in modo specifico le successive legislazioni. Tale norma era stata infatti oggetto, in seno all’assemblea Costituente, di un compromesso ideale tra le due scuole di pensiero prevalenti: la Scuola Classica e la Scuola Positiva (quest’ultima spostava l’attenzione dalla funzione retributiva della pena, propria della Scuola Classica, alla diversa funzione di prevenzione sociale e, conseguentemente, alla rieducazione e risocializzazione del condannato). L’Assemblea, dunque, in sede di lavori preparatori, rinunciò a dare una definizione compiuta di funzione rieducativa, dando adito a un successivo e tutt’ora aperto dibattito, in ordine al suo contenuto, tenuto altresì conto delle inevitabili variabili storiche, culturali e politiche che connotano la materia. Tralasciando l’incidenza altalenante che, nel corso degli anni successivi alla Costituente, le due prevalenti scuole di pensiero hanno avuto sulla politica penale e carceraria, si può intanto affermare che, allo stato attuale, la rieducazione del condannato è attuata, principalmente, attraverso il cd. “trattamento penitenziario”. L’art. 1, ultimo comma, della legge n. 354/75, afferma infatti che “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un intervento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. E il successivo art. 13 aggiunge: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche e le altre cause di disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa”. È chiara, in queste formulazioni, l’impronta tipica della scuola positiva che, pur avendo il merito di aver trasformato il carcerato da semplice numero a individuo con nome e cognome, lo ha reso tuttavia oggetto di un trattamento rieducativo improntato all’”osservazione scientifica della personalità”, alla soluzione delle “carenze psicofisiche” e delle cause di disadattamento sociale. La rieducazione, pertanto, viene per lo più concepita ancora come esito di uno “studio” personalizzato dell’individuo e finalizzato a una “progressione” comportamentale in senso risocializzativo. Va, tuttavia, aggiunto che i successivi artt. 15 e 17 dell’Ordinamento Penitenziario, hanno comunque consentito un’apertura prima inimmaginabile al concetto di rieducazione (seppur impostata, come detto, nella cornice di un’”osservazione scientifica”). La prima delle due citate norme (elementi del trattamento) specifica infatti che il trattamento “viene svolto avvalendosi dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività ricreative-sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e con la famiglia”. La seconda stabilisce che “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa”. Sono inoltre ammessi a frequentare gli istituti penitenziari, con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, “tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di rieducazione dei detenuti, dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Si tratta di una chiara apertura al privato sociale nel senso della ammessa possibilità , da parte del legislatore statale, di un sussidiario intervento del sociale nell’opera rieducativa del condannato. Accanto a una politica di decarcerizzazione, attuata principalmente dalla legge cd. “Gozzini” (seppur in parte successivamente frustrata nei suoi principi ispiratori), il legislatore ha così voluto il contributo della stessa libera società, “aprendo” le carceri all’intervento di cittadini, associazioni ed imprese, interessati operativamente al recupero del detenuto. Si è assistito, così, nel corso degli anni successivi, nonostante bruschi ripiegamenti involutivi dovuti a legislazioni d’emergenza, al proliferare di progetti ed iniziative nati dalla spontanea e virtuosa dedizione di singoli e gruppi mossi da intenti solidaristici o da autentica carità cristiana. Ciò, a mio parere, ha finito con l’influire, nel tempo, sul contenuto e la finalità della stessa “rieducazione”. Se infatti alcuni, mossi da pur nobili propositi, si sono limitati a offrire a detenuti strumenti e opportunità per “progredire” nel loro percorso trattamentale sì da poter accedere più facilmente a benefici penitenziari, per altri la rieducazione è stata un vero e proprio “incontro” tra un io e un tu, valorizzatore dell’individuo e della sue potenzialità, un avvenimento relazionale che, pur non eliminando formalmente l’involucro della progressione trattamentale, si è rivelato da subito capace di generare speranza e quindi un autentico cambiamento della persona, non più proiettata solo ad un “fuori”, ma cresciuta e sostenuta già “dentro” in un rapporto carico di significato. Naturalmente la strada è lunga e non mancano ostacoli alla piena attuazione di una sussidiarietà educativa. Uno è rappresentato dalla rigidità dei sistemi carcerari, poco flessibili per loro natura alle esigenze dell’impresa (per ciò che concerne, ad esempio, il lavoro) la quale, a sua volta, deve essere aiutata e sostenuta, attraverso il riconoscimento di maggiori sgravi fiscali e di contribuzioni, per incentivare l’investimento sui detenuti. Un altro è costituito dall’attuale sovraffollamento carcerario che rende inaccessibili grandi fette della popolazione detenuta all’iniziativa operosa dei singoli e delle stesse imprese. Le risposte a tali problemi sono molteplici e complesse e per lo più rese anche di difficile attuazione sia per la spinta giustizialista che vede nel carcere l’unico rimedio risolutivo dei comportamenti devianti, sia per la permanenza di uno statalismo paternalista che teme perdere il potere di controllo sulla devianza stessa. Nei paesi anglosassoni l’esigenza di un affrancamento sia dal processo penale che dal carcere ha condotto all’individuazione di strumenti operativi di affronto delle tematiche criminali improntato al principio di minor offensività, ispirato a criteri di praticità e di riduzione dei costi. Esemplificativi, in tal senso, sono gli istituti delle cd “Diversion” e “Probation” che, specialmente in Inghilterra, ma anche in altri stati come gli Usa e il Canada, indicano, in modo descrittivo, la raccolta di strategie punitive poste al di fuori dei confini tradizionali e formali del procedimento penale e del carcere. Certo, nei paesi anglosassoni, la scelta di strategie risolutive dei conflitti sociali, diverse dal processo ordinario, sono, come detto, più improntate a scopi pragmatici che educativi, ma non si vede perché, mantenendo una preoccupazione rieducativa, non si debba optare per soluzioni meno costose per la collettività e più efficaci in termini di recupero effettivo. In Italia, a dire il vero, già esistono istituti affini a quelli sopraindicati, come l’affidamento in prova ai servizi sociali (sia ordinario che terapeutico) e in genere le misure alternative al carcere, la messa alla prova per i minori, i lavori socialmente utili, la mediazione penale. Si tratta di istituti relativamente recenti, poco conosciuti dalla collettività e che andrebbero invece rafforzati e sostenuti con interventi anche del privato sociale allo scopo di attuarne pienamente la finalità rieducativa impedendo, così, che si riducano a meri meccanismi assistenziali o pseudo-contrattuali. Tra il carcere, così come attualmente esistente, e le misure alternative potrebbero poi essere realizzati “carceri leggeri”, strutture detentive a “bassa sicurezza”, recuperando caserme o edifici pubblici dismessi, per soggetti non particolarmente pericolosi, gestite con accordi tra il settore pubblico e il privato sociale, senza presenza di personale di polizia penitenziaria all’interno, con la permanenza, per contro, di controlli solo al di fuori della cinta muraria, come nel sistema cd. “modulare” spagnolo. Lo squilibrio, determinato dal sovraffollamento, può ancora trovare un più adeguato approccio risolutivo anche con il ricorso (come peraltro già avviene in Inghilterra) a forme di “partenariato pubblico-privato” - si pensi all’istituto del “project finance” - così come disciplinato dal d.lvo 163/06 (e successive modifiche ed integrazioni). In Gran Bretagna, infatti, con tale sistema, i privati, dotati di specifico know-how, progettano, realizzano, gestiscono e finanziano la struttura carceraria per un certo numero di anni, decorsi i quali l’opera così realizzata, rientra nella disponibilità della Pubblica Amministrazione. Attraverso specifici indicatori di performance qualitativa cui risulta informata l’esecuzione del rapporto contrattuale ed ai quali è legata anche l’erogazione del relativo contributo pubblico, lo Stato, nell’ottica della migliore e proficua collaborazione pubblico-privato, può comunque garantire un costante livello di eccellenza nella gestione dell’opera pubblica. Se è vero che anche lo Stato, a prescindere dall’intervento privatistico, può fornire, in linea di principio, la stessa qualità di servizio, è altrettanto vero che, nel settore pubblico, manca un meccanismo che la incentivi. Le attenzioni sulle performance qualitative, sopra richiamate, potrebbero sicuramente favorire, anche in Italia, una competizione virtuosa tra pubblico e privato che, come nell’esempio inglese, ha, di fatto, condotto a un netto miglioramento, a livello gestionale, delle strutture carcerarie di competenza esclusiva dello Stato. Concludendo, le osservazioni sin qui svolte, sia con riferimento alla giustizia in generale (con i suoi sistemi processuali e sanzionatori), sia con riferimento alla individuazione di risorse umane, personali e sociali, nonché di strumenti operativi che ne facilitino l’attuazione conducono, in ogni caso, alla necessità di un’imprescindibile e presupposta preoccupazione educativa che riguarda, indistintamente e anzitutto, l’uomo in quanto tale e il suo bisogno di compimento. Giustizia: Berlusconi; riformare quella civile e penale, avanti con il “piano carceri” Italpress, 22 agosto 2010 “Il Pdl rivendica i risultati ottenuti dal governo in tema di giustizia negli ultimi due anni. Il governo, in ottemperanza del programma votato dagli elettori, intende completarne tutti i punti”. Così il Presidente del Consiglio e leader del Pdl Silvio Berlusconi nel corso di una conferenza stampa dopo il lungo vertice del partito, specificando che l’intenzione è di “attuare una riforma complessiva della giustizia, sia civile che penale, con l’obiettivo di rendere effettivo l’articolo 111 della Costituzione, affinché nel processo sia assicurata la parità tra accusa e difesa, per una maggiore difesa delle vittime e degli indagati”. Per Berlusconi “occorrerà intervenire sulla struttura del Csm con una riforma costituzionale che preveda due organismi separati, una per i magistrati inquirenti e una per i magistrati giudicanti, con il conseguente rafforzamento della separazione delle carriere”. E nell’ambito delle riforme costituzionali, il Premier rilancia quella “a tutela della alte cariche dello Stato”. Mentre per legge ordinaria “bisogna approvare apposite norme per la ragionevole durata dei processi, che per la loro lentezza rappresentano la piaga della giustizia italiana, pagata da tutti i cittadini”. Ma anche “l’attuazione del Piano carceri” e “l’approvazione definitiva della legge sulle intercettazioni telefoniche e ambientali”. ma soprattutto il Premier ha garantito che la maggioranza intende “continuare nel percorso di lotta alla criminalità organizzata”, snocciolando poi i dati relativi agli arresti (6.500) e ai beni mobili e immobili sequestrati alle cosche, per un controvalore di “quasi 15 miliardi di euro”. Giustizia: il ministro Rotondi; il Programma di Governo risolverà anche i problemi delle carceri di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 agosto 2010 “Sulla lotta alla droga abbiamo fallito: il numero di tossicodipendenti reclusi in carcere lo dimostrano. Ma sulla questione degli immigrati clandestini, no. Semmai le nostre procedure d’espulsione sono meno efficaci di quelle di Sarkozy. I nuovi reati? Li abbiamo introdotti perché lo vuole la gente”. Il ministro dell’attuazione di programma Gianfranco Rotondi, reduce da un Ferragosto passato a visitare le patrie galere, fa il punto sull’emergenza carcere decretata dal ministro Alfano otto mesi fa. Dei topi nelle celle è consapevole, ma un’altra ricetta per uscire dall’illegalità dello Stato non ce l’ha, se non difendere - non proprio a spada tratta, a dire il vero - il “programma di governo”. Nei giorni scorsi, sul manifesto, associazioni come Antigone e lo stesso presidente del Consiglio d’Europa hanno mostrato di non digerire molto la passeggiata ferragostana “dentro le mura” di parlamentari leghisti e del Pdl, sempre pronti all’uso simbolico del sistema penale e a promuovere nuove leggi criminogene. Lasciando alle cronache di colore i vari Dell’Utri e Cosentino, ministro Rotondi, c’era anche lei in carcere a Ferragosto. Cosa ha visto che non sapeva? Devo dire che il mio itinerario era involontariamente fortunato perché ho visitato il carcere di Teramo, sovraffollato come tutti gli altri ma che tuttavia essendo di recente fabbricazione presenta condizioni generali più sopportabili, anche se il disagio è palpabile. Ho parlato a lungo con alcuni detenuti ma naturalmente il mio è stato un gesto più simbolico che sostanziale, perché la questione carceraria non è una mia delega nel governo. Aveva già visitato altre carceri? Sì, Poggioreale e Potenza in confronto ai quali Teramo è quasi un hotel a tre stelle... “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, recita l’articolo 27 della Costituzione. Secondo lei le carceri italiane sono legali e costituzionali? Sicuramente sì. E così il personale impegnato in prima linea che permette all’Italia di essere considerata nel mondo tra i paesi più civili e più rispettosi del dettato costituzionale che ci siamo dati. Naturalmente il sovraffollamento rende il personale insufficiente e le strutture insopportabili. Eppure la Corte europea per i diritti umani e il Consiglio d’Europa hanno condannato l’Italia per le condizioni di vita inumane e degradanti… Sempre per il problema del sovraffollamento: è quello che determina l’emergenza. Se in un ospedale eccellente per un’epidemia il numero di ricoverati si decuplica, è chiaro che diventa insopportabile. Bisogna dire, per esempio, che a volte si abusa della custodia cautelare. Inseguendo un’emergenza crescente, poi, è anche difficile impostare una strategia di rieducazione. L’anno scorso c’erano 4 mila detenuti in meno e ogni anno, a causa di certe vostre leggi, la popolazione carceraria cresce a ritmi vertiginosi. Cosa proponete per uscirne, a parte costruire nuovi carceri per altri 21 mila posti che si riempirebbero nel giro di qualche anno? È possibile pensare anche ad altri provvedimenti, a misure alternative. La manovra sarà più complessa e più complessiva. L’attuale testo del ddl Alfano, dopo le proteste della Lega, non prevede nemmeno più la cosiddetta “messa in prova” del detenuto, e riduce la possibilità di ottenere i domiciliari nell’ultimo anno di pena. E comunque non svuoterà le carceri, visto che i condannati in via definitiva sono meno della metà dei reclusi. Ma no! I numeri sono allarmanti ma non di emergenza. Credo che il combinato disposto della costruzione di nuove carceri e di misure alternative, seppure a discrezione dei magistrati, sia già un doppio tonico che in qualche modo allevierà. Poi, si sa che assistiamo ad un fenomeno che negli ultimi anni si è accentuato, come voi dite, anche per l’introduzione di nuovi reati. Ma noi non possiamo ridurre i reati perché i posti sono insufficienti: non possiamo venir meno ad una indicazione legislativa che è figlia di scelte dei cittadini, con adesioni attraverso campagne di opinione. Gli immigrati reclusi sono 24.675. Spesso si tratta di “clandestini”, persone che per motivi diversi non riescono ad accedere ai requisiti di legalità. Si diventa clandestini anche se si perde lavoro. In cella, d’estate, finiscono perfino le massaggiatrici “illegali” delle spiagge. Le sembra che il carcere sia il luogo giusto per queste persone? Mi sembra chiaro che le nostre procedure d’espulsione non sono altrettanto efficaci di quelle messe in atto da Sarkozy che ha adottato un pugno di ferro elogiato perfino dalla stampa italiana. Noi in Italia abbiamo fatto lo stesso senza però mettere in atto gesti particolarmente duri. Addirittura. Si può supporre, quindi, che anche per i tossicodipendenti non vedete altra alternativa al carcere: un terzo dei detenuti, ma in alcuni carceri si arriva a percentuali maggiori, ha violato la legge sugli stupefacenti. Molti di loro usano sostanze, ma soprattutto si tratta quasi sempre di piccoli spacciatori. Grazie alla vostra legge, le mafie continuano indisturbate i loro commerci di droghe mentre le carceri si riempiono di manovalanza. Non è così? È un tema che sicuramente come cattolico mi tocca, e ne farò oggetto di riflessione ulteriore. Sicuramente dobbiamo fare un bilancio che non è brillante: contavamo con misure più dure di combattere meglio il fenomeno della droga, ma almeno nella sua strutturazione commerciale dobbiamo fare i conti ancora con una sconfitta. Con i pochi agenti penitenziari attualmente in organico non si possono nemmeno aprire i reparti già ristrutturati. Avete tagliato i fondi per la manutenzione ordinaria e per pagare il lavoro dei detenuti, venendo così meno anche alla funzione rieducativa della pena. Che senso ha spendere altri soldi per costruire nuove celle? Spesso è conveniente costruire nuove strutture piuttosto che ristrutturare le vecchie secondo gli standard europei imposti. Il problema degli operatori sotto organico esiste, come anche quello dell’opportunità lavorativa per i detenuti, che è una delle conquiste fatte negli ultimi anni e richiede uno sforzo oneroso da parte del governo. Ma purtroppo tutti i servizi pubblici nel nostro Paese sono gravati dal costo di una crisi internazionale che ci costringe a un supplemento di dieta, cominciata peraltro con il governo Ciampi del 1994. È sicuro, però, che ogni sforzo sarà fatto perché non si agisca solo sotto l’impulso di un’emergenza carceraria che scoppia, ma come è giusto che sia per effetto di una programmazione e di una sensibilità costante. Giustizia: Udc; meglio un’amnistia condizionata, che il c.d. “processo breve” Dire, 22 agosto 2010 “L’Udc al Senato ha votato contro il c.d. “processo breve” che estingue migliaia di processi allo scopo di chiudere i processi di Berlusconi. Ribadiamo la contrarietà a quel disegno di legge che è irrazionale, iniquo e di dubbia costituzionalità anche perché ha la sostanza di una amnistia mascherata approvata a maggioranza semplice”. Lo dice in una nota il deputato dell’Unione di Centro Pierluigi Mantini componente della commissione affari costituzionali di Montecitorio. “Se l’attuale maggioranza ritiene di insistere su questa strada - aggiunge - allora è meglio prendere in considerazione l’ipotesi di una amnistia condizionata che poteva essere fatta già al tempo dell’indulto. Le finalità devono essere quelle della deflazione del carico giudiziario e anche del sovraffollamento delle carceri per i reati meno gravi, che sono problemi veri, e le procedure quelle della maggioranza qualificata prevista dalla Costituzione. Si può ragionare su un’intesa ampia in parlamento senza diktat né pretese ad personam”. Giustizia: Sappe; ok riforma penale, ma fondamentale intervenire su sistema penitenziario Il Velino, 22 agosto 2010 “È certamente importante porre la riforma della giustizia tra i cinque punti chiave del programma di rilancio dell’azione di governo da realizzare nei restanti tre anni della legislatura, come sottolineato autorevolmente dal presidente del Consiglio dei ministri e leader del Pdl Silvio Berlusconi. Abbreviare i tempi della giustizia, ad esempio, è fondamentale se si considera che già oggi, nelle carceri italiane, abbiamo più di 30mila persone imputate (perché in attesa di primo giudizio, appellanti e ricorrenti). Altrettanto importante è però che la maggioranza del Paese e il suo legittimo governo mettano concretamente mano alla situazione penitenziaria del Paese, ormai giunta a un livello emergenziale. La situazione di tensione che si sta determinando in molti istituti penitenziari del Paese, fatta di aggressioni a personale di polizia penitenziaria, risse e manifestazioni di protesta dei detenuti, rischia di degenerare. Credo quindi che l’esecutivo Berlusconi non possa perdere ulteriore tempo ma debba prevedere interventi urgenti e non più procrastinabili, considerato anche che il corpo di Polizia penitenziaria è carente di più di 6mila unita e che oggi ci sono in carcere quasi 69mila detenuti a fronte di circa 44mila posti letto. È il numero più alto di detenuti mai registrato nella storia dell’Italia”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), la prima e più rappresentativa organizzazione di categoria, in relazione alle dichiarazioni del presidente del Consiglio Berlusconi sulle priorità di intervento dell’esecutivo. Capece aggiunge che “il Sappe auspica una urgente svolta bipartisan di governo e Parlamento per una nuova politica della pena, quanto più possibile organica e condivisa. Quella della sicurezza penitenziaria è infatti una priorità per chi ha incarichi di governo ma anche per chi è all’opposizione parlamentare. È una priorità per tutti. Per questo motivo noi rinnoviamo, per il bene del Paese, l’auspicio di una svolta bipartisan di governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria”. Giustizia: Sappe; fieri della nostra specificità, no a dipendenza dal ministero dell’Interno Il Velino, 22 agosto 2010 “Non siamo affatto d’accordo con la demagogica proposta di un sindacato minoritario della Polizia penitenziaria di favorire il passaggio del corpo alle dipendenze del ministero dell’Interno. Noi siamo fieri della nostra specificità, che è quella di un corpo di polizia dello Stato specializzato nell’esecuzione penale. Bisognerebbe piuttosto attuare una riforma della Polizia penitenziaria, indispensabile al riassetto gerarchico e funzionale del corpo a quasi vent’anni dalla sua istituzione, che tenga anche conto della recente istituzione dei ruoli tecnici”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo Polizia penitenziaria, che spiega: “Occorre sostanzialmente garantire una piena funzionalità del corpo di Polizia penitenziaria, le cui attività vanno svincolate da farraginosi passaggi burocratici. In questo contesto l’istituzione della direzione generale della polizia penitenziaria, in seno al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è sempre più necessaria per raggruppare, secondo criteri di omogeneità, tutte le attività e i servizi demandati al corpo, evitando passaggi di competenze tra i vari uffici dipartimentali”. “Non si può fare sicurezza senza una formazione e un aggiornamento professionale adeguati: quella che attualmente ci propina la direzione generale del personale e della formazione del Dap è vecchia di trent’anni ed è abbondantemente superata. Vi è quindi l’indifferibile necessità di elevare la funzionalità del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dotandolo di strumenti organizzativi che lo rendano efficiente e in grado di garantire una razionale distribuzione delle risorse di cui dispone”, dice il segretario del Sappe. L’obiettivo indicato da Capece “non può prescindere da una più adeguata organizzazione del corpo di polizia penitenziaria. Altro che dipendenza dal ministero dell’Interno! Occorre garantire la piena funzionalità della polizia penitenziaria, con l’istituzione della direzione generale del corpo, in seno al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per raggruppare tutte le attività e i servizi demandati alla quarta forza di polizia del Paese”. Giustizia: Osapp; sulle mafie Alfano non potrà mai vantare i successi di Maroni Il Velino, 22 agosto 2010 “Come cittadini e come poliziotti penitenziari siamo veramente dispiaciuti che, per quanto riguarda le carceri, il ministro della Giustizia Alfano non possa vantare, né ora né in futuro, viste le iniziative in corso, un’eccellenza di risultati analoga a quella che il ministro dell’Interno Maroni sta ottenendo nella lotta alla criminalità organizzata”. Lo afferma il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) Leo Beneduci che commenta le notizie apparse ieri sul possibile utilizzo di sms nelle trasmissioni Rai, per comunicare con i boss in cella. “Infatti, la vicenda degli sms televisivi - aggiunge il sindacalista - si è rivelata essere quello che era, ovvero una modalità di comunicazione assai remota e di difficile utilizzo rispetto ad altre possibilità che, purtroppo, proprio la normativa più recente del c.d. pacchetto sicurezza potrebbe rendere possibili”. Beneduci spiega che “la legge 125 del 2008 prescrive che i detenuti soggetti al particolare regime dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, a fronte di un solo colloquio al mese della durata di un’ora con i familiari, ovvero di una telefonata al mese con gli stessi della durata di 10 minuti, possano avere con i propri legali fino a tre ore a settimana, ovvero fino a 30 minuti di telefonate a settimana, di colloquio. Sembra ed è una norma notevolmente garantista in sintonia con il principio costituzionale del pieno diritto alla difesa in sede processuale per tutti i cittadini e, quindi, anche per tale detenuti; ma - si domanda il leader dell’Osapp - è davvero così difficile immaginare collaboratori infedeli degli stessi legali, ovvero che le telefonate, per come è concepita la norma, in teoria, possano essere ricevute negli studi degli avvocati dai familiari dei ristretti in regime di carcere ‘durò?”. Il segretario Beneduci conclude: “Non vogliamo, né metteremmo mai in dubbio l’onestà e la professionalità degli appartenenti all’Ordine forense, atteso anche che la norma, proprio nell’ipotesi di tali condotte illecite, inasprisce di molto le possibili sanzioni penali - conclude Beneduci - solo che chi deve effettuare i controlli e rendere il sistema più impermeabile possibile, rispondendone anche penalmente, sono i poliziotti penitenziari che, quindi, si assumono rischi anche non propri che nessuno, però, riconosce loro”. Giustizia: sms con messaggi cifrati per i boss detenuti inviati a “Quelli che il calcio”? Apcom, 22 agosto 2010 “Alcuni boss in regime del carcere duro meglio conosciuto come 41bis si scambiavano, usando la trasmissione Quelli che il calcio, messaggi con i familiari all’esterno”. Lo ha rivelato l’ex vice procuratore nazionale Antimafia Vincenzo Macrì durante la sua audizione nei primi giorni dello scorso mese di maggio davanti alla commissione parlamentare Antimafia. Nella trasmissione ‘Quelli che il calciò in onda la domenica pomeriggio, mentre scorrono le immagini e i risultati delle partite, nel sottoschermo passa un serpentone fatto di messaggi e dediche a cui tutti possono partecipare. La soluzione è semplice, basta scrivere un messaggio e mandarlo a un numero per vederlo pubblicato qualche minuto dopo. Questo stratagemma usato da picciotti e sodali della ‘ndrangheta, naturalmente è del tutto anonimo e quindi chi gestisce il programma televisivo è del tutto all’oscuro di quanto succede. Il magistrato, interpellato da Apcom, ha spiegato che “è difficile garantire l’isolamento assoluto e l’impenetrabilità tra i carcerati e il mondo esterno. Ci sono i contatti con i legali, con i familiari, e molte volte è difficile anche intercettare dei segnali convenzionali che gli stessi si scambiano durante i colloqui, anche perché non tutti i colloqui possono essere intercettati e video filmati”. D’altronde, dice ancora Macrì, “ci sono sempre i cappellani, gli agenti penitenziari e i medici che non sempre lavorano solo per lo Stato”. Che i boss dall’interno del carcere continuavano a gestire i loro affari era risaputo, ma che utilizzassero la tv di Stato ancora non si era visto. Certo, in Calabria nello scorso mese aprile, nell’ambito dell’inchiesta “All inside” coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone e dai suoi collaboratori, il boss Salvatore Pesce nel corso di un colloquio con il figlio si raccomandava: “Stasera se la risposta per quell’ambasciata è positiva mi mandi questa canzone, se è negativa me ne mandi un’altra”. Perché i boss della Piana utilizzavano le frequenze di Radio Olimpia per dialogare con l’esterno. Era stato lo stesso Salvatore Pesce a vantarsi all’interno del carcere di essere lui il proprietario di Radio Olimpia. Giustizia: Alfano; per detenuti in 41bis vietato il servizio televideo e l’acquisto di quotidiani locali Il Velino, 22 agosto 2010 “Con riferimento alla possibilità che la criminalità organizzata utilizzi la rubrica sms di popolari trasmissioni televisive per trasmettere messaggi in codice ai capi clan, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, precisa che le informazioni - riferite dalla procura nazionale Antimafia alla Commissione parlamentare Antimafia nel corso dell’audizione dello scorso maggio - altro non sono se non i contenuti di una informativa del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che aveva segnalato il pericolo alla Dna e contestualmente allertato le direzioni degli istituti penitenziari a porre la massima attenzione al fenomeno. In particolare la segnalazione del Dap - continua il Guardasigilli - poi ripresa dalla Dna e richiamata nelle odierne notizie di stampa, riguarda un episodio del dicembre 2009, relativo ad un singolo detenuto, al quale un familiare, nella corrispondenza sottoposta a censura, preannunciava la possibilità di inviare un messaggio sms durante la trasmissione “Quelli che il calcio”. Da qui l’allertamento preventivo Dap e la comunicazione agli organi giudiziari per gli accertamenti e le iniziative di loro competenza. In passato, - conclude Alfano,- sempre dal Dipartimento, è stata posta specifica e puntuale attenzione alla possibilità di elusione del divieto di comunicare con l’esterno. A tale scopo sono state disattivate, ai detenuti sottoposti al regime di 41bis, le schede video per l’accesso al servizio televideo e vietata la diffusione di quotidiani locali che riportavano dettagliate ricostruzioni di vicende criminali con la possibilità di celare messaggi individuali. Anche di tali iniziative sono stati informati la Dna e gli organi giudiziari competenti”. Cade così sul nascere ogni polemica sull’intera vicenda, visto che il ministero ha già criptato i sottotitoli con sms di alcune trasmissioni televisive. Giustizia: Pd; i boss usano gli sms, e il Governo vuole creare gravi limitazioni alle intercettazioni Apcom, 22 agosto 2010 Mentre la mafia si organizza per comunicare con le moderne tecnologie di telefonia, il Governo rende più difficile intercettarne i messaggi: lo sostiene in una nota Laura Garavini, capogruppo del Pd nella commissione Antimafia, commentando le rivelazioni del procuratore Enzo Macrì in occasione di una audizione in Parlamento. “L’esempio fatto dal dottor Macrì in commissione Antimafia - afferma l’esponente democratica - dimostra la diabolica capacità delle mafie di usare sempre nuove vie per comunicare a distanza e segretamente. Una moderna formula di pizzino, con il vantaggio di abbattere il rischio di venire scoperti”. “A maggior ragione è lodevole - dice Garavini - la capacità di magistratura e polizia penitenziaria che sono riusciti ad intuire ed intercettare questo banale e pur così pericoloso stratagemma della criminalità organizzata. E a maggior ragione chiediamo che governo e maggioranza cancellino quelle maledette norme che impediscono l’uso delle intercettazioni telefoniche. Ricordo che il testo approdato in Aula alla Camera, sebbene migliorato in parte negli articoli sulla stampa, contiene ancora gravissimi ostacoli per gli investigatori: a settembre riprenderà la nostra battaglia durissima in Parlamento”. “Non è accettabile - conclude la deputata del Pd - che mentre i boss si ingegnano, il governo chini la testa”. Torino: Osapp; manifestazione degli agenti penitenziari davanti al carcere Lorusso e Cotugno Ansa, 22 agosto 2010 Un appello al ministro della Giustizia Angelino Alfano, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta e al provveditore regionale Aldo Fabozzi arriva dall’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, riguardo le carceri piemontesi dove le condizioni critiche di lavoro degli agenti, e soprattutto lo stress da esse indotto, indurrebbero molti a lasciare il posto. “Per rendersi conto - scrive il segretario generale Leo Beneduci - di quello che realmente vivono i poliziotti penitenziari in Piemonte e Valle d’Aosta basterebbe recarsi presso la commissione medica ospedaliera a Torino e chiedere quanti poliziotti penitenziari, rispetto agli appartenenti alle altre forze di polizia, sono in cura o lasceranno il servizio entro l’anno, per riforma a seguito di infermità legate a stress e a patologie della sfera psichica. È perché non ne possiamo proprio più che protestiamo e chiediamo che provveditore regionale, capo del Dap e ministro dispongano per gli accertamenti necessari sulle condizioni degli istituti e sullo stato di salute del personale in servizio, ponendo in essere gli urgenti correttivi del caso”. Domani è prevista la manifestazione degli agenti penitenziari, che chiedono la sostituzione del loro comandante, davanti al carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Giustizia: se la stampa scopre la vita in carcere… di Leo Beneduci (Segretario generale Osapp) La Repubblica, 22 agosto 2010 Ho letto l’articolo di Valeria Parrella pubblicato giovedì sul vostro quotidiano e ad un certo punto è come se fossi stato assalito da alcune granitiche certezze. La certezza su una condizione, quella carceraria, che anche noi poliziotti penitenziari soffriamo da troppo tempo (con buona pace della scrittrice e delle sue verità, su risse bagnate nel sangue, lenzuola bruciate dai finestrini o scioperi della fame); la certezza di una realtà che non viene mai fatta raccontare dai diretti interessati; la certezza di un quadro politico immutato negli anni che ha portato questo nostro Paese alla deriva, e che, figuriamoci, con noi e con il carcere non ha più niente a che fare; la certezza che le questioni rimangano inesorabilmente al palo, di come non si riesca ad andare oltre la fase dei commenti e dell’ indignazione. La Parrella chiede a tutti d’immaginare un mondo che noi viviamo ogni santo giorno: un mondo reale, pigro, per i detenuti ma non per noi. Perché a parte sorvegliare, aprire e chiudere le porte e i cancelli, c’ è da impedire le fughe, smorzare le risse, evitare i suicidi o dissuadere i reclusi da atti di autolesionismo veri. Affidiamo a lei e alla forza del suo giornale una campagna di sensibilizzazione permanente che faccia comprendere al cittadino quanto la questione penitenziaria sia oltremisura speculare con la propria condizione di libero, e quanto sia attinente alla sua di sicurezza. Per questo ci auguriamo e vi chiediamo una battaglia di libertà, che consideri il carcere quale massima espressione di civiltà; così come avete fatto per la campagna anti-bavaglio. Lettere: noi, detenuti nel carcere di Tolmezzo, non possiamo più tacere… Il Manifesto, 22 agosto 2010 Pubblichiamo una denuncia che abbiamo ricevuto da alcuni detenuti del carcere di Tolmezzo (Udine). “Noi detenuti della casa circondariale di Tolmezzo abbiamo deciso di scrivere questa lettera dopo l’ennesimo pestaggio avvenuto nelle carceri italiane. Dopo i casi di Marcello Lonzi a Livorno, di Stefano Cucchi a Roma, di Stefano Frapporti a Rovereto e di tanti, troppi, altri in giro per la penisola, siamo costretti a vedere con i nostri occhi che la situazione carceraria in Italia non è cambiata per niente. Mentre da una parte ci si aspetta dai detenuti silenzio e sottomissione per una situazione inumana (quasi 70.000 prigionieri a fronte di nemmeno 45.000 posti, percorsi di reinserimento sociale pressoché inesistenti, scarsissima assistenza sanitaria, fatiscenza delle strutture, ecc..) si ha dall’altra il solito trattamento vessatorio da parte del personale penitenziario, non giustificabile con la solita scusa sulla scarsità di uomini e mezzi. Denunciamo quello che, ancora una volta, è successo venerdì 13 agosto proprio qui a Tolmezzo, dove un ragazzo, M.F. , è stato picchiato con tanto di manganelli nella sezione infermeria. Se come per altre volte i protagonisti dell’aggressione erano, tra gli altri, graduati ormai noti ai detenuti per le loro provocazioni, l’altra costante è stata la completa assenza del comandante delle guardie e della direttrice dell’istituto. La nostra situazione è fin troppo pesante per accettare anche la sottomissione fisica dopo quella psicologica. Per noi tacere oggi potrebbe voler dire ricevere bastonate domani se non fare la fine dei vari Marcello o Stefano domani l’altro. Noi non ci stiamo e con questa nostra ci rivolgiamo a chiunque nel cosiddetto mondo libero voglia ascoltare, affinché la nostra voce non cada morta all’interno di queste mura. Tolmezzo: dopo la lettera dei detenuti il Consigliere regionale Antonaz in visita al carcere Messaggero Veneto, 22 agosto 2010 Il consigliere regionale di Rc, Roberto Antonaz, sul carcere di Tolmezzo: “Sovraffollato, sotto organico e con un’assistenza sanitaria di 300 mila euro ancora a carico dell’amministrazione carceraria e non del sistema sanitario come dovrebbe in base ad una legge nazionale del ‘99, in Regione mai recepita, nonostante le nostre sollecitazioni. Non si può lasciare a carico del carcere tale insostenibile situazione”. Ieri mattina il consigliere regionale di Rc Roberto Antonaz ed il consigliere comunale di Tolmezzo Stefano Nonino, segretario a Tolmezzo di Rc, sono stati accolti dalla direttrice del carcere di Tolmezzo, Silvia Della Branca e hanno fatto visita all’istituto di pena tolmezzino, anche nella sezione in regime di alta sicurezza dove vi sono 46 detenuti, di cui 18 in regime di 41 bis e 2 in area riservata. “È necessario - spiega Antonaz - risolvere dal punto di vista strutturale il problema del sovraffollamento delle carceri, oggi con ben 68 mila detenuti e con un numero di suicidi che non è mai stato così alto, come quest’anno. Servono soluzioni incisive e cioè la depenalizzazione di alcuni reati e l’utilizzo dello strumento delle pene alternative al carcere. Dei 307 detenuti che ora occupano il carcere di Tolmezzo (sono arrivati anche a 315), un centinaio di essi è per reati connessi agli stupefacenti. Per i reati più lievi bisognerebbe optare per una depenalizzazione. La capienza regolamentare del carcere di Tolmezzo è di 220. Ce ne sono 307 e si è arrivati al 3° letto nelle celle (di 12 mq). Il personale è sotto organico e un consistente numero di detenuti qui è straniero, richiedendo ancor più impegno. È necessario non tagliare le risorse a queste realtà, dotarle in modo adeguato di personale, continuare con progetti che puntano alla rieducazione dei detenuti. E Nonino conferma il successo dei progetti, partiti da Tolmezzo per poi abbracciare altri Comuni, con detenuti in regime di semilibertà, attualmente 5, impegnati in attività di manutenzione del territorio. Esperienze positive che pare che anche dal punto di vista finanziario saranno ancora sostenute. “Alla direttrice - conclude Antonaz - abbiamo chiesto dell’episodio che si è verificato il 13 agosto scorso in carcere tra un detenuto e una guardia: ci ha riferito di aver subito inviato comunicazione a chi di dovere su quella che ci ha descritto come una colluttazione. Non conosciamo la versione del detenuto, dal momento che non ci abbiamo parlato”. Gela (Cl): dopo 25 anni di lavori carcere ancora da inaugurare, mancano impianti sorveglianza La Repubblica, 22 agosto 2010 Le carceri italiane scoppiano tra suicidi, proteste e scioperi della fame. Eppure a Gela c’è un carcere pronto e inutilizzato perché mancano i sistemi di sicurezza per i quali occorrerebbero 1,5 milioni di euro. Per il resto, la struttura sarebbe pronta a ospitare nelle sue 48 celle un centinaio di detenuti. L’incompiuta gelese ricalca la storia di molte opere pubbliche siciliane. Il completamento è avvenuto dopo mezzo secolo dalla progettazione, datata 1959, mentre il via libera all’opera era arrivato solo nel 1978 e i lavori, partirono cinque anni più tardi. Nel novembre del 2007, terminati i lavori, l’allora Guardasigilli Clemente Mastella, si recò a Gela per la consegna simbolica delle chiavi del carcere che avrebbe dovuto aprire le celle alla fine dell’anno. Così non è stato, ed ora la casa circondariale rischia di finire nell’incuria. A lanciare un appello al ministro della Giustizia Angelino Alfano, affinché la struttura penitenziaria possa essere utilizzata è il sindaco Angelo Fasulo. Il carcere, ricorda Fasulo, è costato 6 milioni e mezzo di euro, e per evitare che i vandali lo devastassero, il Comune dal novembre 2007 ha provveduto alla vigilanza con fondi propri. Nonostante i controlli, buona parte del prospetto esterno è già stato imbrattato dai writer e, se non fosse stato per la presenza costante dei vigilantes, il carcere sarebbe già stato espugnato. In un solo anno, per garantire dei controlli fissi lungo l’intera area che si trova sulla statale 117, l’amministrazione comunale ha speso 80 mila euro. Circa 4 mila euro al mese. L’attività di sorveglianza si è conclusa nel novembre del 2009, data in cui il ministero ha dato mandato alla polizia penitenziaria di occuparsi del presidio che, resta chiuso. “Il presidente del Consiglio - dice Fasulo - ha nominato un commissario straordinario per il piano carcerario e far fronte all’emergenza attuale per questo, sollecito un intervento del ministro, affinché si possa fruire di questa struttura nel più breve tempo possibile”. Iglesias (Ca): il carcere di Sa Stoia sarà destinato solo ai “sex offenders” La Nuova Sardegna, 22 agosto 2010 Un carcere destinato ai detenuti condannati per reati sessuali, unico in Italia: è questo il progetto per la casa circondariale a custodia limitata di Iglesias, già da questo autunno. La notizia è stata data nel corso dell’ispezione che il 13 agosto i due parlamentari del Pd, Francesco Sanna e Amalia Schirru, hanno effettuato nell’istituto di pena. Dunque il carcere si svuota dei detenuti ordinari e si riempirà, da qui a settembre, di detenuti “sex offenders”, “sino a toccare, e speriamo non superare, la cosiddetta capienza tollerata, pari a 114 detenuti”, spiega Sanna. Intanto nelle celle gli uomini sono 70, una situazione quasi ottimale, di cui 49 con condanna definitiva e 21 in attesa di giudizio; gli stranieri sono 26, “pochi rispetto a quelli che trovammo un anno fa - aggiunge il senatore - perché molti di loro, con pene inferiori ai tre anni, sono stati trasferiti alla colonia penale di Isili, dove trovano un guadagno dalla attività lavorativa nei campi”. Da settembre, pregiudicati o meno, stranieri o italiani, all’istituto di Sa Stoia troverà alloggio solo una categoria di detenuti e, essendo l’unico istituto “monotematico” d’Italia, il timore del sovraffollamento è reale, ecco perché l’invito a non superare la “capienza tollerata”. È questa un’espressione usata nel linguaggio burocratico carcerario per codificare una situazione di fatto che, da eccezione, è diventata la regola: in pratica gli istituti di pena hanno una capienza regolamentare X e una tollerata doppia rispetto a X. Nel caso della casa circondariale di Iglesias il numero ottimale di detenuti è 59, per giunta in semilibertà. Da subito, data la cronica carenza di spazi negli istituti di pena del Paese è diventato carcere a tutti gli effetti mantenendo però organico e conformazione degli spazi funzionali alla semi-libertà. Non ci sono infatti spazi comuni e solo con la trasformazione di due ex celle è stato possibile ricavare una piccola biblioteca che comunque costituisce un privilegio nella media delle carceri italiane. La pianta organica dell’istituto è dimensionata a questo utilizzo “ordinario”: 52 agenti, compresi quelli impegnati nel trasporto dei detenuti fuori l’istituto. Oggi, i detenuti semiliberi che dormono nel carcere iglesiente sono solo 3. Sulmona: detenuto di 50 anni con problemi psichici tenta di darsi fuoco in cella Il Centro, 22 agosto 2010 Un detenuto di 50 anni, originario di Napoli, ricoverato nell’infermeria del carcere di Sulmona ha dato fuoco alla sua cella nel tentativo di togliersi la vita. Si è salvato solo grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria che ha spento il principio di incendio scongiurando situazioni critiche anche per gli altri detenuti. Il fumo tossico sprigionatosi dal materasso e dalle suppellettili presenti nella camera stava infatti attaccando anche il resto della sezione con i detenuti che urlavano per il timore di rimanere bloccati in cella. Per dar fuoco al materasso alle suppellettili il detenuto, che è affetto da problemi psichici, ha utilizzato un normale accendino per le sigarette. Fortunatamente proprio in virtù del tempestivo intervento degli agenti, il recluso non ha riportato ferite o ustioni e dopo essere stato visitato dal medico del carcere che gli ha somministrato alcuni tranquillanti, è stato ricondotto in cella e sottoposto a un controllo continuo da parte degli agenti. Sull’episodio sono intervenuti i sindacalisti della Uil Penitenziari che hanno sottolineato, ancora una volta, la situazione critica che vive il carcere di Sulmona sotto il profilo della carenza di organico. “Dopo un breve periodo di pseudo tranquillità”, afferma il segretario provinciale della Uil Penitenziari, Mauro Nardella, “il carcere ha ripreso a macinare numerosi eventi critici e critica risulta essere anche la situazione in merito alla carenza di organico”. Oltre 60 persone risultano fuori servizio per malattia che sommate a quelle in ferie, superano il tetto del 50 % di agenti presenti al lavoro rendendo la situazione del carcere di gran lunga inferiore ai livelli minimi di sicurezza. “Un carcere che si trova solo all’inizio di un calvario”, prosegue Nardella, “che vedrà il suo culmine nel momento in cui i quasi 20 agenti distaccati a Sulmona faranno rientro nella casa circondariale di Avezzano, prossima alla riapertrura e dalla quale provengono. Se a questi aggiungiamo i molti agenti distaccati che l’amministrazione penitenziaria ha riportato nelle sedi dopo averli tenuti a Sulmona per diverso tempo, ci si accorge che siamo di fronte a una situazione al limite del collasso”. Nei prossimi giorni il segretario generale Eugenio Sarno farà visita al carcere di Sulmona. “In quell’occasione”, conclude il sindacalista Nardella, “chiederemo al competente dipartimento, un intervento urgente volto al ripristino delle condizioni di normalità che da tempo latitano nel nostro carcere”. Sulmona: 500 detenuti vivono nello spazio per 275, in dieci anni 13 si sono suicidati Il Tempo, 22 agosto 2010 A pesare sulla situazione della struttura penitenziaria sulmonese è il sovraffollamento di reclusi, pari al 40%. Nel carcere di via Lamaccio sono rinchiusi attualmente 500 detenuti a fronte di un numero massimo di 275 unità. A gestire l’intera struttura poi è un numero di agenti che non è grado di poter affrontare una situazione del genere. Oggi, ancora più di prima, gli istituti di pena rischiano di finire nel dimenticatoio dopo i tanti annunci della politica caduti finora nel vuoto. Poche settimane fa, infatti, il segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, aveva ricordato che “purtroppo il precipitare della situazione penitenziaria è direttamente proporzionale all’oceano di impegni assunti e non mantenuti dal Governo e dal Ministro Alfano. Dall’inutile dichiarazione dello stato d’emergenza, all’indefinito piano carceri, alle annunciate assunzioni. La disattenzione e la distrazione verso i problemi reali ha determinato una situazione che è alle soglie dell’ingestibilità pura. Mi pare chiaro - aveva concluso Sarno - che alla ripresa settembrina alcune questioni che interessano le carceri abruzzesi dovranno essere discusse e possibilmente risolte”. Il sovraffollamento è la prima questione da affrontare, direttamente connessa con il verificarsi dei tanti suicidi. Secondo i sindacati un carcere così è superato. Va rivista l’istituzione, creando opportunità di recupero e potenziando la Polizia Penitenziaria che è l’unica garante dell’incolumità fisica dei reclusi. In alcuni momenti, senza l’intervento degli agenti si sarebbe assistito a una catastrofe bell’e buona. Secondo l’Osservatorio nelle carceri si “muore così spesso perché negli ultimi vent’anni sono diventate il ricettacolo di tutti i disagi umani e sociali, con detenuti tossicodipendenti, malati di mente e sieropositivi. Una recente ricerca della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria ha riscontrato che soltanto il 20% dei detenuti è in buone condizioni di salute”. Ma si muore anche perché le condizioni detentive sono sempre più difficili. Avezzano (Aq): in autunno riaprirà il carcere “San Nicola”, la ristrutturazione è durata anni Il Tempo, 22 agosto 2010 Rassicurazioni, in tal senso, sono state date dai vertici della Amministrazione Penitenziaria nel corso di un incontro avvenuto a Roma nei giorni scorsi con la segreteria nazionale Cisl Fns (Federazione nazionale sicurezza). Il segretario regionale della stessa sigla sindacale Corrado Clementoni ci ha detto: “Abbiamo avuto comunicazioni confortanti - ha spiegato Corrado Clementoni - circa i tempi di riapertura dell’istituto. Il piano di reintegro del personale dipendente nella sede di Avezzano dovrebbe avere inizio entro la prima decade di settembre prossimo, per poi procedere gradualmente - ha aggiunto il sindacalista - entro il mese all’intera ricollocazione”. Per i quaranta agenti di Polizia Penitenziaria e per i venti impiegati in forza alla casa circondariale avezzanese, i tempi del rientro dovrebbero ormai ritenersi vicini. Dopo vari anni di chiusura per lavori di ristrutturazione, il carcere “San Nicola” dovrebbe, quindi, riaprire i battenti al più presto, ospitando un centinaio di detenuti. Con il problema del sovraffollamento degli istituti di pena, il carcere di Avezzano potrebbe essere valvola di sfogo per contribuire nella riduzione del disagio detentivo. Parte dei detenuti ospitati nei penitenziari di L’Aquila e Sulmona, infatti, potrebbe trovare collocazione in quello di Avezzano. Anche per i dipendenti della casa circondariale del capoluogo marsicano, a questo punto, dovrebbero finire i disagi che hanno dovuto affrontare durante questo periodo di chiusura del “San Nicola”. “Affinché siano rispettati questi tempi di massima - ci ha detto ancora il segretario regionale della Cisl Fns Corrado Clementoni - la nostra organizzazione sindacale vigilerà con la massima attenzione. La nostra federazione - ha ribadito il sindacalista - è stata impegnata fin dallo scorso mese di maggio in colloqui e confronti con i dirigenti regionali dell’Amministrazione penitenziaria e con il Dipartimento centrale di Roma; continueremo così anche in futuro”. I detenuti della casa circondariale di Avezzano saranno ospitati in un’ala e questo dovrebbe favorire anche il compito di vigilanza da parte degli agenti penitenziari, che comunque avrebbero bisogno di un potenziamento dell’organico. Modena: carcere invivibile; il procuratore capo ha ragione, ma quali sono le soluzioni? La Gazzetta di Modena, 22 agosto 2010 “Ma certo che il procuratore Zincani ha ragione. Com’è possibile dargli torto quando dice che il carcere è diventata una discarica sociale dove ci finisce dentro di tutto, tanto per togliere un po’ di gente dalle strade?”. Sono questi i primi commenti di chi si occupa di S. Anna. I consensi sono bipartisan, come si dice adesso, cioè arrivano da entrambi i fronti della rappresentanza sindacale degli agenti di custodia. E così pure dal sindaco Pighi che arriva a ipotizzare una riforma nazionale per introdurre braccialetti elettronici per controlli a domicilio. “È alternativo al carcere per reati minori e c’è in tante altre parti del mondo a cominciare dagli Usa - dice - In Italia aveva cominciato a discuterne il governo Prodi e lo stesso Berlusconi nel suo ultimo esecutivo. Possibile che sui 60 mila detenuti italiani non si riescano a sistemare in lavori socialmente utili, e controllati da uno strumento elettronico per evitare evasioni, 5 o 6 mila detenuti condannati a pene minori?” “Ringraziamo il Procuratore della Repubblica per avere, ancora una volta, portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema - dice Francesco Campobasso, responsabile del Sappe di Modena, il sindacato autonomo degli agenti di custodia - Che la situazione sia prossima al collasso lo sanno bene tutti. Quello che ci preoccupa di più è l’apertura del nuovo padiglione, a partire da marzo dell’anno prossimo; sulla carta dovrebbe ospitare 150 detenuti in più, ma col sovraffollamento che caratterizza il S. Anna significa che in breve ci ritroveremo con 250 persone in più. Ma il personale di custodia rimane lo stesso? È impensabile. Del potenziamento annunciato dal ministro Alfano col Piano carceri non c’è traccia. A Modena già ora mancano 60 agenti mentre la popolazione carceraria del S. Anna, che doveva essere di 242 unità è salita sino agli attuali 456. Perciò senza nuovi agenti non si apre la nuova struttura”. “Grande attenzione da tutti e solidarietà dai politici di destra e di sinistra, ma soluzioni zero - sospira Luciano Ianigro, delegato Cgil per la Polizia Penitenziaria - Per noi sarebbe di grande aiuto se si potesse ridurre il numero di agenti impegnati per il trasporto e la custodia di detenuti che quotidianamente vanno a Palazzo di Giustizia per essere giudicati e poi rimessi in libertà dopo pochi giorni. Un terzo del lavoro viene da lì e potrebbe essere eliminato se ci fosse sempre un Gip disponibile a venire in carcere. Il guaio è che se è di turno non può muoversi; o magari esamina un arresto e poi ne arrivano altri in giornata”. “Nel 1998 - sintetizza Pighi - i detenuti condannati a pene alternative in Italia erano più numerosi di quelli dietro le sbarre. Poi c’è stato un cambio di rotta e le carceri scoppiano di nuovo. Ma già nell’Italia del 1948, i padri fondatori scrissero nella Costituzione che il trattamento nell’espiazione della pena non poteva essere contrario al senso di umanità. Ma che umanità c’è nell’ammucchiare persone dentro a stanzoni dove c’è solo ozio, nessun lavoro né formazione professionale? È accettabile che chi entra in carcere esca peggiore di come è entrato?” “Grazie di cuore per aver sollevato un problema annoso - dice Paola Cigarini a nome dei volontari del gruppo Carcere-Città - Ma se mancano i fondi da Roma per le pene alternative chi deve tirarli fuori? Questo governo con le norme su immigrati, droga e recidiva fa scoppiar le carceri di detenuto per reati minori e poi parla di amnistia. Di certo così non si va avanti per molto”. Modena: 18 agenti in ospedale, per piantonare tre detenuti in gravissime condizioni di salute La Gazzetta di Modena, 22 agosto 2010 Si fa presto a parlare di carcere, di mancanza di agenti e di sovraffollamento. Un nodo inestricabile che rimane però distante se non lo si va a guardare da vicino. Proviamo a farlo usando due esempi modenesi, illuminanti. In questi giorni sono ricoverati al Policlinico tre detenuti in gravissime condizioni; due di loro per malattia e il terzo per gli esiti di una sparatoria. Quest’ultimo è in rianimazione, da giorni non riprende conoscenza, è immobile ma anche per lui devono sempre essere in servizio due agenti penitenziari per ogni turno di lavoro. Lo stabiliscono le regole interne dell’amministrazione penitenziaria e coordinate dal ministero della Giustizia. Anche per lui valgono le regole di ogni detenuto: se esce fuori dal carcere, per un processo o per le cure o per un interrogatorio, deve avere due uomini in divisa come scorta. È la regola, punto e basta, anche se si deve far la guardia a un malato in stato vegetativo. Il risultato è che la sorveglianza 24 su 24 dei tre malati costa al S.Anna e al suo nucleo specializzato nei trasferimenti (30 uomini in tutto) 18 persone al giorno, tutti i giorni. Ovvero il 15% del totale degli agenti per sole tre persone: per altri 453 ne devono bastare 132. Il risultato è che ieri sono dovuti intervenire dal carcere di Ferrara altri agenti per integrare gli organici in ospedale. E le pene alternative? I lavori con le cooperative nei lavori socialmente utili? Spariti. Evaporati da quando i denari del Fondo Sociale Europeo non ci sono più per la formazione. E gli enti locali decidono che non hanno fondi per sostituirsi ai vecchi progetti. Roma: ruba alcuni bancali di legno per fame, condannato a un anno di carcere Adnkronos, 22 agosto 2010 “Dovrà passare i prossimi 12 mesi in una cella del carcere di Velletri perché sorpreso a rubare, con la compagna, alcuni bancali di legno vuoti all’esterno di un supermercato per rivenderli e trovare i soldi per comprare da mangiare”. Protagonista della vicenda, segnalata dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, un italiano trentenne. Secondo quanto ricostruito dai collaboratori del Garante “l’uomo, disoccupato da lungo tempo per altro recidivo per lo stesso tipo di azione, è stato sorpreso dalle forze dell’ordine mentre era intento a caricare, con l’aiuto della compagna, sulla sua auto alcuni bancali di legno vuoti all’esterno di un supermarket sulla via Appia. Giudicato con rito direttissimo l’uomo, che si è giustificato affermando che voleva vendere i bancali allo scopo di trovare qualche soldo per comperare da mangiare, si è dichiarato colpevole ed ha patteggiato una pena di 12 mesi di reclusione che sta già scontando a Velletri. Anche la sua compagna è stata condannata e si trova nel carcere di Rebibbia Femminile”. “Più che una vicenda criminale, questa è una storia di forte disagio sociale - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Rubare per mangiare è una vicenda degna del film Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, ma quella era finzione mentre questa la realtà che viviamo quotidianamente. Il lato triste della vicenda è che fra un anno quest’uomo uscirà dal carcere e si troverà nelle stesse condizioni di disperazione. Manca quella che si chiamava rete di intervento sociale, che consentiva di intervenire per evitare situazioni di questo genere. Senza questo aiuto è inevitabile che le carceri siano destinate a diventare il terminale ultimo del malessere della nostra società”. Immigrazione: cronache dai Cie… qui è peggio che stare in galera di Ilaria Sesana Avvenire, 22 agosto 2010 Per iniziare, una nota terminologica: gli stranieri che si trovano all’interno dei 13 Centri di identificazione ed espulsione (Cie) italiani, “tecnicamente non sono reclusi - spiega Rosario Varriale, capo della segreteria dell’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio - ma “trattenuti” e considerati ospiti dello Stato”. “Ospiti” che, di fatto, vengono privati della libertà per un periodo che può arrivare fino a sei mesi. Un lasso di tempo lunghissimo, durante il quale trascorrono le giornate nel vuoto e nell’apatia più completa. Nei Cie, diversamente da quanto avviene in carcere, non sono infatti previste attività di rieducazione. “È gente che sta lì pur non avendo commesso nessun reato”, osserva Varriale. “Ospiti” in attesa, frustrati e inattivi, costretti a vivere in strutture che lasciano molto a desiderare come e-merge dal rapporto “Al di là del muro” realizzato da Medici senza Frontiere (Msf) a seguito delle visite compiute nel 2008 e nell’estate del 2009 in vari centri di accoglienza per migranti italiani (Cara, Cie e Cda). Molti “ospiti” dei Cie poi hanno vissuto in Italia per molto tempo, alcuni con casa, famiglia e figli nati nel nostro Paese. (Circa il 50% degli intervistati da Msf era in Italia da più di 5 anni, ndr). Trapani Aperto nel 1998, quello di Trapani è stato il primo Cpt italiano (in seguito all’entrata in vigore della legge Turco-Napolitano, ndr) e, per gli operatori di Msf, è anche il primo che dovrebbe chiudere i battenti. “Non presenta le condizioni minime di vivibilità”, spiega Rolando Magnano, vice capo missione Italia Msf. “Le stanze dove dormono gli ospiti del centro sono prive di finestre, l’unico spazio comune a disposizione è un ballatoio cui è stata applicata una recinzione metallica”, aggiunge Magnano. Il Cie, infatti ha trovato i suoi spazi all’interno di una ex casa di riposo per anziani: una palazzina a tre piani nel centro di Trapani. Lamezia Terme Altra struttura per la quale Medici senza frontiere ha chiesto la chiusura è il Cie di Lamezia Terme (Cz) dove l’unico spazio comune è un cortile di 200 metri quadri. “Se tutti gli ospiti decidessero di uscire contemporaneamente avrebbero a disposizione due metri quadri a testa”. I Cie di Trapani e Lamezia sono ancora operativi, ma il Governo ha annunciato che entro fine anno quello di Trapani chiuderà i battenti per lasciare il posto a u-na nuova struttura. Ex detenuti e rifugiati In base a quanto emerge dal rapporto di Msf, circa il 40% degli ospiti dei Cie sono ex detenuti nei cui confronti, si legge nel rapporto, “sarebbe stato possibile procedere all’identificazione nel corso della detenzione”. Nel Cie romano di Ponte Galeria (dove attualmente sono in atto lavori di ristrutturazione, ndr) gli ex detenuti rappresentano il 90% degli “ospiti”. Ma nei Cie ci sono anche richiedenti asilo che hanno presentato la domanda dopo aver ricevuto un decreto di espulsione e che devono attendere l’esito. “In queste strutture tutti vivono in condizioni di assoluta promiscuità - aggiunge Magnano di Msf - Ex detenuti, persone appena arrivate in Italia, stranieri con permesso di soggiorno scaduto, vittime di tratta e cittadini comunitari”. E persino chi, come Moha-med (nome di fantasia), parla con un forte accento siciliano e ha moglie e figli nel nostro Paese. Nei Cie... per sbaglio “Avevo permesso di soggiorno e lavoravo, sono 15 anni che vivo in Sicilia”, la storia di Ahmed è stata raccolta da un operatore di Msf nel Cie di Trapani. Poi la perdita del lavoro, la clandestinità, il fermo da parte della polizia e le lunghe giornate nel Cie. “Fuori c’è mia moglie, che aspetta un bambino e abbiamo un altro figlio piccolo. Non ho mai fatto niente di male, eppure sono chiuso qui”. Moderni lager Nel maggio 2009 persino Berlusconi, aveva paragonato i Cie “a dei campi di concentramento”. Un paragone condiviso da Varriale: “Le condizioni quotidiane di vivibilità sono molto discutibili. Ma per certi aspetti un carcere è meglio di un Cie”. In prigione infatti i detenuti hanno la possibilità di impiegare il proprio tempo frequentando la scuola o svolgendo attività lavorative, mentre nei Cie non c’è nulla. Servono controlli e trasparenza Assistenza sociale spesso improvvisata, mediazione culturale carente, assistenza sanitaria e regole che variano da Cie a Cie. “Ciascuno è un mondo a sé, tutto è demandato alla buona volontà dei singoli operatori o degli enti gestori”, spiega Rosario Magnano. Una gestione ancora emergenziale priva di criteri unici e condivisi, ma soprattutto priva di un organismo di controllo, terzo e imparziale, che possa denunciare le storture del sistema. “Sono le Prefetture a individuare, mediante bando di gara, gli enti gestori dei Cie - spiega Magnano -. E sempre le Prefetture decidono, discrezionalmente, chi far accedere a queste strutture”. Immigrazione: stop della Cei al Governo, sull’espulsione di cittadini comunicati La Repubblica, 22 agosto 2010 Spira nuovamente aria di bufera tra la Chiesa italiana e il governo Berlusconi sul fronte degli immigrati. Ieri, dai microfoni di Radio vaticana, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes, il dicastero Cei sui movimenti migratori, ha duramente criticato il ministro degli Interni Roberto Maroni per aver preannunciato in un’intervista al Corriere della Sera il varo di un provvedimento per poter espellere dall’Italia non solo i rom, come sta facendo la Francia di Sarkozy, ma anche cittadini comunitari. “Ho più fiducia in Maroni che nella Cei”, replica Umberto Bossi secondo cui il ministro leghista “è una persona equilibrata che non farebbe del male alla gente”. L’ulteriore giro di vite - secondo Maroni - andrebbe a colpire nel nostro paese tutte quelle persone non italiane che non hanno “redditi minimi e dimore adeguate”. Il capo del Viminale, pur sapendo che “in Europa questa linea non è ancora possibile”, intende però sollevare il problema “il 6 settembre prossimo a Parigi in un incontro con i ministri degli Interni degli altri paesi europei”. Ma alla Chiesa e agli organismi di volontariato una simile prospettiva non piace per niente. La replica al ministro arriva attraverso Radio Vaticana. Monsignor Perego parte dai rimpatri di rom decisi dalla Francia: sono “illegittimi”, dice, perché “riguardano sostanzialmente persone che hanno il diritto di movimento in Europa e d’insediamento”. Per cui anche in Italia, avverte, sarebbe “illegittimo” fare altrettanto, anche nei riguardi di altre minoranze etniche europee. “Questi rimpatri - spiega il direttore di Migrantes - vanno a toccare indistintamente soprattutto la popolazione rom, senza invece, valutare con attenzione quali sono i problemi”. Secondo monsignor Perego, “la Francia purtroppo ha seguito la strada dell’Italia sull’espulsione indiscriminata dei rom che di fatto ha generato solo nuovi campi abusivi, abbandono e sostanziale annullamento di tutta una politica sociale che era stata fatta per la scolarizzazione dei bambini e per l’inserimento”. Invece di pensare ad inasprire le espulsioni, per la Cei sarebbe meglio pensare a “costruire nuovi percorsi legislativi che portino alla cittadinanza anche per le minoranze non riconosciute come sono, appunto, quelle dei rom”. Un percorso, esorta il direttore di Migrantes, che “premi soprattutto i bambini che nascono in Italia o che sono già nati nel nostro paese, ma che favorisca anche l’integrazione e l’assunzione di responsabilità”. Una esortazione sulla quale, a parere dei vescovi della Cei, dovranno confrontarsi istituzioni, partiti politici, rappresentanti del governo, anche se - al di là del preannunciato giro di vite di Maroni - le notizie delle ultime ore vanno in tutt’altra direzione. Come si evince da un comunicato del ministero degli Interni che ha reso noto proprio ieri che nel corso di questa settimana sono stati rimpatriati, con diversi voli aerei, 32 extracomunitari clandestini, soprattutto algerini e nigeriani, rintracciati sul territorio nazionale. Un pugno duro messo sotto accusa, non solo dalla gerarchia ecclesiale, ma anche dai partiti dell’opposizione. “La tolleranza zero - lamenta il senatore Stefano Pedica dell’Idv - non è degna di un paese democratico. Il ministro Maroni plachi le sue smanie xenofobe ed i suoi falsi principi di legalità”. Un no alle “forzature delle norme comunitarie come vorrebbe Maroni”, arriva anche dai deputati del Pd Enrico Farinone ed Enrico Gasbarra (“Giusto il monito della Cei: la Lega svela il suo vero volto di divisione, intolleranza, prepotenza”). In appoggio a Maroni, interviene, invece, il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, il quale pur non dichiarandosi contrario all’integrazione dei rom sostiene che chi “intende muoversi nella direzione opposta a quella del presidente Sarkozy o quella annunciata dal Viminale” favorirà “mendicità o atti illeciti o lo sfruttamento dei minori come in troppi casi è accaduto” in Italia ed in Europa.