Giustizia: Ferragosto nel girone delle carceri; è emergenza, idea sbagliata di sicurezza di Carlo Ciavoni La Repubblica, 12 agosto 2010 Come ogni anno parlamentari in visita negli istituti di pena italiani. Su iniziativa della radicale Bernardini nel week-end di Ferragosto. Sbriglia (sindacato direttori delle prigioni): “Esibizioni muscolari non funzionano. L’unica soluzione è il reinserimento sociale”. Nonostante la critica, rivolta da uno dei sindacati degli agenti della polizia penitenziaria (il Sappe) - “le carceri non sono né uno zoo né un grande fratello... evitiamo la solita passerella di politici” - Rita Bernardini, deputato radicale, eletta nelle liste del Pd, torna alla carica per organizzare, da venerdì fino a Ferragosto, la seconda grande “visita in massa” dei parlamentari italiani nelle patrie galere. Al di là delle critiche degli agenti - più di opportunità, in verità, perché il merito per l’iniziativa viene comunque riconosciuto - almeno 170 deputati e senatori di tutti gli schieramenti politici trascorreranno il prossimo week end di Ferragosto nei corridoi e nelle celle delle 205 case circondariali e di reclusione in tutto il territorio nazionale. Numeri allarmanti. Lo scenario che si troveranno di fronte sarà - se possibile - peggiore rispetto a quello dell’anno scorso. I numeri che arrivano da fonti ufficiali, nella loro spietatezza, delineano un quadro infernale, che parte dalla condizione di sovraffollamento delle celle: poco meno di 70 mila persone (68.206, in continuo aumento) in uno spazio che, complessivamente, ne potrebbe contenere 43 mila. Dunque, luoghi di pena che niente hanno a che vedere con quanto sancito dall’articolo 27 della Costituzione Italiana, fondato sul principio secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Gli altri numeri parlano di 41 detenuti suicidi nelle carceri italiane dall’inizio di quest’anno (sono 596 dal 2.000 ad oggi) 35 dei quali si sono impiccati, 5 si sono asfissiati col gas e 1 si è tagliato la gola; mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 112 (negli ultimi 10 anni i “morti di carcere” sono stati 1.710). Va detto però che non sono soltanto i detenuti a “morire di carcere”: da gennaio ad oggi già 4 agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita, ai quali va aggiunto che la tragedia personale del provveditore alle carceri della Calabria, Paolo Quattrone, suicida il 23 luglio scorso. La voce dei direttori. “Sono davvero molto felice della visita di parlamentari - dice Enrico Sbriglia, segretario nazionale del sindacato (Sidipe) dei direttori delle carceri - sarebbe meglio però che non ci fossero solo ad agosto. Lo stato di emergenza, dichiarato lo scorso 13 gennaio dal ministero, non solo è ancora in atto, ma si aggrava giorno per giorno. Quella data ha sancito un’autocertificazione di impotenza di fronte alla quale, nonostante alcuni sforzi, si sta facendo, secondo il sindacato che rappresento, molto, ma molto poco. Sono sconfortato, da direttore. Da cittadino mi sento preso in giro. Nelle celle - prosegue Sbriglia - non vedo facce di criminali, ma solo sguardi di gente disperata, che spesso ha commesso reati per i quali il carcere, almeno così com’è, viene percepito come una punizione sproporzionata”. L’idea sbagliata di sicurezza. “Nelle carceri - ha detto ancora il dottor Sbriglia, che è anche assessore alla sicurezza al comune di Trieste, per Generazione Italia, formazione attigua al Presidente della Camera Fini - si dimostra ogni giorno che l’idea della sicurezza raggiunta con esibizioni muscolari, come i miliari per strada, o l’ostentazione di forza con le armi a noi ci fa sorridere, perché non funziona. Nelle celle l’unica cosa che porta a risultati - ha sottolineato Sbriglia - è il rispetto delle regole ispirate ad una logica di reinserimento sociale. Non c’è altro da fare”. Il rischio islamico. Rispetto al rischio paventato dal Sappe secondo il quale gli oltre 10mila detenuti in di fede islamica rappresenterebbero un pericolo di diffusione del fondamentalismo, soprattutto ora nella situazione di estremo nella vita nelle celle che - osserva Donato Capece, segretario del Sappe, appunto - potrebbe diventare il luogo in cui, sempre più spesso, piccoli criminali vengono tentati da membri di organizzazione terroristiche”, il dottor Sbriglia replica così: “Vanno distinti coloro i quali, ancorché mussulmani, adottato subito gli stili di vita occidentali, tra alcol e droghe, da quanti invece restano fedeli ai precetti islamici. Questi ultimi possono essere invece considerati detenuti modello: pregano 5 volte al giorno, sono pacifici, rispettano le regole”. Giustizia: nelle carceri ennesimo suicidio, in due evadono, 5 agenti feriti in Campania Ansa, 12 agosto 2010 Continua a salire la tensione nelle carceri. A Rebibbia un detenuto si è tolto la vita, impiccandosi. Un nuovo gesto estremo che allunga la drammatica catena di suicidi dietro le sbarre, 41 dall’inizio dell’anno. Due reclusi sono invece evasi da Milano Bollate, approfittando, secondo i sindacati della polizia penitenziaria, della sorveglianza allentata per la carenza di personale. Mentre nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa c’è stata una violentissima rissa tra internati: uno di loro è in gravissime condizioni, e due agenti penitenziari sono rimasti feriti. Sempre in Campania altri tre poliziotti sono stati feriti da un detenuto nella casa di reclusione di Carinola. Fatti che confermano come sia sempre più esplosiva la situazione nelle carceri, sulla quale l’associazione Antigone sollecita una commissione di inchiesta parlamentare: “l’ennesimo suicidio in cella deve portare il Parlamento ad assumersi le sue responsabilità”, sostiene il presidente, Patrizio Gonnella, che chiede che l’indagine parta in occasione delle tradizionali visite dei deputati nelle carceri a Ferragosto e che si accertino anche le responsabilità di ogni singola morte dietro le sbarre. A uccidersi stavolta è stato un detenuto di 50 anni, Riccardo Greco, che era giunto da appena quattro giorni nel carcere romano di Rebibbia Nuovo complesso dopo essere stato estradato dalla Spagna. L’uomo era in una cella singola in attesa di essere trasferito nella sezione di Alta Sicurezza. A trovarlo senza vita sono stati, questa mattina, gli agenti di polizia penitenziaria. “È solo l’ultimo atto di una tragica serie che sembra non aver fine e che in una settimana ha causato la morte di 3 detenuti, mentre altri due sono ricoverati all’ospedale in coma irreversibile”, denuncia Ristretti Orizzonti, secondo cui il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause da accertare arriva a 112. Mentre il garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, ha segnalato come questo sia l’ottavo decesso nei penitenziari della regione, il terzo per suicidio. Erano addetti alle pulizie della caserma agenti della Casa di reclusione di Milano Bollate invece i due detenuti evasi, Pasquale Pagana e Pasquale Romeo, che si sono allontanati a bordo di un’auto rubata (uno dei due ha lasciato una lettera di scuse per il gesto compiuto). Al loro controllo era addetto un solo poliziotto, accusano i sindacati penitenziari, che rilanciano la polemica sui tagli al settore, segnalando che questa è la tredicesima evasione nel 2010. Hanno usato le gambe divelte da alcuni tavolini gli internati che a Aversa sono stati protagonisti della violentissima rissa: solo dopo due ore gli agenti sono riusciti a ristabilire la calma. Mentre nel carcere di Carinola ad aggredire gli agenti, provocando loro lesioni guaribili tra i 3 e i 10 giorni, è stato un esponente di spicco della criminalità organizzata pugliese. Giustizia: Vitali (Pdl); la situazione all’interno delle carceri è a dir poco drammatica Ansa, 12 agosto 2010 La situazione all’interno delle nostre carceri è a dir poco drammatica e se il sistema resiste ancora, lo si deve al grande senso di responsabilità del personale della Polizia Penitenziaria e di quanti operano all’interno delle strutture di detenzione. Turni massacranti, riduzione drastica delle ferie e dei riposi settimanali fanno si che il Paese non si accorga di come si lavora nelle nostre carceri. Le istituzioni non lo possono dimenticare e i cittadini devono sapere che vi sono dei servitori dello Stato che, a costo di sacrifici personali, rendono possibile tutto ciò. Così stando le cose, dobbiamo essere solo grati a queste persone e fare il possibile per normalizzare la situazione senza pretendere da loro cose straordinarie ma accontentandoci, ci mancherebbe altro, dell’ordinaria amministrazione: oggi è già tanto! Questo Governo, con le note ristrettezze economiche e con tempi tecnici necessari, si sta muovendo all’altezza della situazione: in due anni ha realizzato più di 1500 posti nuovi all’interno di istituti di reclusione ed ha varato il piano carceri che, entro 24 mesi, porterà a 70mila unità la capienza ordinaria delle strutture detentive. Può non sembrare, ma è tantissimo. Nel frattempo è stata varata una norma, con l’adesione dell’opposizione, per la quale potranno scontarsi con la detenzione domiciliare più di 12 mesi di pena e saranno assunti 2000 tra agenti assistenti e vice commissaria della Polizia Penitenziaria. In più sono personalmente impegnato nel portare avanti il riordino delle carriere e l’agganciamento dei benefici giuridici ed economici dei funzionari della Polizia Penitenziaria ai loro colleghi della Polizia di Stato (si sta discutendo in commissione Lavoro alla Camera di tutto ciò). Anche quest’anno a ferragosto sarò in giro nelle carceri pugliesi, giammai per sanzionare chicchessia, ma per esprimere apprezzamento, solidarietà e considerazione nei confronti di chi merita da noi tutti solo stima e gratitudine. Giustizia: Di Giovan Paolo (Pd); perché tante carceri sono terminate ma ancora chiuse? Ansa, 12 agosto 2010 “In Italia esistono carceri terminate, o quasi, che non vengono utilizzate e sulle quali dal governo non abbiamo avuto ancora una risposta esauriente. E comunque servono misure alternative alla detenzione, visto che troppi detenuti sono in attesa di giudizio”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei. “Servono risorse umane e finanziarie perché - aggiunge il senatore Pd - le carceri italiane sono pensate al massimo per 56.000 detenuti e non per gli attuali 68.000 di cui la maggior parte è in attesa di giudizio e costretta a vivere in condizioni a volte disumane. L’impegno del Pd su questo fronte non è solo per i detenuti ma anche per i servitori dello Stato che, con grande impegno e professionalità, continuano a rendere un servizio alla comunità e ai cittadini per la rieducazione nonostante la mancanza di risorse”. Giustizia: volontariato e istruzione, l’altra realtà dei penitenziari italiani Adnkronos, 12 agosto 2010 Quasi 10mila volontari impegnati quotidianamente, 200 mediatori culturali e più di 1.200 corsi scolastici, dall’alfabetizzazione fino all’università. Questi i dati diffusi da “Ristretti Orizzonti” che mirano a far luce su aspetti diversi della vita nelle carceri e quindi non solo sulle drammatiche notizie su sovraffollamento, autolesionismi e suicidi. Guardando i dati dell’elaborazione del centro studi di “Ristretti Orizzonti”, dal titolo “Volontariato, mediazione culturale, scuole e università in carcere”, emerge un considerevole attivismo da parte dei volontari all’interno degli istituti di pena. L’anno scorso, quelli che hanno operato nelle carceri italiane sono stati 9.756, di cui una ristretta ma significativa parte, 1.930, non appartiene ad alcuna associazione non profit e svolge bensì il servizio di volontariato in maniera individuale. Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta le regioni in cui si è registrato il maggior numero di volontari, impiegati in ogni settore. Quasi un terzo dei volontari attivi in carcere si è adoperato per organizzare iniziative culturali, sportive e ricreative per i detenuti, altrettanti per dare sostegno morale ai reclusi e alle loro famiglie e 1.300 si sono impegnati nell’organizzazione di attività di carattere religioso. Sono circa 1.800, infine, i volontari impegnati nella formazione scolastica e professionale dei detenuti. Proprio la formazione culturale è uno degli aspetti più incoraggianti sulla vita nelle carceri sottolineato dalla ricerca. Nell’anno scolastico 2008-2009, i detenuti iscritti, complessivamente, sono stati 14.848, circa il 25% della popolazione carceraria, di cui 6.399 hanno ottenuto la promozione. All’interno degli istituti di pena sono stati organizzati 188 corsi di scuola primaria, che sono stati frequentati prevalentemente dai detenuti stranieri: 1.593, a fronte di 952 italiani. 5.078 detenuti, invece, (tra cui poco più della metà italiani e 2.388 stranieri) hanno frequentato durante il periodo di detenzione i 303 corsi di scuola media inferiore organizzati nell’anno scolastico 2008/2009. Nello stesso anno scolastico sono stati anche organizzati 276 corsi di scuola secondaria di secondo grado, frequentati da 2.691 italiani e da 915 stranieri. Di particolare rilievo per i detenuti stranieri all’interno delle carceri italiane è il ruolo sia dei mediatori culturali che vi operano all’interno che dei corsi di alfabetizzazione che vi vengono organizzati: questi ultimi sono stati 246 nell’anno scolastico 2008-2009; dei 3.619 detenuti che li hanno frequentati, solo 381 sono italiani e i restanti 3.238 stranieri. I mediatori culturali totali che hanno lavorato nelle carceri l’anno scorso sono stati 227, di cui più un terzo (84), per l’area nordafricana, seguiti da quelli impiegati per l’Europa dell’Est, 74 in totale. Tra gli altri: 20 per Medio ed Estremo Oriente, 15 per l’Africa sub sahariana, 14 per il Sud America e 20 suddivisi per le altre aree geografiche. Importante, infine, il ruolo dei Poli universitari penitenziari presenti nelle carceri italiane: 23 in totale, in cui gli indirizzi di studio maggiormente rappresentati sono quello Giuridico, Letterario ed Economico Statistico. Unica eccezione italiana l’istituto penitenziario di Prato, dove è attivo un corso di laurea in Medicina e Chirurgia. Grazie all’apporto di docenti universitari esterni, però, esistono anche 24 corsi che vengono svolti al di fuori delle mura carcerarie, a fronte dei 29 che invece si svolgono al loro interno. Diciannove i laureati a fronte dei 304 iscritti, di cui 10 uomini e 9 donne. Giustizia: Osapp; Alfano pensa di ricorrere ai pensionati, per coprire carenze d’organico Adnkronos, 12 agosto 2010 “I poliziotti penitenziari sono sempre di meno? L’età media dei poliziotti penitenziari si è innalzata troppo per l’assenza, negli ultimi anni, di ricambi generazionali? Nessun problema: usiamo i pensionati...”. È quanto denuncia il segretario dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, Leo Beneduci. Osserva il segretario dell’Osapp: “In base a una convenzione che nello scorso luglio il ministro della Giustizia Alfano, in collaborazione con il capo del Dap Ionta, ha sottoscritto con l’associazione di un sindacato di polizia penitenziaria, i pensionati potranno essere chiamati a svolgere incarichi ufficiali all’interno degli istituti penitenziari”. Per Beneduci, “già le iniziative sono in corso, come a Reggio Calabria dove, in mancanza di addetti di polizia penitenziaria, un pensionato sarà per tre giorni a settimana nell’apposito ufficio del carcere per distribuire gli effetti di vestiario e casermaggio agli agenti in servizio; ma voci diffuse parlano anche di locali, telefoni dell’amministrazione, incarichi ufficiali al Dap, fondi e persino riammissioni in servizio, che la convenzione avrebbe stabilito potersi effettuare, tra l’amministrazione penitenziaria e l’associazione in questione”. Lamenta l’Osapp: “Il nuovo corso delle carceri di Alfano e Ionta passerebbe per gli ultrasettantenni pensionati, che possono essere validi e arzilli quanto si vuole ma che, a parte evidenti problemi di legalità e di legittimità di impiego e i gravissimi problemi di disoccupazione del Paese, non sono né la riforma integrale del sistema penitenziario e del corpo né le risorse aggiuntive, di uomini, di mezzi e di fondi che le donne e gli uomini della polizia penitenziaria attendono da tempo”. Lettere: il dramma delle carceri e i silenzi della “società civile” di Rosario Giuè (scrittore e teologo) La Repubblica, 12 agosto 2010 Può la società civile siciliana mantenere un indifferente silenzio di fronte allo stillicidio di suicidi nelle carceri? La situazione delle carceri, in Sicilia come nel resto del Paese, è insostenibile. Le strutture carcerarie sono inadeguate al rispetto della dignità umana delle persone che vi sono recluse. Non è difficile pensare che proprio questa situazione disumanizzante spinga alcuni detenuti al suicidio. Non si era finito di ricevere la notizia della decisione di un recluso di origini campane di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella a Siracusa, qualche giorno fa, che abbiamo appreso di un altro suicidio. Questa volta è stato Marcello a impiccarsi con una corda nel carcere circondariale di Giarre. In precedenza nel carcere di Bicocca, a Catania, si era tolto la vita Andrea, un altro detenuto, sgozzandosi con la lametta da barba. Ormai, solo in un anno, in Sicilia i suicidi carcerari sono già nove. Ma dietro i numeri locali o nazionali ci sono volti, nomi, storie, famiglie. Di ciò non ci si deve preoccupare? Come giustamente ha affermato un sindacalista, i suicidi certificano non soltanto il fallimento del sistema penitenziario sempre più abbandonato al proprio destino, ma anche l’indifferenza della politica e della società. Il fallimento del sistema penitenziario è certificato dalle cifre. Su 45 mila posti disponibili, a fine marzo i detenuti erano 67 mila, con un incremento mensile di circa mille unità. Il piano di edilizia penitenziaria, come riferisce il cappellano della casa circondariale di Trani, don Raffaele Sarno, prevede la costruzione di nuovi padiglioni anche “nelle aree degli istituti già esistenti, con relative sottrazioni di spazi alle già scarse attività trattamentali”. Gli spazi per la scolarizzazione, per l’avviamento professionale, per le “aree verdi”, per i colloqui fra detenuti e famiglie anche in presenza di minori, per le attività sportive degne di questo nome, sono ridotti sempre di più. Gli agenti penitenziari, carenti come numero, vengono sottoposti a turni massacranti, riducendosi a svolgere un lavoro ripetitivo e alienante, mettendo da parte il loro ruolo educativo che dovrebbe sommarsi a quello della salvaguardia della sicurezza. I pochi educatori carcerari, che pure sarebbero essenziali per svolgere percorsi utili in vista del reinserimento, sono costretti a tralasciare in gran parte il dialogo con le persone per occuparsi di adempimenti burocratici. Più rare ancora sono le figure professionali quali criminologi, psicologi, psichiatri. Quelle che esistono sono di fatto costrette a limitarsi a sporadici interventi. Senza dire dei detenuti extracomunitari. La loro scarsa assistenza legale, la mancanza di sostegno delle famiglie, le difficoltà ad avere cambi di biancheria, la scarsità di mediatori culturali. Certo, c’è il volontariato laico e cattolico, a volte mal tollerato, che cerca generosamente di tappare alcune falle del sistema carcerario. Ma il volontariato non ha la bacchetta magica per migliorare le condizioni di vivibilità negli spazi interni. Celle anguste costringono alla convivenza immediata con numerosi altri detenuti, con letti a castello e un solo bagno da condividere. In questo contesto è evidente come la mancanza di privacy sia assoluta. E ciò proprio mentre il governo è impegnato strenuamente nell’approvazione della legge sulle intercettazioni a tutela, si dice, della privacy (dei politici). In questa situazione disumanizzante è facile immaginare l’esplodere di conflitti con gli altri detenuti. Ma anche l’esplodere di conflitti dentro sé stessi. Con esiti a volte tragici, fino al suicidio. Di fronte a ciò, la “società civile” non deve poter fare di più? Purtroppo anche in quella parte della società sensibile alla lotta alle mafie sembra che il mondo carcerario non abbia finora avuto molto spazio. L’interesse e l’impegno pubblici per le carceri sono stati, fatte le debite eccezioni, irrilevanti. La pressione politica per cambiare la situazione è stata praticamente nulla. Degli istituti di pena non ci si può interessare solo quando è necessario mobilitarsi per mantenere il carcere duro per i capimafia, al fine di evitare che questi possano continuare a tramare dolore e morte. La tragedia dei suicidi nelle carceri ci interpella e non ci può lasciare distaccati spettatori. I detenuti, non va dimenticato, sono persone umane. Anche il mondo ecclesiale, forse dentro la logica di una concezione della giustizia retributiva (hai fatto questo, quindi devi pagare) non ha coltivato abbastanza il tema dei diritti umani dei detenuti. L’accompagnamento dei cappellani è prezioso, ma non può bastare senza una denuncia pubblica della disumanizzazione carceraria. Lombardia: novemila reclusi per 5.600 posti, dietro le sbarre l’estate peggiore degli ultimi anni di Davide Carlucci La Repubblica, 12 agosto 2010 Esattamente un anno fa, il 12 agosto del 2009, moriva a San Vittore, suicida, Luca Campanale. La psicologa del carcere l’avrebbe “lasciato morire”, scrive il pm Silvia Perrucci, “per mancanza di posti letto”. Ma anche nonostante questo precedente, quello che è in corso non è il solito agosto nero per i detenuti in Lombardia. È il peggiore degli ultimi anni. “È stata sfondata la soglia dei novemila detenuti. E abbiamo superato il limite della capienza tollerabile” annuncia Giorgio Bertazzini, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Milano. Se telefoni per parlargli risponde una segreteria che rimanda alla presidenza della Provincia: “Dal primo luglio quest’ufficio non è più operativo...”. Questo perché solo a fine luglio Palazzo Isimbardi ha deciso di concedere una proroga al servizio. E anche questo la dice lunga sui disagi vissuti da chi cerca di occuparsi del pianeta carcere. Un altro segnale sono le difficoltà delle cooperative che cercano di reinserire nel mondo del lavoro chi sconta una pena, colpite dalla crisi e dai tagli al welfare. “Non riusciamo a ricevere commesse con continuità - dice Massimo D’Angelo della Ecolab, la coop che dà lavoro, tra gli altri, a Renato Vallanzasca - e i contributi pubblici si stanno riducendo. Dobbiamo pagare stipendi e imposte ma non ce la facciamo”. Poi c’è l’allarme per le carenze d’organico: in Lombardia gli agenti dovrebbero essere 5353 e invece lavorano solo in 4100, senza contare i distacchi. I suicidi sono in aumento. “Se ne contano cinque dall’inizio dell’anno” spiega Eugenio Sarno, della Uilpa, che snocciola dati preoccupanti anche per il sovraffollamento, più 60 per cento in media in regione rispetto alla capienza massima. “Quei numeri - aggiunge però Bertazzini - si riferiscono alla capienza tollerabile. Se invece ci rifacciamo alla capienza regolamentare, quella cioè che dovrebbe essere prevista per legge, emergono dati clamorosi come quello di San Vittore, dove l’indice del sovraffollamento è del 219 per cento o di Busto Arsizio, dove si arriva addirittura al 270 per cento”. Un dramma di cui si sono fatti carico anche gli avvocati. Mirko Mazzali ha presentato insieme a Vinicio Nardo, presidente delle Camere penali, un esposto in procura per denunciare le condizioni disumane in cui vivono i detenuti per colpa del sovraffollamento. “D’estate la situazione si aggrava - spiega Mazzali - e le condizioni igieniche diventano precarie. Noi crediamo però che il problema si risolva non tanto costruendo nuove carceri, ma aumentando il numero degli agenti di custodia e incrementando le sanzioni alternative al carcere. Ma per questo servono educatori e psicologi che ora invece mancano”. Anche il modello Bollate rischia di venire risucchiato dalla crisi generale del sistema in Lombardia, avverte Mazzali. Per Lucia Castellano, direttrice dell’istituto penitenziario dal quale ieri sono evasi i due detenuti, quello che è avvenuto è anche riconducibile alla “esiguità del personale”. Ma aggiunge: “Non voglio trincerarmi dietro questo problema per giustificare una falla che va colmata al più presto. E che va considerata come un fallimento a fronte di tanti successi nella nostra scommessa sulle capacità di recupero delle persone. Se devo fare una classifica degli eventi critici metto prima i suicidi e poi le evasioni. Che, tra l’altro, sono molto meno”. Veneto: Sinigaglia (Pd); accelerare istituzione del garante regionale dei diritti dei detenuti Asca, 12 agosto 2010 Accelerare l’istituzione del garante unico dei diritti alla persona. Lo chiede Claudio Sinigaglia (Pd), vicepresidente della Commissione Sanità del Consiglio Regionale del Veneto, al presidente della Commissione, Leonardo Padrin. “Il 23 agosto - spiega Sinigaglia - scade il termine per presentare le candidature per gli incarichi del Difensore civico e del Pubblico tutore dei minori, entro il 23 ottobre Consiglio e Giunta devono nominare i nuovi titolari dei due uffici attualmente retti, già da due legislature, da Vittorio Bottoli e da Lucio Strumendo. Se vogliamo quindi intervenire per razionalizzare le due strutture e istituire il garante unico dei diritti alla persona abbiamo poco tempo: il Consiglio deve legiferare prima del 23 ottobre, termine entro il quale scattano i poteri di surroga”. “Il centrodestra - continua - ha già elaborato una proposta di legge, primo firmatario il capogruppo del Pdl Dario Bond. Anche il Pd ha già previsto l’istituzione del garante regionale per la tutela dei cittadini, dei minori, dei detenuti e di tutte le persone sottoposte a misure restrittive nella propria bozza di statuto, all’articolo 59”. Lazio: il Garante; per detenute madri pensare a strutture alternative al carcere Adnkronos, 12 agosto 2010 “Record di presenze di bambini, lo scorso fine settimana, nel nido del carcere di Rebibbia Femminile. Nelle stanze del nido, a fronte di una capienza di 14 posti, c’erano infatti 19 fra bambini e bambine con le loro mamme recluse nel carcere romano”. L’allarme è del Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni, che prosegue affermando: “il più piccolo dei bambini ospitati a Rebibbia ha cinque mesi, il più grande intorno ai 3 anni. In base alla legge, i bambini da 0 a 3 anni possono restare in carcere insieme alle loro mamme detenute. Al compimento dei 3 anni scatta obbligatoriamente la scarcerazione dei minori, indipendentemente dalla pena della madre, con l’affidamento del piccolo o parenti o case famiglia: una situazione, questa, spesso fonte di gravi traumi alle mamme e ai bambini”. Attualmente a Rebibbia Femminile sono recluse 19 detenute madri. Le donne sono tutte straniere: la stragrande maggioranza è composta da donne di etnia rom. Soprattutto nel periodo estivo il problema principale è quello di intrattenere i bambini allo scopo di evitare che, su di loro, pesi eccessivamente la condizione di reclusi. Per questi motivi i piccoli trascorrono gran parte del tempo nella stanza dei giochi o nella zona verde. Inoltre, grazie alle associazione di volontariato “A Roma Insieme”, i fine settimana partecipano ad escursioni fuori dal carcere. “Questi bambini stanno perdendo una parte importante della vita per colpe che, evidentemente, non sono le loro - prosegue Angiolo Marroni - La loro situazione è molto difficile, nonostante l’impegno encomiabile degli operatori e dei volontari. È davvero difficile pensare che tanti bambini debbano crescere in cella, fra sbarre e limiti di spazio, e passare lì l’età cruciale del primo apprendimento”. “Per questi motivi - conclude il Garante dei detenuti - credo sia prioritario prevedere, per le madri detenute, l’uso della carcerazione solo per reati gravi e misure alternative alla detenzione, come ad esempio l’Icam (Istituto a Custodia Attenuata), una struttura alternativa al carcere, che possa accogliere le detenute madri durante il periodo detentivo e far crescere i bambini in un ambiente idoneo allo sviluppo della personalità in una fase cruciale della crescita”. Palermo: Apprendi (Pd); detenuti vivono in condizioni disumane, il carcere va chiuso Il Velino, 12 agosto 2010 Visita annunciata stamani del deputato del Pd Pino Apprendi al carcere dell’Ucciardone di Palermo. “Più di settecento detenuti, a fronte di una capienza che non potrebbe superare, per ragioni di sicurezza, le 490 unità, l’assenza totale di supporto psicologico limitato a 28 ore complessive al mese per un numero tanto elevato di detenuti. Carcerati costretti ad utilizzare servizi igienici disumani, l’impossibilità di fare anche solo una doccia al giorno, così come è garantito dalla legge, 200 agenti di custodia in meno rispetto ad una pianta organica che risale al 2001. Infine, la desolante scena di bambini, figli di detenuti, costretti nelle sale d’attesa in visita ai genitori, senza alcun supporto socio assistenziale”. In queste condizioni, il vice presidente della commissione Attività produttive all’Ars, Pino Apprendi, ha trovato il carcere borbonico dell’Ucciardone. La visita alla struttura penitenziaria aveva lo scopo di incontrare i responsabili dell’ istituzione e gli otto detenuti che erano nella stessa cella di Dino Naso, il carcerato in coma al Buccheri La Ferla. “Strutture del genere - precisa Apprendi - devono essere chiuse. Ho trovato il carcere molto più deteriorato rispetto ad un anno fa. I muri sono pieni di umidità, ci sono delle crepe pericolose perfino nella stanza adibita ad infermeria. Per rimettere in sicurezza l’intero edificio ci vorrebbe un investimento davvero consistente. Per questo credo sia più conveniente chiudere del tutto questo carcere. Non possiamo tenere i detenuti in queste condizioni, la restrizione della libertà non può significare limitazione dei diritti”. Giuristi Democratici: l’Ucciardone è invivibile L’Ucciardone potrebbe ospitare al massimo 410 detenuti ed invece all’interno ve ne sono circa 700. Rispetto alle previsioni della pianta organica mancano 180 agenti di polizia penitenziaria. Ridotto del 30% è anche il numero degli educatori rispetto a quello previsto. A ciò si aggiunga l’invivibilità della struttura, risalente al 1840, mai ristrutturata e non idonea a garantire condizioni di vita dignitose. A denunciare le condizioni del carcere palermitano sono i Giuristi democratici, dopo una visita che un loro rappresentante, Giuseppe Bruno (componente dell’esecutivo nazionale) ha fatto con il parlamentare regionale del Pd Pino Apprendi. “I detenuti possono fare la doccia soltanto 3 volte a settimana, malgrado la previsione regolamentare riconosca tale diritto ogni giorno”, segnala l’associazione, che giudica “ancor più grave l’esiguo numero di personale medico, paramedico e di sussidio psicologico e l’assoluta inadeguatezza delle strutture di accesso dei familiari ai colloqui coi detenuti”. “Visitando il carcere appare chiaro - sostiene Bruno - come vi sia una chiara responsabilità e latitanza del governo nazionale che non destina risorse sufficienti a rendere le strutture vivibili sia dal punto di vista strutturale che psicologico”. Milano: dopo l’evasione da Bollate i sindacati degli agenti insorgono “impegni non mantenuti” di Gabriele Cereda La Repubblica, 12 agosto 2010 Erano le nove di ieri mattina quando Pasquale Pagana, 35 anni, originario di Torre Annunziata, nel napoletano, condannato per rapina, e Pasquale Romeo, anch’egli trentacinquenne, calabrese, in cella per tentato omicidio, hanno preso la fuga dal carcere di Bollate. Uno di loro ha lasciato un biglietto per la direttrice: “Mi scusi, ho problemi urgenti”. Nella struttura-modello i due avevano, assieme ad altri diciotto reclusi, un compito privilegiato: addetti alle pulizie nella caserma della polizia penitenziaria, che si trova all’interno del perimetro del penitenziario con la sala convegni e la palestra, ma al di fuori delle mura del carcere vero e proprio. Istituto modello per il reinserimento dei condannati, al confine con Milano, Bollate ospita 1.100 detenuti. Tra questi, 20 godono della condizione di “sconsegnati”, cioè non sottoposti a vigilanza costante. Un gruppo ristretto di cui facevano parte anche gli evasi, da sei mesi impegnati a svolgere lavori al di fuori della cinta carceraria. Ieri, dopo l’assegnazione delle mansioni, distribuite lungo i dieci piani della torre che ospita gli alloggi del personale, Pagana e Romeo si sono dileguati. Un’assenza notata, pochi minuti più tardi, dall’unico agente di polizia penitenziaria impegnato nel controllo dei detenuti, che ha subito lanciato l’allarme. Le divise azzurre, che identificano gli “sconsegnati” e che Pagana e Romeo indossavano, sono state trovate davanti all’uscita di sicurezza della palestra, da dove i fuggitivi sono usciti per poi scavalcare una bassa cancellata. Subito dopo i fuggiaschi, entrambi con problemi di droga, hanno bloccato un’automobilista in via Belgioioso, a pochi metri dal carcere. Dopo essersi fatti consegnare la macchina si sono allontanati a tutta velocità facendo perdere le loro tracce. Ormai giunti quasi a “fine pena”, Pagana nel 2012 e Romeo nel 2013, avrebbero potuto usufruire tra pochi mesi della libertà anticipata, dopo aver già scontato 4 anni di reclusione il primo e sette il secondo. Le modalità dell’evasione fanno propendere gli investigatori per una fuga ideata all’ultimo momento. Ma nella cella di Pagana gli agenti della polizia penitenziaria hanno trovato una lettera indirizzata alla direttrice del carcere, Lucia Castellano. Poche righe scritte a mano in cui l’uomo si scusa per il suo gesto: “Mi rendo conto che questo le creerà grossi problemi. Ma ho altri problemi più urgenti che devono essere affrontati e risolti”. Ed è proprio la direttrice a spiegare: “Pagana vedeva spesso la moglie e i tre figli, ma nelle ultime settimane gli incontri con la famiglia si erano diradati. Non saprei dire se tra le due cose ci sia un nesso. Ma questo avvenimento non può mettere in dubbio la validità dell’esperienza condotta in questo istituto”. Parole che trovano d’accordo anche Angelo Urso, segretario nazionale della Uil pubblica amministrazione: “La vocazione al trattamento dell’istituto di Bollate rimane un modello valido”. Quello di ieri è il secondo episodio di evasione a Bollate dal 2000, anno in cui il carcere è entrato in funzione. L’ultimo risale a luglio del 2006. In quel caso il fuggitivo era stato ritrovato cinque ore più tardi, addormentato tra i cespugli del Parco Lambro. Fino alla tarda serata di ieri, invece, nessuna traccia di Pagana e Romeo nonostante i posti di blocco e le ricerche messi in campo in tutta Italia da polizia e carabinieri. Milano: il Provveditore Pagano; difendo il “modello Bollate”, è la strada per il futuro di Oriana Liso La Repubblica, 12 agosto 2010 “A Bollate in dieci anni abbiamo avuto due sole evasioni. E una si è conclusa in poche ore perché sapevamo dove andare a cercare. Il numero degli ex detenuti che commettono nuovi reati è molto basso, mentre aumenta quello di chi trova lavoro grazie ai progetti di reinserimento. A chi mi chiede se il modello Bollate funziona rispondo: sì, il gioco vale la candela, i risultati che possiamo vantare sopravanzano sicuramente gli episodi critici”. Difende la “sua” creatura Luigi Pagano, il provveditore regionale alle carceri. Perché una struttura a custodia attenuata è una esperienza quasi unica in Italia, “ma è anche il modello verso cui si dovrà tendere”. Dottor Pagano, per le evasioni di ieri si punta il dito contro lo scarso controllo dei detenuti. “Premetto che in nessun modo quello che è accaduto può essere considerato responsabilità degli agenti penitenziari: Bollate è una struttura a custodia attenuata dove alla “vigilanza statica” si associa il trattamento dei reclusi che coinvolge tutto il personale, dalla polizia agli assistenti sociali. In una struttura così non si può certo pensare di mettere un agente per ogni detenuto, e non solo per una questione economica, ma anche perché verrebbe meno la filosofia stessa di Bollate. E comunque nessuna struttura è completamente impermeabile ai rischi”. Ma non c’è un rischio maggiore, in questa filosofia? “Questo carcere non l’abbiamo inventato seguendo una nostra fantasia: tutto quello che si fa qui è stabilito dall’ordinamento penitenziario. I rischi, dalle evasioni alle aggressioni, vengono però bilanciati dai risultati: i detenuti che lavorano, la recidiva abbattuta drasticamente, i costi per la comunità che diminuiscono”. I dati dei sindacati raccontano di carceri sovraffollate e di suicidi. “Sono dati reali, ma non è una novità, purtroppo, tanto che il ministro Alfano ha chiesto al governo lo stato di emergenza e sta cercando di varare il “piano carceri”. Subito dopo l’indulto il numero dei detenuti è tornato a salire in modo costante. Ma bisogna distinguere tra un istituto e l’altro. In realtà nuove, come Pavia o Vigevano, ci sono molti spazi comuni dove trascorrere la giornata, quindi il problema dell’affollamento è più tollerabile. Ma a San Vittore, a Brescia, a Varese se non stai in cella non c’è alternativa. Le strutture sono vecchie e la situazione è difficile da gestire. Tranne che con la legge Gozzini, in Italia il problema carcerario non è mai stato affrontato in maniera globale, quindi si lavora con le risorse a disposizione”. Anche i suicidi sono una conseguenza del sovraffollamento? “Il suicidio è una scelta individuale, ovunque avvenga. Certo il sovraffollamento incide, ma non perché manda il detenuto alla disperazione, piuttosto perché se ce ne sono troppi le risorse si disperdono e si rischia di non intercettare chi soffre. Se il medico deve vedere ogni giorno 80 nuovi arrivi, con lingue e culture diverse, il rischio è reale”. Ecco, le risorse. Da una parte ci si lamenta che le carceri costano troppo, dall’altra si invoca il pugno duro, il controllo costante. Dov’è la misura? “Noi cerchiamo di incidere sui problemi razionalizzando le risorse che abbiamo e che saranno sempre meno in rapporto al numero dei detenuti. Il modello Bollate andrà esteso, con il suo mix di controllo e trattamento, e nello stesso senso va l’Icam, la struttura per le madri detenute. All’estremo opposto c’è il regime del 41 bis, perché non tutti i reclusi sono pericolosi allo stesso modo. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo delle carenze di personale, perché quello che c’è fa miracoli: con 9.069 detenuti andiamo avanti non gestendo solo l’emergenza, ma facendo progetti con impegno e professionalità”. Vedremo mai la cittadella della giustizia realizzata? “Lo spero, anche se siamo ancora agli atti preliminari. Sono affezionato a San Vittore, ma è una struttura di fine Ottocento: c’è un problema di dignità umana, oltre all’impossibilità di conciliare la sicurezza con il trattamento”. Con questa evasione non le viene la tentazione di rimettere in discussione il modello Bollate? “No, anzi: proprio per ribadire questa filosofia abbiamo deciso di non annullare l’iniziativa di domenica con un gruppo di detenuti impegnati nell’oasi di Vanzago assieme ai volontari del Wwf. Credo davvero che questa sia la strada giusta: non puoi pensare di dormire tranquillo, perché l’evento tragico è dietro l’angolo, ma ti assumi la responsabilità. E vai avanti”. Catania: la “porta girevole” del carcere di Piazza Lanza, anche 30 nuovi arrivi ogni giorno di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 agosto 2010 Entrano ed escono da Piazza Lanza, i giovanissimi “carusazzu” che fanno sempre più da manovalanza ai cartelli mafiosi delle droghe. E non solo loro. Nel “pronto soccorso giudiziario” della città etnea, che accoglie fino a 30 arrestati al giorno, buoni per gonfiare le statistiche, un quarto dei reclusi rimane in galera meno di 48 ore. Gli altri vivono ammassati come bestie. Se non fosse per le sbarre e i cancelli automatizzati al posto dei vicoli bui o delle arterie che scorrono tra filari di case popolari, guardando quelle facce da “carusazzu” di strada si potrebbe quasi perdere l’orientamento. E dimenticare per un momento di essere entrati nel carcere di Piazza Lanza, a due passi dal centro storico di Catania, lasciandosi alle spalle gli splendidi palazzi e la vita notturna tra le più animate d’Italia. Volti, espressioni e linguaggi che sembra di aver già visto lungo via Plebiscito, o scorrazzando tra i vicoli del rione San Cristoforo, dove la cosa più facile che possa capitare è rimanere bloccati nella fila di auto che aspettano solo - come se nulla fosse - che un giovane pusher all’angolo concluda il suo scambio con l’automobilista di turno: coca in cambio di un rotolino di banconote da 10. Lo sguardo sostenuto e tranquillo del “carusazzu” attesta il completo controllo del territorio. Identica tracotanza dimostrata da quegli stessi volti di giovani e giovanissimi che sempre più numerosi e più spesso varcano la soglia della Casa Circondariale di zona: “Nei verbali di ingresso - raccontano gli agenti di polizia penitenziaria - si può leggere spesso che questi giovanissimi si mostrano sereni e tranquilli, niente affatto spaventati”. Benvenuti nel “pronto soccorso giudiziario di Catania”, come lo definisce lo stesso direttore, Rosario Tortorella. Un carcere di media sicurezza che detiene anche condannati definitivi con pene fino a cinque anni, ma che soprattutto rimane il principale riferimento per gli arrestati e i detenuti in attesa di giudizio per reati comuni di tutto il territorio provinciale. Qui possono entrare anche trenta “nuovi giunti” al giorno, molti dei quali però spesso ritornano in libertà subito dopo l’interrogatorio che non convalida l’arresto. Un terzo dei carcerati di Piazza Lanza si dichiara tossicodipendente, quasi la metà deve rispondere all’accusa di spaccio. “È inutile pensare di fare la guerra alle mafie se non si elimina il principale business che le alimenta - analizza il catanese Gianmarco Ciccarelli, segretario provinciale dei Radicali italiani, che conosce molto bene le carceri siciliane - si può decapitare quanto si vuole clan e famiglie, ma al posto dei vecchi capi ce ne sarà sempre uno nuovo, e fino a quando esisterà un mercato nero delle sostanze stupefacenti le mafie e i loro business saranno in una botte di ferro”. È il carcere delle “porte girevoli” per eccellenza, Piazza Lanza: si entra e si esce, peraltro con una mole di lavoro enorme per il corpo di polizia penitenziaria perennemente sotto organico. “Nel 2009 sono entrate 2.928 persone - racconta il direttore usando gli ultimi dati completi a disposizione - in 771 sono stati scarcerati prima o subito dopo l’interrogatorio rimanendo in carcere al massimo per 48 ore; nel corso dell’anno sono tornate in libertà 1.804 persone e 1.025 detenuti sono stati tradotti in altri istituti: complessivamente dalla struttura di Piazza Lanza nel 2009 sono usciti 2829 reclusi, ne sono rimasti solo 99”. Uno dei picchi di ingresso si è registrato a luglio di quest’anno, quando sono arrivati in un mese 630 “nuovi giunti”. “In notevole aumento i giovani tra i 18 e i 25 anni per reati di droga”. Non per stabilire necessariamente un nesso, ma si tenga presente che Catania è la città siciliana considerata insieme a Palermo e Trapani a più alto rischio di disoccupazione giovanile (attestatasi al 50% circa) e di dispersione scolastica (oggi al 37,5%). “La difficoltà più grande, poi - spiegano in direzione - è riuscire a sistemare tutti i reclusi a seconda della prossimità con le famiglie di mafia. È molto pericoloso per il detenuto, che sia un affiliato, semplice manovalanza, o operi nel quartiere sotto controllo di una famiglia mafiosa, ritrovarsi in cella con quelli dei gruppi contrapposti. Uno Stiddari, un Cursoti, per esempio, non può incontrarsi nemmeno durante l’ora d’aria con un affiliato di Cosa nostra”. Naturale, in questo contesto, che le mafie continuino a gestire anche da dietro le sbarre. Ma per dare un’idea della complessità di servizi e del carico di lavoro, Rosario Tortorella cita anche i 25.620 colloqui e le 3.537 telefonate garantite nell’anno passato. Tutto questo con 251 agenti a disposizione (anziché i 435 contemplati in pianta organica e i 341 assegnati), 6 ispettori e 6 sovrintendenti al posto dei 42 previsti per ciascun ruolo. In sostanza, ogni agente si deve occupare di due o tre detenuti, visto che in questo carcere sono recluse 537 persone. Posti regolamentari, però, ce ne sono solo per 155; la capienza massima tollerata è 221. Solo in 58 hanno una condanna definitiva, e di questi, ad una prima ricognizione effettuata su richiesta del capo del Dap Franco Ionta in una circolare inviata alle direzioni dei penitenziari a fine luglio, attualmente 27 detenuti di Piazza Lanza potrebbero beneficiale dei domiciliari previsti nel Ddl Alfano per l’ultimo anno residuo di pena. Dati rilevanti, se proiettati sull’intera regione. Peccato che il Ddl sia stato annacquato dopo le proteste di Lega, Idv e parte del Pdl e del Pd, e nella versione attualmente in via d’approvazione in Parlamento si lasci totale discrezionalità ai giudici di somministrare le misure alternative tra chi ne abbia i requisiti. Di immigrati, qui, ce n’è veramente pochi, circa l’8%, mentre i tossicodipendenti dichiarati sono attualmente 175, un terzo dei reclusi. Qualcuno è sieropositivo e molti sono i malati psichici in “doppia diagnosi”. Vivono tutti ammassati come bestie in questa struttura inaugurata nel 1912: letti a castello fino a quattro piani, laddove l’altezza del soffitto lo permette; in 10, 12 o anche più dormono in celle da 10 metri quadri. “A luglio abbiamo dormito a turno o in due nello stesso letto, e qualcuna dormiva a terra o sugli sgabelli”, confessa una delle detenute selezionate dalla direzione per essere intervistate. Nel braccio femminile, il peggiore tra quelli che ci è permesso di vedere, vivono 17 donne sorvegliate da altrettante agenti che però lamentano di essere sotto numero perché la pianta organica ne prevede 33. Qui i muri sono più scrostati che altrove, sbrindellati dall’umidità che d’inverno ti entra nelle ossa. C’è poca aria, i soffitti sono bassi, gli spazi più angusti. I bagni, finalmente spostati nelle celle dopo una recente ristrutturazione, devono fungere anche da cucina, il tutto in un budello di un paio di metri quadri. Ma fotografare, qui, è vietato. La direzione permette solo di scattare foto ai tappeti realizzati dalle detenute, ai laboratori che ospitano i corsi trattamentali e professionali e ai passeggi squallidi e assolati dove al massimo c’è a disposizione un biliardino. Di visitare il reparto “Isolamento”, poi, non se ne parla nemmeno. Lì le celle - racconta il direttore - sono di circa 8 metri quadri, senza bagno, e ospitano una o due persone, generalmente coloro che si sono macchiati di reati “socialmente riprovevoli” o che per problemi psichici sono incompatibili alla convivenza. “È un reparto che dovrebbe essere ristrutturato ma comunque è di detenzione transitoria”, assicura Tortorella. Eppure tra i detenuti con i quali riusciamo a parlare c’è un uomo accusato di violenza sessuale che nel reparto “Isolamento” ci vive da otto mesi e un altro, un algerino autolesionista con evidenti disturbi psichici, che entra e esce dalle carceri per piccoli reati da quando a 16 anni arrivò da solo in Italia, ci vive da quattro mesi. C’è poi un intero reparto che è stato chiuso nel 2004 ed è ancora in attesa dei fondi necessari per la ristrutturazione: 2.115.000 euro. Una cifra irraggiungibile, se si pensa che per la manutenzione ordinaria quest’anno riceveranno meno di 20 mila euro; “ma nei primi sette mesi dell’anno ne abbiamo già spesi 21 mila”. E non ci sono soldi nemmeno per pagare quei 45 detenuti che a rotazione lavorano per il Dap, degli 80 che potrebbero farlo se solo ci fossero i soldi. C’è stato un periodo, raccontano, in cui per mancanza di fondi il carcere ha fatto a meno della derattizzazione: “Dopo pochissimo tempo abbiamo capito che era impossibile rinunciarvi, in una vecchia struttura come questa”. Di proteste - per il sovraffollamento e le difficoltà di cura - ce n’è una a settimana, considerate “sacrosante” dal garante dei detenuti siciliani nonché senatore del Pdl, Salvo Fleres, che per il carcere di Piazza Lanza ha quasi un’ossessione e vorrebbe vederlo chiuso. Anche per i sindacati di polizia penitenziaria la situazione è sul punto di esplodere: lo hanno fortemente denunciato soprattutto quando, qualche mese fa, sull’auto di tre agenti di Piazza Lanza furono ritrovati altrettanti mazzi di fiori. Che sia un carcere fuorilegge, come quasi tutti in Italia, è fuori discussione. Ma certamente le responsabilità non possono essere addossate alla direzione, agli agenti o agli operatori ed educatori che qui, in particolare, mostrano onestà e serietà. “Abbiamo chiesto almeno 80 mila euro in più rispetto alla somma assegnataci per le spese annue sanitarie che è di 493 mila euro, davvero troppo pochi per assicurare farmaci e analisi a tutti i reclusi”, spiegano; e per orientarsi basti pensare al carcere Gazzi di Messina dove, con 390 detenuti e un Centro clinico su due piani da mantenere, arrivano ogni anno per l’assistenza sanitaria 1.682.000 euro. Il carcere catanese, oltre a uno staff medico di accoglienza ed un servizio psicologico giornaliero per i “nuovi giunti” istituito “allo scopo di ridurre il rischio suicidi e autolesionismi”, può però purtroppo contare solo su tre psicologi che garantiscono in tutto solo 39 ore mensili di servizio “Osservatorio e trattamento”. “Assolutamente insufficienti”, ammette Tortorella. E allora, come se ne esce? “Il carcere deve essere l’extrema ratio - è l’analisi di tutta la direzione allargata - bisogna fare una politica seria di revisione delle norme di custodia cautelare. E forse - azzarda timidamente qualcuno - deve cambiare anche la mentalità di polizia e carabinieri: non si può risolvere tutto con l’arresto”. Ma le statistiche, si sa, si gonfiano in questo modo, e sono oggi l’unico attestato dell’efficienza delle forze dell’ordine. Ivrea: Cisl; la terza branda aggiunta nelle celle impedisce la battitura delle sbarre La Sentinella, 12 agosto 2010 Si allarga il dibattito sulle precarie condizioni di vita dei detenuti nel carcere di Ivrea (sovraffollamento di 300 persone su una capienza di 178) e sulle innumerevoli difficoltà che gli agenti di polizia penitenziaria incontrano nello svolgimento dei propri compiti. Sul fronte sindacale si alza la voce della Cisl che critica aspramente la decisione di inserire una terza branda per fare posto ai nuovi carcerati. Si fanno sentire anche i volontari della casa circondariale che aderiscono alla mobilitazione nazionale del volontariato penitenziario. “Pur comprendendo la necessità di inserire una terza branda per far fronte al grave sovraffollamento - spiega Pio Giovanni Filippone, segretario provinciale della federazione nazionale della sicurezza Cisl - credo che il provvedimento poteva essere posticipato alla fine del piano ferie, visto l’esiguo numero di operatori penitenziari presenti, associato alla già nota carenza di personale in cui versa l’istituto di Ivrea”. “Tutto ciò - prosegue Filippone - non fa che alimentare malumori tra il personale di polizia, che ogni giorno, con sacrificio e abnegazione, svolge il proprio lavoro tra mille problematiche, garantendo il rispetto della legalità, nonché l’ordine e la sicurezza dell’istituto, costretto a sopperire alla mancanza di sensibilità dell’amministrazione penitenziaria. Risulta, infatti, che il personale di polizia penitenziaria, addetto alla vigilanza della sezione interessata dal provvedimento, considerato l’esiguo spazio rimanente con l’istallazione della terza branda, non può effettuare due delle più importanti operazioni giornaliere, quali la battitura delle inferriate e le perquisizioni delle celle detentive”. “Non di poca importanza - conclude Filippone - l’aspetto di disumana vivibilità in cui si trovano i detenuti, costretti a condividere in tre una cella di appena 9 metri quadrati, senza avere la possibilità di avere un armadietto a testa dove poter sistemare i propri effetti personali. Si tratta di situazioni che potrebbero alimentare focolai di intolleranza tra la popolazione detenuta”. Sul fronte del volontariato, Giuliana Bertola, referente del gruppo volontari penitenziari di Ivrea, ricorda che “La pena e la prigione hanno senso se, mentre affermano le esigenze della giustizia, servono al rinnovamento dell’uomo, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita per reinserirsi a pieno nella società”. “La nostra frequentazione quotidiana delle carceri ci permette di osservare situazioni irrispettose della dignità umana - conclude Bertola -. Occorre ridisegnare il sistema delle sanzioni, predisponendo pene diverse da quelle carcerarie, e rendere le leggi già esistenti che prevedono modalità di esecuzione penale alternative alla detenzione”. Cagliari: otto detenuti in ogni cella di 16 metri quadri, per un’estate di sofferenza La Nuova Sardegna, 12 agosto 2010 Celle sovraffollate, spazi angusti, migliori condizioni igienico-sanitarie ma possibilità di lavorare ancora ridotte. Una ventina di ore al giorno, in otto (come minimo) dentro una cella di quattro metri per quattro al massimo, sedici metri quadri. D’inverno con il freddo che ti fa battere i denti e d’estate sotto una cappa di calore. Passano gli anni, cambiano la amministrazioni, arrivano le commissioni di inchiesta ma l’inferno è ancora dalle parti di Buoncammino. E a metà agosto nel carcere che domina uno dei panorami più belli di Cagliari il numero dei detenuti è sempre altissimo. È stata raggiunta quota 527, non è un record (nei primi anni Novanta fu toccata anche quota 600) ma è sempre troppo al di là della soglia di tollerabilità (che è intorno a 400-450). Naturalmente i diritti civili e il recupero sociale non vengono intaccati (come vuole le legge) ma intanto dentro il carcere esiste un popolo che soffre. Stanno male i detenuti che devono scontare le condanne ma non stanno meglio gli agenti della polizia penitenziaria che devono controllare quotidianamente che le cose vadano bene. Per fortuna potrebbe essere l’ultimo anno di sofferenza. Il nuovo carcere di Uta è quasi pronto, fine lavori è fissata a giugno 2011: qualche mese per il collaudo di strutture e sistemi di sicurezza e a inizio 2012 potrebbe iniziare il trasferimento del popolo di Buoncammino. “Ma rispetto al passato va meglio”. Getta acqua sul fuoco il direttore Gianfranco Pala: “Siamo tranquilli, l’effetto indulto è finito ma rispetto ad altre carceri italiane a Buoncammino va meglio. Un esempio: alle Vallette di Torino ci sono 1.600 detenuti, mentre la tollerabilità è 500. L’acqua c’è, i servizi funzionano, si nota un miglioramento della condizioni di socializzazione: abbiamo creato un campetto di calcio che serve a fare sport, nella biblioteca c’è qualche libro in più, è nato anche un coro. Quanto agli agenti stanno facendo turni regolari e, almeno per quest’anno, non dovranno saltare le ferie. Anzi, poco alla volta si stanno esaurendo anche gli arretrati. Non è il top, ma si può andare avanti”. In attesa di Uta. “Il vero problema - aggiunge il direttore Pala - è costituito (come sempre a Buoncamnmino) dai tossicodipendenti, che rappresentano il 40 per cento della popolazione carceraria (dato in leggero calo rispetto al recente passato. Ci sono numerosi sieropositivi e molti detenuti in cura psichiatrica. Negli ultimi anni le abitudini dei tossicodipendenti si sono orientate dall’eroina alla cocaina ed è superiore il ricorso a cure di tipo psichiatrico. Sono seguiti dal Sert. La realtà è che i due terzi degli ospiti del carcere hanno un legame con la droga: o sono stati arrestati per spaccio oppure per reati commessi per procurarsi la droga”. Da radio carcere arrivano informazioni meno rassicuranti: “I problemi di Buoncammino sono vecchi, ultraconosciuti, e non sono serviti a risolverli nemmeno le ristrutturazioni (finestre dove un tempo c’erano la bocche di lupo, tra le altre cose) e qualche altra miglioria di un carcere nato a metà dell’Ottocento. Ovvero non è stato trovato un rimedio al sovraffollamento che solo per caso non è mai esploso in tutta la sua gravità. Che gli organici delle guardie di polizia penitenziaria sono sottodimensionati rispetto alle esigenze, non è una scoperta. Si va avanti con il volontariato e comunque mancano gli spazi dove poter fare piena attività sportiva e culturale o anche solo lavorare”. E le E le situazioni limite? Maria Grazia Caligaris, ex consigliere regionale è responsabile dell’associazione Socialismo, diritti e riforme che da anni è in prima linea per l’emergenza Buoncammino: “Gli allarmi sono sempre gli stessi e non valgono a risolverli qualche minima miglioria. Ci sono troppi detenuti e in questa ottica non è stato fatto molto. Possibili soluzioni? Primo: la territorializzazione della pena, consentire al detenuto di scontare la pena vicino a casa, magari vicino a dove si trova la famiglia. Un principio che era stato stabilito da un protocollo di intesa tra l’allora Governatore Soru e il ministero: era il 2006, non se n’è fatto nulla. Secondo le pene alternative, consentire di avere degli sconti. E poi pensare seriamente al lavoro in vista di un reinserimento e una risocializzazione del detenuto: bisogna responsabilizzarlo di più. E inoltre pensare di modificare finalmente la legge sull’immigrazione: la Bossi Fini non ha senso, impossibile pensare di finire in carcere solo perché non si ha un permesso di soggiorno. Perché non pensare inoltre di aumentare il numero di educatori e psicologi, in modo da offrire un maggiore dialogo ai detenuti tossicodipendenti ad esempio. Sono alcune soluzioni ma sufficienti a fare in modo che il numero dei detenuti possa diminuire”. Perché la situazione a Buoncamnmino è vicinissima al limite e la data del 2012 - fine lavori a Uta - lontana. Cagliari: Caligaris (Sdr); 77enne malata ancora reclusa a Buoncammino Agi, 12 agosto 2010 “Una donna di 77 anni, affetta da numerosi gravi disturbi tra cui cardiopatia ipertensiva, aneurisma dell’aorta addominale, ipercolesterolemia, steatosi epatica e infezione delle vie urinarie, dichiarata incompatibile fin dal 2009, si trova ancora reclusa nel carcere di Buoncammino”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, dopo aver appreso che Stefania Malu, cagliaritana, detenuta da 20 mesi, chiede insistentemente di poter scontare ai domiciliari la pena di 4 anni e 2 mesi con sentenza del giugno 2008. La donna, a cui è stato rifiutato il differimento pena all’inizio del 2009, si è aggravata avendo fatto registrare anche un inizio di demenza senile alla recente visita geriatrica nell’ospedale Santissima Trinità. “Stefania Malu - afferma la presidente di SdR - in più occasioni ha manifestato disagio e insofferenza alla detenzione. Arrivando perfino a rifiutare la terapia per denunciare il suo malessere. Ma finora è rimasta chiusa in cella. L’anziana donna, peraltro, terminerà di scontare la pena alla fine del 2011. È assurdo che possa restare in una struttura detentiva sovraffollata una persona in queste condizioni. Nonostante la disponibilità delle Agenti che prestano servizio a Buoncammino e la professionalità dei medici, Stefania Malu non può più restare in carcere. È opportuno quindi che ottenga il differimento della pena nuovamente richiesto dal difensore Stefano Piras”. “Il caso - sottolinea Caligaris - riporta all’attenzione dell’opinione pubblica il grave problema dei detenuti anziani all’interno delle strutture carcerarie. Si tratta per lo più di individui con gravissime patologie dovute principalmente all’età che possono scontare la pena in strutture alternative, come le residenze sanitarie assistite, o ai domiciliari. Ciò ridurrebbe il numero dei detenuti nelle carceri e renderebbe meno difficili le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria e dei medici”. Alghero: il carcere modello di due anni fa è solo un ricordo, adesso è come una polveriera La Nuova Sardegna, 12 agosto 2010 Il carcere modello di due anni fa è solo un ricordo, sacrificato per fronteggiare una emergenza che ha portato l’istituto a toccare il record massimo di detenuti ospitati, attualmente sono 253 a fronte di 73 agenti della polizia penitenziaria. Le organizzazioni sindacali hanno denunciato una situazione esplosiva, ponendo in rilievo questioni di sicurezza e di vivibilità sociale in un carcere che era nato con ben altri presupposti. Inutili finora tutte le proteste basate anche sul fatto che la struttura è modulata per accogliere 160 reclusi. Il rapporto tra agenti effettivamente impiegati in servizio e detenuti gestiti è di uno a quattro, in pratica tra i più bassi d’Italia: un virtuosismo che - secondo le organizzazioni sindacali - consente allo Stato elevati risparmi e che, come contropartita, porta ulteriori arrivi di detenuti (toccata anche quota 254) e il trasferimento di agenti della polizia penitenziaria in altre sedi. “L’impressione è che ci sia un piano strategico per fare chiudere l’istituto algherese - sostengono i sindacati in un documento inviato al Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al Provveditorato regionale -; attualmente i detenuti sono 253, tra cui 5 ergastolani, 4 lavoranti all’esterno, 5 appellanti, 26 ricorrenti e 33 che fruiscono di permessi premio. La popolazione carceraria conta 112 tossicodipendenti, con una gestione che risulta assai più complicata e non è un caso se sono aumentati i casi di autolesionismo, così pure i tentativi di aggressione al personale e i rapporti disciplinari”. L’emergenza - si consideri che il carcere algherese ha un numero di detenuti perfino superiore a quello di San Sebastiano a Sassari - ha portato a una riduzione considerevole di quelle attività che erano motivo di incentivo a un buon comportamento da parte dei reclusi. “Molti corsi sono stati sospesi - denunciano i rappresentanti sindacali - proprio a causa della cronica carenza di personale. Si sono verificati casi con turni di servizio con quattro unità di polizia penitenziaria, di cui solo due impiegate nella vigilanza di 253 detenuti: si tratta di numeri assolutamente al di sotto dei livelli minimi di sicurezza consentiti”. La vecchia pianta organica risale al 1998 e prevedeva la presenza di 140 agenti di polizia penitenziaria per la gestione di 100 detenuti ubicati in quattro sezioni. Oggi le sezioni operative sono diventate sette e accolgono 253 detenuti a fronte di 60 operatori di polizia effettivamente impiegati. “Una situazione insostenibile - sottolineano le organizzazioni sindacali - se si considera che i colloqui dei detenuti con i familiari si possono garantire solo grazie alla buona volontà del personale che si trattiene in servizio fino alle 17,30 per due volte la settimana. Stessa cosa accade per consentire ai reclusi di frequentare corsi scolastici pomeridiani”. Il sindacato chiede la revisione della pianta organica con un aumento di 80 unità: “Il personale è allo stremo delle forze e il servizio viene svolto con la consapevolezza di potersi trovarsi da soli o in due a gestire 253 detenuti, con tutte le criticità che ne conseguono”. Avellino: appello della direttrice al ministero; alta sicurezza a rischio, trasferite i detenuti Il Mattino, 12 agosto 2010 Finalmente uno spiraglio di luce per i detenuti del carcere di Bellizzi. La direttrice del penitenziario avellinese Cristina Mallardo, ha chiesto formalmente al ministero il trasferimento di almeno una parte di detenuti in altre strutture carcerarie. Uno sfollamento che renderebbe più serena la situazione del carcere di Bellizzi. Ma la soluzione, purtroppo se avverrà non arriverà prima di settembre. Quindi, almeno per il momento la soglia dell’emergenza resta alta. “La situazione è regolare per quel che riguarda l’emergenza, siamo al limite della capienza con 500 detenuti e non si profilano soluzioni imminenti”. Così Cristina Mallardo, direttrice della casa circondariale di Bellizzi a proposito della grave situazione del penitenziario avellinese. “Se le condizioni non cambiano si mette a rischio l’alta sicurezza del carcere - ha commentato -. Ora bisognerà attendere settembre per avere una risposta dalle istituzioni alle quali abbiamo scritto e rappresentato la grave situazione. Abbiamo anche chiesto uno sfollamento dei detenuti. Un trasferimento dei carcerati in altre strutture carcerarie, anche se ci rendiamo conto che l’emergenza riguarda tutta la nazione. Purtroppo il dipartimento non può prendere decisioni - ha continuato la direttrice- e quindi almeno per il mese di agosto la situazione resterà la stessa. Solo a settembre, finita la pausa estiva, solleciteremo ulteriormente il ministero per avere risposte sui trasferimenti. Al momento la situazione resta in emergenza, ancor più per il 15 agosto”. Quindi per i detenuti si profila un ferragosto amaro. Già la settimana scorsa hanno messo in atto una protesta con lo sciopero della fame e per i prossimi giorni potrebbero esserci altre iniziative del genere. La situazione potrebbe ristabilirsi con la visita dei politici nei tre penitenziari irpini. Milano: a Ferragosto detenuti al lavoro in un bosco con lo staff operativo del WWF Ansa, 12 agosto 2010 Un gruppo di detenuti e di persone in misura alternativa presterà a Ferragosto il proprio contributo volontario e gratuito per la cura del Bosco di Vanzago (Milano), integrando lo staff operativo del WWF, ente gestore del Bosco. È un iniziativa che, con forme diverse, si ripete da qualche anno, promossa dal provveditorato alle carceri lombarde, in collaborazione con l’Agenzia di promozione del lavoro penitenziario Articolo 27, e che si prefigge più obbiettivi, come hanno spiegato i promotori: sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo la tutela del patrimonio ambientale e della biodiversità e la sensibilizzazione delle persone detenute all’impegno in attività di restituzione alla comunità danneggiata dalla violazione penale e alla responsabilità di tutti nella tutela dei beni comuni e nella riduzione della povertà. La giornata nel Bosco di Vanzago assume particolare rilevanza perché il 2010 è stato proclamato dall’Onu Anno internazionale della biodiversità e l’Oasi WWF di Vanzago è uno dei ‘Siti di Importanza Comunitarià la cui funzione è proprio la tutela e la conservazione della biodiversità sul continente europeo. La tutela della biodiversità, tra le altre cose, è uno dei temi cardine dell’Expo 2015, di cui il Provveditorato sarà partecipe per via del Protocollo di intesa stipulato dal ministro della Giustizia con il commissario straordinario del governo e la società che realizza Expo. Reggio Calabria: Sappe; agente salva la vita a detenuto che ha tentato il suicidio Ansa, 12 agosto 2010 Un agente della polizia penitenziaria ha salvato la vita ad un detenuto straniero nel carcere di Reggio Calabria che aveva tentato il suicidio. Il fatto, reso noto da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, è avvenuto ieri sera verso le 19. L’agente, che stava effettuando un controllo nella sezione posta al piano superiore, è stato chiamato da un altro detenuto, compagno di cella dell’uomo che ha tentato il suicidio. L’agente è sceso immediatamente al piano terra, ha aperto la porta ed è stato informato dal compagno di cella che l’altro detenuto si era chiuso in bagno. L’agente, dopo aver aperto la porta con un calcio, ha trovato il detenuto appeso alle grate della finestra. Lo ha sollevato e lo ha tenuto sulle spalle, riuscendo a togliere dal collo un rudimentale cappio. Ancora una volta, grazie all’intervento di un agente di polizia penitenziaria e alla fondamentale collaborazione di un detenuto - ha sostenuto Durante - è stato possibile salvare una vita nelle affollate carceri italiane, dove i detenuti hanno raggiunto quota 69.000, dei quali 25.000 sono stranieri, soprattutto extracomunitari. Anche la Calabria si distingue per il sovraffollamento e la forte carenza di personale di polizia penitenziaria. A Reggio Calabria, in particolare, i detenuti sono 320, a fronte di una capienza di 180 posti, mentre mancano 50 agenti, distaccati a prestare servizio in altre sedi. Bergamo: ex detenuti diventano tirocinanti, l’Asl pensa al reinserimento lavorativo L’Eco di Bergamo, 12 agosto 2010 Per sostenere i carcerati che si avviano al termine della detenzione ed evitare la recidività, sono stati attivati, tra Bergamo e provincia, 23 tirocini che hanno l’obiettivo di inserire lavorativamente le persone sottoposte a provvedimenti giudiziari che possono godere di benefici di legge. Le esperienze rientrano nel Piano di inclusione sociale, finanziato dalla Regione Lombardia. I tirocinanti, tutti adulti vicini alla conclusione della detenzione o in pena alternativa che hanno chiesto esplicitamente di far parte dell’iniziativa, lavorano dallo scorso gennaio in cooperative o aziende con uno stage della durata di 6 mesi, retribuito grazie a Borse lavoro e, quindi, senza gravare sull’azienda. Oltre ai 23 utenti già inseriti, ce ne sono altri 12 attualmente in lista d’attesa per uno stage. La proposta che arriva dall’Asl è di farsi carico di parte di essi: “Dal nostro territorio nasce la forte esigenza di reperire nuovi posti per quei detenuti che vorrebbero essere inseriti lavorativamente - spiega Massimo Giupponi, direttore sociale dell’Asl di Bergamo -. L’Asl si rende disponibile offrendo la possibilità di fare uno stage nella nostra azienda. Siamo tutti consapevoli che una persona fragile per il proprio passato difficile, se con un lavoro e inserita nella società, ha più possibilità di riscattarsi dai propri sbagli e costruirsi una nuova vita. A beneficio di tutti, perché l’ex carcerato che ha scontato la sua condanna esprime una volontà di riscatto sociale che, se colta dalla società civile, comporta meno recidive e la delinquenza cala”. Le iniziative di inclusione sociale e lavorativa sono anche sostenute dal Consiglio di Rappresentanza dei Sindaci di Bergamo: “I Comuni e gli Ambiti territoriali sono sempre stati soggetti capofila nel sostegno all’associazione “Carcere e Territorio” per i progetti di reinserimento sociale, lavorativo e abitativo con un finanziamento attivo da circa 10 anni e pari nell’ultimo anno a 80mila euro l’anno - ha aggiunto Leonio Callioni, presidente del Consiglio di Rappresentanza dei Sindaci -. In programma anche un secondo progetto: fare in modo che venga inserita sistematicamente, e non sporadicamente come accade oggi, negli appalti pubblici una clausola per destinare una percentuale dei posti di lavoro a soggetti fragili. Sarebbe un grande passo avanti intermini di sicurezza e coesione sociale”. Droghe: Giovanardi; tossicodipendenti fuori dalle carceri, curarli in Comunità 9Colonne, 12 agosto 2010 In una intervista all’Opinione Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega governativa sul tema delle droghe, spiega la sua richiesta di “abbonare” l’ultimo annodi carcere ai tossicodipendenti affidandoli alle comunità di recupero: “Bisogna considerare, che la situazione in carcere è di grande disagio, di sovraffollamento. Non ci sono risparmi togliendo dal carcere e mettendo in clinica, però è una questione di principio. Di civiltà. Mentre un tossico che ha finito di espiare una pena ha ancora una propensione a delinquere, se invece durante la pena viene curato e recuperato in una comunità e con processi di accesso al lavoro uscirà dal carcere avrà meno propensione a delinquere. La legge è applicabile, è normativa vigente. L’applicazione dipende dalle regioni. Noi siamo favorevoli ad un ulteriore incremento di questa attività con l’immediato ricovero in comunità anche nel momento del processo solo con la sospensione del processo. È una delle nostre idee proposte al ministero della Giustizia”. Secondo Giovanardi “la complicazione potrebbe essere una sola: che la sanità penitenziaria è passata alle regioni, non è più in carico al Ministero della Giustizia ma alle regioni quindi anche i pagamenti delle rette dipendono da loro. Quindi bisogna, regione per regione, fare una ricognizione. Con la normativa in vigore c’è la possibilità. Lo abbiamo già segnalato al Ministero della Giustizia. Soprattutto tenendo conto che in Italia nessuno è in carcere per l’uso personale della droga. È un equivoco molto comune. I tossici in carcere però ci sono perché hanno commesso altri reati e non per il solo fatto che sono tossici”. Secondo il sottosegretario non ci sarebbe un problema di sicurezza sociale da affrontare: “Assolutamente no, anzi proprio l’esatto contrario. Dopo un anno sarebbe libero e ancora tossico ma nessuno lo controllerebbe. Un anno prima, invece, andrebbe in una comunità, in un ambiente controllato quindi, vigilato, sotto la responsabilità dei gestori della comunità. Quindi è molto più sicuro recuperarlo prima, che dodici mesi dopo, quando ci troveremmo con un tossico rimesso in libertà e con il rischio che ‘per campare’ resterebbe il reato”. Giovanardi rassicura quindi Cirielli che ha espresso il timore che si possa stravolgere la legge che porta il suo nome: “Vorrei dire all’onorevole Cirielli che non si tratta di stravolgere l’impianto della legge che porta il suo nome, ma di introdurre una specifica modifica finalizzata ad incidere sui tossicodipendenti che hanno commesso recidivamente piccoli reati connessi al proprio stato di dipendenza cronica dalle sostanze stupefacenti. L’intervento che auspico consentirebbe al tossicodipendente intenzionato a sostenere un programma terapeutico, condannato ad esempio per il reato di piccolo spaccio, l’ingresso da subito in una comunità di recupero in regime di affidamento. Ciò si tradurrebbe in una tangibile misura deflattiva del carcere e, per queste persone, in una opportunità di cura per uscire dal tunnel della droga”. Russia: il 90% dei detenuti risulta malato, spesso di tubercolosi, Aids ed epatiti Ansa, 12 agosto 2010 Incubo carceri in Russia, dove oltre il 90% dei detenuti risulta malato, spesso di tubercolosi, Aids ed epatiti. Lo ha reso noto in un comunicato l’ufficio della procura generale, al quale il leader del Cremlino Dmitri Medvedev aveva ordinato una verifica generale del sistema penitenziario dopo la morte di alcuni detenuti che non avevano ricevuto un’assistenza medica adeguata. “La maggioranza dei problemi di funzionamento della sanità penitenziaria - si legge nella nota - è legata al suo finanziamento. Nel 2010 i servizi medici per i detenuti non hanno avuto che la disponibilità del 24% dei fondi necessari”. La procura indica inoltre che il 60% delle attrezzature mediche “risalgono agli anni 1970 e 1980” e che oltre la metà del materiale è vetusta.