Rassegna stampa 12 settembre

 

Giustizia: reati si prescrivono; la verità non va in prescrizione

di Francesco La Licata

 

La Stampa, 12 settembre 2009

 

Puntuale come una bomba ad orologeria, è il tema caldo della mafia a far alzare la temperatura politica, ancor più del tormentone estivo degli scandali sessuali del premier. È bastata qualche indiscrezione giornalistica (anche incompleta e confusa) sulle nuove rivelazioni di due nuovi testi - il pentito Gaspare Spatuzza e il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Massimo Ciancimino - per provocare la solita reazione furibonda di Silvio Berlusconi contro i magistrati "che mi vogliono incastrare".

Il riferimento del presidente del Consiglio è rivolto ancora alle indagini sulle stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 che lo hanno coinvolto (inchieste aperte e archiviate più volte), anche a traino delle vicende giudiziarie del senatore Marcello Dell’Utri, la più "compromessa" delle quali sembra proprio quella che lo vede condannato per mafia, in primo grado, a una pena di nove anni e mezzo.

Sembra, questo, un nervo scoperto destinato a provocare forti scosse ogni volta che l’argomento delle stragi torna alla ribalta. Lo dimostra il vasto schieramento, il vero e proprio fuoco di sbarramento, politico e mediatico, sceso in campo sulla scia delle forti dichiarazioni di Berlusconi. Una reazione a volte irrazionale, come quella di alcuni giornali che sono arrivati a ipotizzare una improbabilissima connection tra Milano e Palermo tutta nelle mani di due pubblici ministeri - Ilda Boccassini e Antonio Ingroia - che neppure la più fervida fantasia riuscirebbe a immaginare alleati su qualsivoglia progetto.

Eppure questa volta c’è qualcosa di diverso nel battage delle reazioni. Mentre la "guerra delle escort" ha offerto il quadro di una maggioranza compatta nella difesa del premier dagli attacchi dell’opposizione, il "ritorno della mafia" sembra aver provocato più di qualche sfilacciamento nel centrodestra. Ha cominciato il presidente Gianfranco Fini, criticato da "fuoco amico" per aver sottolineato, in contrasto con Berlusconi, la necessità di "ricercare sempre la verità". E una sorprendente copertura al lavoro della magistratura è arrivata ieri dal Guardasigilli: "Se vi saranno elementi per riaprire i processi sulle stragi - ha detto a Gubbio Angelino Alfano - i magistrati lo faranno con zelo e coscienza e siamo convinti che nessuno abbia intenzione di inseguire disegni politici, ma solo il disegno di verità".

Inguaribili scettici hanno già individuato nell’intervento del ministro il duplice obiettivo di "smarcarsi" dal premier in vista dell’incerto esito della prossima sentenza dell’Alta Corte sul cosiddetto "Lodo Alfano" e di mettere distanza tra la propria posizione e quella del senatore Dell’Utri (forse anche per via delle cosiddette "incomprensioni siciliane", rispetto all’alleanza locale tra Forza Italia e il governatore Lombardo).

Al di là dei cattivi pensieri, resta l’evidente solitudine di Berlusconi e Dell’Utri, appena alleggerita dalla solidarietà giunta dal presidente del Senato Renato Schifani, che così rompe un lunghissimo silenzio. Solidarietà che non sembra volersi spingere fino ad appoggiare la richiesta di istituire una Commissione parlamentare sulle stragi mafiose, avanzata da Marcello Dell’Utri. È comprensibile, nella logica del senatore (preoccupato che nuove accuse possano confluire nel processo d’appello "messo bene" e in via di conclusione), il tentativo di strappare una materia così incandescente alla gestione della magistratura per consegnarla a un Parlamento a maggioranza di centrodestra.

Tuttavia non sembra un progetto semplice: in passato le Commissioni parlamentari sui fatti di mafia non hanno prodotto grandi risultati, e anche quando si è arrivati a importanti valutazioni le relazioni finali sono rimaste quasi sempre lettera morta. E, ancora, non è detto che all’interno della maggioranza esista un fronte favorevole a istituire una Commissione: non sono pochi i politici da non molto usciti indenni dal tunnel giudiziario che certamente non gradirebbero la graticola mediatica provocata da eventuali lavori parlamentari.

E allora? Forse sarebbe davvero il caso, come consigliano parecchi esponenti delle istituzioni, di "lasciar lavorare i magistrati". L’esigenza di una revisione delle vecchie inchieste non è nata per fini politici: gli stessi pm hanno tradito qualche remora prima di ubbidire al dovere che deriva dall’obbligatorietà dell’azione penale. I nuovi testi hanno descritto situazioni in cui imputati innocenti stanno in carcere e colpevoli sono in libertà. Il bene del garantismo, se non è interessato e di parte, impone uno sforzo per porre rimedio a errori del passato, se ve ne sono stati. Verità e giustizia non vanno in prescrizione, neppure in ossequio alla "ragion di Stato".

Giustizia: le inchieste sulla mafia ed i bavagli all’informazione

di Giuseppe Di Lello

 

Il Manifesto, 12 settembre 2009

 

Tra i progetti governativi da realizzare, il Cavaliere ha messo anche la sconfitta definitiva della mafia e, però, sa di non farsi male a parole da quel lato così prodigo di sostegni elettorali, perché gli atti concreti del suo governo sono abbastanza rassicuranti: magistratura da normalizzare, intercettazioni da azzerare, bavaglio alla stampa, capitali sporchi da far rientrare, ecc.

Macigni in giro ce ne sono, specie con il processo Dell’Utri in appello, ma non si aspettava una precipitazione degli eventi come quella registratasi in questi giorni con le inchieste riaperte a Palermo e Milano sulle stragi, né poteva pensare che gli potesse arrivare una qualche autorevole bordata dall’interno del Pdl.

La reazione è stata scomposta ma pur sempre in linea con il suo modus operandi, senza riguardo per le regole costituzionali che parlano di divisione dei poteri e, in particolare, di rispetto dell’autonomia della magistratura, almeno fino a quando non le cambierà nel senso da lui voluto. Il presidente della camera, inoltre, non ha fatto altro che riferirsi a quelle regole: in fondo una banalità, in uno stato di diritto.

Sono anni che molti magistrati fanno sempre riferimento ai "mandanti occulti" delle stragi e bisogna rilevare che, attenendosi al più rigoroso garantismo, sempre da anni archiviano le relative inchieste quando non approdano a risultati concreti. Oggi, in presenza di nuovi elementi, ripartono le indagini e siamo abbastanza sicuri che, se non troveranno elementi di prova, torneranno ad archiviare: nel frattempo, però, il loro dovere, essendo ancora obbligatoria (non sappiamo per quanto tempo) l’azione penale, è quello di andare avanti, mentre il dovere dei cittadini, delle istituzione e della stampa, è quello di vigilare che non ci siano interferenze di nessun genere.

Oltre alla sconfitta definitiva .della mafia, non sappiamo bene cosa pensi Berlusconi di questa organizzazione criminale, ma sappiamo, per esempio, cosa pensa di un mafioso doc come Mangano lo stalliere di Arcore: un eroe, dei cui servizi lui è stato senz’altro un utilizzatore finale. In un paese funestato da stragi impunite - l’elenco è interminabile - il presidente del consiglio dovrebbe ergersi a garante della

ricerca della verità, quella giudiziaria che è la sola tranquillizzante perché basata su prove concrete. Blaterare di teoremi è fuori luogo anche perché, è bene ripeterlo, sui vari teoremi questa magistratura ha fatto sempre cadere la scure di una dovuta archiviazione. Le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio sarebbero una macchinazione ai danni del presidente del consiglio: perché mai?, ci chiediamo noi che crediamo nel garantismo della magistratura. Se lo è chiesto, implicitamente, anche Fini e se lo dovrebbe chiedere anche il Cavaliere, che però al garantismo crede solo se, e quando, gli fa comodo. Certo, se dovesse passare la sciagurata legge sul bavaglio alla stampa anche la mafia ne trarrebbe il vantaggio del silenzio.

Giustizia: la soluzione dell’emergenza carceri è "oltre le sbarre"

 

Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2009

 

Carceri sovraffollate. L’emergenza ha ormai dimensioni globali. Dagli Usa all’Europa, ovunque si cercano rimedi, in alcuni casi solo per esigenze di bilancio, in altri per riconoscere ai detenuti la loro dignità (qualche volta anche per garantirne la sopravvivenza). Le politiche degli ultimi anni hanno prodotto un surplus di carcere ma non anche sicurezza collettiva.

Al contrario. Si va in galera sempre più spesso e per brevi periodi. E se ne esce, quasi sempre, peggio di prima. Per tornarci. Da tempo le istituzioni europee raccomandano di seguire strade alternative al carcere.

Lo ha ribadito ieri il Consiglio d’Europa, al termine della Conferenza d’Edimburgo dedicata all’emergenza sovraffollamento, che attanaglia 27 dei 47 paesi membri, Italia in testa. Inutile investire nell’edilizia penitenziaria, è stato ribadito, la via è un’altra: riforma dei codici e delle leggi, meno carcere preventivo e soprattutto, ricorso massiccio alle misure alternative. Il paradosso è che tutti i paesi si erano già impegnati, in sede politica, a seguire questa strada, ma finora a disattendere quegli impegni sono stati gli stessi decisori politici.

Giustizia: in Italia il 25% di custodie cautelari di tutta l’Europa

 

Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2009

 

Le carceri europee scoppiano. Il vecchio continente non ce la fa a tenere il passo di politiche orientate sempre di più alla carcerizzazione, che spesso si rivelano un boomerang per la sicurezza e per le casse dello stato. Nelle prigioni dei 47 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa ci sono 1,8 milioni di detenuti. L’Europa dei 27 tiene in cella, in custodia cautelare - quindi in attesa di una sentenza definitiva - 130mila persone.

Un quarto dei quali si trovano in Italia. Il sovraffollamento è diventato una vera emergenza, contro cui si sperimentano rimedi di ogni genere: dalle liste d’attesa per i detenuti meno pericolosi al braccialetto elettronico. Alcune funzionano, altre no. C’è chi, come l’Italia, punta sull’edilizia carceraria e chi osa di più, come il Portogallo, cambiando politica e dando spazio alle misure alternative, che non producono consensi ma riducono la recidiva. Strada seguita anche oltreoceano. L’America, per decenni patria della "tolleranza zero", a causa della crisi finanziaria non solo non costruisce più prigioni, ma ne chiude e azzarda sanzioni più miti. Alla California di Arnold Schwarzenegger una corte federale ha imposto di alleggerire le carceri entro tre anni: ci sono 55mila detenuti che, a causa del sovraffollamento, vivono in condizioni illegittime e pericolose per la salute. Impossibile costruire nuove prigioni per uno stato con 40 milioni di dollari di deficit. Dunque, non resta che puntare su misure alternative e programmi di reinserimento, meno costosi e più vantaggiosi per la sicurezza, ha suggerito la corte.

Il sovraffollamento delle galere, insomma, è diventato un problema globale. L’Europa si sta mobilitando, anche perché sono arrivate le prime condanne per "trattamenti inumani e degradanti" nei confronti dei paesi che non garantiscono ai detenuti uno spazio vitale minimo di almeno tre metri quadrati: l’Italia ha guadagnato la prima, con tanto di risarcimento danni al detenuto, e altri 100 ricorsi stanno già prendendo la via di Strasburgo. Proprio ieri si è conclusa a Edimburgo la conferenza dei direttori delle amministrazioni penitenziarie degli stati del Consiglio d’Europa, in cui è stato fatto il punto della situazione a 10 anni di distanza dal primo allarme sul sovraffollamento. Il quadro non è confortante.

"Gli impegni presi dieci anni fa - osserva Mauro Palma, presidente del comitato contro la tortura del Consiglio d’Europa, che oggi ha tirato le fila dei tre giorni di lavoro - prevedevano che non si puntasse sulle politiche di edilizia carceraria, ma su un minor ricorso alla sanzione penale e un maggior uso di misure alternative, rendendole leggibili all’esterno come vere e proprie sanzioni che accompagnano il detenuto verso il reinserimento nella società, che venisse limitato il ricorso alla custodia cautelare e che si mettesse mano alla riforma dei codici penali". Impegni rimasti in gran parte sulla carta.

Pochi i casi virtuosi. Il Portogallo, in 10 anni, ha ridotto da 14.500 a 11mila il numero dei detenuti grazie a una riforma penale approvata nel 2007 e all’introduzione di due misure alternative: il lavoro di interesse generale per chi è condannato a pene fino a due anni e la messa alla prova per i sex offender (reati sessuali) condannati fino a cinque anni Lisbona, in controtendenza rispetto ai partner europei, ha anche esteso la liberazione condizionale, che quasi ovunque si riduce sulla spinta di un’opinione pubblica sempre più preoccupata della sicurezza e, perciò, diffidente verso misure che percepisce come "premiali".

Coraggiosa anche la Norvegia, che ha introdotto le liste d’attesa per chi ha commesso reati meno gravi; mentre m trancia le varie misure alternative adottate (compreso il braccialetto elettronico) non hanno eliminato il problema del sovraffollamento (e soprattutto della vivibilità delle carceri, dove c’è un altissimo tasso di suicidi) ma hanno evitato il tracollo: il primo gennaio 2009 gli ospiti delle galere francesi erano 62.252 (circa 20mila in più dei posti regolamentari), ma si contavano anche 159.232 persone in misura alternativa.

In Italia le misure alternative registrano il minimo storico (poco più di 9mila) e il sovraffollamento ha toccato punte record nella storia repubblicana: i detenuti sono 64mila, 20mila più dei posti regolamentari, e il 54% sta dentro in custodia cautelare. Dal 1999 al 2009 i detenuti in attesa di giudizio sono aumentati del 70% e Roma ha, nella vecchia Europa, il primato del ricorso al carcere preventivo, che negli altri stati è compresa tra il 22 e il 26 per cento. Peggio stanno soltanto i paesi dell’est, sebbene nelle loro statistiche siano registrati anche i fermi di polizia.

Il sovraffollamento resta una piaga comune. Un tema troppo spesso affrontato in chiave difensiva. Basti dire che a Edimburgo c’è stato un esilarante dibattito sulla necessità di calcolare o meno il gabinetto nello spazio minimo da garantire ai detenuti di celle multiple.

Lettere: nel carcere troppe le vittime di razzismo e indifferenza

 

Corriere della Sera, 12 settembre 2009

 

È morto un detenuto nel carcere di Pavia. È uno dei sessanta che quest’anno sono morti nelle carceri italiane, quasi la metà per suicidio. Faceva lo sciopero della fame. Protestava contro quella che lui considerava una ingiustizia patita. Si chiamava Sami Mbarka.

Non è un caso che sia morto uno straniero. Potremmo pensare che sia stato vittima di alcune circostanze avverse: la sua ferma determinazione a portare avanti la protesta fino alle estreme conseguenze; interventi tardivi e, forse, non appropriati; la stessa coincidenza con il periodo feriale che può aver causato una riduzione della vigilanza per carenza di personale. Ma non solo di circostanze si tratta, o di responsabilità personali che verranno accertate dall’indagine aperta dalla Magistratura. Anche questa morte, come tanti altri episodi luttuosi che la cronaca ci presenta, è riconducibile al clima particolare nel quale siamo immersi. Un misto di razzismo e di indifferenza, che impregna il nostro modo di pensare, senza che ce ne rendiamo pienamente conto. Cos’è il razzismo?

È considerare gli altri, per il solo fatto di essere stranieri, diversi da noi, più sospettabili di noi, con meno diritti e tutele di noi, con minor valore personale, in vita e in morte, di noi. Le carceri sono sovraffollate, i detenuti dormono per terra e di giorno stanno ammucchiati in sei dove dovrebbero stare in due, le attività di assistenza e di riabilitazione sono ridotte al minimo. Eppure nessuno alza la voce, nessuno si impegna per costruire carceri più moderne, nessuno si batte per sviluppare misure alternative al carcere che rendano la pena più umana e favoriscano il recupero sociale.

Perché? Perché, tanto, i detenuti sono in maggioranza extracomunitari. Gli infortuni sul lavoro sono una emergenza nazionale, in particolare nel settore dell’edilizia, migliaia di morti ogni anno, decine di migliaia di invalidi. Eppure non si avvia una seria politica di prevenzione, come invece si è cominciato a fare da qualche anno a questa parte con gli incidenti stradali? Perché? Perché la maggioranza dei caduti sul lavoro sono giovani extracomunitari. I morti sulle strade sono figli nostri.

I morti nei cantieri sono figli di nessuno. E le nuove norme sull’immigrazione varate in agosto? Ogni pratica che riguardi gli stranieri già residenti in Italia, da quelle più banali fino alla richiesta di cittadinanza italiana, sono diventate più burocratiche e complicate. Vengono ostacolati i matrimoni misti, vengo resi più difficili i ricongiungimenti familiari, viene tassato chi vuole mettersi in regola, viene punito chi dà ospitalità a un clandestino.

Sono state moltiplicate le occasioni di finire in carcere. È come se, a quei quattro milioni di stranieri che vivono nel nostro paese magari da diversi anni, si volesse rendere la vita qui sempre più penosa e difficile. A che pro? Cosa si pensa di ottenere, se non di incattivire gli animi e di renderci tutti sempre più diffidenti e ostili gli uni verso gli altri?

 

Riccardo Agostini, di Vigevano

Lucca: carcere da chiudere subito, assistenza sanitaria carente

 

Il Tirreno, 12 settembre 2009

 

"Sono sconvolto". Queste le prime parole del sindaco di Capannori Giorgio Del Ghingaro dopo la visita al carcere San Giorgio dove è andato nella doppia veste di amministratore e di presidente della conferenza dei sindaci. Del Ghingaro è il primo sindaco che varca la soglia del penitenziario per vedere i detenuti nelle celle.

Il primo cittadino di Capannori annuncia che porterà all’interno della conferenza dei sindaci le problematiche vissute dai carcerati "perché è necessaria la testimonianza per trovare soluzioni. Sento l’esigenza di farmi promotore di un tavolo di coordinamento con gli enti locali, le associazioni, il mondo del volontariato e le cooperative del terzo settore per trovare le sinergie necessarie a dare vita a percorsi formativi, educativi e professionali per la popolazione carceraria. I detenuti oggi si occupano solo delle pulizie e della cucina. Perché una volta nella società civile non tornino a delinquere bisogna trasformare la detenzione in un processo di reinserimento. Farlo vuol dire fare prevenzione".

Non solo. C’è l’esigenza di un nuovo carcere: "Va aperta - dice Del Ghingaro - la discussione tra gli enti locali per trovare soluzioni". La capienza del San Giorgio è di 90 persone, ma ora i detenuti sono 176. In ogni cella, di 3 metri per 3 metri, convivono tre o quattro carcerati. In alcune sezioni qualcuno per scendere dal letto deve camminare sopra quello di un altro. La popolazione detenuta è prevalentemente extracomunitaria. Le cause della carcerazione sono soprattutto la droga e i furti.

Un detenuto al San Giorgio resta, in media, dentro per un anno. "Di fronte a questi dati - dice Del Ghingaro - è necessario porre la questione all’attenzione pubblica e trovare soluzioni. Con la chiusura da parte dell’Asl di una sezione perché non agibile, la situazione del sovraffollamento è diventata ancor più tragica. Dal sovraffollamento nascono problemi di igiene e di trasmissione delle malattie. Nonostante la presenza di un presidio medico e le visite degli specialisti, la condizione vissuta dai detenuti è pesante.

Ho saputo che per quanto riguarda l’assistenza medica c’è un buco dalle 10.30 alle 15. Mi attiverò con l’Asl perché venga coperto. Inoltre, con l’arrivo dell’influenza A non possiamo abbassare la guardia, anzi". L’occhio del sindaco di Capannori ha colto anche la falla dal punto di vista strutturale. "Il San Giorgio è una struttura risalente al 702 d.C. - prosegue Del Ghingaro - È fatiscente, e non adeguata alla funzione che svolge.

Un problema per i detenuti e per il personale. Tra l’altro l’organico degli agenti è insufficiente. Sono in 90, costretti a turni massacranti. Il ministero di giustizia continua a togliere fondi, ma la situazione chiede esattamente il contrario. La piaga del sovraffollamento è anche il frutto di una politica che ritiene il carcere uno strumento per diffondere sicurezza. In realtà, la mera carcerazione provoca l’aumento della criminalità".

Velletri: Uil; manca personale, non aprire il nuovo padiglione

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

"È prevista l’apertura di un nuovo padiglione - ha dichiarato Daniele Nicastrini, Coordinatore regionale Uil Penitenziari -, dovrebbe ospitare altri 200 detenuti, ma chi vigilerà sulla loro presenza?"

"Il carcere di Velletri non può sopportare altri 200 detenuti". A dichiararlo Daniele Nicastrini, Coordinatore regionale Uil Penitenziari, a seguito di un incontro informale con il Dirigente penitenziario del Carcere dei Castelli Romani. "È prevista l’apertura di un nuovo padiglione che dovrebbe ospitare altri 200 detenuti, fattore importante rispetto al sovraffollamento, ma chi vigilerà sulla loro presenza? - ha continuato Nicastrini, rispetto al progetto già avviato dell’Amministrazione Penitenziaria -. Oggi il personale di Polizia penitenziaria non supera le 180 unità rispetto ad una pianta organica prevista dal Ministero che doveva essere di ben 230 unità a favore di una popolazione detenuta che dovrebbe essere di circa 197 presenze".

"Siamo molto preoccupati, perché consapevoli della necessità di trovare nuovi posti detentivi, ma questi non si possono aprire se non c’è il personale che li possa vigilare. Continuare a creare posti cella senza ampliare gli organici di Polizia penitenziaria e come voler fare una guerra senza la possibilità almeno di difenderci. Chiediamo con urgenza ai vertici dell’Amministrazione che si attui un tavolo di confronto prima di aprire anche una sola cella in più, rispetto all’attuale situazione del carcere di Velletri, perché gli Agenti Penitenziari sono già sovraccarichi di un sovraffollamento che non ha precedenti dall’apertura del carcere stesso e anche per questo manifesteremo a Roma il prossimo 22 settembre, perché si dica basta a questo calvario che vede il poliziotto penitenziario il primo sacrificato sulla voglia di sicurezza che tutti reclamano ma nessuno ancora di chi dovrebbe decidere, sa cosa significa".

Rimini: Marchioni (Pd); per il carcere serve maggiore vivibilità

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

Questa mattina l’onorevole Elisa Marchioni del Pd si è recata in visita al carcere di Rimini, su invito dalla Fp Cgil. La Marchioni è stata ricevuta dal Direttore, Maria Benassi. Facevano parte della delegazione sindacale il Segretario provinciale della Cgil Graziano Urbinati e il responsabile per la categoria dei dipendenti del penitenziario, Donato Fortunato. Nel corso della visita - si legge in una nota - è stata messa in evidenza, come da tempo la Cgil di Rimini sta denunciando, la scarsa ricettività della struttura locale e la carenza di organico sia di Polizia Penitenziaria che di personale civile. Oggi erano in stato di carcerazione 191 persone, per la maggior parte rinchiusi in celle sovraffollate, a fronte di una capienza di 90 e della presenza in servizio di soli 40 agenti effettivi.

La parlamentare riminese si è resa disponibile ad attivare nelle sedi opportune le azioni necessarie a rendere più vivibile, sia per i detenuti che per i dipendenti, il carcere di Rimini anche in relazione all’inclusione nella Provincia dei Comuni della Valmarecchia.

Nisida (Na): ministro Gelmini inaugura anno scolastico all'Ipm

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Mariastella Gelmini, lunedì 14 settembre alle ore 10.00 presso l’Istituto penale per i minorenni di Nisida (Na), inaugurerà l’anno scolastico 2009-2010. Nel corso della cerimonia, il Ministro Gelmini, presenterà le Linee Guida del progetto sperimentale dal titolo "Le Ali al Futuro - La Scuola ti offre nuove opportunità", attraverso il quale si intende promuovere la riforma dei percorsi didattici ed educativi presso gli istituti penali minorili presenti nel territorio. Il Ministro, sarà accolto dal Capo del dipartimento Pres. Bruno Brattoli. Saranno presenti alla cerimonia, i Direttori generali del Dipartimento, Emanuele Caldarera, Luigi Di Mauro e Serenella Pesarin.

Teatro: a Milano, i detenuti raccontano "I luoghi dell’altro…"

 

Adnkronos, 12 settembre 2009

 

I detenuti del carcere di Opera concludono domenica sera "Estate sui Navigli", rappresentando per la prima volta fuori dalle mura carcerarie il lavoro "I luoghi dell’altro - Ninna nanna anestetica per materiali organici organizzati" all’Alzaia Naviglio Grande 4 di Milano. La compagnia chiamata Opera Liquida, nata dalla collaborazione tra i registi Francesco Mazza e Ivana Trettel, già lo scorso 19 giugno aveva recitato, ma solo nel teatro della Casa di Reclusione di Opera.

"I luoghi dell’altro" trae spunto da riflessioni condivise su temi di cronaca e attualità, visti attraverso gli occhi di chi vive la condizione di recluso. Una rappresentazione intensa e un’occasione per sottolineare come la cultura e il teatro in particolare possano rappresentare lo strumento di un linguaggio primitivo che trova forza e coraggio per esprimersi all’interno di un più ampio percorso di vita, per cambiarne talvolta la direzione e mutarne gli esiti.

Immigrazione: Ferrajoli; il razzismo istituzionale del Governo

di Luigi Ferrajoli

 

Il Manifesto, 12 settembre 2009

 

È con un senso di sgomento e di mortificazione civile che siamo oggi qui a Lampedusa per discutere della vergognosa politica italiana in materia di immigrazione: delle scandalose leggi razziste e incostituzionali varate dall’attuale governo contro gli immigrati, fino alla criminalizzazione della stessa condizione di immigrato irregolare; dei respingimenti di massa illegittimi, in violazione del diritto d’asilo, di migliaia di disperati che fuggono dalla fame, o dalle persecuzioni o dalle guerre; delle violazioni dei diritti e della dignità della persona negli attuali centri di espulsione, e più ancora nei lager libici nei quali gli immigrati respinti vengono destinati; delle centinaia di morti, infine - fino alla tragedia dei 73 eritrei lasciati annegare in mare lo scorso agosto, dopo 21 giorni alla deriva - vittime della disumanità del nostro governo, immemore della lunga tradizione di emigrazione del nostro paese.

 

La guerra ai migranti

 

Ci troviamo di fronte ad un cumulo di illegalità istituzionali, che hanno provocato critiche e proteste da parte dell’Orni, dell’Unione Europea e della Chiesa cattolica e che deturpano i connotati essenziali della nostra democrazia. (...) Credo sia opportuno, in via preliminare, misurarne la contraddizione profonda con i principi più elementari della tradizione liberale. Entro questa tradizione, il diritto di emigrare è il più antico dei diritti naturali, essendo stato proclamato alle origini della civiltà giuridica moderna. Ben prima della teorizzazione hobbesiana del diritto alla vita e di quella lockiana dei diritti di libertà, lo ius migrandi fu infatti configurato dal teologo spagnolo Francisco de Viteria, nelle sue Relectiones de Indis svolte a Salamanca nel 1539, come un diritto universale e insieme come il fondamento del nascente diritto internazionale moderno.

Di fatto la sua proclamazione era chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, ove all’esercizio di quel diritto fosse stata opposta illegittima resistenza. Tuttavia - benché asimmetrico, non essendo certo esercitabile dalle popolazioni dei "nuovi" mondi, ma solo dagli europei che lo invocarono a sostegno delle loro conquiste e colonizzazioni - lo ius migrandi rimase da allora un principio fondamentale del diritto internazionale consuetudinario.

 

In nome della proprietà privata

 

John Locke lo teorizzò come essenziale al nesso proprietà, lavoro, sopravvivenza sul quale fondò la legittimità del capitalismo: "la stessa norma della proprietà", in forza della quale ciascuno è proprietario dei frutti del proprio lavoro, egli scrisse, "può sempre valere nel mondo senza pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti". Kant, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il "diritto di emigrare", ma anche il diritto di immigrare, che formulò come "terzo articolo definitivo per la pace perpetua". Infine il diritto di emigrare fu consacrato nell’art.13 della Dichiarazione universale dei diritti nel 1948 e in quasi tutte le odierne costituzioni, inclusa quella italiana.

Ho ricordato queste origini dello ius migrandi perché la loro memoria dovrebbe quanto meno generare una cattiva coscienza in ordine all’illegittimità morale e politica, ancor prima che giuridica, della legislazione contro gli immigrati. Quell’asimmetria, in forza della quale quel diritto fu utilizzato dai soli occidentali a danno delle popolazioni dei nuovi mondi, si è oggi rovesciata. Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine non sono più gli europei ad emigrare nei paesi poveri del mondo, ma sono al contrario le masse affamate di questi stessi paesi che premono alle nostre frontiere. E con il rovesciamento dell’asimmetria si è prodotto anche un rovesciamento del diritto. Oggi che l’esercizio del diritto di emigrare è divenuto possibile per tutti ed è per di più la sola alternativa di vita per milioni di esseri umani, non solo se ne è dimenticato l’origine storica e il fondamento giuridico nella tradizione occidentale, ma lo si reprime con la stessa feroce durezza con cui lo si è brandito alle origini della civiltà moderna a scopo di conquista e colonizzazione. Nel momento in cui si è trattato di prenderne sul serio il carattere "universale", quel diritto è infatti svanito, capovolgendosi nel suo contrario: tramutandosi in reato.

È questa l’enorme novità dell’attuale legislazione italiana rispetto alle stesse leggi anti-immigrazione del passato, come la Bossi-Fini o le varie leggi contro gli immigrati degli altri paesi europei: la criminalizzazione degli immigrati clandestini.

Ma oggi la novità della criminalizzazione degli immigrati compromette radicalmente l’identità democratica del nostro paese. Giacché essa ha creato una nuova figura: quella della persona illegale, fuorilegge solo perché tale, non-persona perché priva di diritti e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione; destinata dunque a generare un nuovo proletariato, discriminato giuridicamente e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente. Il salto di qualità consiste dunque nei connotati intrinsecamente razzisti della nuova legislazione: dapprima del decreto legge n. 92/2008, convertito in legge il 24 luglio del 2008, che ha introdotto, per qualunque reato, l’aggravante della condizione di clandestino, l’aumento della pena fino a un terzo e il divieto di concedere le attenuanti generiche sulla sola base dell’assenza di precedenti penali; poi, soprattutto, della legge sulla sicurezza.

È stato infine allungato da 2 a 6 mesi 0 tempo di permanenza dei clandestini nei centri di espulsione (Cie). Infine le norme apertamente razziste, di triste memoria nel nostro paese: il divieto dei matrimoni misti per l’immigrato irregolare, gli ostacoli alle rimesse di denaro alle famiglie; il divieto per quanti sono privi del permesso di soggiorno di iscrivere i figli all’anagrafe, con il conseguente pericolo che questi, non essendo riconosciuti, possano essere dati in adozione e sottratti alle loro madri, la cui sola alternativa sarà il parto clandestino e la clandestinità dei loro figli.

 

Buttati a mare

 

La cosa più sconfortante è che queste leggi non sono bastate a soddisfare le pulsioni razziste presenti nell’attuale governo. Anch’esse, benché crudelmente discriminatorie, sono state violate dal nostro governo. È quanto è accaduto in questi mesi, a partire dallo scorso 6 maggio, con l’infamia dei respingimenti in mare, nel corso dei quali centinaia di persone sono state rigettate, a rischio della loro vita, nei campi libici o nei loro paesi di provenienza. Questi respingimenti sono illegali sotto più aspetti. Hanno violato, anzitutto, il diritto d’asilo stabilito dall’articolo 10 (comma 3) della Costituzione per "lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche", giacché le navi italiane con cui gli immigrati vengono riportati in Libia sono territorio italiano, siano esse in acque territoriali o in acque extraterritoriali.

E lo hanno violato doppiamente, giacché questi disperati vengono respinti in quei veri lager che sono i campi libici, dove sono destinati a rimanere senza limiti di tempo e in violazione dei più elementari diritti umani. Hanno violato, in secondo luogo, la garanzia dell’habeas corpus stabilita dall’articolo 13 (3 comma) della Costituzione: questi respingimenti si sono infatti risolti in accompagnamenti coattivi, non sottoposti a nessuna convalida giudiziaria.

Infine sono state violate le convenzioni internazionali che l’Italia, nell’articolo 10 della Costituzione si è impegnata a rispettare: l’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani sulla libertà di emigrare; l’art.14 della stessa Dichiarazione sul diritto d’asilo; l’art.4 del protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta le espulsioni collettive. Infine l’ultimo, dolente capitolo: quello dei "centri" che prima si chiamavano "di accoglienza" e che la nuova legge chiama "centri di identificazione e di espulsione", nei quali gli immigrati possono restare reclusi non più per 60 giorni, come secondo la vecchia legge, ma per sei mesi. Questi centri sono veri luoghi di detenzione: una detenzione, peraltro, ancor più grave e penosa di quella carceraria, dato che è sottratta a tutte le garanzie previste per i detenuti, a cominciare dal ruolo di controllo svolto dalla magistratura di sorveglianza.

Sono stati così creati dei centri, dei luoghi, dei campi di concentramento - chiamiamoli come vogliamo - in cui vengono recluse persone che non hanno fatto nulla di male, ma che vengono private di qualunque diritto e sottoposte a un trattamento punitivo senza neppure i diritti e le garanzie che accompagnano la stessa pena della reclusione. In questi centri la violazione dell’habeas corpus è totale.

Queste norme e queste pratiche rivelano insomma un vero e proprio razzismo istituzionale. Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come "cosa", come non-persona, il cui solo valore è quello di mano d’opera a basso costo per lavori troppo faticosi, o pericolosi o umilianti: tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini.

 

Categorie criminali

 

C’è un altro aspetto, ancor più grave, del razzismo istituzionale espresso da queste norme e dalla campagna sulla sicurezza a loro sostegno: il veleno razzista da esse iniettato nel senso comune. Queste norme e questa campagna non si limitano a riflettere il razzismo diffuso nella società, ma sono esse stesse norme razziste - le odierne "leggi razziali", è stato detto, a distanza di 70 anni da quelle di Mussolini - che quel razzismo valgono ad assecondare e a fomentare, stigmatizzando come pericolosi e potenziali delinquenti non già singoli individui sulla base dei reati commessi, ma intere categorie di persone sulla base della loro identità etnica.

Questo razzismo istituzionale rischia di minare alle radici la nostra democrazia. Al tempo stesso, le politiche e le leggi che ne sono espressione possono solo aggravare e drammatizzare tutti i problemi che si illudono di risolvere. Mentre non saranno mai in grado di fermare i’immigrazione, avranno come effetto principale l’aumento esponenziale del numero dei clandestini e la loro emarginazione sociale inevitabilmente criminogena. È infatti evidente che, come già è accaduto per l’emigrazione italiana negli Stati Uniti negli anni venti e trenta del secolo scorso, la condizione di debolezza e di inferiorità degli immigrati finisce inevitabilmente per spingerli nell’illegalità, alla ricerca della solidarietà e della protezione di altri immigrati clandestini e di consegnarli, magari, al controllo delle mafie. Occorre al contrario essere consapevoli della complementarità e della convergenza tra sicurezza e integrazione sociale: una politica a garanzia della sicurezza non solo non esclude, ma implica la massima integrazione degli immigrati, attraverso il riconoscimento della loro dignità di persone e la garanzia di tutti i diritti della persona.

Stati Uniti: aumentano denunce di molestie sessuali ai detenuti

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

Le denunce per molestie sessuali compiuti dai secondini sui detenuti nelle carceri federali degli Stati Uniti sono raddoppiati negli ultimi otto anni. È quanto afferma la relazione annuale dell’Ispettore Generale del ministero della Giustizia. Dal rapporto emerge inoltre che dal 2006, anno in cui le leggi in materia sono diventate più severe, l’aumento dei casi arrivati fino in tribunale è stato del 12 per cento. Dei 90 rinvii a giudizio del 2008, ben 83 hanno portato a una condanna, ma quasi tutte con sentenze di non più di un anno di carcere.

L’Ispettore Generale Glenn Fine ha chiesto un ulteriore inasprimento delle leggi in materia, lanciando l’allarme: "Gli abusi sessuali minano la sicurezza delle prigioni". Oltre ai casi di intimidazioni sui carcerati per farli tacere, la ricerca ne descrive altri emblematici, come i secondini che accedono ai database per migliorare le schede dei detenuti in modo da farli uscire prima di galera, oppure che lasciano le chiavi delle celle ai prigionieri per farsi raggiungere in ufficio.

Canada: 17 detenuti suicidi in 2 anni, un "rischio inaccettabile"

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

Il rischio di mortalità nelle carceri canadesi rimane alto. E questo dato, per Howard Sapers, Correctional Investigator of Canada, è inaccettabile. In una conferenza stampa che si è tenuta ieri a Ottawa Sapers ha parlato dell’inefficienza e del modo in cui il sistema delle prigioni federali ha risposto a due recenti rapporti sui decessi dietro le sbarre.

Secondo l’investigatore è un sistema che si è mosso troppo lentamente quando si è trattato di discutere di due relazioni effettuate sulla morte dei detenuti nelle carceri del Canada. E ha aggiunto che le prigioni federali non si assumono le proprie responsabilità e non sempre provvedono a garantire al detenuto l’accesso ai servizi di igiene mentale di cui avrebbe bisogno. Il risultato? La vita dei detenuti sempre più a rischio.

"Innanzitutto il sistema carceri dovrebbe migliorare su tutti i livelli: nelle istituzioni individuali, nelle diverse regioni e nei quartier generali - ha detto Sapers - Fino a quando i ruoli di responsabilità saranno acuiti dai cambiamenti culturali e di gestione, la probabilità di decessi in cella rimarrà inaccettabilmente alta".

Sapers ha poi aggiunto che "continuerà con le indagini all’interno del Correctional Service sulle cause che hanno portato alla morte di Ashley Smith, nella speranza di prevenire altre perdite di vite umane". Molte le raccomandazioni provenienti dall’ufficio del Correctional Investigator of Canada dopo la morte della detenuta alla Grand Valley Institution for Women di Kitchener in Ontario, 100 km a est di Toronto, avvenuta il 19 ottobre del 2007.

La ragazza di 19 anni si era suicidata in cella sotto gli occhi delle guardie carcerarie che non avevano fatto nulla per salvarla. Poco dopo il suicidio, Sapers disse che la morte della ragazza poteva essere evitata.

Negli ultimi due anni, 17 detenuti si sono uccisi in cella. Lo stesso anno in cui morì Ashley Smith, l’ufficio del Correctional Investigator rese noto un rapporto per fare luce su 82 decessi avvenuti tra il 2002 e il 2005.

 

N.d.R. In Canada, al 31 dicembre 2008, i detenuti erano 38.348, quindi il tasso di suicidio risulta di 1,9 ogni 10.000 detenuti, mentre nello stesso periodo in Italia è stato di 8,38 su 10.000 detenuti.

Iraq: i detenuti in rivolta ad Abu Ghraib, scontro con gli agenti

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

Uno sciopero della fame si è nelle ultime ore trasformato in rivolta violenta nel tristemente noto carcere iracheno di Abu Ghraib, vicino a Baghdad. Secondo le testimonianze di alcuni agenti della sicurezza, sin da ieri i prigionieri, durante una protesta per le loro condizioni di vita, hanno cominciato a lanciare bottiglie di vetro e bastoni contro le guardie carcerarie, per poi avventarsi contro le porte delle celle di altri detenuti per cercare di liberarli. Alcuni di loro hanno dato fuoco ai materassi e ai mobili delle celle. Secondo fonti militari statunitensi durante i disordini sono rimaste ferite sei persone, tre agenti e tre detenuti.

Fonti di polizia riferiscono che la rivolta sarebbe scoppiata quando, in seguito ad una perquisizione, le guardie hanno sequestrato un cellulare di un detenuto. "Abbiamo perso il controllo della situazione - ha raccontato Ismael Abdullah, una guardia carceraria - Quando i prigionieri si sono rivoltati abbiamo dovuto chiamare rinforzi". Poco dopo, alcuni veicoli militari e squadre di tiratori scelti hanno circondato la prigione di massima sicurezza e bloccato la vicina autostrada. Nel corso della notte la situazione sembra essere tornata sotto controllo, secondo quanto riferiscono alcune fonti.

Taiwan: furto allo Stato, ex presidente condannato all'ergastolo

 

Ansa, 12 settembre 2009

 

Ergastolo per Chen Shui-bian, ex presidente di Taiwan, in cui ha detenuto il potere dal 2000 al 2008. L’accusa è di aver sottratto, durante il periodo di presidenza, ben 104 milioni di dollari, senza contare gli altri 11 accettati come "mazzetta" dagli imprenditori per far loro vincere appalti governativi.

I sostenitori di Chen Shui-bian, alla lettura della sentenza hanno protestato in centinaia davanti al tribunale, scagliando bottiglie e spazzatura contro i poliziotti. Insieme all’ergastolo l’ex presidente è stato condannato al pagamento di una mega multa da 200 milioni di dollari, e anche i suoi familiari, moglie e figli, hanno ricevuto delle condanne da 7 anni a 20 o 30 mesi. Chen ha vivamente protestato all’udire la sentenza e nel dichiarare: "Il verdetto è completamente inaccettabile, si tratta di una chiara persecuzione politica nei confronti dell’ex presidente" ha anche fatto sapere che ricorrerà in appello.

Certo che l’atmosfera sotto il governo del nuovo presidente Ma Ying-Jeou del partito nazionalista del Komintang è sicuramente più distesa, come lo sono i rapporti con Pechino nei cui confronti è stata avviata una politica di disgelo.

 

 

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