Giustizia: nelle carceri situazione drammatica al limite della violazione dei diritti umani di Dani Pasqua www.dazebao.org, 17 agosto 2010 La condizione in cui versano le carceri italiane è critica e a confermarlo ci hanno pensato i Radicali dando vita, per il secondo anno consecutivo, all’iniziativa “Ferragosto in carcere”. L’intento era quello di far sentire la vicinanza della politica alle problematiche delle carceri italiane; su tutte, il sovraffollamento nelle celle e il personale ridotto, problemi quest’anno giunti ad un livello drammatico. Il risultato è che i politici riportano al “mondo civile” uno spaccato di vita quotidiana carceraria che non solo non può essere associabile ad un paese che si dice avanzato, ma che in alcuni casi potrebbe delineare una violazione dei diritti umani. Il Ferragosto in carcere, giunto alla seconda edizione, si è svolto tra venerdì 13 e domenica 15 agosto. Hanno aderito oltre 200, tra deputati, senatori, europarlamentari e consiglieri regionali di tutti gli schieramenti politici, ma anche magistrati di sorveglianza, presidenti di tribunali e procuratori generali. Parere positivo anche dalla Cei: “l’iniziativa é senz’altro un gesto concreto per dare rilievo a una condizione che oggi presenta particolari urgenze, come dimostra l’alto numero di suicidi che si sono susseguiti dall’inizio dell’anno”, ha detto al Foglio il portavoce della Cei, don Domenico Pompili. La Chiesa - ricorda il portavoce della Cei - è vicina ai detenuti tutti i giorni, con i suoi cappellani che assistono chi cerca di ricominciare a vivere”. Tutti i parlamentari che hanno visitato le carceri erano convinti di essersi trovati di fronte alla situazione peggiore, quindi viene logico capire come la situazione generale di tutte le carceri italiane sia disperata. “Sassari presenta la situazione carceraria più drammatica in Italia, tanto che in qualunque momento la Corte europea potrebbe condannare l’Italia per violazione dei diritti umani.” Hanno dichiarato il deputato Guido Melis e il senatore Gian Piero Scanu (PD) dopo aver visitato la casa circondariale di Sassari insieme alla presidente dell’associazione “Il detenuto ignoto”, la radicale Irene Testa che ha voluto ribadire “Le condizioni igienico sanitarie sono terrificanti e non stupisce che 57 detenuti si siano presi l’epatite”. La radicale Rita Bernardini ha detto dell’Ucciardone di Palermo “I detenuti vivono in condizioni disumane. Vi sono celle superaffollate - ha aggiunto - condizioni igienico sanitarie allarmanti, 700 detenuti contro i 430 previsti per regolamento, sporcizia, insetti, scarafaggi e topi ovunque”. Diretta conseguenza di questa esasperante condizione potrebbero essere i numerosi suicidi in carcere. L’associazione “Ristretti Orizzonti”, con il suo dossier “morire di carcere” fa sapere che tra il 2000 e il 2010 i morti in carcere sono stati oltre 1.700, di cui quasi 600 di suicidio (quasi un terzo). Nell’anno corrente, al 12 agosto 2010, le morti registrate sono state 112, di cui 41 suicidi (oltre un terzo). E la politica? Il ministro Alfano aveva deciso di mettere mano alla situazione promettendo nuovi interventi di edilizia penitenziaria; misure deflattive; aumento consistente dell’organico della polizia penitenziaria. Ma come la maggior parte delle promesse politiche, anche queste se le è portate via il vento e sono rimaste le buone intenzioni. Naturalmente non sono mancate le polemiche per alcuni partecipanti a questa iniziativa. In particolare la presenza di Marcello Dell’Utri e Nicola Cosentino ha dato vita ad una ridda di accuse e prese di posizione. Uno condannato a sette anni dalla corte d’Appello di Palermo, l’altro già raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, coinvolto in un’inchiesta che lo vede accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Entrambi iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Roma per la vicenda P3. Dell’Utri ha visitato il penitenziario di Como, Cosentino quello di Secondigliano. Leoluca Orlando (Idv) l’ha definita una partecipazione “Provocatoria. In virtù della loro impunità politica e di leggi ad personam - ha continuato - non hanno conosciuto e non conosceranno mai il carcere”. L’associazione Antigone aveva chiesto di “evitare di includere nel gruppo di autorevoli visitatori coloro che, stando alle sentenze, potrebbero esservi ospitati”. Ma a difendere i due ci hanno pensato i radicali, Bernardini in testa “Ottimo lavoro ispettivo”, e l’associazione “Il detenuto ignoto”, il cui segretario, Irene Testa, ha giustamente commentato “Chi ha problemi con la giustizia dovrebbe essere più motivato di altri a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri”. Giustizia: cosa faranno le istituzioni dopo le visite dei parlamentari nelle carceri? nulla! di Paolo Persichetti Liberazione, 17 agosto 2010 Il giorno di Ferragosto, mentre proseguiva l’iniziativa promossa dal Partito radicale che ha portato oltre 240 tra parlamentari (un numero mai visto prima d’ora), consiglieri regionali, operatori del settore,Garanti dei detenuti e magistrati, a visitare gli Istituti di pena, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha dato i numeri. In una conferenza stampa tenutasi a Palermo, dopo una riunione del Comitato nazionale per la sicurezza, il Guardasigilli ha snocciolato le ultime cifre sulla situazione in cui versano le carceri. 68.121 è il numero record delle presenze raggiunte (e destinate a salire ancora) per una capacità di accoglienza che è solo di 44.576 post. (già gonfiata a dismisura). Di questi, solo 37219 scontano una condanna definitiva, mentre 24.941 sono in custodia cautelare. Il ministro non lo ha detto, ma ben 14 mila sono i custoditi che non hanno subito ancora la benché minima condanna. 24.675 sono invece i detenuti di nazionalità straniera. Mentre in regime di 41 bis, il carcere duro, si trovano 681 persone, tra cui 3 donne. Alfano non ha mancato di evocare il fantomatico “Piano straordinario per le carceri” che - a suo dire procederebbe bene. Al Dap sarebbero “pronti a partire con l’edificazione di nuovi padiglioni e di nuovi istituti di pena”. Il ministro è uomo che ama ripetersi all’infinito. Tra le cifre dimenticate c’è anche il numero dei suicidi: 40 quelli riusciti e 73 i tentati. Dalle testimonianze raccolte tra i visitatori fuoriesce una quadro generale uniforme e drammatico, dovuto al sovraffollamento bestiale che aggrava ogni precedente carenza e situazione di crisi: dall’igiene, alla sanità, al vitto e sopravvitto, ai colloqui, alle ore d’aria, all’accesso alle misure alternative, al cosiddetto “trattamento” interno, cioè le ipotetiche offerte di studio, lavoro, corsi di formazione, attività di rieducazione e sportive. Non ce n’è più per nessuno in spazi che possono raggiungere le 810 persone per cella, addirittura più di 20 nei cameroni una volta destinati alle ore di socialità. Provate a immaginare una turca e un piccolo lavandino da condividere per due squadre di calcio, dove fare toilette, lavare le stoviglie, fare il bucato. Un piccolo televisore per tutti in luoghi dove si può sostare solo in branda. Non serve nemmeno vedere per capire il livello di degrado raggiunto. L’enorme numero di parlamentari entrato in visita contrasta con il disinteresse mostrato fino ad oggi in Parlamento sulla questione carceraria. Il Senato non è riuscito a votare nemmeno l’inutile legge sulla detenzione domiciliare. Un provvedimento che secondo i calcoli degli uffici dovrebbe favorire l’uscita dalle celle di meno di 2 mila persone. Un goccia d’acqua. Una presa in giro di fronte all’emergenza. Circostanza che ha suscitato alcune critiche nei confronti delle visite di Ferragosto, definite una “passerella mediatica”. L’accusa non era rivolta ai Radicali, che raccoglieranno comunque da queste ispezioni un dossier che fornirà materia per portare lo Stato italiano davanti alle giurisdizioni internazionali, ma contro quella che possiamo definire una certa “ipocrisia consociativa”. Il rischio esiste, inutile negarselo. Delle visite largamente preannunciate perdono quasi tutto il loro valore ispettivo, poiché permettono di camuffare e arrangiare molte cose nei luoghi meno visibili del carcere. Anni fa, in vista di una cerimonia del presidente della Repubblica Napolitano a Rebibbia, la Direzione fece riverniciare in fretta e furia i corridoi e le sale che il capo dello Stato avrebbe dovuto attraversare. Ma una verifica arriverà presto. Il ministro della Difesa La Russa ha preannunciato per settembre un inasprimento delle norme sull’immigrazione. Sarà il primo banco di prova per capire se l’indignazione sia durata il tempo di un’abbronzatura di Ferragosto. Giustizia: sul carcere la sinistra cambi rotta, facendosi carico di un nuovo indulto per cominciare di Giovanni Palombarini Il Mattino di Padova, 17 agosto 2010 Produrrà qualche utile risultato il “Ferragosto in carcere” di deputati e senatori, iniziativa promossa dal Partito radicale per verificare da vicino le condizioni di vita dei detenuti? C’è da dubitarne, anche se il sovraffollamento è ormai giunto a livelli intollerabili. Come è noto, vi è stato un periodo di alleggerimento della situazione dovuto all’indulto del 2006, per effetto del quale sono usciti dal carcere circa 26.000 detenuti dei 61.400 presenti a quel tempo. Da allora la situazione si è progressivamente aggravata. All’inizio della primavera del 2009, quando il numero dei detenuti era ancora al di sotto di quota 60.000, lo stesso ministro della Giustizia Angelo Alfano aveva dichiarato in occasione di un convegno che le nostre carceri sono fuori dalla Costituzione. Alla fine di quell’anno i detenuti erano saliti a 65.087, a fine aprile 2010 a 67.542, il numero più alto nella storia della Repubblica, oggi chissà a che quota si è arrivati (si dice che l’aumento sia di circa 7 - 800 al mese). Il dato di 73.000 detenuti - tanti si prevede che saranno alla fine dell’anno - per una capienza di 41.500 persone costituisce già di per sé il segnale di una situazione del tutto inaccettabile. Ebbene, l’unica soluzione che ci si è prospettata è stata quella di costruire in futuro nuove carceri, intanto moltiplicando i letti a castello nelle celle. Per un attimo è sembrato che il presidente del Consiglio, resosi conto dell’insostenibilità della situazione, la volesse affrontare con un provvedimento di rapida efficacia. Scrissero i giornali all’inizio della primavera di una sua intenzione di emettere un decreto legge (come tale immediatamente operativo) per stabilire che l’ultimo anno di una condanna a pena detentiva venisse scontato non in carcere ma agli arresti domiciliari. Ciò avrebbe consentito un alleggerimento della situazione di circa 20.000 unità. Provvide subito la Lega a fermare l’iniziativa, ovviamente in nome della legalità (come se fosse legale, e non contraria alla Costituzione e alle convenzioni internazionali, l’attuale pena carceraria). Si parlò allora di un possibile disegno di legge, con molte condizioni per il passaggio del detenuto agli arresti domiciliari, ma la cosa non si è concretizzata. Il numero dei detenuti, molti dei quali non sono neppure condannati in via definitiva, continua ad aumentare, come quello dei suicidi. Dunque, sullo sfondo, a fronte dell’aumento continuo della popolazione detenuta, conseguenza di una politica del “diritto penale massimo” che difficilmente le visite di Ferragosto potranno invertire, la soluzione che si propone è quella dell’aumento progressivo dei “posti letto”, 80.000 nel 2012, poi chissà. Nessuno, neppure nei partiti di opposizione, si è scandalizzato. Si è andati dalle espressioni di incredulità - non avrete mai i fondi necessari! - alle preoccupazioni, giuste peraltro, per la correttezza degli appalti, niente di più. Nessuno si è posto il tema del diritto penale minimo, la questione del come ridurre il numero delle persone che oggi sono destinate al carcere, la prospettiva del rafforzamento delle misure alternative, a cominciare dall’affidamento in prova. Il carcere sembra andare bene a tutti. Oggi, nel dibattito che a sinistra si è aperto sulle prospettive politiche del Paese, si va profilando una posizione nuova, alternativa rispetto a tanti discorsi che si sono fin qui fatti, inutilmente, per sconfiggere le destre e il “berlusconismo”. È la posizione che da alcuni mesi va proponendo il governatore della Puglia Niki Vendola. C’è da sperare che sappia farsi carico, in termini di programmi concreti (a cominciare da un nuovo, urgente provvedimento di indulto), del problema della pena. Giustizia: Vita (Pd); nelle carceri gravissima situazione d’illegalità, pena diventa vendetta sociale Ansa, 17 agosto 2010 Così il senatore del Pd, Vincenzo Vita definisce lo stato di salute delle carceri italiane dopo aver fatto visita alle case circondariali della Spezia, di Chiavari e Massa insieme ad una delegazione radicale. “L’importante e utile iniziativa del Ferragosto nelle carceri - precisa in una nota - non può rimanere una vampata estemporanea. Dobbiamo trarre spunto da questa esperienza delicata politicamente e angosciante umanamente, per riprendere dalla via maestra delle aule parlamentari le proposte ad hoc: dalle doverose interrogazioni ai veri propri progetti di legge come depenalizzazione dei reati minori, un piano per la scuola e il lavoro nei luoghi di detenzione. Dalle leggi ad personam (per i potenti) alle leggi per le persone che soffrono”. Insomma per il senatore del Pd, le valutazioni del tour ferragostano sono quelle “di uno stato di significativa illegalità nel quale versano gli istituti di reclusione. Spicca in particolare la situazione di sovraffollamento del carcere di Chiavari, dove detenuti con pene definitive continuano ad essere costretti a vivere in celle con la settima branda, in condizioni inumane, tanto che qualsivoglia organismo di giustizia internazionale potrebbe riconoscere lo stato di vera e propria tortura. Lo stesso problema esiste anche nel carcere di Massa, pur essendo una struttura ben attrezzata, ricca di spazi ricreativi e di laboratori per tessitura, sartoria, carpenteria, ancorché non sfruttati appieno dal punto di vista di un possibile impiego lavorativo. Tuttavia, a differenza delle altre strutture visitate, il problema è lievemente attenuato dalla prassi delle cosiddette celle aperte”. Per questo motivo, conclude Vita in una nota, “gli istituti di pena sono centri in cui la pena è vissuta come espiazione, quasi una vendetta sociale, con un conseguente imbarbarimento di chi invece dovrebbe vivere un passaggio di rieducazione e di reinserimento nella società. Le valutazioni conclusive di questo tour ferragostano - ha proseguito Vita - sono dunque quelle di uno stato di significativa illegalità nel quale versano gli istituti di reclusione. Spicca in particolare la situazione di sovraffollamento del carcere di Chiavari, dove detenuti con pene definitive continuano ad essere costretti a vivere in celle con la settima branda, in condizioni inumane, tanto che qualsivoglia organismo di giustizia internazionale potrebbe riconoscere lo stato di vera e propria tortura”. Giustizia: Mantini (Udc); sulle carceri il “Governo del fare” è sconfitto, non ha fatto nulla! Italpress, 17 agosto 2010 “Dalle visite di ferragosto resta confermata la condizione di inciviltà di gran parte delle carceri italiane. Sovraffollamento fuori controllo, numerose strutture fatiscenti, scarso accesso al lavoro e allo studio, troppi immigrati con una modesta assistenza legale: a questo e altri problemi storici si aggiunge il taglio delle risorse per il personale carcerario. C’è una distanza enorme tra gli annunci del ministro Alfano e i fatti”. Lo afferma in una nota il deputato dell’Unione di Centro Pierluigi Mantini. “Il governo del “fare” non ha fatto nulla per migliorare le carceri italiane. Occorrono politiche per il carcere privilegiando il modello duale, con strutture di massima sicurezza per i condannati per i reati più gravi e luoghi di detenzione diversi per i reati meno gravi. E occorrono anche politiche contro il carcere con sanzioni alternative alla detenzione ove possibile. Ci piacerebbe inoltre vedere un serio impegno delle fondazioni bancarie per favorire il lavoro dei detenuti”. Giustizia: Commissione errori sanitari; in programma visite alle carceri a partire da settembre Adnkronos, 17 agosto 2010 “È importante e apprezzabile l’interesse dimostrato, in questi giorni, da molti politici italiani che hanno deciso di misurarsi personalmente con la realtà carceraria per vedere con i loro occhi la natura e l’entità dei problemi che affliggono i penitenziari italiani. Sarebbe però auspicabile che tanta attenzione venisse rivolta al tema delle condizioni dei detenuti anche durante l’anno e non solo in questa breve parentesi ferragostana”. Lo sottolinea in una nota il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario e i disavanzi sanitari regionali, Leoluca Orlando. “La politica, troppo spesso - prosegue Orlando - ricorda solo in occasioni di episodi eclatanti o di iniziative particolari che in Italia si continua a morire di carcere. Risse, evasioni e suicidi sono il sintomo di una situazione prossima al collasso, fatta di assistenza sanitaria inadeguata, cronica carenza di personale, edifici a volte fatiscenti e spesso sovraffollati. Misure e interventi da parte di Governo e Parlamento non sono più rimandabili”, precisa. La Commissione che presiedo, nell’ambito di uno specifico filone d’indagine sulla tutela del diritto alla salute dei detenuti - ricorda Orlando - si impegnerà a condurre, a partire dalla ripresa dei lavori parlamentari a settembre, una serie di visite in alcuni istituti penitenziari italiani. Si inizierà lunedì 27 settembre con la visita al carcere di Opera; il 1 ottobre sarà la volta di Sollicciano, l’11 ottobre all’Ucciardone; il 25 ottobre a Poggioreale. Sono ancora da fissare - conclude - le date per i sopralluoghi nel carcere romano di Rebibbia, nella struttura di Laureana di Borrello, a Reggio Calabria, e in quelle di Bari e Trani”. Giustizia: Osapp; piano carceri risolutivo? Alfano insegue chimere, sarà boomerang per la sicurezza Agi, 17 agosto 2010 “Non vorremmo che la sicurezza del ministro Alfano sul cosiddetto Piano Carceri si dimostri un vero e proprio boomerang, con effetti disastrosi ed irrimediabili per il personale, per l’utenza penitenziaria e per la sicurezza della collettività”. Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), commenta così le affermazioni del guardasigilli seguite al Comitato nazionale per la sicurezza e l’ordine pubblico di ieri. “Come polizia penitenziaria - spiega il sindacalista - l’unica certezza che abbiamo è che negli istituti penitenziari si peggiora di giorno in giorno e che, mentre i detenuti aumentano (anche se nel mese di agosto si sta assistendo ad un calo fisiologico di qualche centinaio di ristretti), di poliziotti in servizio ce ne sono sempre di meno: da ciò l’incremento di eventi critici, violenze e suicidi in carcere”. “D’altra parte, svaluteremmo l’intelligenza e le capacità del guardasigilli - aggiunge il leader dell’Osapp - se ritenessimo il ministro Alfano realmente convinto che il piano carceri, comprensivo delle 2mila unità in più per la polizia penitenziaria, che non si sa se e quando ci saranno, e della detenzione domiciliare per le pene residue inferiori ad un anno possa di per sé risolvere i problemi del sistema”. “Da parte nostra - conclude Beneduci - come poliziotti e come parte sociale stiamo fornendo ogni contributo possibile, fino alla proposta di una incisiva riforma del lavoro penitenziario in cui siano obbligatoriamente coinvolti tutti i detenuti con condanna definitiva ma il ministro sembra intento a seguire esclusivamente quelle che potrebbero rivelarsi pericolose chimere”. Giustizia: Marino (Pd); nuove regole per i medici, mai più un caso Cucchi La Repubblica, 17 agosto 2010 “È una conquista importante. Anche se nessuno potrà restituire Stefano Cucchi alla sua famiglia. Ma adesso si potrà evitare che altri casi come quello del giovane morto all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma, a una settimana dal suo arresto, accadano nuovamente”. Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sulla Sanità, sottolinea con soddisfazione l’importante novità che riguarda la vita dei detenuti ricoverati negli ospedali. Una modifica ai regolamenti suggerita dalla Commissione e accolta dal ministro della Giustizia Alfano. Come era prima la situazione per un detenuto ricoverato? “Fino ad oggi se le condizioni di un detenuto malato si aggravavano i medici non potevano avvertire direttamente i familiari, per farlo era necessario un permesso del magistrato di sorveglianza, richiesto attraverso il carcere. Occorrevano giorni. E poteva accadere, come è avvenuto per Stefano Cucchi, che i familiari venissero avvertiti quando il detenuto era già morto. Ora invece i sanitari potranno avvertire la famiglia direttamente. Abbiamo reso più fluidi e umani i rapporti tra sanità e familiari”. La prima modifica è avvenuta al protocollo del Sandro Pertini, l’ospedale dove era stato ricoverato Stefano Cucchi. Poi cosa è accaduto? “Sì, la prima modifica ha riguardato il protocollo organizzativo del “Sandro Pertini”, ora coinvolgerà tutte le strutture. In una lettera il ministro Alfano ci ha comunicato che la modifica ci sarà in tutti gli ospedali che hanno “strutture di medicina protetta”. L’obiettivo è definire un protocollo standard. Credo sia davvero un fatto importante che la politica non si sia divisa su questioni che riguardano la vita delle persone”. Giustizia: esce dal carcere Enrichetto, detenuto per aver comprato un salame Asca, 17 agosto 2010 Uscirà domani dal carcere di Asti Enrico Gallo, 55 anni abitante a Tigliole d’Asti, dove tutti lo chiamano Enrichetto. Nelle settimane scorse aveva fatto lo sciopero della fame nel timore che nessuno si prendesse cura del suo cane Pumin. Detenuto per guida in stato di ebbrezza, ha scontato due mesi di reclusione ma il suo è un caso umano di cui, a inizio agosto, si è occupato il ministro Angelino Alfano e la sua patetica storia ha fatto il giro d’Italia. Enrico Gallo, infatti, da quando ha lasciato la moglie ha sempre “amato la Barbera”. Due anni fa era stato sorpreso dai carabinieri ubriaco mentre in bicicletta percorreva la provinciale Tigliole - Baldichieri e si era scontrato con un’auto. In seguito, dopo un lungo iter giudiziario, era stato condannato a due mesi di reclusione con il beneficio degli arresti domiciliari, ma nel giugno scorso Enrichetto era uscito di casa per andare nel vicino negozio del paese a comprare un salame. Sorpreso subito dai carabinieri, è stato denunciato per evasione dagli arresti domiciliari. Il sindaco di Tigliole, Massimo Merlone, ha assicurato che i servizi sociali del Comune faranno tutto il necessario per assistere il loro concittadino quando uscirà dal carcere. Un avvocato ha promesso che assisterà gratuitamente Enrichetto, quando sarà processato per evasione. Intanto lui domani tornerà nella sua casa per prendersi cura dei suoi gatti e per piangere Pumin che nel frattempo è morto travolto da un’auto. Lettere: un giorno in carcere, alla scoperta di un’umanità sospesa tra colpa e speranza di Paola Binetti Liberal, 17 agosto 2010 Un secondo Ferragosto in carcere per un Parlamento confuso e disorientato davanti ad un futuro nebuloso ed imprevedibile. Avrà certamente fatto bene a tutti quei parlamentari che hanno voluto condividere questa esperienza immergersi nell’atmosfera rarefatta di chi si trova in una condizione di oggettiva fragilità umana. Sono tanti gli obiettivi che questo appuntamento sta assumendo: dalla raccolta dati di una sorta di radiografia nazionale fatta a tutte le carceri della Repubblica, alla testimonianza di solidarietà offerta a chi probabilmente sta soffrendo più di quanto sarebbe giusto ed auspicabile. Soffrono i carcerati, stipati in carceri troppo piccoli per accoglierli tutti; soffrono anche per quei tempi imprevedibili che ha la nostra giustizia; ma soffrono anche le persone che dovrebbero prendersi cura di loro e che sono sotto - organico, mal pagati e privi di quelle risorse materiali che potrebbero permettere loro di svolgere al meglio un lavoro di per sé difficile e faticoso. Soffrono le famiglie degli uni e degli altri, in un quadro sociale in cui la dignità di questo lavoro di rieducazione è spesso ridotta ad una dimensione di prevalente contenimento. Il bisogno di sicurezza sembra moltiplicare le procedure di controllo e finisce con l’assorbire la maggioranza delle risorse disponibili. In tempi di crisi questo si traduce in un irrigidimento delle procedure che mortifica ancora di più la dignità di tutte le persone coinvolte in questo delicato processo di riparazione e di reintegrazione di chi ha commesso errori, a volte anche molto gravi, per una infinita complessità di ragioni. Le storie di queste persone non sono mai storie facili e se ne coglie sempre un senso profondamente drammatico, ascoltandole attraverso la narrazione che anche domenica scorsa ce ne hanno fatto alcune delle guardie penitenziarie, quelle che preferiscono vegliare su di loro e non si limitano a sorvegliare. Ma oggi era una giornata speciale. La coincidenza di questa data con una antica festa dedicata alla Vergine forse è casuale e forse no. Chissà... Certamente quest’anno era anche domenica e la visita alla Casa circondariale di Como è cominciata con la santa messa in onore della Madonna. Alle 10 del mattino la cappella era già piena e i canti che hanno accompagnato la liturgia avevano quel carattere popolare che si riesce ad ottenere solo quando c’è una certa consuetudine a cantare e a pregare insieme. Evidentemente tra don Giovanni e molti dei carcerati ci deve essere un buon rapporto personale e il frate francescano sa trovare gli accenti giusti per giungere al cuore di molti di loro, che lo trattano con quella affettuosa familiarità che non possono permettersi con il personale. È un rapporto intensamente umano, a cui non sono estranei i riferimenti alle rispettive famiglie e a un certo punto ci siamo trovati tutti a pregare per Graziella, la madre di Giovanni di cui ieri erano stati celebrati i funerali. Dopo tutto, ferragosto è una antica ricorrenza mariana e tra il cappellano e la direttrice ce l’hanno messa tutta per dare un tocco di normalità a questa giornata. C’era un tono più che dignitoso, quasi festoso, nella cura dell’abbigliamento di tutti i partecipanti alla Messa, ma anche nella serena confusione con cui ognuno ha voluto salutare la maggioranza dei suoi vicini al momento del segno della pace. E c’è stato un che di commovente quando alla fine della messa molti di loro si sono accostati alla statua della Madonna che stava in fondo all’altare. Una lunga fila, totalmente spontanea, in cui ognuno ha pazientemente aspettato e rispettato i tempi di chi stava davanti, senza minimamente interferire con la sua devozione personale. Una preghiera silenziosa, intensa, uguale a quella che tantissime altre persone oggi avranno rivolto alla Madonna nei vari santuari a Lei dedicati nel nostro Paese. Dopo la messa è cominciata la nostra visita. I carcerati di Como sono 488, di cui 58 donne: forse è proprio vero che le donne commettono meno reati! Nelle diverse sezioni, ognuna delle quali dispone di 25 celle, i carcerati sono quasi sempre in due, solo in alcuni casi arrivano a tre. Molti sono lì per reati variamente connessi al consumo di droga: quasi un 50% e molti sono immigrati con reati di piccola criminalità: un terzo circa. Ci sono persone che hanno commesso violenze sessuali di vario tipo, in 4 rientrano nell’articolo 21: tre uomini e una donna. Un quadro complessivo tutto sommato sovrapponibile a quello di molti altri carceri, che pone però due problemi importati rispetto alla presa in carico dei tossicodipendenti e al trattamento del disagio sociale di molte persone che si trovano in condizioni di precarietà e finiscono con lo scivolare velocemente verso forme di povertà sempre più pesanti. La frequenza con cui molti di loro tornano in carcere mostra l’inadeguatezza della funzione rieducativa con cui la struttura risponde ai loro bisogni ed esprime bene il senso di frustrazione che colpisce il personale, che ha volte ha proprio la sensazione di cucire con un ago senza filo. Ma colpisce ancor più quanto siano pochi coloro che lavorano fuori: sono solo due, e altrettanto limitato è il numero di licenze: due persone, mentre sono solo quattro le persone che il 15 agosto godevano di un permesso. Nel complesso sembra che ci sia una attenzione fortemente concentrata sulla struttura interna del carcere, sulle sue condizioni di vivibilità, sul clima generale che si crea tra i carcerati, in particolare tra i concellini, come si chiamano coloro che condividono al stessa cella e tra i carcerato e il personale. A loro la attuale direttrice sembra riservare un particolare interesse per comprenderne le motivazioni personali e le storie familiari. Quasi tutti vengono dal sud, dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Sicilia. Sperimentano al nord almeno inizialmente un senso di disagio e di solitudine, che in molti casi li rende inclini a comprendere meglio gli stessi carcerati e dà al loro rapporto una sfumatura in più di umanità. Accanto ai carcerati infatti ci sono anche coloro che se ne prendono cura giorno per giorno, che ne ascoltano le difficoltà, che si riempiono dei loro lamenti, ne raccolgono le richieste, per poi trasmetterle alla direzione, laddove si possono prendere decisioni, grandi e piccole, su ciò che si può fare e ciò che per qualsiasi motivo non si può fare. Gli uni e gli altri, chiedono alla classe politica di aiutarli a ritrovare il senso di una vita che sembra sprecata. Per alcuni sprecata perché è stata buttata via per un errore più o meno grave, più o meno isolato, ma sprecata anche per chi non riesce ad assolvere il proprio compito come vorrebbe. Ciò che colpisce nelle persone che si incontrano in queste visite sono gli sguardi feriti, quei corpi un po’ ripiegati su di sé, quell’espressione malinconica, che solo a tratti si rianima per fare una richiesta, per chiedere un colloquio: solo una manciata di minuti per ricordare che vogliono giustizia. Non la giustizia che, nel caso di un carcerato, siamo abituati a collegare alla naturale esigenza di un processo sufficientemente rapido, in modo che l’accertamento dei fatti consenta di evitare inutili e pesanti lungaggini, tanto più dolorose quanto più percepite come ingiuste. Ma la giustizia del quotidiano: quella possibilità di parlare con chi dirige, di poter contare su di un dialogo con il medico, con lo psicologo, di poter ottenere un permesso o più semplicemente di potersi lamentare delle micro - tensioni di una convivenza che può essere particolarmente difficile. Spazi angusti, rapporti limitati, prospettive fumose, e quella dolente sensazione di chi si sente ingiustamente discriminato, di chi non vede nessuna proporzione tra la pena che sta subendo e la colpa commessa. Il senso della colpa commessa sfuma abbastanza facilmente davanti alla concentrazione di punizioni piccole e grandi che il carcere comporta, a cominciare dalla perdita di libertà che si attualizza e materializza in ognuna delle circostanze della vita ordinaria. I tempi della doccia, rigorosamente contingentati, gli spazi per le proprie cose, assolutamente compressi nelle celle condivise abitualmente con una o due persone, fino ad arrivare in tempi di affollamento fino a quattro persone. L’impossibilità quasi assoluta di un tempo e di uno spazio per sé, perché oltre alla segregazione rispetto al mondo esterno, anche nello spazio interno al carcere non c’è quasi nulla di cui si possa rivendicare la proprietà in termini di spazio e tempo. Il disporre di sé diventa di fatto impossibile pur nel lungo trascorrere di un tempo vuoto: è ciò che manca di più, la possibilità di riconoscere un significato a quello che accade. Quando qualcuno si ferma a parlare con l’uno o con l’altro, tutto il quadro della sezione si anima. Quando questo qualcuno ha il profilo quotidiano di un personale più amabile e disponibile, di un volontario più affidabile, perché mantiene le promesse fatte, allora l’atmosfera diventa meno carica di tensione. Si riescono a smaltire le contrarietà, se ne può parlare e lo stress claustrofobico scende sotto la soglia di pericolosità. Poter raccontare il proprio disagio significa in definitiva mettere l’accento sui più elementari diritti umani: non è solo la mancanza di libertà rispetto al mondo esterno ciò che costa, ma anche la mancanza di libertà rispetto al mondo interno del carcere, che finisce col configgere facilmente con la mancanza di libertà interiore. Per chi non ha saputo rispettare le regole che la nostra società impone ad ognuno di noi, c’è la soffocante necessità di rispettare una congerie di piccole regole che servono a garantire i livelli essenziali di sopravvivenza all’interno della propria cella e all’interno del carcere. A volte si soffre perché non si può organizzare il proprio tempo neppure per svolgere uno di quegli incarichi, che dovrebbero migliorare la qualità di vita dei compagni di carcere, non si può accedere ad un laboratorio interno quando e come si vorrebbe e tanto meno si può realizzare un lavoro esterno, cosa che di questi tempi è sempre più difficile ottenere, perché in tempi di crisi sono sempre meno le offerte. Eppure il carcere di Como: per meglio dire la casa circondariale, ha un personale di polizia penitenziaria giovane e motivato; ci sono dei laboratori abbastanza attrezzati, anche se avrebbero bisogno di un aggiornamento tecnologico adeguato; c’è un gruppo di volontari che organizzano attività musicali ed attività sportive, capaci di rompere la monotonia di una vita fin troppo ripetitiva. Dalla parte femminile ci sono gli spazi per un nido sufficientemente dotato di quanto occorre a bambini fino a tre anni; c’è un laboratorio di sartoria che riesce ad organizzare delle sfilate, grazie alla qualità professionale di chi lo dirige e ai tessuti di cui le vicine seterie lo riforniscono gratuitamente. Da Cantù hanno promosso un laboratorio per mantenere viva la tradizione del pizzo che ha lo stesso nome della città: un progetto europeo che coinvolge molte altre città con tradizioni analoghe in fatto di ricamo. C’è un cappellano capace di creare un gruppo di preghiera grazie anche al centro di ascolto interno portato avanti con i suoi volontari. Un carcere in cui nonostante tutto ciò all’inizio di maggio un detenuto si è impiccato, andando ad incrementare il numero dei suicidi delle nostre carceri superaffollate. La direttrice, sollecitata a spiegarci perché possano accadere queste cose e soprattutto a fare delle possibili previsioni, ha ammesso accoratamente che niente avrebbe fatto pensare ad un possibile epilogo di questo tipo per quel paziente. Ci sono tentativi di suicidio che si possono gestire meglio, perché hanno il valore di gesti puramente rappresentativi di un disagio che resta pesante, ma poi quando meno si aspetta che accada, qualcuno decide che ormai 1 sua soglia di tolleranza ha raggiunto un limite insopportabile. Solo un rapporto costante con ognuno di loro, un ascolto attento, un rispetto reale per la loro dignità può permettere di comprendere il rischio e può quindi aiutare a reagire tempestivamente, evitando che il rischio si trasformi in tragedia. È la qualità della trama dei rapporti ordinari quella di cui hanno oggi più bisogno che mai le nostre carceri e questo ridimensiona molto l’ipotesi che si possa risolvere l’emergenza carceri costruendone di più grandi. Certamente occorrono carceri migliori: sotto il profilo logistico: più spazio, più intimità, più bagni e sotto il profilo rieducativo: più laboratori e più opportunità di lavoro, dentro e fuori, più educatori, un personale meno stressato. Un investimento realistico nella qualità del quotidiano e non una proiezione nella irrealtà di un progetto che, nonostante le promesse del Ministro, in tempi di crisi è abbastanza dubbio che possa vedere la luce. Se da questa seconda iniziativa del Ferragosto in carcere, partiranno alcune iniziative concrete a favore del personale e dei carcerati, andando oltre il livello di pura denuncia, allora sarà stata utile ed efficace, altrimenti ancora una volta avremo l’ennesima raccolta dati a cui non segue nessun miglioramento concreto. II diritto dei carcerati che ci hanno incontrato e ci hanno esposto le loro esigenze concrete, il diritto del personale che ci ha accompagnato in una domenica di ferragosto, è quello di sapere che i politici non si limitano ad un ascolto fine a se stesso. Ma sono impegnati a mettere insieme le loro osservazioni per produrre dei cambiamenti oggettivi, capaci di tradurre in atto la comune tensione verso la realizzazione di un maggiore bene comune. Parlamentari di destra, di sinistra e di Centro capaci di trovare soluzioni condivise: anche questa per loro è buona politica. Lettere: dimettere gli internati dagli Opg? il territorio deve essere preparato a farsene carico di Antonella Lettieri (Consulente psicologa Opg Montelupo Fiorentino) Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2010 Gentile Senatore Ignazio Marino, le scrivo in merito alla sua recente visita presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. Lavoro da oltre 15 anni, in qualità di consulente psicologa, nel suddetto Istituto. Nel corso degli anni, ad ogni nuova legislatura ho assistito alla riapertura del dibattito sugli Opg con conseguente visita dei politici di turno che, indignati dalle condizioni in cui versano i pazienti, promettono modifiche e/o superamento senza che poi nulla di fatto accada. Le Sue affermazioni riguardo al futuro dell’Opg sono condivisibili e noi, specialisti della salute mentale che da sempre lavoriamo in condizioni di emergenza, non possiamo che concordare sulla necessità di interventi risolutivi. Ma tra il sostenere l’abolizione dell’Opg e il farne a meno davvero esiste una grossa differenza. Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di affermare che fino ad oggi esso è servito a riempire vuoti istituzionali o meglio ad fornire risposte che non vengono date da altri servizi. Ipotizzare la sua chiusura senza che il territorio sia preparato e dotato di sufficienti strutture alternative, è pura demagogia. È vero che , abbiamo celle che ospitano 7/8 pazienti, come Lei ha potuto verificare direttamente, dove la convivenza, a volte si trasforma conflitto ingestibile che va ad aggravare le già precarie condizioni psicopatologiche dei pazienti, rendendo difficoltoso il monitoraggio che il loro stato richiede. È vero che la struttura è fatiscente, che le ristrutturazioni dei reparti, spesso lasciate a metà per mancanza di fondi, sono insufficienti a risanare ambienti non adatti ad una funzione sanitaria. Molto ci sarebbe da dire sui criteri mediante i quali sono state apportate le modifiche strutturali, ma non voglio polemizzare oltremodo. Voglio invece sottolineare come noi operatori, nel corso degli anni abbiamo più volte fatto sentire la nostra voce, senza riuscire però a suscitare interesse negli organi competenti, denunciando le condizioni drammatiche in cui i nostri pazienti sono costretti a vivere e in cui noi siamo costretti a lavorare. Ma dove erano le forze politiche in questi anni? Non mi riferisco purtroppo solo all’attuale governo. Questa sorta di cinica indifferenza e di anestesia delle coscienze civili sembra che pervada trasversalmente tutti gli orientamenti politici, senza distinzione di colore. Da circa due anni sta accadendo un fenomeno mediatico interessante: durante il periodo delle ferie estive assistiamo ai tour turistici di vari parlamentari che improvvisamente ad Agosto si ricordano che esistono circa 1.500 internati che vivono in condizioni disumane. Vengono organizzate ispezioni, sopraluoghi, verifiche, si producono statistiche, ci si indigna (!!!) si fanno promesse, si prendono impegni e via dicendo. A settembre puntualmente i riflettori si spengono: ci sono altre emergenze e altre priorità. Ma l’Opg continua ad essere terra di nessuno: quando si oltrepassa il portone, dopo aver fatto il giro negli inferi, ci si affretta a scrollarsi di dosso gli odori, i rumori e gli sguardi di chi abbiamo incrociato per caso. È per questo motivo che ho accolto con vivo interesse la Sua visita auspicando che almeno Lei non si limitasse alla sola rilevazione delle carenze strutturali. Ho constatato, con sincero rammarico per la stima che nutro nei Suoi confronti, che anche Lei, non ha ritenuto opportuno ascoltare e confrontarsi con noi tecnici che conosciamo in maniera capillare tale realtà e pertanto potremmo offrire un valido contributo al dibattito. Dalle dichiarazioni che Lei successivamente ha rilasciato, ho avuto invece l’impressione (vorrei essere smentita in proposito) di una lettura estremamente riduttiva della problematica degli Opg: la trama è molto più complessa ed articolata degli isolati fotogrammi “indecenti” di cui ha preso visione. Tra i Suoi obiettivi mi sembra che Lei persegua in modo particolare quello della dimissione, ma mi permetta di ricordarle che la dimissione di un paziente richiede non solo un attento lavoro psicoterapeutico su di esso, ma anche l’attivazione di una rete di rapporti con i Servizi Psichiatrici competenti per territorio, non sempre disponibili ad accogliere i loro assistiti, sia per mancanza di risorse che per difficoltà di gestione di pazienti cosi impegnativi sul piano clinico. Molti di essi rientrano in Opg, dopo un periodo di sperimentazione all’esterno, non perché commettono nuovi reati (la recidiva è veramente insignificante) ma perché quel territorio che doveva accoglierli, spesso non è in grado di gestire pazienti così compromessi sul piano psicopatologico. È un fallimento che riguarda non solo il singolo soggetto, ma tutte le istituzioni coinvolte e nondimeno la stessa comunità civile! Non crede che forse potrebbe essere utile aprire un tavolo di discussione con noi operatori per conoscere le metodologie di intervento, le criticità che, non sono solo ed esclusivamente quelle strutturali, con cui quotidianamente ci confrontiamo? È bene ribadirlo, noi non siamo complici né conniventi di questa drammatica situazione come una informazione superficiale ci vuole far apparire!! Anche noi, addetti ai lavori, siamo indignati per l’abbandono in cui le istituzioni ci hanno confinato nel corso degli anni, anche noi (come i nostri pazienti) siamo considerati operatori di serie C rispetto ai colleghi dei Servizi territoriali, non solo perché penalizzati ad operare in contesti dove i bisogni primari (igiene, spazi vitali, salubrità degli ambienti) diventano prioritari su quelli terapeutici e riabilitativi, ma anche per la precarietà contrattuale a cui siamo sottoposti. Da decenni infatti siamo “precari” con un rapporto libero - professionale che ci vede deprivati di ogni forma di tutela lavorativa. Ciò nonostante in questi anni abbiamo sviluppato una sorta di “resilienza” per garantire gli interventi di base, anche quando le condizioni operative non lo consentivano facendo appello all’etica professionale e alla passione individuale. Si è creato cosi, all’interno della nostra struttura, un patrimonio scientifico di conoscenza clinica - psichiatrica che non andrebbe disperso, ma valorizzato ed utilizzato come base su cui fare cultura scientifica. Perché vede, caro Senatore, nella psichiatria non è possibile applicare gli stessi principi della cardiochirurgia: i risultati non sono quantificabili in termini di funzionamento o meno di un organo compromesso, come Lei sottolinea in suo commento. Nell’ambito della sofferenza psichica i risultati vanno ricercati nel recupero di piccoli ed insignificanti gesti quotidiani quale la cura di sé e della propria persona, la capacità di tollerare la frustrazione, di governare le proprie pulsioni, di esprimere il dolore senza bisogno di ricorrere al sintomo - reato. Ho sempre pensato che l’ambivalenza di questa struttura, nel suo doppio mandato di cura e custodia (carcere ed ospedale) abbia consentito ai vertici istituzionali di non sentirsi mai del tutto responsabili di essa. A testimonianza di ciò è la continua sottrazione di stanziamenti economici, con conseguente riduzione di risorse professionali, che il Ministero della Giustizia ha messo in atto, nel corso degli anni, ignorando la complessità dell’Opg e abbandonandolo al suo destino di “contenitore” dove far confluire tutte le contraddizioni sociali. Se il modello dell’Opg di Castiglione delle Stiviere funziona sul piano dell’assistenza e della cura, come giustamente Lei ha evidenziato, è perché la totale gestione sanitaria richiede congrui investimenti e risorse umane adeguate. Gli ambienti, in quella realtà, non sono celle detentive sovraffollate, ma stanze di degenza, la pulizia e l’igiene non viene affidata ai singoli pazienti ma al personale ausiliario ivi presente. Lei fa menzione infine della “contenzione”. Nel nostro istituto essa viene utilizzata sempre e solo come estrema “ratio” quale strumento di tutela dell’incolumità fisica del paziente e degli altri ospiti, al fine di prevenire eventuali agiti auto ed eterolesivi. Essa viene predisposta per il tempo strettamente necessario a far regredire uno stato di acuzie, seguendo determinate procedure e un preciso protocollo sanitario che prevede un monitoraggio continuo delle condizioni cliniche del paziente. Mi preme sottolineare questo aspetto, perché è un piano di rilevanza clinica su cui è facile fornire informazioni confuse e fuorvianti . Fino ad oggi, nonostante il transito della Sanità Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, non abbiamo assistito ad alcun cambiamento. Se il principio ispiratore è il diritto alla salute di tutti i cittadini, siano essi detenuti o internati, senza distinzione di censo e di razza allora devo constatare con amarezza che ai nostri pazienti tale diritto viene quotidianamente negato! Ma se la politica continua ad essere cosi lontana dai bisogni dei cittadini il rischio è che, ancora una volta, le decisioni in materia, come è consuetudine nel nostro paese, vengano prese da coloro che non hanno una conoscenza approfondita della realtà su cui devono intervenire. Sono preoccupata del futuro dei pazienti internati in Opg, cosi come di una loro dimissione selvaggia. Ritengo che la tutela della loro salute psicofisica debba tradursi in una presa in carico globale. Per fare ciò è necessario una riorganizzazione precisa e funzionale del servizio che preveda investimenti razionali e ottimizzazione delle risorse, perché il problema non riguarda solo una minoranza, ma coinvolge l’intera comunità civile. La ringrazio comunque della sua attenzione e Le sarò grata se vorrà rispondermi nel modo che riterrà più opportuno. Cordiali saluti e buon lavoro. Giustizia: se il sovraffollamento delle carceri diventa l’alibi per giustificarne il non funzionamento di don Giovanni Varagona (Cappellano del carcere di Barcaglione ad Ancona) Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2010 Il sovrappopolamento delle carceri è oggi l’alibi per giustificarne il non funzionamento, perché impedisce i progetti di recupero, perché sottopone gli agenti ad un lavoro stressante, ecc. In realtà è più vero il contrario: le carceri sono sovrappopolate semplicemente perché non funzionano. Perché generano delinquenza, anziché aiutare a debellarla. Il carcere è sovrappopolato perché, a chi capita per la prima volta, promette una recidiva a vita. Anche la questione delle risorse è secondaria. Piuttosto è una questione di cultura, dell’idea che abbiamo del carcere, di ciò che vogliamo da esso. Oggi chi entra in carcere è degradato da persona a delinquente. Non c’è fiducia nella sua capacità di reinserirsi in società. E per questo non si investe nel recupero. Cessa di essere persona, perché gli spazi di libertà ed autodeterminazione vengono soppressi ben oltre il senso della pena e le esigenze di sicurezza. Il detenuto smette di scegliere, di decidere sulla gestione del tempo e degli spazi, delle relazioni con i compagni e con chi lo mantiene dentro. La repressione di questa abilità compromette seriamente la possibilità di reinserimento. Gli investimenti vengono fatti, con scarsa lungimiranza, più per tener dentro che per permettere di uscire in condizioni di sicurezza per chi esce e per la società tutta: insignificante il numero degli operatori, inspiegabile spesso i criteri di assunzione. Per fare l’educatore basta anche una laurea in legge, gli psicologi non hanno possibilità di trattamento, ma solo di osservazione. Questo genera un circolo vizioso preoccupante, che fa fallire miseramente i balbettanti tentativi di progetto. E il fallimento giustifica l’ennesimo giro di vite, l’ennesimo giro di chiave. Eppure un carcere diverso è possibile. Lucia Castellano, direttrice di Bollate, e Luigi Pagano, Provveditore all’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, ce lo hanno raccontato in un convegno organizzato il 4 giugno dalla Conferenza Regionale del Volontariato di giustizia. Prima dei progetti di reinserimento, la fiducia verso le persone; gli spostamenti all’interno del carcere non sono decisi dalle chiavi e dagli agenti, ma da regole condivise che i detenuti imparano a rispettare con responsabilità. Da qui, da questo nuovo sguardo, nascono poi i finanziamenti per i progetti di floricultura, panificazione, ristorazione, che servono ai detenuti per imparare un mestiere spendibile a fine pena, per reinserirsi gradatamente, per non uscire dal carcere senza risorse. L’esperienza insegna che tali progetti sono irrealizzabili senza questa disponibilità iniziale a scommettere sulle persone. Falliscono in partenza perché sono pensati per fallire, per confermare la sfiducia e reiterare una struttura di tipo contenitivo e repressivo. L’opinione pubblica in questo ha una grande responsabilità. Perché finché viaggia sulla delirante illusione della “certezza della pena”, non esigerà che il carcere cambi. Finché non si accorgerà che è più conveniente che chi entra in carcere ne esca presto e “rinnovato”, piuttosto che a fine pena ed incattivito, non alzerà la voce. La alzano, per adesso, i volontari del Carcere, in sciopero in questo mese. Per aiutare a capire che cambiare è possibile e, anche oltre qualsiasi propensione umanitaria, conviene, anzi è improcrastinabile, anche dal punto di vista economico. Umbria: Radicali; carceri in situazione di emergenza, ma la Regione non designa il Garante Adnkronos, 17 agosto 2010 È un bilancio negativo quello diramato da Andrea Maori Liliana Chiaramello e Francesco Pullia, rispettivamente segretaria, tesoriere di Radicali Perugia e membro della direzione di Radicali Italiani dopo le visite di ieri mattina nelle carceri umbre di Perugia e Terni. Per quanto riguarda il penitenziario di Perugia, visitato da Liliana Chiaramello e dal deputato europeo Niccolò Rinaldi, il comunicato parla di sovraffollamento, assistenza sociale al minimo, ancora non utilizzazione del centro clinico di Perugia perché considerato dalla Regione non a norma, sottodimensionamento del numero delle guardie carcerarie, poche risorse sanitarie, in primis psicologi che lavorano da liberi professionisti ma per poche ore alla settimana. I detenuti sono in totale 558, a fronte dei 516 che dovrebbero essere di regola sottolineano i Radicali. In particolare, secondo la delegazione, nella sezione maschile si sarebbe sotto lo standard di vivibilità dei 7mq previsti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Infatti - spiegano - se le celle sono a norma, 9 mq, alcune invece di due contengono 3 detenuti, e uno di loro è costretto a dormire su un materasso per terra. La quantità giornaliera di cibo - proseguono - risulta essere inferiore rispetto al numero effettivo dei detenuti poiché è regolata in base a quanti detenuti dovrebbero esserci. Altra situazione da segnalare è la sottodimensione, rispetto alla pianta organica, del personale di polizia penitenziaria. Gli assegnati sono 246 a fronte dei 379 previsti. La delegazione si dice infine colpita dall’alto numero di detenuti in attesa di giudizio, pari al 60%. Per quanto riguarda invece il carcere di Terni, visitato da deputato radicale Maurizio Turco e da Francesco Pullia della direzione di Radicali Italiani, viene segnalato l’alto numero di detenuti presenti, ben 335 a fronte dei 216 regolarmente posti. Colpisce - proseguono nella nota - l’alto numero di detenuti tossicodipendenti, pari ad 82, di cui 14 in terapia metadonica e detenuti con patologie di tipo psichiatrico, pari a 70. Numerosa la percentuale di stranieri, 164 quasi la metà del totale. La mancanza del garante dei detenuti così come previsto ormai da 4 anni dalla legge regionale del 18 ottobre 2006, n° 13 - concludono - è un altro segno del disinteresse complessivo della classe politica regionale a seguire con attenzione il mondo carcerario che nella nostra regione coinvolge migliaia di cittadini detenuti e di agenti di custodia. Lazio: il Garante; durante il ramadan un programma umanitario per i detenuti marocchini Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2010 Garantire, durante il Ramadan, il tradizionale “pasto di rottura del digiuno” ai detenuti marocchini di fede musulmana reclusi nelle carceri del Lazio. È quanto prevede il programma umanitario ideato dall’associazione “Alternativa culturale dei marocchini in Italia” con il sostegno del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Il digiuno durante il Ramadan, che termina l’8 settembre, è uno dei cinque pilastri dell’Islam. Durante il Ramadan, infatti, i musulmani praticanti devono astenersi, dall’alba al tramonto, dal bere, mangiare e fumare. In questi giorni l’associazione “Alternativa culturale dei marocchini in Italia” sta incontrando i direttori di alcune carceri della regione per verificare la possibilità di realizzare, negli istituti, il progetto organizzato per il Ramadan dalla Fondazione “Hassan II” e dal Ministero della Comunità Marocchina residenti all’estero Il progetto - pilota prevede che una delegazione entri in carcere durante il Ramadan per preparare il “pasto della rottura del digiuno” con prodotti tipici come datteri e dolci. A Regina Coeli l’iniziativa si svolgerà il prossimo 31 agosto. Con 500.000 residenti in Italia, quella marocchina è una delle più importanti comunità straniere in Italia. Fra questi anche 5.323 detenuti (5.274 uomini e 49 donne) ospitati nelle carceri italiane, che rappresentano circa l’8% della comunità penitenziari. Nel Lazio i detenuti marocchini sono 159. “Le istituzioni penitenziarie hanno manifestato interesse verso questa iniziativa e ne stanno verificando la fattibilità, compatibilmente con le necessarie e pregiudiziali esigenze di sicurezza - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Si tratta di una iniziativa meritoria perché ha soprattutto una valenza sociale: quella di non far sentire soli e abbandonati dalle loro istituzioni i detenuti di origine marocchina. Il contatto con il mondo esterno, soprattutto in questo momento di estrema difficoltà all’interno delle carceri, potrebbe essere un ulteriore stimolo per i detenuti a percorrere la strada del recupero sociale”. Napoli: “Il carcere possibile onlus”; a Poggioreale situazione da allarme rosso Giornale di Napoli, 17 agosto 2010 Parlamentari e consiglieri regionali hanno toccato con mano, anche quest’anno, la gravissima situazione delle carceri italiane. L’iniziativa organizzata dai Radicali Italiani ha visto tra i promotori anche i capigruppo in commissione Giustizia alla Camera della Lega, del PdL, del Pd, del Gruppo misto, dell’IdV e dell’Udc. Come l’anno scorso, circa duecento politici sono entrati negli istituti di pena per verificare le condizioni in cui vivono i detenuti. A porre nuovamente l’accento sull’annoso problema carceri è la onlus “il carcere possibile”. “Il Ministro della Giustizia, nel 2009, ha affermato che la maggior parte degli Istituti di Pena sono incostituzionali. Nel saluto alla nazione che il Presidente della Repubblica rivolge a fine anno sono state ricordate le tremende modalità in cui vivono la maggior parte dei detenuti. Nei primi mesi del 2010 il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza nelle carceri italiane”, afferma il presidente dell’associazione, l’avvocato Riccardo Polidoro. Il “ferragosto in carcere” è promosso da tutti i partiti più rappresentativi, che avrebbero una sicura maggioranza in parlamento. “Eppure nulla è stato fatto. Nulla assolutamente nulla. Provvedimenti risibili ed inutili per affrontare seriamente e concretamente il problema, come la concessione degli arresti domiciliari a chi deve scontare una pena residua di un anno, sono stati prima “svuotati” di contenuto e poi neanche approvati. È passato, dunque, un anno ed i politici tornano nelle carceri per vedere quello che già sanno, per confrontarsi con la realtà, in una giornata che lungi dal rappresentare un momento di solidarietà, è invece l’emblema dell’inefficacia delle loro azioni, dell’inutilità della loro esistenza come rappresentanti del popolo”, ha continuato Polidoro. “Se fossi rinchiuso in una cella, di pochi metri quadri, insieme ad altre dieci persone, con un solo servizio igienico a vista ed un lavabo in cui ci si lava e si lavano gli alimenti, che vengono cucinati nel medesimo spazio; con letti a castello che arrivano all’unica finestra che da luce alla stanza, dove si fa a turno a scendere dal letto per poter stare in piedi; con la televisione sempre accesa, quale unico diversivo oltre alle sigarette che vengono fumate senza sosta; se dovessi sopportare tutto questo per ventidue ore al giorno, mentre per le restanti due mi è consentito passeggiare in un cortile assolato, cosa chiederei al “politico” che mi viene a “fare visita”, mentre in cella con gli altri detenuti bagno le asciugamani da mettere vicino la finestra per filtrare l’insopportabile caldo che rende tutto ancora più difficile? - spiega Polidoro - Gli direi: “Onorevole ha visto, quello che si dice è vero; quello che tantissime associazioni di volontariato hanno denunciato non è fantasia, qui si muore davvero; lo sa che ormai anche il Ministro della Giustizia ha dichiarato ufficialmente che gli istituti penitenziari sono “incostituzionali”“. Palermo: Apprendi (Pd); si apra subito l’ottava sezione dell’Ucciardone, per alleggerire le altre Ansa, 17 agosto 2010 “Adesso si passi dalle parole ai fatti e si colga l’occasione per avviare subito il collaudo dell’ottava sezione del carcere Ucciardone che potrebbe contenere 200 detenuti e alleggerire la pressione delle altre sezioni”. Lo chiede il vice presidente della commissione Attività produttive dell’Ars, Pino Apprendi (Pd), che torna sull’emergenza carceri dopo avere visitato diverse strutture penitenziarie dell’Isola e seguito da vicino il caso del detenuto Dino Naso, deceduto al Buccheri La Ferla dopo un malore accusato in cella. “Quest’area del carcere - precisa Apprendi - è stata ultimata da diverso tempo, le celle sono finite e complete, dotate di piccoli bagni con docce che permetterebbero condizioni di vita più umane ai detenuti e maggiore sicurezza anche per gli agenti che vi lavorano. Per questo, al di là delle solite passerelle dei politici, sarebbe utile snellire l’iter burocratico e avviare il collaudo della sezione per potervi trasferire al più presto 200 detenuti”. Teramo: nel carcere dei drammi, aggredito un detenuto che non vuole il terzo compagno in cella Il Centro, 17 agosto 2010 Ferragosto trascorso in carcere a parlare con detenuti e agenti. Il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, e il senatore del Pdl Paolo Tancredi hanno visitato l’altro ieri il carcere di Castrogno, uno dei più critici della regione. Hanno visitato tutte le sezioni, stretto mani, ma anche raccolto gli sfoghi e gli appelli di chi è dietro le sbarre. Appelli accorati soprattutto di chi, ormai da tempo, è in attesa di giudizio. Il viaggio nel carcere di Castrogno - con la guida del direttore Giovanni Battista Giammaria - inizia dalla sezione femminile, che ospita 33 recluse. Qui, sarà anche per i due bambini di un paio d’anni - figli di detenute - che con le loro risate rallegrano l’ambiente o forse per i disegni colorati fatti alle pareti dalle stesse detenute, nella stanza adibita a nido, l’atmosfera è relativamente distesa. L’orario, le 17,30, è quello della cosiddetta socializzazione: le porte delle celle sono aperte e le donne chiacchierano fra loro. Nel frattempo passa il carrello portavivande: la cena di Ferragosto, fra l’altro, propone insalata di riso. All’ingresso della palazzina, un bel giardinetto, curato dalle stesse detenute: l’idea di allestirlo fu di Mascia Torelli, la giovane giuliese accusata dell’omicidio del padre, da tempo scarcerata. Sembra quasi non ci sia traccia del più grave problema che da anni affligge il carcere di Teramo e soprattutto chi è costretto a starci dentro: il sovraffollamento. Percorso qualche metro, la palazzina a quattro piani che ospita le quattro sezioni maschili: quella dei detenuti accusati di reati sessuali, quella riservata alla criminalità organizzata, poi ai reclusi comuni e infine ai tossicodipendenti. È in quest’ala che il problema del sovraffollamento è più che evidente, d’altronde il carcere ospita 428 detenuti contro i 231 previsti. Tutto questo significa che in una cella di circa 9 metri quadrati possono essere stipati tre uomini, che dormono su tre letti impilati “a castello”. E quanto sia dura e inaccettabile la convivenza in spazi così angusti lo testimonia quanto accaduto qualche giorno fa. Fra i tanti con le braccia protese dalle sbarre della cella per stringere la mano a Rotondi e Tancredi, c’è un uomo di mezz’età, che ringrazia il ministro della visita. Ha una vistosa benda al collo. Lui non dice nulla, ma qualcuno racconta che è stato salvato da un’aggressione. L’uomo, peraltro malato, si era rifiutato di accettare un terzo detenuto in cella e durante l’ora d’aria è stato aggredito da una decina di reclusi. Gli agenti del carcere l’hanno salvato mentre un altro detenuto, con una stampella per abiti, gli stava tagliando la gola. Ma il giro in carcere dei due parlamentari ha avuto anche momenti più “leggeri”. Come quando Rotondi si è sentito chiamare da una cella. “Ministro, ministro, non mi riconosci? Sono Arduino un tuo compaesano. Sono di Quindici (in provincia di Avellino, ndr). Ti ho sempre votato!”, ha detto a voce alta un detenuto. Rotondi si è fermato, sorpreso, e ha squadrato l’uomo. E poi l’ha riconosciuto: “Ah, conoscevo bene tuo padre”, ha ribattuto, “ma come mai sei qui?”. “Beh, per associazione....”, ha risposto un po’ imbarazzato il detenuto. Rotondi e Tancredi hanno raccolto tante richieste di aiuto, tanti sfoghi dei detenuti. Si sono fermati volentieri a parlare con chi chiedeva loro di avvicinarsi, anche solo per ringraziarli di aver voluto passare un paio d’ore con loro a Ferragosto. Hanno parlato anche con gli agenti, che hanno segnalato le gravissime carenze di organico. Ci sono circa 190 unità, 30 in meno della pianta organica che però è calibrata per una popolazione carceraria della metà. Le condizioni di lavoro sono più che stressanti, così i turni. Fra l’altro nel carcere di Teramo - proprio perché è dotato di un reparto sanitario efficiente, con la guardia medica 24 ore su 24 - vengono portati molti detenuti con problemi psichiatrici, che quindi hanno bisogno di molta più attenzione. Perugia: un Imam oltre le sbarre, guiderà le preghiere dei detenuti musulmani La Nazione, 17 agosto 2010 Un imam per guidare i fedeli musulmani e confortarli dietro le sbarre. Al carcere di Capanne, dove i seguaci di Allah, sono oltre la metà della popolazione detenuta da settembre un “sacerdote” islamico potrà entrare - come accade per i preti cattolici - per visitare i detenuti e condurre la preghiera nell’apposita sala utilizzata dai musulmani, anche in questi giorni di Ramadan quando i tempi del digiuno dettato dal Corano rendono più difficoltosa l’organizzazione in un istituto di pena (i musulmani non possono ad esempio mangiare o lavorare se non al calar del sole). A riferire l’iniziativa è Liliana Chiaramello, la segretaria dei Radicali umbri che domenica - giorno di Ferragosto - ha visitato la casa circondariale perugina insieme all’europarlamentare Niccolò Rinaldi dell’Italia dei Valori, al vicepresidente della giunta regionale, Carla Cascari e al vicepresidente della Provincia, Aviano Rossi nell’ambito dell’iniziativa indetta a livello nazionale dai Radicali per constatare i problemi di chi vive dietro le sbarre: detenuti ma anche agenti. Per questo il gruppo ha incontrato la direttrice e ha visitato spazi comuni e celle dei detenuti. Difficile anche la situazione a Capanne, come negli altri istituti, dove a fronte di una capienza di 516 posti i detenuti sono in realtà 558 e molti dormono su materassi in terra nelle celle di 9 metri quadrati, progettate per due persone. Un sovraffollamento che si ripercuote anche sui pasti: i fondi stanziati dal Ministero infatti dovrebbero coprire il fabbisogno della popolazione carceraria regolare e invece deve essere suddiviso anche tra i fuori ruolo. “Il 60 per cento dei detenuti a Capanne - spiega Chiaramello - è in attesa di giudizio e come Radicali è da tempo che stiamo proponendo strategie alternative per ovviare a questo fenomeno”. Drammatica la situazione del corpo di polizia penitenziaria. Sulla pianta organica c’è scritto che nel carcere perugino dovrebbero lavorare 379 agenti quando in realtà ce ne sono appena 246: troppo pochi per garantire la sicurezza. L’altra categoria “disagiata” è quella degli psicologi che lavorano senza alcun contratto con l’amministrazione sanitaria regionale e quindi la direzione deve spesso affidarsi al lavoro fondamentale che svolgono i volontari dietro le sbarre. A Capanne ci sono anche tre mamme con tre bambini sotto i tre anni e una donna al nono mese di gravidanza. Uno dei nodi ancora irrisolti resta il funzionamento del centro clinico praticamente terminato ma mai divenuto operativo. Genova: con il “Volley nelle carceri” si formano campioni di vita Il Giornale, 17 agosto 2010 La pallavolo come strumento di socializzazione, di inclusione sociale e di rieducazione. Una chiave di lettura importante quella del Levante Volley Due Genova, la società sportiva, che per il secondo anno, propone come campo da gioco i penitenziari cittadini e quelli liguri. Si rinnova così il progetto ‘Volley nelle carceri’ finanziato dalla Fondazione Carige, che sceglie ancora una volta di sostenere iniziative per soggetti disadattati. Basta dunque tracciare delle strisce bianche, posizionare una rete negli spazi liberi di passaggio, ottenere le dovute autorizzazioni, e il campionato di pallavolo all’interno delle case circondariali di Marassi, Pontedecimo, Savona e Chiavari, prende il via. La nostra società mette a disposizione un istruttore - spiega Paolo Noli dirigente della Levante Volley Due Genova - che una volta a settimana per due o tre mesi, da concordare con il carcere, svolge un ciclo di lezioni di pallavolo che coinvolge direttamente i detenuti’. L’istruttore è laureato Isef, tesserato Fipav e con significative esperienze nel settore. ‘Abbiamo investito molto nel progetto - aggiunge - reso possibile grazie alla Fondazione, che ha creduto in noi, condividendone la valenza in termini di rieducazione e reinserimento sociale, sostenendo gran parte dei costi. Abbiamo iniziato lo scorso anno svolgendo l’attività solo nel carcere di Marassi, per tre mesi e i riscontri sono stati ottimi, sia da parte dei detenuti, che da parte della direzione. Quest’anno sono sette gli istruttori coinvolti che prepareranno una sessantina di detenuti: a Savona il torneo si è già concluso, ma a ottobre partiranno altri due moduli; a Marassi, Pontedecimo e a Chiavari gli allenamenti inizieranno invece in estate e in autunno. La pallavolo dunque, come simbolo dello sport di squadra, che incontra i detenuti in un campo all’aperto, attraverso lezioni di un’ora e trenta ciascuna. Ai detenuti - scelti tra coloro che ne fanno richiesta possibilmente per capacità fisiche e soprattutto per età - vengono fornite le divise e tutto il materiale sportivo; la rete è messa invece a disposizione dalla casa circondariale. L’obiettivo è quello di far relazionare i detenuti attraverso uno sport di squadra nel rispetto delle regole attraverso le basi della pallavolo - continua Noli - . L’idea finale è quella di disputare un piccolo torneo dimostrativo tra i detenuti. Si è anche pensato di coinvolgere delle squadre esterne, ma problemi di permessi non hanno ancora reso possibile l’iniziativa. Il riscontro positivo ottenuto nel 2009 ha incentivato gli organizzatori a riproporre il progetto anche nel 2010, coinvolgendo non soltanto Marassi, ma anche altri carceri liguri. L’istruttore Horacio Del Federico, tecnico della prima squadra, colpito dal confronto con i detenuti, racconta soddisfatto l’esperienza fatta: sono contento di aver accettato la proposta della società. È un’esperienza singolare e molto interessante. Ho dovuto mettere in chiaro alcune regole alle quali i detenuti si sono dovuti adeguare. Abbiamo stabilito un buon rapporto sin dall’inizio e il confronto non è stato difficile. Ho provato a insegnare loro alcune regole - aggiunge - e un po’ di tecnica di pallavolo. Abbiamo lavorato, e continueremo a lavorare sulla preparazione di base, ma anche sul comportamento e sul metodo. È importante che passi questo tipo messaggio. Non ci dimentichiamo che lo sport è un mezzo preventivo molto importante per i giovani, spesso può salvarli da situazione familiari complicate o da amicizie sbagliate. Ed è per questo, che cerchiamo, attraverso la pallavolo di chiarire alcuni concetti fondamentali per stare insieme in modo corretto. Soddisfatto è anche Duccio Centeleghe, responsabile del progetto “Volley nelle carceri” che ribadisce la validità dell’iniziativa: considerando la situazione di forte criticità in cui versano le carceri italiane sia sotto l’aspetto strutturale che in termini di sovraffollamento, è un grande sollievo per i detenuti svolgere queste attività all’aperto, dove non c’è competizione, ma un forte senso sportivo e rispetto delle regole. È un’attività nobile, credo la prima in Italia, che siamo orgogliosi assieme alla Fondazione Carige di poter portare avanti con passione. Immigrazione: allarme nei Cie di Milano, Gradisca e Brindisi; “dietro le rivolte una regia comune” La Repubblica, 17 agosto 2010 Ancora rivolte nei Centri di identificazione ed espulsione, un’altra ondata di rabbia ed esasperazione da Nord a Sud: prima la fuga di dieci immigrati dal centro di Restinco, alle porte di Brindisi, la sera di Ferragosto; poche ore dopo i disordini nei Cie di via Corelli a Milano e Gradisca d’Isonzo, Gorizia, con altri reclusi che fanno perdere le proprie tracce. Rivolte che si ripetono ad appena un mese da quelle scoppiate contemporaneamente a Milano e Gradisca, lo scorso 18 luglio, quando tre stranieri riuscirono a scappare da via Corelli. Con modalità che per le forze dell’ordine rivelano un’unica regia, anche se a esasperare gli animi è la proroga di mese in mese alla detenzione subita dagli stranieri, irregolari ma incensurati. A Milano i disordini iniziano all’una di ieri notte con 18 ospiti del centro - 17 nordafricani e una trans brasiliana - che salgono sul tetto e tentano la fuga. Solo un algerino di 21 anni riesce a superare il muro di cinta e sparire nelle campagne. La fuga dei 17 finisce invece contro scudi e manganelli della polizia: cinque stranieri restano feriti, tre vengono ricoverati in ospedale per contusioni riportate nel tentativo di saltare dai tetti, sei agenti sono lievemente contusi. Per tutti i rivoltosi scatta la denuncia per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Negli stessi minuti, la rivolta, ancora più violenta, esplode a Gradisca, dove sono 25 gli immigrati che forzano le porte di un campetto di calcio e fuggono. Otto vengono bloccati subito, sei sono rintracciati ieri mattina, undici ritrovano la libertà. Con l’approvazione del pacchetto sicurezza che ha portato a sei mesi il tempo massimo di detenzione, molti clandestini si vedono prolungare la loro permanenza proprio quando pensavano di tornare liberi. Così scoppiano le rivolte, destinate ad aumentare. Già questa mattina, solo al tribunale di Milano sono previste nove proroghe. “Finché ci saranno carceri dove si è detenuti per sei mesi senza aver commesso alcun reato, gli stranieri non potranno far altro che tentare di fuggire” accusa Mauro Straini, legale di stranieri in via Corelli. “L’esasperazione nasce dall’enorme sproporzione tra l’illecito amministrativo e i tempi di reclusione” aggiunge Domenico Tambasco, avvocato d’ufficio di sei clandestini ai quali è stata concessa la proroga venerdì. Intanto le violenze a Milano spaccano il centrodestra con il vicesindaco Riccardo De Corato che polemizza col ministro degli Interni Roberto Maroni per il suo rifiuto a creare un nuovo centro a Malpensa, mentre il deputato del Pd Emanuele Fiano definisce via Corelli un “istituto paracarcerario, le cui caratteristiche porteranno a nuove violenze”. Immigrazione: un volo verso la libertà… di Dina Galano Terra, 17 agosto 2010 Lunedì notte alcuni reclusi nel Centro di identificazione di Milano hanno tentato la fuga salendo sui tetti. Le proteste continuano ma per il Comune il problema si risolve solo aprendo nuove strutture. Qualche vetrata è andata in frantumi. Una colluttazione con gli agenti di guardia e, poi, di corsa sul tetto. Da tre metri d’altezza, il tentativo di fuga. Qualcuno si è rotto una gamba, saltando. Uno soltanto, di origine algerina, è riuscito a scappare. Gli altri, in manette, inizieranno una nuova detenzione. In ogni fase, la rivolta di lunedì notte nel Centro di identificazione ed espulsione di via Corelli a Milano ha seguito lo stesso disperato copione. Il trattenimento protratto per 6 mesi è un periodo di tempo insostenibile per uno straniero che, alla fine, nella migliore delle ipotesi sarà rimpatriato. Con l’accusa di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale, i diciotto che hanno dato origine alla protesta sono stati arrestati. Sono sei i poliziotti rimasti contusi, cinque migranti sono invece finiti al pronto soccorso per le ferite riportate. “Finché ci saranno carceri dove si è detenuti per un periodo di sei mesi senza aver commesso alcun reato, come accade nei Cie, le persone che ci sono ristrette non potranno far altro che tentare in tutti i modi di liberarsi esercitando un loro diritto”. L’avvocato Mauro Straini, legale di alcuni detenuti nel Cie milanese, ha così commentato gli eventi di ieri notte interpretandoli come l’ennesimo tentativo di sfuggire a una situazione di privazione della libertà personale. Aggravata dalle pessime condizioni di trattenimento. Nel rapporto Aldilà del muro, curato da Medici senza frontiere e presentato a inizio anno, il Cie di Via Corelli risulta tra quelli dove è “presente un alto livello di tensione”. Colpa delle carenze strutturali del centro, ma anche dalla carenza di assistenza alimentare e sanitaria adeguate. Si sta male a Via Corelli e l’amministrazione non pare intenzionata a recedere sull’opportunità che sia ancora pieno. I fatti di ieri “ripropongono l’urgenza di trovare nuovi sedi da aggiungersi a una struttura palesemente insufficiente a contenere gli enormi flussi di irregolari: 50mila a Milano, 150mila in Lombardia”, ha sottolineato il vicesindaco e assessore alla sicurezza del Comune, Riccardo De Corato. La soluzione proposta di potenziare l’apparato, vista in controluce, finisce per riconoscere le condizioni di detenzione sovraffollata del centro che, sulla carta, dovrebbe contenere poco più di un centinaio di persone. Nel capoluogo lombardo l’apertura della campagna elettorale del prossimo autunno sarà il banco di prova della tenuta dell’amministrazione Moratti sul tema immigrazione, che tra coprifuoco e ordinanze anti - immigrato ha reagito con pugno duro per riportare l’ordine in città. Se quello di via Corelli si ricorda per i tumulti del 21 agosto 2009, quando la comunità reclusa reagì con violenza all’estensione dell’obbligo di trattenimento a 180 giorni prevista nel neonato pacchetto sicurezza, quest’estate ha visto intensificarsi le proteste in tutti i Centri d’Italia. Segno di una migliore capacità organizzativa dei migranti, ma anche delle debolezze del sistema d’ordine e sicurezza. Immigrazione: mentre il Governo proclama vittoria nei Cie scoppia l’emergenza Italpress, 17 agosto 2010 “L’ennesima rivolta in poche settimane al centro di identificazione ed espulsione di Milano, con conseguenti danneggiamenti e feriti, non può essere archiviata come un episodio normale. Noi non sappiamo, come sostengono alcuni, se il problema sia l’apertura di un secondo Cie in Lombardia perché a quanto risulta gli ospiti di via Corelli sono in numero inferiore alla massima capacità”. Lo afferma Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd. “Certamente esiste, invece, un problema dovuto ai tempi di allungamento della permanenza nei centri, oggi fino a 6 mesi, e alla modificazione della provenienza della popolazione accolta, oggi spesso costituita da ex detenuti nelle carceri italiane. Tutto questo ha tramutato il Cie di Milano in un istituto con caratteristiche paracarcerarie e, aldilà del lavoro egregio del personale della Croce Rossa e di quello delle Forze dell’ordine adibite al controllo esterno, la struttura in sé non ha le caratteristiche né fisiche né gestionali per sostenere questo ruolo. Se non affronteremo in Parlamento questa modificata funzione dei centri di identificazione ed espulsione, quella di ieri sera purtroppo non saranno certo l’ultima rivolta e le ultime violenze che vedremo”. Droghe: in Veneto negati i fondi alle comunità terapeutiche, i Ser.D. non inviano più pazienti di Fabiana Pesci Il Mattino di Padova, 17 agosto 2010 “Perché già a metà anno alcuni servizi dipendenze delle Usl venete rinviano al mittente le richieste di inserimento in comunità per mancanza di fondi?” Lo chiede Iles Braghetto all’assessore regionale Remo Sernagiotto. L’ex europarlamentare Udc non riesce a spiegarsi come sia possibile che in sei mesi i 25 milioni di euro che la Regione destina ogni anno ai Ser.D. si siano già volatilizzati. Braghetto, neopresidente del coordinamento delle comunità terapeutiche Sirio, ha un sospetto: “Non potrebbe essere che, pur con le migliori intenzioni da parte dei direttori generali, quel denaro sia destinato ad altri scopi?”. Sernagiotto accoglie la denuncia ed è pronto a gettar luce sulla questione finanziamenti ai servizi dipendenze: “Il 24 agosto, alla riapertura degli uffici, convocherò immediatamente direttori generali e dei servizi sociali delle aziende sanitarie venete. È giusto che venga fatta chiarezza”. Sernagiotto, da pochi mesi responsabile regionale del settore Sociale, non avanza alcuna ipotesi: aspetta di aprire i carteggi prima di indicare responsabilità. Braghetto di fronte a troppi “mi spiace, non ci sono soldi” ha preso carta e penna indirizzando una missiva a palazzo Balbi: “Desideriamo farle presente - scrive il presidente di Sirio, consorzio di comunità terapeutiche che gravita su Padova, Verona e Treviso - il dilagare del problema droga e la necessità di farvi fronte con tutti i mezzi disponibili sul territorio, ivi comprese le comunità terapeutiche residenziali e semiresidenziali. Per questo è sempre stata scelta accurata della giunta regionale assicurare alle stesse comunità finanziamenti per 25 milioni di euro annui. Nel trasferimento annuale alle Usi la cifra dovrebbe essere bloccata esclusivamente per tale scopo. Non comprendiamo allora perché già a giugno molti Ser.D. comunichino l’impossibilità di attuare invii in comunità per esaurimento dei fondi”. Braghetto spiega che quei 25 milioni di euro, se correttamente impiegati, sarebbero oltremodo sufficienti a coprire il fabbisogno di tutto il Veneto. “Non intendo accusare nessuno - continua l’ex europarlamentare - chiedo solo che venga fatta chiarezza, in modo che possa essere ripristinata la destinazione originaria dei fondi. Abbiamo bisogno - conclude Braghetto - di veder riconfermato lo stretto e proficuo legame tra pubblico e privato in contesti di pari dignità e dell’integrazione socio - sanitaria dei servizi”. Israele: ex soldatessa diffonde su Facebook foto di detenuti palestinesi ammanettati e bendati Adnkronos, 17 agosto 2010 “Non capisco cosa ci sia di sbagliato”. Si difende così Eden Abergil, l’ex soldatessa delle Forze di Difesa israeliane che ha scatenato un putiferio nell’esercito e nell’opinione pubblica per aver pubblicato su Facebook foto che la ritraggono sorridente vicino a detenuti palestinesi ammanettati e bendati. Contattata dalla radio dell’esercito, l’ex militare di Ashdod ora in congedo ha detto che “le foto sono state scattate senza cattive intenzioni”. Le immagini incriminate sono state rimosse dal sito, ma ne esistono copie che circolano nel Web in una varietà di blog e nuove pagine Internet. “Continuo a non capire cosa ci sia di sbagliato”, ha detto la Abergil, spiegando che i palestinesi ritratti erano cittadini di Gaza arrestati mentre cercavano di entrare illegalmente in Israele. Queste immagini, ha proseguito, avevano l’obiettivo di testimoniare una “esperienza militare” e non vi era l’intenzione di ferire i prigionieri. Nell’intervista concessa alla radio militare, la Abergil ha più volte detto di non aver mai pensato che “le foto potessero rappresentare un problema”. A una domanda sulla possibilità che queste immagini danneggino Israele sulla scena internazionale, l’ex militare ha detto che “noi saremo sempre attaccati. Qualunque cosa faremo, saremo sempre attaccati”. Ieri il portavoce delle Forze di Difesa israeliane ha definito quello della Abergil come “un comportamento vergognoso da parte del soldato. Alla luce del fatto che lei si è congedata lo scorso anno, tutti i dettagli sono stati inviati ai comandanti per ulteriori verifiche”. E, per questo, non è possibile prendere provvedimenti disciplinari. “Questo tipo di immagini - ha affermato dal canto suo il direttore della Commissione pubblica contro le torture Yishai Menuhin - riflettono i comportamenti che di norma i soldati israeliani hanno nel trattamento dei detenuti palestinesì. Menuchin ha aggiunto che “il comportamento del soldato è un prodotto della cultura popolare delle Forze di Difesa israeliane che non considera i palestinesi come esseri umani con dei loro diritti. Il soldato che appare nelle foto gode nell’umiliare i detenuti e a non rispettare il loro diritto a non diffondere online le fotografie che li ritraggono in circostanze umilianti, senza il loro consenso”.