Giustizia: “riempire le carceri”… l’unica promessa elettorale che viene sempre mantenuta Alto Adige, 20 agosto 2010 “Quando l’odio diventa codardo se ne va mascherato in società e si fa chiamare giustizia” (Arthur Schnitzler). Si sta discutendo l’esame del disegno di legge riguardante l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno. Per evitare il sovraffollamento. Non che ci fosse bisogno di una legge per applicare altre leggi, perché se la Magistratura di sorveglianza applicasse le misure alternative, le galere italiane non sarebbero stracolme. E poi perché non dare una possibilità anche a quei detenuti che sono da tanti anni in carcere? Ci sono uomini da più di vent’anni chiusi fra quattro mura, che fare di questi uomini? Sono anch’essi “recuperabili”, forse più di quelli che hanno da fare un anno e che sono dentro da pochi mesi. Questo governo ha riempito le carceri per mantenere l’unica promessa elettorale del suo programma politico. Cosa che probabilmente farà anche il prossimo governo di destra, o di sinistra se vincerà le prossime elezioni. Sia il centrosinistra che il centrodestra sono d’accordo solo su una cosa: riempire le carceri come delle scatole di sardine e usare l’emergenza mafia per continuare a prendere voti. Per sconfiggere il sovraffollamento delle galere italiane, non serve costruire nuovi carceri, basterebbe svuotarle. E per svuotarle basterebbe cambiare le regole sociali. Il carcere in Italia non è altro che lo specchio di fuori, dell’ingiustizia, della sofferenza, dell’emarginazione, della morte e degli avanzi della società perbene e disumana. Giustizia: il Coordinamento garanti chiede l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti Comunicato stampa, 20 agosto 2010 L’istituzione dei Garanti dei diritti dei detenuti a livello comunale, provinciale e regionale, rappresenta l’unica novità positiva degli ultimi anni in materia penitenziaria, e ha ottenuto il pieno riconoscimento con la modifica dell’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario che contempla anche il Garante, con riferimento al territorio di cui l’ente che l’ha emanato è espressione, fra quei soggetti che possono visitare gli istituti penitenziari senza necessità di preventiva autorizzazione, e, anche alla luce dei recenti tragici episodi verificatesi nelle carceri del Paese, è necessario perseguire l’obiettivo dell’istituzione di un Garante nazionale dei diritti dei detenuti che possa contribuire a dare attuazione al dettato costituzionale della finalità rieducativa della pena. Nel delicato rapporto fra il nostro sistema di esecuzione della pena e la garanzia dei diritti fondamentali delle persone che si trovano in luoghi di privazione della libertà personale, considerata la drammaticità della realtà carceraria, pare non più differibile da parte dell’Italia l’esecuzione della risoluzione Onu 48/134 del 1993, per l’istituzione di una figura nazionale di garanzia e controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, rispetto alla quale diversi sono i progetti di legge depositati, anche dalla scorsa legislatura. Va inoltre ricordato che il protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura del 2002, sottoscritto, ma purtroppo non ratificato dall’Italia, prevede che entro un anno dalla ratifica il paese firmatario debba dotarsi di un organismo indipendente di controllo e ispezione sui luoghi di detenzione. Anche di recente, come è noto, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha chiesto spiegazioni al nostro Paese. Il Coordinamento nazionale dei Garanti territoriali, che ha provveduto ad approfondire l’analisi delle varie proposte di legge condensandole in un unico disegno di legge, ha da tempo sottoposto alle forze politiche tutte, senza esito, un proprio testo nell’ambito del quale, fra i tratti salienti dell’organismo di vigilanza e monitoraggio munito del potere di accedere in maniera incondizionata ai luoghi di privazione della libertà personale, emergono i requisiti della collegialità e dell’indipendenza, essendo prevista una designazione di tipo parlamentare, con la previsione di un continuo raccordo con i Garanti territoriali presenti nelle realtà locali. I Garanti chiedono con forza al Parlamento di considerare una priorità l’introduzione di un organo di garanzia e di controllo a tutela delle persone ristrette con una competenza territoriale su scala nazionale, che costituirebbe un primo importante segnale di una volontà politica e di governo finalmente attenta al rispetto della dignità e dei diritti inviolabili delle persone. Peraltro appare indifferibile che venga data una uniforme disciplina alle figure del Garante, come già richiesto all’Anci, con previsione espressa di inserimento negli statuti comunali e provinciali, per evitare che le figure scompaiano addirittura in comuni come Roma, nonché di nomina tramite i consigli eletti dai cittadini, come garanzia di maggior terzietà, nonché uguale e razionale disciplina di proroga per evitare quanto successo a Milano e ancor di più a Bologna. L’istituzione del Garante nazionale significherebbe anche, per il futuro, il superamento della già verificatasi attribuzione di competenze in materia penitenziaria ai difensori civici degli enti territoriali, rispetto alla quale il Coordinamento ha da tempo espresso piena contrarietà, essendo evidente che la materia carceraria ha una specificità che richiede competenze altrettanto puntuali, a meno che non si vogliano figure di Garanti non capaci di esercitare davvero controllo e svolgere ruolo di promozione e denuncia. Si tratta di una scelta politica ben precisa, e non a caso nel protocollo addizionale della Convenzione contro la Tortura è richiesta una competenza settoriale per le figure di garanzia. Il Ferragosto nelle carceri ha evidenziato ancora di più l’arretratezza del nostro Paese nell’assicurare condizioni di vita dignitose, ma anche che dall’iniziativa dell’anno scorso ad oggi la classe politica, a parte lodevoli iniziative, non è stata in grado di varare neppure un modesto provvedimento legislativo per la detenzione domiciliare per chi ha un residuo pena inferiore ad un anno, quando da più parti, con molte ragioni, si riparla di indulto. Avv. Desi Bruno Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna Coordinatrice Nazionale Garanti Territoriali Giustizia: Renato Curcio ed il carcere come “discarica per gli inutili” Brescia Oggi, 20 agosto 2010 “Il carcere è un concetto complesso, composto da numerose variabili invisibili all’opinione pubblica, che portano a un annientamento dei detenuti e della loro dignità”. Si è espresso così Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse e oggi scrittore e direttore della cooperativa editoriale “Sensibili alle foglie”, nell’incontro di cui è stato protagonista ieri sera alla festa di Radio Onda d’urto su “Il carcere discarica e l’attuale deriva delle istituzioni totali”. Curcio ha parlato di un sistema carcerario, quello italiano, sempre più alla deriva e con problematiche che vanno dal sovraffollamento, questione spinosa che riguarda da vicino anche le carceri bresciane di Verziano e di Canton Mombello - in Italia i detenuti sono più di 68mila per 44mila posti - ai suicidi, 41 dall’inizio dell’anno, fino all’abuso di sostanze che annullano i detenuti. Secondo Curcio, “il carcere è una discarica pubblica, in cui si gettano quegli individui che vivono sotto una certa soglia di consumo e sono considerati inutili dal sistema capitalistico”. La precarietà da lavorativa diviene sociale, e una parte della società - quella più povera e in difficoltà - è “gettata” dentro questo contenitore che è il carcere per nasconderla, come si fa con la polvere sotto al tappeto. Ma anche all’interno degli stessi istituti di pena, ricorda Curcio, ci sono delle differenze sostanziali: per esempio, il regime di detenzione denominato “41 bis” è accettato dalla società italiana perché punisce chi si macchia di reati gravi, come quelli legati alla mafia, “ma oltre a negare il godimento di diritti fondamentali, è anche considerato alla stregua della tortura da parte degli Usa. E lo stesso capita per i manicomi giudiziari, che non sono stati eliminati nemmeno dalla legge Basaglia: è un sistema di tortura invisibile, ma sono in molti a doverlo patire”. Anche Mirko Mazzali, avvocato milanese che opera a stretto contatto con il mondo del carcere, sostiene questo punto di vista: “La situazione italiana è di paurosa arretratezza. Alcune leggi “carcerogene”, dalla Fini-Giovanardi alla Bossi-Fini, sono classiste, perché puniscono solo i diversi ed i più deboli. È per questo - nota Mazzali - che gli stranieri riempiono le carceri, mentre chi ha soldi e potere ne rimane sempre fuori anche se delinque”. Curcio ha poi puntato il dito sui Centri di identificazione ed espulsione - tredici in tutta Italia, ma il governo vuole aumentarli -, che a suo dire sono “la rivisitazione moderna dei campi di concentramento nazisti. Non si assiste a nessuno sterminio, ma i migranti sono reclusi per sei mesi senza che abbiano commesso alcun reato, e poi lasciati sulla strada senza documenti, soldi e diritti: è un annullamento della persona, uno “smaltimento” senza costi di individui classificati come clandestini e sfruttati dal mercato nero”. E tutto ciò è ancor più grave nel caso dei rom, che sono ghettizzati solo in base a preconcetti e alla loro etnia: “Un chiaro sintomo - ragiona Curcio - della politica dell’annientamento di questi tempi”. Il risultato è una lotta per la sopravvivenza nel totale disinteresse da parte della società media italiana: “Una società di persone mute in cui la paura è trasformata in voti - ha concluso Curcio -, indifferente e quindi complice dell’auto annientamento dei più deboli”. Giustizia: Meloni (Clemenza e Dignità); nelle carceri tanta sofferenza inutile Img Press, 20 agosto 2010 Il corrispettivo del male perpetrato alla società, attraverso la commissione di fatti di reato, attualmente è dato dalla sofferenza psichica e fisica patita dal reo durante il tempo di privazione della sua libertà. E’ quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. “Si tratta, però, - prosegue - di un finto corrispettivo che in realtà cela solo le esigenze di un monito e di una generale dissuasione dal compiere fatti contrari alla legge. Difatti, queste sofferenze individuali, - sostiene - sono solo fini a se stesse, tutt’al più possono soddisfare i più intimi bisogni di vendetta delle persone direttamente offese dal reato, ma non costituiscono un autentico corrispettivo per la comunità, non hanno alcuna capacità di soddisfare e di risarcire la società del male complessivamente patito. Ai fini della pacifica convivenza civile, dello sviluppo e dell’utilità collettiva, - osserva - quella privata disperazione e quella sofferenza individuale sono ininfluenti, si tratta di una disperazione e di una sofferenza del tutto sterili e inutili. Oltretutto, - dice Meloni - sempre a voler sottolineare la finzione di tale corrispettivo, si impiegano ingenti risorse pubbliche e sempre più se ne impiegheranno, proprio per mantenere questo regime di inutile sofferenza. Per risarcire veramente la società del male patito, per meritare la riabilitazione, la piena riammissione all’interno della società, - aggiunge – è necessario trasformare la pena in un comportamento attivo, in una sofferenza riparatrice, in una azione positiva e relativo vantaggio per tutti gli altri cittadini che si sono mantenuti onesti. In tanti casi, - rileva - il lavoro intellettuale o manuale, prestato gratuitamente per le tante esigenze della collettività, potrebbe avere una funzione perfettamente riparatrice del male perpetrato, ristabilendo la giustizia. Il carcere – conclude - certamente non potrà mai sparire dall’orizzonte punitivo, ma ormai per non tradire il progresso e il nostro cammino di civiltà, dovrebbe rimanere solo per i reati gravi e per i soggetti che siano realmente pericolosi”. Lettere: dopo il “pellegrinaggio” nelle carceri i parlamentari passino dalle parole ai fatti di Achille della Ragione Il Riformista, 20 agosto 2010 Anche quest’anno a ferragosto si è ripetuto il mesto rito del pellegrinaggio dei parlamentari ai penitenziari. All’iniziativa dei radicali, passata sotto silenzio sulla stampa, questa volta hanno aderito in 200. I parlamentari si sono recati non solo nelle grandi galere come Poggioreale, Regina Coeli, Ucciardone, ma hanno ispezionato anche piccole strutture, scoprendo, ad esempio, che la ricettività più assurda, meno dello spazio in una cuccia di un cane, la si trova a Lucca, dove per ogni recluso in cella è disponibile meno di due metri quadrati. E poi un interminabile elenco di carenze, tutte già ben note ed alcune che gridano vendetta e meriterebbero di-essere portate davanti alle corti di giustizia europee: sovraffollamento record, condizioni igieniche disastrose, suicidi a catena per disperazione, personale di custodia insufficiente, mentre non si applicano pene alternative, mancano progetti per ammettere a un utile lavoro esterno e la giustizia, sempre più lenta, tollera che la metà dei reclusi sia in attesa di giudizio e di conseguenza innocente, se la Costituzione non è carta straccia. Bisogna urgentemente passare dalla teoria alla pratica Alla ripresa dei lavori parlamentari vengano presentate serie proposte bipartisan. Udine: è morto il detenuto di 35 anni che si era impiccato in cella lo scorso 5 agosto Agi, 20 agosto 2010 Ramon Berloso, il goriziano di 35 anni reo confesso dell’omicidio di due escort, è morto questa mattina alle 5.45 all’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. Berloso era stato ricoverato in condizioni disperate il 5 agosto dopo che nel carcere di via Spalato a Udine, in cella di isolamento, aveva tentato il suicidio legandosi attorno al collo un lenzuolo appeso poi alle inferriate. Un agente della Polizia penitenziaria si era accorto del gesto disperato e lo ha tratto in salvo. Subito è stato accolto in terapia intensiva nel nosocomio udinese dove era stato posto in coma farmacologico. Poi era sopravvenuta la morte cerebrale. Berloso ha lasciato tre lettere dirette ai familiari e a una amica brasiliana, giustificando il suo comportamento. Dopo serrate indagini il giovane era stato fermato nella notte del 20 luglio dalla Polizia ferroviaria nella stazione di Padova ed era stato condotto in Questura a Udine. Interrogato, l’uomo - condannato in passato per la morte di un giovane durante una rissa - aveva cominciato a fare le prime ammissioni indicando la zona, sulle rive del fiume Torre, dove aveva sepolto i cadaveri di Ileana Vecchiato, 28 anni originaria di Marcon e Diana Alexiu, escort romena di 24 anni con le quali si era incontrato dopo contatti via Internet. Le condizioni di Ramon Berloso in questa ultima settimana dal punto di vista clinico erano state paragonate a quelle di Eluana Englaro. Il 35/enne goriziano reo confesso di aver ucciso due escort, dopo il tentativo di impiccagione nella cella del carcere, era entrato in coma vegetativo con una situazione clinica che si era stabilizzata su questo livello ed è per questo che la Procura di Udine stava probabilmente pensando alla sospensione del procedimento penale. A questo proposito gli inquirenti avevano fatto il punto della situazione anche con i medici e stavano valutando l’applicazione degli articoli 70 e 71 del Codice di procedura penale: il secondo riguarda la sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato, che al comma 5 richiama l’articolo precedente riferito al procedimento che è nel corso delle indagini preliminari. Berloso avrebbe dovuto lasciare a breve la terapia intensiva per essere trasferito in una Rsa in cui, questa volta senza vigilanza, avrebbe continuato la sua esistenza. La morte, sopraggiunta questa mattina alle 5.45 all’ospedale di Udine, pone uno stop definitivo ad ogni procedura e atto nei suoi confronti, anche se le indagini - sostengono gli inquirenti - non si fermeranno se non altro per appurare se la mano di Berloso ha inferto anche altri colpi mortali oltre contro le due escort uccise. Modena: il procuratore capo; carcere dovrebbe rieducare, ma il “S. Anna” è discarica sociale La Gazzetta di Modena, 20 agosto 2010 Se quella di un carcere deve essere, come recita la Costituzione, una funzione rieducativa, allora al Sant’Anna è sbagliata l’insegna esterna. Al posto di carcere è più consono apporre la qualifica di “discarica sociale”, alla luce solamente dei relativi freddi numeri. “Il Sant’Anna è una sorta di discarica sociale, dove vengono relegate quelle problematiche che non trovano spazio nella società”. Vito Zincani, procuratore capo della Repubblica di Modena, non gira attorno al problema e dopo una visita alla casa circondariale di Modena l’altra mattina, traccia un quadro desolante. Una visita in sordina, senza clamori, con l’intenzione di vedere da testimone diretto quel che succede dietro le sbarre. E i numeri, dicevamo, sottolineano ancora una volta una situazione di forte degrado. Al Sant’Anna ci sono 456 detenuti in celle che ne dovrebbero accogliere solo 221, ben oltre la cosiddetta “tolleranza” stimata in 400 (che di per sé dovrebbe rappresentare l’emergenza e non la regola). Sono 431 gli uomini, 25 le donne, il 68% è rappresentato da cittadini stranieri; 171 reclusi hanno problemi di tossicodipendenza; un quarto dei reclusi complessivamente è in attesa di giudizio. Una condizione quella dei detenuti che si riflette, in modo altrettanto negativo, su chi esercita le funzioni di custodia: gli agenti penitenziari sono 172 quando la pianta organica ne prevede 226. In più la struttura carcere vede interventi di manutenzione che hanno portato alla chiusura temporanea della sezione alta sicurezza. “Al di là dei principi costituzionali che vorrebbero le carceri un luogo di riabilitazione, la realtà - ribadisce Zincani - è che il Sant’ Anna è diventato una discarica sociale”. Inoltre, ha riferito Zincani, tantissimi sono in carcere per periodi brevi e medio brevi. Ed è risaputo, è un dato di fatto, che le pene brevi sono controproducenti, quasi inutili: non si fa in tempo ad innescare una complessiva procedura di ingresso che è già il tempo di avviare quella relativa alla uscita. E poi chi entra tronca, varia le relazioni con l’esterno, rompe col mondo del lavoro, stravolge i rapporti sociali e famigliari. E spesso si trasforma in staffetta per la malavita, entrando ed uscendo “al servizio” di gang più o meno organizzate. Il capo della Procura di Modena porta ancora un dato al suo ragionamento: nel 2009 le traduzioni, ossia gli spostamenti fuori e dentro al carcere, sono stati 1896, il 30% per motivi sanitari. “Così non può andare, è uno stato di crisi tale che non può essere sottovalutato e che la Procura di Modena non può certo sottovalutare né ignorare”, afferma. Zincani rende atto ai parlamentari modenesi di avere portato il problema e le dimensioni del fenomeno all’attenzione locale e del Governo. Giusto quindi sollecitare chi di dovere per quanto possibile, l’attenzione sul problema è giustamente alta. “Ma servono soluzioni alternative alla carcerazione, soluzioni deflattive dello statuto detentivo - sostiene Zincani - e al tempo stesso un ripensamento complessivo sulla normativa penale”. Non più tardi di quindici giorni fa, dopo un polemico botta e risposta tra il sen. Barbolini (Pd) e il consigliere regionale Leoni (Pdl) sugli organici di S. Anna, i sindacati di polizia penitenziaria avevano sottolineato: “Il clima creatosi con queste polemiche, puramente “propagandistiche”, non fa che sfiduciare l’attività all’interno del penitenziario. Invitiamo i politici modenesi ad una attenta riflessione sul tema sicurezza, non serve a nulla dare i numeri”. “Subito il garante dei detenuti” Trento: Civico (Pd); favorire le misure alternative e istituire subito il garante dei detenuti Il Trentino, 20 agosto 2010 Favorire le misure alternative al carcere e istituire subito il “garante dei detenuti”. Sono le proposte che il consigliere provinciale Mattia Civico (Pd) rilancia all’indomani delle visite di Ferragosto in carcere. Una situazione che anche a Trento e Rovereto è ormai di emergenza, con celle sovraffollate e condizioni disumane. “Dobbiamo impegnarci perché queste occasioni servano a migliorare le condizioni nei penitenziari, altrimenti restano solo di facciata”, incalza Civico. Sabato ad entrare in carcere è stato il senatore Giacomo Santini (Pdl), domenica l’onorevole Laura Froner e la consigliera provinciale Sara Ferrari (Pd). All’uscita tutti e tre hanno raccontato di una situazione intollerabile, con celle che ospitano il doppio dei detenuti rispetto alla capienza, strutture fatiscenti, carenza di agenti di custodia. Quel personale che manca per poter aprire il nuovo carcere di Spini, che potrebbe ospitare 244 detenuti. “Le condizioni di vita in carcere sono al di sotto degli standard di un paese che si definisce democratico”, denuncia Mattia Civico, che su questo tema si batte da anni. “Oggi, dopo un’impressionante scia di suicidi, il grido di sofferenza è arrivato finalmente all’opinione pubblica. Ma per far sì che le visite di Ferragosto non siano un’operazione-spot, è importante che da esse scaturisca una proposta concreta per migliorare la situazione”. Un contributo, secondo il consigliere che ha presentato un disegno di legge a firma del gruppo Pd, è la creazione del garante dei detenuti, già operante in molte Regioni. Una figura che ha tra i suoi compiti quello di incontrare i detenuti, esercitare funzioni di vigilanza, operare insieme alle istituzioni per assicurare il diritto alla salute, all’affettività, alla qualità della vita, all’istruzione e al lavoro, per favorire il reinserimento sociale. “Il sovraffollamento, la fatiscenza degli edifici e la carenza di personale che scandalosamente a Trento impedisce di aprire il nuovo carcere - osserva Civico - ledono i diritti dei detenuti. In Italia vige ancora la norma di ispirazione beccariana per cui il carcere serve a reintegrare chi ha commesso un reato nella società civile”. E per ottenere questo, incalza l’esponente del Pd, occorre puntare con forza sulle pene alternative alla detenzione: “L’80% dei detenuti è straniero e difficilmente accede alle misure alternative perché non ha un domicilio”. Infine, sull’apertura del nuovo carcere di Spini, Civico è netto: “Siamo pronti a una battaglia bipartisan per sollecitare il governo ad assumere gli agenti necessari. Il nuovo carcere rappresenta un’occasione di realizzare condizioni vivibili e opportunità di lavoro e formazione che favoriscono il reinserimento”. Rovigo: Cgil; in carcere personale sanitario insufficiente e ora d’aria non sempre garantita Il Gazzettino, 20 agosto 2010 Ore 11 di ieri, il carcere di via Verdi come sempre è sovraffollato. È estate, tempo di ferie e il personale è più ridotto del solito. Scatta l’allarme, un detenuto vuole farla finita. Un sovrintendente della polizia penitenziaria ed un ispettore capo, sbirciando tra le grate di una cella del piano terra, vedono un uomo con attorno al collo le lenzuola della branda con i piedi su uno sgabello. È questione di attimi. Fanno irruzione all’interno della stanza, lo afferrano di peso mentre sta per spostare il punto di appoggio e tagliano il lenzuolo. Il detenuto è salvo per miracolo ed è stato visitato dal medico del carcere. Il dramma dell’extracomunitario, di 29 anni, che si trovava in cella da solo, era maturato per una condanna di due anni che riteneva eccessiva per un decreto di espulsione non ottemperato e reati minori. Era convinto poi di essere sieropositivo, nonostante gli esami avessero dato esito negativo. Tutto è accaduto proprio mentre si teneva un incontro, già programmato, promosso dalla Fp Cgil, con il prefetto Aldo Adinolfi, il presidente della Provincia Tiziana Virgili e il sindaco di Rovigo Fausto Merchiori per denunciare lo stato di emergenza del carcere. Una situazione che si trascina da anni, ma che per la prima volta vede coinvolti anche gli enti locali, che si sono detti disponibili a farsi portavoce dei disagi non solo dei detenuti, costretti a convivere in celle sovraffollate, ma anche degli agenti, in numero insufficiente a garantire la sicurezza e a poter godere di una qualità di vita e di lavoro dignitosa e umana. “Lavoriamo in piena emergenza ogni giorno, tanto che è diventata la normalità - sottolinea il segretario Fp Cgil Giampietro Pegoraro, che ha incontrato ieri le autorità -. Fortunatamente abbiamo trovato una sponda, oltre che nel prefetto, anche nel sindaco e nel presidente della Provincia che si sono fatti carico del problema”. Sono 118 (che casualità, proprio il numero dell’emergenza) i carcerati attualmente custoditi in via Verdi, di cui 21 donne, in una struttura che ne potrebbe contenere solo 66, “ammassati” in 5 o 4 in celle rispettivamente da 3 e 2 e in quelle blindate monoposto, con solo una piccola grata e senza aria condizionata, in numero doppio, controllati e vigilati solo da 59 agenti. Spesso si sono verificati segnali di protesta da parte dei detenuti e solo grazie alla pazienza, disponibilità e soprattutto professionalità delle unità di polizia penitenziaria si è potuto evitare la rivolta. Tra quelle mura non si riesce nemmeno a garantire il diritto all’ora d’aria per carenza di personale. E ad aggravare la situazione, l’insufficienza di personale medico e paramedico e il vuoto di assistenza sanitaria. La domenica è garantita la presenza solo di infermieri dalle 7 alle 9 e nel pomeriggio non c’è nemmeno il medico. Da quando le funzioni sono passate alle Ulss due anni fa, il disagio è aumentato in un ambiente perennemente a rischio. Così il presidente della Provincia Tiziana Virgili ha garantito che convocherà al più presto un tavolo alla presenza del direttore generale dell’Ulss 18 Adriano Marcolongo per trovare soluzioni che migliorino il servizio. Firenze: un’interrogazione dei consiglieri Calò e Verdi sull’Opg di Montelupo Comunicato stampa, 20 agosto 2010 Sovraffollamento, degrado e fatiscenza dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. In una situazione di precarietà igienica e sanitaria dell’Istituto e in una condizione di forte precarietà lavorativa è impossibile assicurare un servizio dignitoso. I Comunisti chiedono i tempi per la chiusura della struttura così come annunciato dalla Regione Toscana. Da quando è stata approvata la legge Basaglia si chiamano Ospedali Psichiatrici Giudiziari ma sono sempre gli stessi manicomi criminali di una volta. In Italia sono sei, ci sono rinchiusi in 1500 e il 40% di loro non ci dovrebbe stare ma anche quando la pena è finita, gli viene prorogato il soggiorno, spesso all’infinito. Le famiglie non ci sono o li rifiutano e i territori non li accolgono. Così vivono in nove in una cella, lenzuola luride come i bagni, l’acqua tenuta in fresco nella tazza del cesso, legati se sgarrano, con lo psichiatra a disposizione per meno di un’ora al mese. Una delle tre strutture che andrebbero chiuse subito è Opg. di Montelupo Fiorentino, sono 170 pazienti in uno stabile degradatissimo, nella provincia di Firenze. La denuncia viene dalla commissione d’inchiesta del Senato sul servizio sanitario nazionale, e sono i dati di una serie di ispezioni a sorpresa, svolte tra giugno e luglio, tra gli Opg. Nazionali, tra cui appunto Montelupo. Si tratta di un Istituto sovraffollato e fatiscente, le cui difficoltà strutturali e le discutibili condizioni igieniche sanitarie dell’edificio sono state evidenziate dal Prc nel corso degli anni e le cui criticità, nonostante il forte impegno dei lavoratori che operano in una situazione di precarietà contrattuale e lavorativa, diventa ogni giorno più insopportabile. Le pastoie burocratiche e amministrative ministeriali tipiche di ogni penitenziario e le pessime condizioni lavorative rendono problematici i percorsi di cura ed assistenza nonché tutte le necessarie attività di recupero e reinserimento. Anche noi condividiamo il giudizio espresso da alcuni collettivi anti psichiatrici presenti nel paese che definiscono gli Opg come delle zone del silenzio le quali evidenziano l’uso politico della psichiatria. Zone nelle quali si spinge sempre di più al consumo di farmaci e all’utilizzo dell’elettrochoc. Gli stessi poi evidenziano i pericoli che sono in agguato, da prede governo di cento destra, la predisposizione di una legge per portare il trattamento sanitario obbligatorio da 7 giorni a un mese. Il 5 marzo scorso il gruppo del Prc in Provincia di Firenze aveva presentato un’interrogazione su questo tema in cui si rilevava che anche a Montelupo la quasi totalità non è composta da detenuti in attesa di giudizio né da condannati in via definitiva, bensì da internati. L’internato, come è noto, non deve scontare una pena relativa ad un reato commesso, ma si trova in un Opg in ragione di una valutazione di pericolosità sociale da parte di un perito o di un esperto, comunque sempre su decisione di un giudice. Evidenziate quindi le condizioni in cui versa l’istituto nonché la forte precarizzazione in cui operano i lavoratori condividiamo quanto ha espresso l’Assessore Regionale Salvatore Allocca nell’aver annunciato la chiusura dell’Opg. entro l’anno. Ciò premesso gli scriventi consiglieri provinciali interrogano il Presidente della Provincia e l’Assessore competente di riferire: - sullo stato di affollamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo; - sullo stato di accoglienza e permanenza dei pazienti; - sui percorsi di cura e di assistenza sanitaria attivata agli internati; - sulle condizioni di lavoro degli operatori; - sulle criticità infrastrutturali esistenti nell’Istituto; se le Organizzazioni Sindacali di categoria hanno interessato la Provincia di Firenze sul tema dei diritti e delle condizioni di lavoro del personale impiegato. Altresì chiediamo quali sono le iniziative attivate dall’Amministrazione Provinciale in raccordo con il Comune di Montelupo e il Circondario Empolese al fine di affrontare e risolvere concretamente tutti i problemi ancora aperti nel suddetto Istituto, riferendo infine quali sono i tempi previsti per la chiusura dell’Opg. di Montelupo e quale sarà il futuro degli operatori e dalle varie professionalità presenti. Andrea Calò - Lorenzo Verdi Gruppo Prc - Pdci - Spc - Consiglio Provinciale - Provincia di Firenze Alghero: Melis (Pd); nel carcere una situazione esplosiva La Nuova Sardegna, 20 agosto 2010 Quella di Ferragosto è stata una giornata trascorsa in carcere per il deputato del Pd, Guido Melis, in visita alla struttura di via Vittorio Emanuele accompagnato da Irene Testa. Un gesto simbolico ma concreto: una verifica della difficile situazione del San Giovanni. Il parlamentare sassarese ha avuto così l’occasione per verificare di persona l’incredibile situazione di quello che era considerato un carcere modello, dove si svolgeva una intensa attività di professionalizzazione dei detenuti, con corsi di cucina, falegnameria, tipografia, con l’obiettivo di creare condizioni minime di base una volta pagato il debito con la giustizia e il ritorno nella vita civile. Guido Melis ha avuto la possibilità di constatare che quel carcere oggi non esiste più, al contrario, ospita 247 detenuti ai quali sono assegnati 92 agenti di custodia, l’organico del San Giovanni quando i reclusi erano poco più di un centinaio, ai tempi del carcere modello quando ancora si pensava alla riabilitazione come prevede lo stesso ordinamento. Una situazione esplosiva dove maturano disagi e sacrifici non comuni per il personale come recentemente denunciato anche da un sindacato di polizia penitenziaria. Molte tra gli agenti le assenze per malattie dovute a stress per gli eccessivi carichi di lavoro. Guido Melis ha incontrato la direzione dell’istituto di pena e visitato gli ambienti, intrattenendosi anche con i detenuti. Tra questi molti stranieri, tossicodipendenti, compresi alcuni ammalati di aids. Immigrazione: poche espulsioni e “detenzioni lunghe”, i Cie costano 200mila al giorno di Francesca Padula Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2010 Con diversi voli, prima di ferragosto, se ne sono andati 34 clandestini, tunisini e marocchini, senza permesso di soggiorno. All’inizio del mese la stessa sorte dell’espulsione è toccata ad altri 39, tutti nordafricani. Luglio si è chiuso conia partenza di oltre 100 immigrati irregolari. Ma nemmeno i rimpatri d’estate (mentre continuano gli sbarchi) hanno alleviato il malessere nei Centri di identificazione ed espulsione (ora Cie, gli ex Cpt) dove sono riesplose le proteste e le fughe: da Gradisca d’Isonzo fino a Trapani, dove è andata in scena una mini-evasione di massa (43 scappati, alcuni feriti e molti ritrovati). Sono soltanto i tempi di detenzione allungati dal pacchetto sicurezza fino a 180 giorni (sei mesi) a scatenare il fermento? Anche il premier Berlusconi ha paragonato i centri ai “campi di concentramento”. Stanze sovraffollate, ambienti degradati - accusano le associazioni - dove l’operaio immigrato che ha la sola colpa di aver perso il lavoro e non averne trovato un altro entro sei mesi rischia di trovarsi accanto a un ex detenuto. “Polveriere” costose, per la cui gestione lo stato spende 200mila euro al giorno. Oggi, come ad agosto 2009 - all’indomani dell’entrata in vigore del pacchetto sicurezza -, i centri per gli immigrati sono in fermento. Dall’inizio del mese, decine di stranieri irregolari incappati in un controllo e in attesa di espulsione, sono evasi o hanno tentato di farlo dai centri di Brindisi, di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), di via Corelli a Milano e di Cagliari. Fino all’ultima minievasione di massa, a Trapani (43 in tutto: alcuni feriti, molti rintracciati). Sono 13 i centri di identificazione ed espulsione (Cie, ex Cpt), che in tutta Italia sono in grado di ospitare poco più di 1.800 immigrati. Alcuni sono tornati sotto i riflettori per le proteste e le fughe di questi giorni: sono “polveriere” a rischio per le cattive condizioni di vita allungate dai nuovi tempi di permanenza (fino a sei mesi) o sono strutture destinate a sorgere in tutte le regioni, come annunciato e più volte confermato dal ministro dell’Interno Maroni? Lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, poco più di un anno fa, li ha definiti “molto simili ai campi di concentramento”. Le associazioni di solidarietà per i migranti protestano perché, soprattutto nei Cie, mancherebbero l’assistenza e le informazioni, le stanze sarebbero sovraffollate, gli ambienti degradati e spesso gli incensurati si ritroverebbero fianco a fianco con i pregiudicati. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, continua a sponsorizzare la politica di “una struttura in ogni regione”. Forte della sentenza di aprile della Corte costituzionale che stabilisce che “le amministrazioni locali non possono rifiutarsi di ospitare centri di espulsione”. Ma il braccio di ferro con le regioni continua anche perché non è facile trovare siti che rispondano ai requisiti di nuove costruzioni. La gestione di ogni struttura è affidata al prefetto che spesso, non avendo i mezzi e gli strumenti per rispondere alle esigenze quotidiane, ricorre a realtà esterne - la Croce Rossa, la Misericordia o altre onlus - attraverso regolare gara d’appalto. Mediamente, ogni straniero che si trova in un Cie, in un Cda o in un Cara, viene a costare allo Stato tra i 40 e i 45 euro al giorno, quindi nel complesso tra i 200 e i 25omila euro spesi ogni giorno. “La realtà è che si tratta di vere e proprie aree di parcheggio - spiega l’avvocato Guido Savio di Torino, membro dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) -. In queste strutture manca tutto: non ci sono gli educatori, non ci sono le attività tipiche per passare il tempo e imparare qualcosa. Tutte cose che si trovano in qualsiasi centro di detenzione. Gli stranieri passano le giornate - e anche i mesi - ad aspettare che la loro situazione si sblocchi e che vengano accompagnati fuori dall’Italia”. Non solo. I centri di identificazione ed espulsione, secondo l’avvocato Savio, “non hanno una funzione punitiva, né rieducativa”. Tutte ragioni che “si trasformano in un ottimo incentivo a scappare dalle strutture”. Le strutture che accolgono gli immigrati irregolari sono di tre tipi e sono tutti sparsi lungo il territorio nazionale, seguendo anche i flussi di stranieri. Ci sono 13 centri di espulsione e identificazione (Cie) che possono ospitare fino a un massimo di 1.814 immigrati irregolari in attesa di essere accompagnati fuori dal nostro paese. La massima concentrazione è al Sud, con tre strutture in Sicilia, due in Puglia è Calabria. Entro quest’anno, poi, dovrebbero sorgere altre strutture in Piemonte, Veneto, Toscana e Campania (nei pressi di Caserta, al posto di una caserma). E ancora. Tre strutture, per un totale di 2.054 posti, funzionario esclusivamente come centri di accoglienza (Cda). Altre cinque come centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara, massimo 998 posti-letto). Tre centri servono per il primo soccorso e l’accoglienza (Cpsa, 1.204 posti). Infine le strutture ibride - operano sia come Cda che come Cara -, che possono ospitare fino a un massimo di 2.337 immigrati. Nel Cie di via Corelli, a Milano, su 132 posti disponibili, attualmente sono ospitati 118 immigrati in attesa dell’espulsione. La maggior parte è costituita da uomini (79), seguono le donne (22) e i transessuali (17). Nel Cie di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), altro centro caldo di questi giorni, si trovano -124 stranieri su un massimo di 194 posti-letto. Al centro Serraino-Vulpitta di Trapani, dopo Ferragosto, era riuscita a fuggire quasi la metà degli immigrati ospitati. Attualmente la struttura ospita una trentina di stranieri ed è stata descritta da Medici senza frontiere come la peggiore in Italia (insieme a quella di Lamezia Terme) perché “totalmente inadeguata a trattenere persone in termini di vivibilità”. E che, proprio per questo, verrà chiuso - secondo il Viminale - entro quest’anno per lasciare, il posto a un edificio nuovo costruito alle porte della città siciliana. Ci sono altre situazioni a rischio. Come il centro di Brindisi Restinco, un’altra realtà calda negli ultimi giorni. Qui, secondo la denuncia di un consigliere pugliese, “i cittadini stranieri che hanno fatto richiesta per ottenere l’asilo politico condividono gli stessi spazi di quelli che sono in attesa di essere espulsi”. Immigrazione: cibo, igiene, strutture, Maroni si interessi della vita nei Cie di Italia Razzismo* L’Unità, 20 agosto 2010 Ha detto il ministro Roberto Maroni a Palermo: “Gli sbarchi di clandestini, dal 1 agosto 2009 al 31 luglio 2010, sono diminuiti dell’88%, passando da 29.000 a 3.499”. Tutto questo, grazie al pattugliamento del Mediterraneo svolto in cooperazione con le truppe libiche. Si chiede Maroni: perché non prendere a modello l’accordo tra Italia e Libia, che ha da poco compiuto un anno, e siglare intese simili, per esempio con la Grecia e la Turchia? Le coste dell’Adriatico, infatti, hanno registrato negli ultimi mesi un incremento degli sbarchi mostrando sia il cambiamento delle rotte, delle nazionalità e della composizione (molte donne e bambini) dei migranti, sia la debolezza delle politiche di lotta alla clandestinità dell’attuale governo. Ma i fallimenti, a quanto pare, non finiscono qui. Alcuni “ospiti” dei Cie di Gorizia, Milano e Brindisi, tra il 15 e il 16 agosto, si sono dati alla fuga. Questi fatti non sono una novità: uomini e donne che si ribellano per l’inadeguatezza delle strutture; per la scarsa igiene; per la somministrazione, a volte nel cibo, di psicofarmaci; per il prolungamento della permanenza da due a sei mesi che fa somigliare quel trattenimento sempre più a una forma di detenzione. Non è una questione da poco: quello che accade all’interno dei centri, le condizioni di vita e i diritti da garantire, dovrebbero interessare il ministro Maroni almeno tanto quanto gli accordi di amicizia con altri stati per evitare gli sbarchi. Investe molto, il governo, nella prevenzione che si risolve, però, quasi solo nella politica dei respingimenti - ma questo non lo solleva dall’obbligo di occuparsi di chi, da quel “controllo preventivo”, è riuscito a sottrarsi per cercare un’opportunità in Italia. * Italia-razzismo è promossa da: Laura Balbo, Rita Bernardini, Andrea Billau, Andrea Boraschi, Valentina Brinis, Valentina Calderone, Giuseppe Civati, Silvio Di Francia, Francesco Gentiloni, Betti Guetta, Pap Khouma, Luigi Manconi, Ernesto M. Ruffini, Iman Sabbah, Romana Sansa, Saleh Zaghloul, Tobia Zevi. Immigrazione: Mantovano (Pdl); per ora nessun altro Cie in Lombardia di Daniela Passini Avvenire, 20 agosto 2010 In pieno ramadan e in una città ancora semideserta, la Lega Nord si scaglia contro il consolato del Marocco di Milano e la sua “disorganizzazione” che costringe centinaia di persone ad aspettare il proprio turno per strada ogni mattina. Il capogruppo del Carroccio in Comune, Matteo Salvini, si è presentato ieri mattina in via Martignoni, una piccola via della zona nord immersa in un quartiere residenziale e sede del consolato e, di fronte alle telecamere e ai fotografi ha annunciato di voler inviare una lettera al ministro degli esteri Franco Frattini perché “inviti il consolato a organizzarsi meglio o andare da un’altra parte”. Movimentata da qualche spintone e parecchio nervosismo, la presenza del leghista Salvini è stata anche oggetto di contestazioni da chi era in coda e in attesa di entrare nella sede del Regno del Marocco per rinnovare il passaporto o sbrigare semplici pratiche burocratiche. “Al console-ha concluso l’esponente della Lega Nord - noi chiediamo di organizzare meglio il consolato. Non si possono tenere 300 persone fuori sui marciapiedi che sporcano, bivaccano e tengono bloccati ogni giorno 30 agenti delle forze dell’ordine”. E sempre in tema di immigrazione ma in riferimento ai recenti disordini al Cie del capoluogo lombardo e sulla proposta avanzata dal vicesindaco Riccardo De Corato per una nuova struttura a Malpensa, ieri, il sottosegretario agli interni Alfredo Mantovano ha fatto sapere che “Milano e la Lombardia al momento non sono una priorità. Non è in programma la costruzione di alcun centro di identificazione”. “Nella regione c’è già la struttura milanese di via Corelli - ha aggiunto Mantovano - e certamente prendiamo sul serio le parole di Riccardo De Corato, vicesindaco della seconda città italiana, ma onestamente non vediamo al momento la necessità di raddoppiare i Cie con una struttura magari a Malpensa. Se proprio un giorno si dovesse deciderne di realizzarne un altro, allora vedrei meglio un Centro di identificazione in una provincia ad alta densità di immigrati e di irregolari, com’è quella di Brescia”. Droghe: Serpelloni, il neuro-scienziato della domenica di Olimpia de Gouges Fuoriluogo, 20 agosto 2010 Il capo del Dipartimento antidroga interviene di nuovo sul Manifesto, stavolta in polemica con gli scritti di Giuseppe Bortone e Susanna Ronconi in merito ai test antidroga per i lavoratori. Bortone e Ronconi sostengono che le attuali metodiche di accertamento per le droghe illegali sono fuorvianti perché non distinguono fra l’uso, perfino remoto, di una sostanza e lo stato di alterazione legato al consumo recente, capace di compromettere le capacità lavorative. Ma - controbatte il Dipartimento - tale distinzione non ha senso perché “la ricerca nel campo delle neuroscienze ha dimostrato la compromissione delle funzioni cognitive superiori..anche dopo mesi dalla sospensione dell’uso di sostanze”, nonché “l’alterazione del normale metabolismo del lobo prefrontale..sede..di tutto ciò che ci distingue fondamentalmente dagli animali”(sic!) e “proprio per questo esiste una legislazione che afferma che l’uso di sostanze è illegale”. Le certezze del Dipartimento sono strabilianti, tanto quanto l’assoluta genericità delle sue affermazioni. Le “alterazioni” del cervello sono uguali per tutte le droghe? Senza differenze nei modelli di consumo? E si può sapere se, ad eventuali “alterazioni” del cervello corrispondano sintomi di un qualche rilievo in ambito clinico (tali da giustificare l’allontanamento da alcune mansioni lavorative)? Quanto è sviluppata la ricerca in questo senso? Ancora: poiché si parla genericamente di “sostanze”, dobbiamo pensare che anche l’uso di consumare vino ai pasti, seppure in quantità moderata, “alteri il normale metabolismo del lobo prefrontale” impedendoci “di stimare correttamente il pericolo”? Oppure per l’alcol questo non vale, non perché sia meno rischioso dal punto di vista della salute pubblica, ma semplicemente perché è legale? Dobbiamo forse pensare che il nostro neuro scienziato della domenica ignori le più recenti classificazioni di rischio delle sostanze, a cominciare da quella di Bernard Roques che pone l’alcol (insieme a eroina e cocaina al primo posto) e la cannabis all’ultimo? E poiché soprattutto di cannabis si tratta (il 64% dei lavoratori risultati positivi), raccomando caldamente al nostro la lettura del Global Cannabis Commission Report, appena uscito presso la Oxford University Press, frutto del lavoro dei maggiori esperti a livello mondiale; soprattutto del capitolo dove si analizza l’impatto dell’uso di cannabis sulla struttura e le funzioni cerebrali, scritto col contributo di Les Iversen (neuro scienziato di tutti i giorni): si vedrà che le certezze domenicali devono fare i conti coi dubbi della restante settimana. Ultima osservazione. Nel primo intervento di Carlo Giovanardi (Manifesto, 27 luglio), veniamo definiti come “una frangia, esigua ed isolata” che porta avanti “una battaglia ideologica”. Poiché ogni nostro scritto è regolarmente chiosato dal Dipartimento, ci viene il sospetto di essere meno minoritari di quanto si vorrebbe. E che i nostri argomenti tocchino, ahimè, nervi scoperti. Arabia Saudita: giudice chiede di paralizzare il reo, su richiesta della famiglia della vittima Apcom, 20 agosto 2010 Un giudice saudita ha chiesto a due ospedali del Paese se sia possibile danneggiare chirurgicamente la colonna vertebrale di un uomo in modo da farlo rimanere paralizzato, come punizione per un’aggressione la cui vittima è rimasta invalida. L’ospedale locale, nella provincia di Tabuk, ha risposto che una simile operazione è possibile ma richiede un centro specializzato, mentre il King Faisal Hospital di Riyadh si è rifiutato di considerare l’ipotesi per motivi etici. Nonostante il governo tenti di scoraggiare alcune delle pratiche più estreme la sharia in vigore nel Regno permette infatti l’applicazione del principio dell’occhio per occhio, a volte rinunciando alla pena corporale in cambio di un indennizzo finanziario: la famiglia della vittima, Abdul-Aziz al Mutairi, ha difeso il proprio diritto di appellarsi alla legge islamica ed ha rifiutato qualsiasi transazione, dicendosi pronta a far effettuare l’operazione anche all’estero se fosse necessario. Secondo quanto reso noto da Al Mutairi l’assalitore era stato condannato a 14 mesi di prigione per poi essere liberato dopo sette mesi in seguito ad un’amnistia; attualmente lavora come insegnante. Svizzera: detenuto algerino fugge tre giorni prima del rilascio, è caccia all’uomo Apcom, 20 agosto 2010 Un detenuto di nazionalità algerina è fuggito dal carcere martedì scorso dopo un controllo medico all’ospedale Civico di Lugano. Singolare decisione dell’uomo che tre giorni dopo avrebbe terminato la pena detentiva e sarebbe stato regolarmente rilasciato. La notizia è stata rilasciata dal Dipartimento delle Istituzioni. Secondo la ricostruzione fornita dalla polizia, martedì pomeriggio intorno alle ore 14.30, il detenuto, di cui non sono state rese note le generalità, sarebbe stato accompagnato al nosocomio della città ticinese da un agente della struttura carceraria, che tuttavia si sarebbe allontanato dopo la conclusione della visita medica. L’uomo avrebbe quindi approfittato dell’assenza dell’agente di guardia per allontanarsi e far perdere le proprie tracce. Il dato curioso è che il recluso sarebbe legittimamente stato scarcerato appena pochi giorni dopo. Infatti, in una nota rilasciata dal penitenziario, si legge che “il detenuto stava terminando di scontare una pena di 138 giorni presso il Penitenziario cantonale della Stampa per soggiorno illegale, contravvenzione alla Legge sugli stupefacenti e falsità in documenti. Lo stesso sarebbe stato rilasciato venerdì 20 agosto al termine dell’esecuzione della pena”. La Polizia cantonale ha immediatamente iniziato la caccia all’uomo, tuttavia senza esito. Sono stati aumentati i controlli alle frontiere nel timore che l’evaso lasci il Paese. Le autorità hanno avvertito i cittadini che il fuggitivo non è da ritenersi pericoloso, perciò ha proibito la manifestazione di allarmismi di qualsiasi genere. Per l’eccessivo desiderio di evadere, adesso l’uomo sarà sottoposto a mandato di arresto e, qualora fosse preso, condotto nuovamente in prigione, con nuove accuse che penderanno sulla sua testa. Problemi in vista anche per l’agente di polizia penitenziaria che potrebbe essere accusato di negligenza e finanche di complicità.