Rassegna stampa 6 novembre

 

Giustizia: la riforma "tradita" e il diritto smarrito fra le sbarre

di Giovanni Maria Flick (già Ministro della Giustizia)

 

Secolo XIX, 6 novembre 2009

 

Il sovraffollamento, i suicidi, i casi - provati o sospetti - di maltrattamenti dei detenuti, hanno riportato in primo piano il problema carcerario, non appena esauriti gli effetti (meramente deflattivi) dell’indulto varato tre anni fa. L’attualità, tuttavia, non dovrebbe mai far perdere di vista l’analisi e la sostanza delle questioni.

E ciò proprio per evitare di accantonarle di nuovo non appena le acque si placano, per ritrovarle intatte a distanza di anni (lo so bene anche per esperienza personale, quando da ministro chiamai ai vertici del dipartimento penitenziario prima Michele Coiro e, dopo la sua improvvisa e dolorosa scomparsa, un emblema del modello costituzionale della finalità rieducativa della pena, nonché esperto giudice di sorveglianza, come Alessandro Margara).

Il libro di Lucia Castellani e Donatella Stasio, Diritti e castighi (il Saggiatore), presentato ieri a Genova (dove Castellani, oggi a Bollate, diresse il carcere di Marassi) è l’occasione per riflettere sulla "rivoluzione tradita" del sistema penitenziario. La rivoluzione promessa è rappresentata dall’articolo 27 della Costituzione e dalla giurisprudenza costituzionale, dalle Carte internazionali, dall’ordinamento penitenziario con le successive modifiche e applicazioni, fino al regolamento penitenziario del 2000 e alle più recenti raccomandazioni del Consiglio d’Europa; quella tradita è dimostrata dalla quotidianità del nostro sistema penitenziario, nonostante alcune eccezioni e l’impegno di molti, che nel sistema lavorano con sacrifici certo maggiori delle soddisfazioni.

Gli obiettivi di rieducazione, legalità e rispetto della dignità, dovrebbero produrre proprio la tanto reclamata sicurezza, restituendo alla società persone "libere", una volta espiata la pena; ma prevale la rimozione del problema (e dell’obiettivo), con l’esclusione del diverso (clandestino, tossicodipendente) e l’illusione di una pax carceraria patogena e criminogena, i cui unici obiettivi (talvolta perfino mancati) sembrano l’assenza di fughe, rivolte, autolesionismi, suicidi; o almeno il loro contenimento.

Le misure alternative sono vissute con sospetto e paura, nonostante gli "incidenti di percorso" siano statisticamente non frequenti. I circuiti penitenziari differenziati non esistono, nonostante siano previsti dalla legge e resi indispensabili dalle differenze, non solo di pericolosità, nella popolazione carceraria, che riflette e amplifica la società multirazziale. La realtà è fatta di promiscuità fra imputati e condannati definitivi; di strutture che oscillano fra nanismo e gigantismo, e per l’80% risalenti all’800, quando non al medioevo. Sullo sfondo, una politica criminale che indulge alla domanda di carcere (spesso solo annunciata) come risposta mediatica all’insicurezza.

La lettura del libro e il ritorno, l’estate scorsa, nel cortile della Fortezza (il carcere di Volterra) mi hanno suggerito molte nuove riflessioni su una realtà che negli anni 90 ho avuto modo di esplorare in lungo e in largo, sia pure, ogni volta, troppo brevemente. E mi hanno rinnovato l’emozione forte del pugno alla bocca dello stomaco, che si prova quando si accetta di essere coinvolti e interrogati dalla realtà carceraria.

Il primo errore, consueto, è di entrare in un luogo di separatezza e diversità, con l’atteggiamento benevolo ma distaccato di chi non mette in discussione nulla, ma apre una parentesi "socialmente utile" nella propria curiosità intellettuale. E invece ne esce ogni volta frastornato. Ha ragione Armando Punzo (il regista della compagnia di Volterra), a definire "il carcere un’isola dentro la nostra città, dimenticata, che non si vuole conoscere..."; hanno ragione Lucia Castellani e Donatella Stasio, nel parlare del carcere come "cimitero dei vivi,... luogo separato e minaccioso... da tenere a distanza, come a marcare una insuperabile differenza tra noi e loro".

La tentazione di guardare al carcere come ad un luogo separato, è molto forte persino in chi, pur cercando di guardarlo nell’ottica della Costituzione, si limita a confrontarlo soltanto con l’articolo 27. Beninteso, se le cose andassero effettivamente come prescrive quell’articolo; se la duplice affermazione della Costituzione sulla pena fosse attuata concretamente, già questo sarebbe un risultato meraviglioso e il carcere segnerebbe un passo avanti epocale. Ma non basta: guardare alla pena ignorando il collegamento inscindibile con gli altri principi fondamentali, a cominciare dai diritti inviolabili e dalla pari dignità sociale (articoli 2 e 3) è pur sempre espressione di un atteggiamento diffuso, che vede nel carcere un mondo chiuso e separato.

Per sprigionare tutte le potenzialità di quei principi occorre riempirli concretamente: con i doveri di solidarietà di chi è fuori e di chi è dentro; con la pari dignità sociale anche dei detenuti, in quanto soggetti deboli, nonostante i limiti che derivano dalla restrizione della libertà personale e dalle esigenze di organizzazione e di sicurezza della convivenza carceraria; con il compito della Repubblica (quindi di ognuno di noi) di rimuovere gli ostacoli di fatto all’eguaglianza e al pieno sviluppo della persona umana. È il messaggio forte, forse il più importante, dell’analisi lucida e impietosa di Diritti e castighi.

La tendenza alla rieducazione è l’essenza della pena: non ci può essere pena senza finalità rieducativa. Non si può strumentalizzare l’individuo a fini di prevenzione generale e di soddisfazione del bisogno di sicurezza, attraverso l’esemplarità di una pena che prescinda dalla rieducazione. Ciò non toglie nulla all’afflittività e all’esigenza di sicurezza; ma si traduce nel diritto-dovere del detenuto a un percorso rieducativo, di recupero dei valori di convivenza sociale (non solo di ossequio alla legalità formale).

Un percorso che richiede il passaggio graduale dalla detenzione alle misure alternative; un trattamento e un accertamento individuali e personalizzati; non consente né automatismi, né valutazioni generali e astratte; non può essere azzerato in toto per esigenze di sicurezza. Anche perché la sicurezza, in carcere e fuori, si raggiunge attraverso la responsabilizzazione e il recupero graduale della libertà (come dimostra la modesta percentuale di recidiva fra i detenuti che godono di misure alternative - il 19% - rispetto al 68% di chi non ne gode).

La gradualità si accompagna a un altro principio costituzionale, quello di prossimità e di sussidiarietà: sia verticale e istituzionale (coinvolgendo enti locali e regioni), sia orizzontale e sociale (il volontariato e il ed. Terzo settore), per realizzare un quadro efficace di misure alternative e la loro accessibilità a tutti (anche ai clandestini e agli emarginati senza famiglia e senza protezione).

Giustizia: disastro del carcere è la storia delle opere pubbliche

di Roberto Morassut (Deputato Partito Democratico)

 

Il Riformista, 6 novembre 2009

 

Gentile direttore, poiché condivido il ragionamento e le conclusioni del suo editoriale del 4 novembre, vorrei esprimere la mia opinione sul tema da lei sollevato sulla scorta della mia esperienza di amministratore, svolta nel corso di otto anni nel Comune di Roma. Vorrei porre al centro la questione della necessità di un grande piano nazionale di adeguamento degli istituti di pena esistenti e di realizzazioni di nuovi complessi. Realizzare nuovi e moderni complessi impone una dolorosa riflessione sul tema delle opere pubbliche in Italia e sull’approvvigionamento dei suoli indispensabili per realizzarle.

L’Italia è un paese dove si disperdono, ogni anno, 160 miliardi di euro tra evasione fiscale e corruzione nella pubblica amministrazione - dati Istat e procura della Corte dei Conti. L’Italia è anche un Paese con una legislazione urbanistica vecchia e contraddittoria, con una normativa per gli espropri costosissima e impraticabile per le amministrazioni pubbliche. Tutto ciò rende lo stato e i comuni nudi e senza armi di fronte alla rendita e pressoché inabili a realizzare direttamente e con normali appalti grandi opere di pubblica utilità - carceri, ospedali, infrastrutture, metropolitane, attrezzature universitarie, impianti sportivi, edilizia popolare. Il risultato è che si sceglie sempre più, inevitabilmente, la strada del coinvolgimento di soggetti imprenditoriali privati per realizzare quanto necessario alla collettività, ristorando questi ultimi con vigorose operazioni immobiliari.

Per le carceri, il business privato sarebbe rappresentato non dalla gestione dei servizi - poco redditizi - ma dalla costruzione limitrofa di case e alberghi per il personale di servizio e per i famigliari. Non sono affatto contrario a questo tipo di possibilità, ma il fatto che questo sta diventando sempre più "l’unico" modo per tentare di fare opere pubbliche. Dico tentare, perché le procedure necessarie a tal fine, project financing o altro, sono così farraginose e alla fine le opere non si fanno quasi mai ma si generano progetti, aspettative illusorie, fidi bancari, senza mettere quasi mai un solo mattone. Il ponte sullo stretto ne è un esempio.

Peraltro le modalità di scambio tra pubblico e privato non sono normate da nessuna parte e ognuno in giro per lo stivale fa un po’ come gli pare generando ricorsi, contenziosi e danni per tutti. Ormai in Italia abbiamo un patrimonio pubblico sempre più fatiscente - carceri, scuole, ospedali, università, stadi - e un "capitale fisso" di infrastrutture arretrato e costoso per i motivi suddetti. Le nostre città sono le più belle del mondo, perché nei secoli le vecchie classi dominanti ne hanno curato - magari per esigenze di potere e dominio - la parte pubblica, realizzando monumenti, edifici pubblici, chiese, piazze, ville storiche e lo hanno fatto potendo gestire senza ostacoli il suolo anche per le finalità collettive.

Oggi le nostre città stanno morendo, nella loro dimensione pubblica. Per questo occorre un risveglio culturale che ponga al centro di un moderno riformismo una nuova legge del territorio e di uso del suolo. Una legge che ridia pari opportunità ai diritti privati e alle esigenze pubbliche, restituisca la giusta praticabilità allo strumento dell’esproprio e normi in modo rigoroso le forme di contrattazione tra pubblico e privato anche per realizzare le opere pubbliche.

Il governo Berlusconi anche su questo ha fallito. Ha fallito sul piano casa. Ha fallito sulle grandi opere. Ha fallito sull’edilizia sanitaria. Ha fallito sugli istituti di pena. Ha fallito sugli stadi di calcio. Senza mettere mano in modo serio al governo del suolo l’Italia andrà a rotoli. Avremo tanta L’Aquila, tante Messina e tante carceri stracolme. Nessuno però vuole parlarne. Forse per questo: quando nei primi anni 60 si tentò di mettere mano a una grande riforma urbanistica scattò un piano eversivo, il piano Solo - che fece avvertire a Pietro Nenni un "tintinnar di sciabole". Ecco perché un riformismo forte e coraggioso deve affrontare questo problema.

Giustizia: le carceri e il silenzio di Alfano sulla morte di Blefari

di Elettra Deiana

 

Gli Altri, 6 novembre 2009

 

Era l’autunno del 2005. Avevano allestito per loro una sezione speciale femminile di massima sicurezza, come da articolo 41 bis, in un carcere, chiamato "Le Costarelle", di Preturo, all’Aquila. Già affollato di 41 bis ma, fino allora, i casi erano tutti relativi a crimini mafiosi compiuti da mani maschili. Loro, le detenute, per le quali era stato riservato il trattamento di massimo isolamento e che in quell’autunno di quattro anni fa inaugurarono l’apposita sezione, erano Nadia Lioce, Laura Proietti e Diana Blefari. Neo brigatiste della nuova stagione degli assassini politici, gli anni allucinati dei delitti di Sergio D’Antona e Marco Biagi.

Stavano ognuna in una cella per contro proprio e non comunicavano tra loro. Perché non ne avevano voglia - come era fin troppo chiaro e potei costatare personalmente durante la visita - oltre che per la situazione di estremo isolamento del 41 bis, che avrebbe mandato in tilt chiunque.

Ero andata a visitare Diana Blefa-ri, in modo particolare, per le notizie che mi erano arrivate sul suo stato di salute e per la novità della sezione femminile in quel carcere, che conoscevo bene per altre visite che vi avevo fatto. Ma lei, Blefari, non comunicava soprattutto perché, fin dall’inizio dell’arresto, era caduta in uno stato di profonda prostrazione e inerzia psicologica. Era arrivata al carcere di Pasturo già in condizioni pietose. Così la vidi.

Se ne stava rannicchiata tutto il giorno nel letto, con la coperta fino agli occhi e senza nessun cenno di interesse per il mondo. Rifiutava il cibo, non parlava con nessuno, non voleva vedere neanche i familiari. Non rispose a nessuna delle mie sollecitazioni. Era piombata nel cono d’ombra di un distacco da se stessa che non l’ha mai abbandonata. Chiesi in un’interrogazione parlamentare, con Titti De Simone e Giovanni Russo Spena, che Blefari fosse

trasferita in un carcere ordinano, senza regime di 41 bis. E rimasi in contatto col direttore del carcere, fino a quando la detenuta non venne trasferita a Sollicciano, struttura di detenzione dotata di un osservatorio psichiatrico. Poi ne persi le tracce. Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio, dopo il suicidio di Diana Blefari, avvenuto in questi giorni nel carcere di Rebibbia, ha parlato di "schizofrenia e inabilità psicologica". Non dubito che Marroni abbia tutti gli elementi per valutare lo stato delle cose. Tutti se ne sarebbero potuti rendere conto. Molti, che in questi anni hanno seguito la vicenda, non si sono meravigliati dell’esito finale.

C’è una lunghissima documentazione in proposito e il guardasigilli Angiolino Alfano dovrebbe essere cauto prima di esercitarsi in affermazioni sfrontate, come quelle che ha fatto circa la compatibilità della situazione carceraria con lo stato di salute di Blefari. Che doveva essere curata, messa nelle condizioni di accettare di vivere e invece è stata lasciata a se stessa.

Forse Alfano non sa bene quello che dovrebbe sapere, come ministro della Giustizia. Lo Stato e le sue istituzioni, le sue strutture e il suoi apparati, per l’ennesima volta sono mancati all’obbligo di tutelare le vite che la giustizia consegna alla pena detentiva. In un Paese come il nostro, che ha in Costituzione l’articolo 27, parla di stato di diritto e però straparla di diritto alla vita. Per tutti fuorché per le vite incarnate di donne e uomini. Per questo la pena rischia di assomigliare sempre più, per i più deboli e gli emarginati e i disperati, a una soluzione estrema.

Di questo Alfano dovrebbe riuscire a dire qualcosa. Non sono in discussione i titoli di reato per i quali Blefari è stata condannata. È in discussione la responsabilità dello Stato che deve rispondere se abbia fatto - e non ha fatto - tutto per tutelare la vita di una donna detenuta nelle sue strutture carcerarie.

Soprattutto oggi, con tutti i suicidi che si verificano nei luoghi di detenzione e Teramo, con i suoi lugubri echi di violenze sotterranee. Ma ormai il degrado dell’intero sistema carcerario, sotto gli occhi di tutti, e rischia di creare crescente assuefazione e indifferenza.

Giustizia: Pd; ancora niente "piano"... lo aspettiamo da un anno

 

Apcom, 6 novembre 2009

 

"Sulle carceri Alfano non è credibile: da lui solo annunci e proposte per distogliere l’attenzione dai veri problemi degli istituti di pena". Lo afferma la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, che fa presente come "è passato esattamente un anno da quando il ministro della Giustizia annunciava solennemente da Trieste che avrebbe presentato nelle prossime settimane il nuovo piano di edilizia carceraria di concerto con il ministro Matteoli".

"Nel frattempo - prosegue - ci sono stati ben 41 Cdm ed Alfano non ha presentato un bel nulla. Il vuoto più assoluto ad eccezione degli annunci e delle proposte ad effetto. Penso alla riapertura dei carceri di Pianosa e dell’Asinara, neanche menzionati nella recente audizione alla Camera del capo del Dap, Franco Ionta, che vedono la netta contrarietà dello stesso ministro Matteoli che dovrà cofirmare il piano".

"Insomma - conclude - la solita proposta per sollevare un po’ di polvere e distogliere l’attenzione dal fatto che restano irrisolte tutte le problematiche relative al sovraffollamento carcerario, alla fatiscenza e carenza delle strutture, alla gestibilità della popolazione carceraria per numero e disomogeneità di regime, alla inadeguatezza degli organici per numero e qualificazione professione, all’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio ed infine a quello più complesso della individuazione di effettive ed efficaci pene alternative al carcere per i reati meno gravi. Su i carceri Alfano è sempre meno credibile".

Giustizia: evasioni, violenza e malessere; è il carcere dei minori

di Giuseppe Guastella

 

Corriere della Sera, 6 novembre 2009

 

A luglio un ragazzo si è suicidato a Bari, un mese dopo altri due hanno tentato di fare lo stesso a Milano e a Firenze. Qualche tempo prima, era primavera, le carceri di Bologna, Firenze e Potenza avevano registrato sette evasioni alle quali ora si sommano quattro fuggiti il 26 ottobre dall’istituto di Airola nel beneventano (tre riacciuffati), imitati qualche giorno dopo da tre che hanno provato a scappare dal Beccaria di Milano. Suicidi, evasioni, autolesionismo e atti di insubordinazione sono fenomeni in preoccupante aumento nelle carceri minorili italiane, favoriti dalla cronica carenza negli organici della polizia penitenziaria e degli operatori.

In valore assoluto i dati relativi ai minorenni detenuti non sono paragonabili a quelli degli adulti. Solo apparentemente. A fronte di circa 64.595 adulti (al 30 settembre) pigiati nelle 217 carceri, nei 18 istituti penali per i minorenni ci sono in tutto una media di 489 detenuti, di cui solo 147 condannati a pene definitive. A prima vista sembra un divario enorme, ma non è così perché ai minori dietro le sbarre vanno aggiunti i 17.814 seguiti dagli Uffici di servizio sociale, tra cui 2.188 ragazzi ospitati in comunità (struttura chiusa e protetta), più tutti quelli più o meno assistiti dai servizi locali tra mille difficoltà di bilancio.

Questo perché nella giustizia minorile italiana il principio costituzionale della riabilitazione e del reinserimento nella società di chi sbaglia è una chimera meno irraggiungibile rispetto alla giustizia per gli adulti. Di conseguenza gli 813 agenti di polizia penitenziaria (sui mille circa previsti dalla pianta organica), i 422 assistenti sociali, i 349 educatori e i 63 operatori di vigilanza partecipano costantemente a corsi di formazione organizzati dal ministero della Giustizia per dotarli degli strumenti necessari ad affrontare le problematiche minorili. Tutto sommato, la giustizia minorile, sia nella fase processuale che in quella dell’applicazione della pena, in Italia bene 0 male funziona. Tanto è vero che il sistema nostrano è studiato e copiato nei Paesi più evoluti e ha ottenuto l’anno scorso un importante riconoscimento dall’Onu.

Un solo suicidio in un anno, pari allo 0,2 per mille dei detenuti minorenni, a fronte di 61 adulti che si sono tolti la vita, e cioè circa lo 0,009 per mille. Fortunatamente parliamo di casi, per quanto tragici, statisticamente trascurabili. Ma più. che quell’unica morte, a far accendere la spia sono gli eventi di autolesionismo, di insubordinazione verso il personale e le evasioni. "Contro 43 detenuti ad Airola c’erano soltanto 5 agenti che con coraggio hanno evitato una fuga di massa", dice Eugenio Sarno, segretario Uil penitenziari, il quale sottolinea che "negli organici mancano 5 mila agenti, ma è nella giustizia minorile che il gap è più marcato. Nonostante questo, nessuno parla di uomini ma solo di carceri da costruire".

Una recente ricerca nel carcere minorile Beccaria di Milano ha dimostrato che è la presenza e la vicinanza psicologica degli operatori a fare la differenza. Se il suicidio è una forma di autolesionismo pressoché sconosciuta - a Milano un solo caso in 30 anni -, le altre manifestazioni più lievi sono tutt’altro che poco frequenti. Lo studio ha rilevato che nel 79,4% dei casi, i ragazzi si fanno male da soli se sono in gruppo e quasi sempre al sabato e alla domenica, quando cioè vogliono manifestare ai compagni il loro disagio. Solo nel 6,7% dei casi si feriscono durante le attività scolastiche e formative, quando l’attenzione degli operatori è, elevata.

"È difficile dare una spiegazione della genesi di questi episodi. Vanno esaminati caso per caso, ma è vero che l’amministrazione soffre di una generale carenza di organici", dice Bruno Brattoli, magistrato da un anno a capo del dipartimento della Giustizia minorile del ministero, sicuro che "tutti gli operatori e i dirigenti si adoperano per far sì che i ragazzi siano osservati con attenzione e professionalità durante la loro permanenza. Una sola morte è sicuramente un fatto tristissimo, ma un’entità numerica così bassa dimostra che il lavoro degli operatori dà i suoi frutti".

È la solita coperta troppo corta. Si taglia un po’ qua un po’ là e alla fine non si riesce a garantire un servizio ottimale. "Le carenze negli organici - aggiunge Brattoli - si ripercuotono su tutto l’iter trattamentale con disfunzioni e anomalie. Se non riusciamo ad avere un numero sufficiente di agenti, quelli che ci sono devono fare turni più gravosi e questo ha una diretta influenza sulla qualità del servizio.

È un dato oggettivo e grave che crea malcontento nel personale che negli istituti per minorenni ha compiti delicati e gravosi, come dimostra il fatto che da poco il ministro Alfano ha attribuito lo status di polizia specializzata agli agenti che lavorano con i minorenni". Brattoli si sta muovendo strategicamente: "Il dipartimento si sta impegnando al massimo nella ricerca di risorse e per garantire la migliore attuazione dei provvedimenti giudiziari intensificando i rapporti con la magistratura minorile. Tutto, ed è un punto di orgoglio, in un quadro di corrette relazioni sindacali con gli operatori e la polizia".

Don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria dal ‘72 ed educatore, è profondo conoscitore del disagio minorile: "Anche il numero degli educatori è insufficiente. Basta che uno si ammali perché i ragazzi si sentano abbandonati, compresi quelli che sembrano forti, che hanno commesso i reati più gravi, ma che in fondo hanno tutti una bassissima stima di se stessi".

"Meno carcere, più comunità, più progetti educativi dentro e fuori i luoghi di detenzione", propone Laura Laera, presidente dell’Associazione dei magistrati minorili, che il 13 e 14 novembre affronterà a Milano anche questo tema nel suo convegno nazionale. "Si tratterà dell’importanza di accompagnare il ragazzo che delinque durante il processo penale in un percorso di responsabilizzazione anche nei confronti delle vittime nonché della necessità di coinvolgere e sostenere la famiglia e il territorio nei progetti educativi", sostiene Laera secondo la quale "bisogna rafforzare e non impoverire le risorse destinate a questo settore".

I dati dimostrano che il trattamento esterno dà i suoi fratti. A Milano "su 1.634 ragazzi in carico al servizio minori del Comune dal 1992 al 2007, l’indice di chi è tornato a delinquere è sceso dal 21,54% al 3,24%". Ma non basta. "Chiedono spesso di essere aiutati, ma quando escono e tornano a casa trovano un deserto di opportunità e un fiorire di occasioni di reato", aggiunge don Rigoldi, che rivela: "Siamo al punto di chiedere ai giudici di non mandare a casa i ragazzi per evitare che tornino nei quartieri patologici".

 

Stare là dentro non serve a niente…

 

Pietro a soli 21 anni ha già collezionato 21 arresti, quasi tutti per rapina, e una condanna a 8 anni che fino al 2015 sconterà nel carcere modello di Bollate. Sembra aver dato un taglio al passato. Ora studia pianoforte e fa teatro. La prima volta lo beccarono a 14 anni per furto. Al Beccaria c’è stato quattro volte.

 

Come è stata la prima?

"Un trauma. Mi misero in cella. Avevo paura, provavo un senso di impotenza. La prima notte non ho chiuso occhio. Ero solo, tremavo e nessuno mi aiutava Mi chiedevo: "Chissà cosa mi capita ora?".

 

Poi com’è andata?

"Bene. Quando sei fuori pensi che dentro ci sia solo gente pericolosa, non è così".

 

La giornata-tipo?

"Poco tempo libero. Sveglia alle 8.30 e pulizia della cella dove si sta in tre, alle 9 colazione poi attività fino alle 12. Un’ora in cella, un’altra per il pranzo, fino alle 15.30 pulizia degli spazi comuni, ancora attività fino alle 18, un’altra ora in cella, cena e alle 20.30 a letto".

 

Con il personale?

"Una volta mi sono preso uno schiaffo da un agente. Mi sentivo un grande e gli ho risposto male. Devo dire che me lo meritavo. Dopo l’ho anche ringraziato perché non mi aveva fatto rapporto disciplinare".

 

E con gli educatori?

"Non servono a niente, come non serve a niente il carcere minorile. Ci vogliono soprattutto gli psicologi".

 

Perché?

"Perché il peggio è quando esci e torni da dove sei venuto. Invece di mettere la testa a posto, di ragionare su quello che ti è successo, in galera ti senti più forte. Dentro con gli altri parli solo di criminalità e credi di imparare a delinquere senza fare errori. Quando torni libero dici a te stesso e agli altri: "Io sono stato in carcere, mi dovete rispettare". Gli altri hanno paura solo per quello, e finisci di nuovo in galera. Come è successo a me".

 

La prima volta nel carcere per adulti?

"Ancora più traumatica. Tra i minori ero una persona, tra gli adulti non valevo più di uno straccio per lavare per terra. Del primo giorno ricordo l’attesa allucinante in una stanza squallida prima dell’immatricolazione. Lì ho preso il primo schiaffo. Un agente mi chiese la nazionalità. Gli risposi "italiana". Mi diede una sberla, non ci credeva. Mi misero con altri undici, tutti nordafricani, in una cella dove potevano starcene solo sei. Vedevo intorno a me gente grande, persone che avevano fatto tante cose gravi, pensavo che mi avrebbero violentato. Piansi a dirotto tutta la notte".

 

Dopo?

"La giornata? L’opposto che al Beccaria. Stai 22 ore in cella a non fare niente, ma con i compagni parli anche di cose diverse dalla criminalità. Mica è come qui a Bollate dove se vuoi puoi fare tante cose che ti possono essere utili anche fuori".

 

Problemi?

"Una volta sono stato picchiato duramente perché avevo dato uno schiaffo a un agente che mi chiamava negro di m... In tre grossi mi hanno massacrato di botte. Non era questo carcere, ma lì ho capito come funzionava, come dovevo comportarmi. Non ho denunciato niente. Un’altra volta ho tentato il suicidio. Mi ha salvato un compagno. A lui di me non gliene fregava niente, lo ha fatto solo perché non voleva avere problemi nella sua cella. C’è stato poi uno che ha minacciato di uccidermi con una lametta".

 

Come è cominciata?

"Avevo 14 anni ed ero un ragazzo modello, andava all’oratorio e facevo il chierichetto. Un giorno a scuola mi picchiai con uno. Il padre mi denunciò e finii in una comunità dove andavo qualche ora al giorno. Lì conobbi quelli che rubavano e rapinavano. E ho imparato".

 

Contatti con qualcuno del Beccaria?

"Con un paio, stanno fuori e rigano dritto. Gli altri li ho quasi tutti rivisti in galera".

Giustizia: Alfano propone la riapertura del carcere di Pianosa

di Laura Montanari

 

la Repubblica, 6 novembre 2009

 

L’isola è una riserva naturale. Il presidente del parco: pronto a incatenarmi. Scontro tra ministri sul piano Alfano: no di Matteoli e Prestigiacomo. Maroni: detenuti anche all’Asinara.

La riapertura del supercarcere sull’isola di Pianosa, in Toscana, spacca il governo. L’annuncio fatto ieri dal ministro della Giustizia Angelino Alfano di ripristinare la struttura di massima sicurezza in cui negli anni Novanta, dopo la strage in cui morirono il giudice Borsellino e la sua scorta, vennero trasferiti e rinchiusi i boss dell’Ucciardone (da Michele Greco, a Pippo Calò, Francesco Madonia e molti altri), ha suscitato l’immediata opposizione dei ministri Matteoli e Prestigiacomo.

Il primo, livornese, in passato si era battuto proprio per la chiusura di Pianosa: "Riaprire quel carcere oggi è un marchiano errore" ha detto. La struttura è abbandonata dal 1998 e l’isola è ora una riserva naturale, parte del parco dell’arcipelago Toscano. Nei piani del ministro Alfano a Pianosa, dopo i necessari lavori di ristrutturazione, potrebbero essere trasferiti circa 300 (su un totale di oltre 600) detenuti in regime di 41 bis, il carcere duro per i più pericolosi esponenti della criminalità organizzata e del terrorismo.

Maroni ieri, parlando a margine del G6 a Londra, ha aggiunto che nel governo "si sta discutendo anche di riaprire il carcere dell’Asinara. L’Italia ha molte di queste strutture ed è un peccato lasciarle così". Non è dello stesso parere il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, altra voce critica che si alza dal governo dopo Matteoli: "Pianosa come del resto l’Asinara sono due gioielli della natura e vanno semmai valorizzati - sottolinea - Le esigenze carcerarie non possono entrare in conflitto con quelle della tutela dell’ambiente".

Alfano però ha già dato mandato al Dipartimento di polizia penitenziaria di avviare le procedure per rimettere in funzione lo storico carcere di massima sicurezza toscano (140 anni di attività): "La scelta - spiegano dal ministero - rientra nella strategia dei circuiti penitenziari differenziati e nella individuazione di strutture che abbiano una vocazione specifica nella custodia dei detenuti al 41 bis. Il governo andrà avanti nel contrasto alla mafia con il piano straordinario di lotta contro il crimine organizzato, non si farà intimidire".

Quella di Pianosa non potrà essere una riapertura immediata: il complesso è in stato di abbandono e ci vorranno diversi mesi di lavori per rimetterlo in sesto. Sull’isola lavora, di giorno, un gruppo di detenuti in semilibertà del penitenziario di Porto Azzurro, ma garantisce soltanto la funzionalità degli impianti idraulici ed elettrici.

Nettamente contrario al "ritorno" del supercarcere in Toscana, il presidente della Regione Claudio Martini ("è antieconomico e vanifica investimenti e scelte già fatte" in altre direzioni). Il presidente del parco dell’Arcipelago, Mario Tozzi minaccia "di incatenarsi a Pianosa per dire no a questa follia". Si oppongono al piano Alfano anche gli ambientalisti - dal Wwf a Legambiente - e la Provincia di Livorno che aveva stanziato cinque milioni di euro per recuperare e ex strutture carcerarie da utilizzare come centri di ricerca ed educazione ambientali e che puntava a far insediare un presidio di 30 detenuti in un programma di reinserimento lavorativo.

Giustizia: Lumia (Pd) ad Alfano; applicare severamente il 41bis

 

Il Velino, 6 novembre 2009

 

"In questo momento, non credo, a mio avviso, sia sufficiente esprimere solidarietà tra noi, adesso come uomini delle istituzioni, Lei come ministro e io come membro dell’opposizione, abbiamo il compito di fare del 41 bis severamente applicato la migliore risposta alle minacce ricevute. Ritorno a riproporle l’apertura di Pianosa e l’Asinara e di riorganizzare al meglio, anche in altri istituti del centro-nord del Paese, il 41 bis in modo coerente con la necessità di impedire qualsiasi collegamento tra i boss e le loro organizzazioni mafiose".

È quanto si legge nella lettera inviata ieri al ministro della Giustizia Alfano da Giuseppe Lumia, componente della commissione parlamentare antimafia. Secondo il senatore del Pd "i costi non sono elevati" e la riapertura delle due carceri "garantirebbe una migliore tutela ambientale delle isole, attraverso l’impiego dei detenuti in lavori di cura e manutenzione dell’ecosistema delle isole in questione".

Per Lumia, inoltre, bisogna "evitare l’organizzazione dei reparti di 41 bis con il sistema delle celle a testa a fronte per impedire facili comunicazioni tra i detenuti stessi; tenere particolare attenzione ai colloqui con i familiari ed il cosiddetto momento della socializzazione, non trascurando neppure il momento delle cerimonie religiose. Va prestata massima attenzione alla corrispondenza che è un sistema efficace di comunicazione tra i boss e l’ambiente esterno e ai pacchi di indumenti e di alimenti ricevuti dai boss".

Giustizia: Bernardini (Pd); morte di Cucchi, non è "inaspettata"

 

Ansa, 6 novembre 2009

 

Come si può dire che la morte di Stefano Cucchi è stata "improvvisa e inaspettata"? Lo chiede la deputata dei Radicali Rita Bernardini commentando la risposta che il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo ha dato oggi al senato alla interrogazione sulla vicenda.

"Visto che il sottosegretario non ritiene necessaria un’indagine conoscitiva sulle morti in carcere - sottolinea Bernardini - nella replica ho annunciato che la richiederemo formalmente coinvolgendo tutti i gruppi parlamentari, a partire dal Pd che, con la sua capogruppo Donatella Ferranti, mi ha dato subito il suo assenso".

"La morte, ancor più se inaspettata ed apparentemente immotivata, non è evento che può lasciare indifferenti - ha detto Caliendo nella risposta diffusa dalla deputata - e l’esigenza di far luce sia sullo svolgimento dei momenti antecedenti alla morte del detenuto, sia sulla concatenazione degli eventi ad essi seguiti è un bisogno che, ritengo, accumuna noi tutti ai familiari del deceduto".

Giustizia: Cucchi; lividi e segni sul volto, già all’arrivo in carcere

 

Ansa, 6 novembre 2009

 

Le foto di Stefano Cucchi, scattate come è d’obbligo al momento del suo arrivo nel carcere di Regina Coeli, ritrarrebbero il giovane detenuto con lividi e segni rossi attorno agli occhi, su uno zigomo e sul collo. Le foto dell’ufficio immatricolazione del penitenziario romano - secondo quanto si è appreso - sarebbero tra la documentazione acquisita dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta per chiarire cause ed eventuali responsabilità della morte del giovane detenuto 31enne.

Le tre immagini, scattate il 16 ottobre quando Cucchi è stato trasferito dal Tribunale di Roma dopo la convalida dell’arresto, mostrano il detenuto in primo piano in posizione frontale e su entrambi i profili. Il giovane indossa una felpa blu con cappuccio e - secondo quanto di è appreso - ha ecchimosi nella zona attorno agli occhi, segni rossi (simili a quelli di dita di una mano) sullo zigomo sinistro e sul collo dalla parte destra fin sotto l’orecchio.

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 6 novembre 2009

 

La galera Poggioreale. Caro Arena, qui nella galera di Poggioreale siamo costretti a vivere in un modo che è difficile da descrivere. Ti dico solo che in cella siamo in 12 detenuti. Ben 12 detenuti costretti a restare chiusi in questa cella per 22 ore al giorno. Una vita la nostra che non augurerei a nessuno. Una che è a dir poco disumana.

La doccia la possiamo fare solo 2 volte a settimana, quando soprattutto con l’influenza che c’è ora noi ci dovremo lavare tutti i giorni, anche perché noi detenuti di Poggioreale non ci è permesso neanche ammalarci, visto che poi qui non ci darebbero neanche una semplice aspirina. Come se non bastasse gli agenti sono molto severi con noi. E anche se facciamo una semplice cretinata, ci portano giù alle celle di isolamento e ci picchiano. Ci picchiano a volte anche fino a farci sanguinare.

Ovviamente nessuno di noi denuncia questi fatti solo per paura. Tanta paura. La verità è che qui dentro noi detenuti non abbiamo diritti e ci trattano peggio degli animali. Devi sapere che qui ci sono tanti ragazzi detenuti che non resistono a tutto questo e pensano di farla finita. Qui a Poggioreale capita spesso di trovare una mattina uno di questi ragazzi impiccato e, guardandoli, è difficile non capire le ragioni di quel suicidio. Grazie per avermi dato voce.

 

Luigi, dal carcere Poggioreale di Napoli

 

La nostra disperazione. Carissimo Riccardo, qui nel vecchio carcere Cavallacci di Termini Imerese le nostre condizioni di vita sono a dir poco disumane. Pensa che in piccole celle siamo costretti a viverci in 12 persone, ed in altre anche in 14 persone. Considera che si tratta di celle piccole non più grandi di 20 mq e ti assicuro che è davvero dura resistere per 22 ore al giorni chiusi qui dentro.

I letti a castello dove dormiamo sono talmente alti che arrivano a toccare il soffitto. Ed anzi chi ha la branda non può lamentare. Infatti qui nel carcere di Termini Imerese sono tanti i detenuti costretti a dormire per terra. Già per terra. Inoltre qui di cure mediche non c’è neanche l’ombra. Soprattutto la notte qui può succedere di tutti e un detenuto può anche morire perché non c’è nessuno che lo venga a soccorrerlo. Come se non bastasse non possiamo neanche più usare la saletta dove prima facevamo socialità, perché l’hanno trasformata in una cella. Il fatto è che nel carcere di Termini Imerese i detenuti non sanno proprio più dove metterli. Siamo abbandonati a noi stessi. Senza medici, senza psicologi e senza educatori. Questa è la galera di Termini Imerese. Non ti nascondo che tra di noi c’è chi veramente non ce la fa più. Resistere qui dentro è davvero dura. Con stima.

 

Un gruppo di detenuti dal carcere di Termini Imerese

Piacenza: detenuto tunisino 27enne ritrovato morto, è suicidio?

 

Apcom, 6 novembre 2009

 

Un detenuto tunisino di 27 anni è morto due giorni fa alle 22.20 nel carcere di Piacenza, a riferirlo è Rita Bernardini, deputata radicale in Commissione Giustizia; forse un suicidio ma i radicali rilanciano la necessità di un’indagine conoscitiva sulle morti in cella.

Il detenuto, tunisino di 27 anni, Era da solo in cella perché il suo compagno di detenzione aveva chiesto e ottenuto di essere spostato. Un agente lo ha trovato steso per terra e a nulla è valso l’utilizzo del defibrillatore per soccorrerlo. Si sospetta - spiega Bernardini - abbia usato il gas di una bomboletta.

"Suicidio?", si chiede la deputata, sottolineando: "Ieri il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, rispondendo all’interrogazione radicale sul decesso di Stefano Cucchi, ha detto che non si vede l’utilità di un’indagine conoscitiva sui decessi in carcere perché da sempre l’Amministrazione se ne occupa. Questa risposta ci dà una ragione in più per chiedere ufficialmente, come delegazione radicale nel gruppo del Pd, un’indagine conoscitiva secondo quanto previsto da regolamento della Camera".

Genova: carcere galleggiante; Fincantieri ha firmato il progetto

di Renzo Parodi

 

Secolo XIX, 6 novembre 2009

 

"Un penitenziario galleggiante leggero, ormeggiato nel porto di Genova". L’idea è di Angelino Alfano, ministro di Grazia e Giustizia. Il progetto, non ancora esecutivo, è firmato Fincantieri. Se ne sentiva parlare da tempo, ora la notizia è certa e l’Ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, la commenta senza reticenze: "Quando parliamo di un carcere galleggiante ci riferiamo a una struttura ormeggiata a una banchina in porto.

Non a un’isola in mezzo al mare. Il nostro progetto è pronto. Abbiamo indicato che dal momento dell’ordine potremmo realizzarlo in 24 mesi. I costi? Da definire, anche tenendo conto delle misure di sicurezza richieste. La struttura potrà dare alloggio a 420 detenuti".

La situazione dei nostri penitenziari è drammatica e il ministro cerca di alleggerire il drammatico sovraffollamento degli istituti di pena dove soggiornano oltre 65 mila detenuti, a fronte di una capienza di poco più di 40 mila. Ieri si è saputo che nel piano carceri sarà prevista la riapertura di Pianosa. Il Guardasigilli Alfano ha dato mandato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di avviare le procedure per la riapertura del carcere sull’isola. E il ministro Maroni rilancia: "Potremmo riaprire anche l’Asinara".

Ma è subito scontro nel Pdl. Critico su Pianosa il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, che era stato tra i promotori della chiusura: "Sono molto sorpreso dall’idea di Alfano. Probabilmente non sa quanto sia pesato in termini di costi alle casse statali tenerla aperta fino a qualche fa. Mi batterò per evitare quello che mi sembra un marchiano errore". "Pianosa come anche l’Asinara sono due gioielli della natura e vanno semmai valorizzate", aggiunge il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo.

Sul carcere galleggiante a Genova il sindaco Marta Vincenzi aveva già alzato il muro del no. E da Betlemme, dove è in missione, riconferma: "Non mi piacciono le carceri in stile Alcatraz. Sono cose incivili". Bono ribatte: "Forse Vincenzi ha pensato a una struttura galleggiante in mezzo all’Oceano. L’hanno informata male". Il carcere dovrebbe invece assomigliare a una grande chiatta a più ponti, simile all’Urban Lab di Renzo Piano ormeggiato in Darsena a Genova. Affiancherà Marassi, alleggerendo la pesante situazione della popolazione carceraria.

L’embargo sui particolari cadrà quando, forse già oggi, dopo infiniti rinvii, il piano carceri elaborato da Franco Ionta, direttore del Dap e commissario straordinario per l’edilizia carceraria, approderà in consiglio dei ministri. La competenza nell’individuazione dell’area (nel caso della banchina o del molo) spetta a una Commissione formata dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Genova, da un funzionario del ministero di Grazia e Giustizia e dal provveditore regionale allo Opere pubbliche.

E comunque la scelta definitiva è della Regione, sentito il Comune (che esprime parere non vincolante) e valutate le compatibilità urbanistiche. Il ministro Alfano avrà i poteri di Commissario Straordinario per il piano-carceri e potrà far avanzare i lavori con procedure amministrative accelerate. Se si pensa di collocare la grande chiatta galleggiante con le sbarre alle finestre entro il perimetro del porto commerciale l’interlocutore principale del Guardasigilli sarà l’Autorità portuale genovese.

Il presidente, Luigi Merlo, è già stato informato dell’opzione e non l’ha presa bene. Come Vincenzi vede il carcere in porto come il fumo negli occhi. Progetti simili riguardano Savona e La Spezia e altre città portuali italiane.

Alcuni parlamentari del Pd (Orlando, Rossa, Tullo, Zunino) con un’interrogazione parlamentare avevano già bocciato la soluzione carceri galleggianti. "Comprendo i problemi occupazionali di Fincantieri - dice Tullo - ma vedrei meglio la costruzione dei sette pattugliatori che la nostra Marina ha richiesto per adibirli alla interdizione delle attività di pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano".

"Conosco bene la situazione carceraria e conosco bene il porto di Genova", ragiona Roberto Cassinelli, deputato genovese del Pdl che si è occupato a fondo del problema carceri. "È irrealistico collocare un carcere galleggiante all’interno del porto di Genova, causerebbe seri problemi al traffico commerciale e, probabilmente, la rivolta dello shipping. Lo stesso discorso vale per Savona e La Spezia".

Teramo: parla il detenuto picchiato; non fu pestaggio ma litigio

 

Il Centro, 6 novembre 2009

 

Caso Castrogno: parla il detenuto vittima del presunto caso di pestaggio finito sul cd che ha fatto il giro d’Italia. L’uomo, un italiano recluso per reati connessi alla droga, è comparso davanti ai poliziotti arrivati dal ministero di Giustizia. La procura teramana, infatti, ha affidato le indagini ad un particolare gruppo di polizia giudiziaria, giunta da Roma, e specializzata proprio in questo genere di casi. Il detenuto ha raccontato quello che è successo il 22 settembre, ribadendo di aver avuto un violento litigio con un agente finito in ospedale e ancora in malattia, mentre lui è stato refertato nell’infermeria del carcere.

Non avrebbe parlato di pestaggio, ma di un chiarimento tra lui e l’agente. Le stesse cose che ieri avrebbe detto al magistrato di sorveglianza di Pescara Alfonso Grimaldi , competente sul penitenziario teramano. Anche questo magistrato ha aperto un’inchiesta sul caso, acquisendo documentazione e referti medici. Fino a questo momento nel fascicolo della procura intestato al procuratore Gabriele Ferretti e al pm David Mancini non c’è ancora nessun indagato e nè sono ravvisate ipotesi di reato: il termine delle indagini scade tra un mese. E intanto, così come aveva annunciato ai suoi collaboratori, da ieri è in malattia il comandante degli agenti Giuseppe Luzi.

Luzi, che nei giorni scorsi ha ammesso che è sua la voce che si sente nel colloquio shock registrato nel cd, ha presentato un certificato medico di quindici giorni. Il comandante ha fatto la sua ammissione al parlamentare radicale Rita Bernardini e agli ispettori inviati dal ministro di giustizia Alfano. A tutti avrebbe detto di non essersi assolutamente riferito ad un episodio di violenza, ma solo ad un richiamo verbale fatto dagli agenti ai detenuti dopo un violento litigio tra un poliziotto e un recluso.

Sul tavolo di Alfano, intanto, è già arrivata la relazione degli ispettori che per tutta la giornata di lunedì hanno raccolto testimonianze e documenti. Anche loro hanno ascoltato il detenuto a cui si fa riferimento nel cd, e raccolto la confessione del comandante.

Nei giorni scorsi i sindacati, proprio partendo dall’ultimo caso, sono tornati a denunciare l’emergenza Castrogno e la carenza di personale: un carcere in cui ci sono quattrocento detenuti e 185 agenti. Il nucleo di traduzioni e piantonamenti fa più movimenti di detenuti che i restanti istituti della regione messi insieme. Il movimento detenuti in entrata e in uscita, oltre mille dall’inizio dell’anno, è pari a quella di tutti gli istituti d’Abruzzo messi insieme.

Lanciano: in arrivo 30 detenuti e la Polizia continua la protesta

 

Asca, 6 novembre 2009

 

Continua la protesta degli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Lanciano che dal 5 ottobre sono in stato di agitazione per la carenza di personale che si registra nell’istituto frentano. "Siamo stati informati - spiegano in una nota le organizzazioni sindacali Uil, Cisl, Cgil, Ugl, Cnpp, Osapp e Sinappe - che proprio a causa della carenza di personale, non sarà possibile programmare il piano ferie per Natale e Capodanno. In pratica quest’anno ci sarà negato il diritto di passare almeno una delle due festività in casa con i nostri cari".

A preoccupare ancora di più gli agenti è il progetto per l’apertura a Lanciano di una sezione giudiziaria per altri 30 detenuti. "Magari negli uffici del provveditorato regionale - continuano i sindacati - qualcuno può pensare che 30 posti in più o in meno per noi non faccia la differenza, ma non è così. Nell’istituto frentano non abbiamo più risorse, nemmeno l’arrivo in questi giorni di qualche unità di polizia penitenziaria è sufficiente a ripristinare lo stato di normalità nel carcere". Oltre allo sciopero della fame alla mensa interna, attuato già da diverse settimane con l’adesione della totalità del personale, gli agenti hanno annunciato che si auto consegneranno in carcere, senza cioè tornare a casa alla fine del turno di lavoro.

Droghe: Oedt; in Europa cresce il consumo di cocaina e eroina

 

Notiziario Aduc, 6 novembre 2009

 

Ecco i risultati di quarant’anni di proibizionismo in Europa. La cocaina vede sempre più aumentare la sua attrazione e resta di gran lunga il più popolare stimolante in Europa, l’eroina torna a essere in auge, mentre per la cannabis si conferma soprattutto tra i giovani un calo di interesse, anche se non nell’uso quotidiano. È questo il quadro dell’evoluzione del fenomeno droga in Europa, che emerge dalla Relazione annuale 2009 dell’Osservatorio europeo delle droghe (Oedt), che sarà presentato oggi a Bruxelles.

Un’analisi, frutto del monitoraggio di tutti i Paesi dell’Unione europea più la Norvegia, che rivela tra l’altro l’esistenza di un fenomeno che suscita l’allarme dell’Osservatorio: quello della vendita su Internet, di prodotti commercializzati con il marchio Spice, che dovrebbero contenere solo miscele di innocue erbe e che invece hanno rivelato la presenza di cannabinoidi sintetici, cioè sostanze ottenute in laboratorio che producono effetti simili a quelli della cannabis.

Secondo i dati dell’Oedt, dunque, circa 13 milioni di europei hanno provato la cocaina nella loro vita, e di questi, 7,5 milioni sono giovani (15-34 anni) di cui 3 milioni l’hanno usata nell’ultimo anno. L’Italia si conferma tra i Paesi a più forte consumo insieme a Danimarca, Spagna, Irlanda, e Regno Unito.

Nella maggior parte dei Paesi europei comunque si evidenzia una tendenza alla stabilizzazione o all’aumento del consumo tra i giovani. Sono invece da 1,2 a 1,5 milioni i consumatori problematici di oppiacei e in generale si registra un aumento di chi usa eroina. E i decessi per overdose, dopo un calo nei primi anni 2000, mostrano di nuovo un andamento al rialzo.

Ma la droga più comunemente usata resta la cannabis, con circa 22,5 milioni di europei che ne hanno fatto uso nell’ultimo anno. Tuttavia, continua la tendenza a un calo della popolarità dello spinello, soprattutto fra i giovani, già emersa lo scorso anno. Anche se il numero di consumatori intensivi resta alto: è possibile, avverte l’Oedt, che sino al 2,5% dei giovani europei consumi cannabis tutti i giorni. L’Italia è il Paese europeo ai primi posti nel consumo di spinelli: il 31,2% l’ha provato una volta, il 14,6% nell’ultimo anno e il 7,2% nell’ultimo mese. Stabili, infine i consumi di amfetamina e di ecstasy.

"Dopo due anni di osservazione dal 2007 al 2008 il dato che emerge è una diminuzione dell’uso della cocaina e eroina nei ragazzini tra i 15 e i 19 anni. Sempre nella stessa fascia di età si registra invece un trend in aumento dell’uso di cannabis". Lo ha affermato il capo dipartimento delle Politiche Antidroga, Giovanni Serpelloni, a margine della presentazione in Italia del rapporto annuale europeo sulle droghe e tossicodipendenze 2009.

I dati a cui si riferisce Serpelloni riguardano in particolare il 2008 e età differenti rispetto a quelle riportate nel rapporto europeo. In merito all’aumento dell’uso di cannabis il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla droga Carlo Giovanardi che le politiche di contrasto efficaci al fenomeno sono state avviate solo da questo governo, prima, invece gli altri governo le avevano abbandonate.

Parlando della situazione generale sui consumi generali di droghe in Italia, il sottosegretario ha aggiunto che l’uso cronico di droghe riguarda lo 0,1% della popolazione, circa 180 mila persone, che sono comunque un problema drammatico. Ma dobbiamo anche osservare che la stragrande maggioranza della popolazione non fa uso di droghe.

I giovani italiani consumano sempre meno cocaina ed eroina, ma sono ancora molto attratti dalla cannabis. Sono queste in sintesi le tendenze del consumo della droga nel nostro Paese riferite dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del ministri, Carlo Giovanardi, oggi nel corso della presentazione a Roma e a Bruxelles della relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga in Europa.

"In due anni di osservazione, dal 2007 al 2008 - ha spiegato Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento politiche antidroga - abbiamo potuto osservare nei ragazzi dai 15 ai 17 anni la diminuzione del consumo di cocaina ed eroina. Un trend che invece non si registra per la cannabis". L’esperto spiega però che non si tratta di numeri in controtendenza con la relazione dell’Osservatorio europeo - che indica un boom per la cocaina e una riduzione della cannabis - perché i dati europei si riferiscono al 2007 e anche a fasce di età differenti, e non sono quindi comparabili.

Rispetto all’aumento del consumo di cannabis tra i ragazzi, il sottosegretario Giovanardi ha sottolineato che "il governo ha avviato solo da un anno politiche di contrasto efficaci, che prima i precedenti governi avevano abbandonato". Ci sono quindi, secondo Giovanardi, ottime possibilità di intervento. Il sottosegretario ha quindi spiegato che il consumo abitudinario di droghe coinvolge in realtà lo 0,1% della popolazione. Circa 180 mila persone che rappresentano "senza dubbio un problema drammatico". Ma "dobbiamo anche aggiungere che la stragrande maggioranza della popolazione italiana non fa uso di droga".

Nella lotta alla diffusione di consumo di droga, c’è una dimensione nazionale che è completamente superata: non ci sono più frontiere e la lotta contro la droga non deve e non può conoscere più frontiere né frammentazione: è questo il messaggio che la Commissione Ue, per bocca del portavoce Michele Cercone, invia agli Stati membri nel giorno in cui l’Osservatorio europeo sul fenomeno delle droghe ha presentato la sua Relazione annuale.

Il portavoce ha ricordato che con la ratifica del Trattato di Lisbona, si potrà andare avanti in modo più coordinato in questa lotta contro un fenomeno che è veramente drammatico in Europa. Nell’ambito della presentazione della Relazione annuale europea 2009, effettuata dall’Osservatorio europeo delle Droghe e Tossicodipendenze (Oedt), in corso questa mattina nella Sala polifunzionale di Palazzo Chigi, sul fenomeno droga, dai dati presentati è emerso un aumento dell’uso di cannabis in Italia nella popolazione generale a partire dai 16 fino a 65 anni. Tuttavia, sezionando il dato e riferendolo alla fascia d’età intorno ai 15-16 anni, troviamo segnali positivi: c’è un calo del consumo in particolare per ciò che riguarda il consumo di cocaina ed eroina. Lo sottolinea, in una nota, il Dipartimento politiche Antidroga.

"Gli impressionanti dati diffusi oggi sul consumo di cocaina in Europa e in particolare in Italia dimostrano che con le politiche proibizioniste continua a crescere a dismisura il consumo di droga. A ringraziare sono le mafie di tutto il mondo, che hanno molto guadagnato, grazie al narcotraffico, e il governo Berlusconi che riciclerà in questo modo il denaro frutto dello spaccio di droga grazie allo scudo fiscale". Lo ha dichiarato il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero.

I dati del rapporto annuale europeo sulle droghe e tossicodipendenze 2009 presentati oggi e relativi agli anni 2007 e 2008 non possono essere considerati confortanti. Nonostante tra i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 19 anni si sia registrato un lieve calo del consumo di cocaina e eroina è aumentato, infatti, l’uso della cannabis. Lo afferma in una nota Maria Rita Munizzi, presidente nazionale del Moige e membro del Tavolo della consulta per le politiche anti-droga presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

"Questa droga e i suoi effetti sono spesso sottovalutati poiché tale sostanza è spesso considerata, a torto, una droga leggera - continua il presidente del Moige - Riteniamo fondamentale attivare delle azioni di contrasto all’abuso di cannabis che vadano in parallelo a delle iniziative di prevenzione, informazione ed educazione rivolte sia ai genitori che ai ragazzi". "Auspichiamo quindi un intervento concreto delle istituzioni - conclude Munizzi - in merito anche con l’obiettivo di riuscire a rendere la droga off limits non solo nelle scuole ma anche in tutti quei luoghi che rappresentano un punto di incontro e di socializzazione dei ragazzi".

Usa: pena di morte; esecuzione in Texas, con "iniezione letale"

 

Ansa, 6 novembre 2009

 

Esecuzione in Texas: un detenuto di 32 anni, Khristian Oliver, è stato messo a morte mediante iniezione letale in un penitenziario texano. Era stato condannato alla pena capitale per un omicidio commesso nel 1998, quando aveva 20 anni, nel corso di un tentativo di rapina. Era stato condannato nel 1999 e da allora ha vissuto sempre in carcere. La sua condanna era stata particolarmente seguita dalla stampa americana perché i giurati - secondo quanto riferito da Amnesty International, che aveva difeso l’uomo durante il processo - avevano motivato così la loro decisione: si erano basati su un passo della Bibbia in cui si evoca la legge del taglione. La fidanzata del ragazzo, allora 23/enne e in attesa di un bambino, era stata a sua volta condannata all’ergastolo per complicità in omicidio. Khristian Oliver è il 20/mo detenuto messo a morte quest’anno in Texas. Altri cinque sono in attesa di ricevere l’iniezione letale entro la fine dell’anno.

 

 

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