Rassegna stampa 3 novembre

 

Giustizia: sicurezza e carceri, una storia di politiche bipartisan

di Luca Ricolfi

 

La Stampa, 3 novembre 2009

 

Nei giorni scorsi l’opinione pubblica era turbata dal caso di Stefano Cucchi, il giovane morto in circostanze tuttora non chiarite dopo un’allucinante odissea nelle istituzioni (caserma, tribunale, carcere, ospedale). Ieri la notizia del suicidio in carcere della brigatista rossa Diana Blefari, pochi giorni dopo la conferma della condanna all’ergastolo per la sua partecipazione all’assassinio di Marco Biagi, ha riportato drammaticamente l’attenzione sul problema delle carceri.

E naturalmente è partito il solito copione: i parenti accusano le istituzioni, le istituzioni si difendono ma assicurano che faranno "piena luce", la sinistra si infiamma, la destra si barcamena. È facile prevedere che fra una settimana non se ne parlerà più, fino al prossimo caso dotato di sufficiente interesse mediatico. E invece sarebbe utile provare a parlarne al di là dei casi singoli. Perché il problema delle carceri ha due facce entrambe drammatiche, ma in qualche modo connesse. La prima faccia è quella della sicurezza.

Non da ieri, bensì da molti anni, i posti non bastano per contenere l’enorme flusso di detenuti (spesso semplicemente in attesa di giudizio) che transitano ogni anno nelle carceri italiane. Da oltre un decennio i posti sono fermi a quota 42-43 mila, mentre i detenuti sono arrivati a quota 65 mila e aumentano a un ritmo di 700 al mese. Vuol dire che nel 2013, a fine legislatura, saranno 90-100 mila.

La seconda faccia, non meno importante della prima in un Paese civile, è quella della dignità dei detenuti, un valore tutelato dalla Costituzione (art. 27). Con 43 mila posti in strutture carcerarie sovente fatiscenti non si possono tenere in carcere 65 mila persone senza provocare gravissimi problemi di convivenza, malattia e degrado, fino al dramma dei suicidi (a quanto pare in aumento, per quel che si può desumere dalle informazioni disponibili, scarse e di bassa qualità).

Un problema, quello dello scarso spazio in carcere, che ci è già costato una condanna dell’Unione Europea, e che pare appassionare ben poco le forze politiche (con l’importante eccezione dei radicali, da anni costantemente impegnati su questo fronte). Il sovraffollamento è un problema anche in altri Paesi europei, ma nessuno (salvo forse la Grecia) ha un eccesso di detenuti paragonabile al nostro. Anzi la maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale possiede semmai un eccesso di capacità: in Svezia e Germania la quota di posti liberi è intorno al 3%, in Inghilterra e Galles al 4%, in Portogallo al 7%, in Irlanda all’8%, in Danimarca al 10%, in Olanda al 19% (dati 2007, gli ultimi disponibili).

Di fronte a questi due enormi problemi destra e sinistra hanno approcci opposti, ma comportamenti sostanzialmente indistinguibili. La destra fa la faccia feroce e vorrebbe più severità, la sinistra pensa di alleggerire le carceri essenzialmente con le pene alternative (ad esempio gli arresti domiciliari) e la depenalizzazione dei reati minori. Rispondendo alle domande della Stampa ai tre candidati del Pd, solo Franceschini (lo sconfitto) ha avuto il coraggio di dire - contro il politicamente corretto di sinistra - che per combattere la criminalità punterebbe soprattutto su "un piano straordinario di edilizia carceraria, adeguando la capienza delle carceri all’aumento dei detenuti".

Quel che è veramente interessante, però, sono i comportamenti. Nella Seconda Repubblica destra e sinistra sono state al governo sette anni ciascuna ma, se andiamo al sodo, le loro politiche sulla sicurezza sono state estremamente simili. Non siete convinti? E allora ricapitoliamo i fatti, lasciando perdere annunci e dichiarazioni.

Capienza delle carceri. È la stessa da 15 anni, nessuno ha messo in atto alcun piano di edilizia carceraria di qualche impatto, e questo nonostante i detenuti siano più dei posti almeno dal 1992.

Sanatorie e regolarizzazioni. Nella Seconda Repubblica ce ne sono state tre, le più importanti sono quella del 1998 (legge Turco-Napolitano) e del 2002 (legge Bossi-Fini), la prima varata dal governo Prodi, la seconda dal governo Berlusconi.

Indulti. Anche qui uno a testa, nel 2003 il cosiddetto indultino di Berlusconi, nel 2006 l’indultone di Prodi, peraltro sostenuto anche da Forza Italia.

Sbarchi. Sia i governi di destra sia quelli di sinistra hanno tentato accordi con i governi dei Paesi di partenza, entrambi sono incappati in drammatici episodi di respingimento, con morti e dispersi: sotto Prodi (1997) una corvetta italiana affondò un barcone albanese in acque internazionali, sotto Berlusconi - quest’anno - varie navi di disperati in fuga dall’Africa sono state ricondotte forzosamente in Libia, suscitando un vespaio di proteste (Europa, Chiesa, Onu).

Se lasciamo perdere le parole, gli appelli, le "differenti sensibilità", la realtà nuda e cruda è che sia la destra sia la sinistra sono paralizzate dalla mancanza di soldi, di idee e di coraggio. Berlusconi in campagna elettorale ha promesso più posti in carcere ma per ora, a un anno e mezzo dalla vittoria elettorale, ha partorito solo un piano (di nuovo parole!) che, se anche dovesse effettivamente partire e miracolosamente rispettare i tempi previsti (2012), non coprirebbe nemmeno l’incremento di detenuti prevedibile fra oggi e allora: si è parlato di 12, 17, 18 mila posti aggiuntivi, ma i nuovi detenuti saranno 25-30 mila.

Quanto alla sinistra, aborre l’idea di spendere miliardi per nuove carceri, ma non ha il coraggio di seguire la via dei Radicali e delle sue componenti più laiche e libertarie: indulti, pene alternative, depenalizzazioni. Teme che l’opinione pubblica, diseducata da "questa destra" razzista e forcaiola, non capirebbe.

Io dico solo questo. Un Paese civile non può tenere le persone in carcere nelle condizioni in cui da anni le tiene l’Italia, indipendentemente dal colore dei governi. Riportare in equilibrio il numero dei posti e il numero dei detenuti è un fatto di civiltà, ed è la pre-condizione minima per contenere il dramma umano dei suicidi e della violenza.

Lo si può fare aumentando i posti, diminuendo i detenuti, o con un mix delle due misure. Se si pensa che la via maestra siano nuove carceri le si costruisca: per tener dietro all’aumento della criminalità il minimo è raddoppiare la capienza attuale, e il costo è di circa 4 miliardi. E se si pensa che la via maestra siano indulti, depenalizzazioni e pene alternative al carcere si abbia il coraggio - come i Radicali - di gridarlo in faccia all’opinione pubblica. Il resto è ipocrisia.

Giustizia: un Garante dei diritti dei detenuti... è un buon inizio

di Antonio Rapisarda

 

www.ffwebmagazine.it, 3 novembre 2009

 

Rebibbia, Ucciardone, Castrogno, Regina Coeli. Carceri i cui nomi si conoscono bene, perché appartengono all’onomastica delle città. Ma delle quali, al di là del nome che portano e dall’aspetto un po’ tetro che trasmettono, si conosce ben poco. Il mondo dei penitenziari, del resto, è un’isola a parte da sempre. Con le sue regole, i codici non scritti, le sue gerarchie. Capita però che a volte qualcosa fuoriesca. E quasi sempre accade quando si parla di casi di violenza e, purtroppo, di morte. In questi giorni tre episodi hanno riportato l’attenzione sul tema della sicurezza nelle carceri. Tre casi diversi ma che testimoniano aspetti dello stesso problema. La morte di Stefano Cucchi - il giovane romano entrato con le sue gambe in carcere e trovato morto in ospedale dopo pochi giorni -, il suicidio della neo-brigatista Diana Blefari, trovata impiccata nella sua cella di isolamento, e infine il caso dei presunti pestaggi ai detenuti all’interno del carcere di Teramo.

Nel primo caso le responsabilità della violenza ancora rimbalzano tra polizia penitenziaria e carabinieri - perché ciò che è sicuro, nella sua odissea, è che Stefano è stato picchiato - nel suicidio della Blefari emerge di nuovo il dibattito sul regime dell’isolamento quando si tratta di detenuti con particolari caratteristiche. Mentre nell’audio che riprende un rimprovero a un agente da parte di un superiore - "in sezione un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto" - il tema della violenza quotidiana si mischia inevitabilmente con il sovraffollamento delle carceri italiane. Su questi aspetti del fenomeno dalla politica da troppo tempo si aspettano risposte.

Se da sinistra ogni volta si urla alla violazione dello Stato di diritto e si propone una soluzione aleatoria e buonista del problema carceri, da destra il più delle volte è emerso un atteggiamento iper-garantista vero le forze dell’ordine e un po’ approssimativo sul problema della gestione delle carceri. Il rischio insomma è - dopo l’esaltazione mediatica del momento - che consumato il gioco del rimpallo tra qualche giorno tutto rientri nella "normalità". Fino al prossimo caso.

Nello specifico, si confrontano due culture. La proposta del governo sul tema carceri, ad esempio, riguarda essenzialmente l’istituzione delle nuove strutture penitenziarie: ma per il momento resta ancora un piano. E comunque anche questo progetto non può essere affrontato senza considerare l’enorme flusso di detenuti, dei quali molti in attesa di giudizio. Motivo per il quale le misure "alternative" di detenzione e un’attenzione maggiore alla rieducazione anche da destra dovrebbero essere prese in considerazione.

Soprattutto nei casi meno gravi. Dall’altra parte, la proposta della sinistra non può limitarsi a un ottimistico appello al politicamente corretto: non si affrontare il tema dell’insufficienza delle carceri esclusivamente con le depenalizzazioni e le pene alternative. A sinistra, probabilmente, dovrebbe esserci un po’ più spazio anche per la considerazione che la società ha anche il diritto di più sicurezza.

Quello del sistema carcerario, poi, è un problema che riguarda anche il tema dei diritti dei detenuti. Perché ciò che sembra accadere in molte strutture - come testimoniano l’omicidio di Stefano Cucchi e i presunti pestaggi di Teramo - riporta alla mente ciò che ha scandalizzato l’opinione pubblica internazionale: il trattamento dei detenuti nel carcere di Guantanamo. In uno Stato occidentale, insomma, ciò non dovrebbe mai accadere.

E i diritti dei i cittadini, a prescindere dal loro status di persone libere, indagate o condannate, dovrebbero essere garantiti a tutti. Da questo punto di vista si parla, ad esempio, dell’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti, una proposta che parte dai Radicali è che è stata messa in agenda in commissione Affari costituzionali.

Questa dovrebbe essere una figura di nomina parlamentare con diritto di accesso, senza preavviso, negli istituti penitenziari con l’obiettivo di verificare le condizioni degli ambienti e vigilare sulla qualità del trattamento dei detenuti. Nell’attesa che il piano per le nuove carceri diventi esecutivo e di un dibattito che coinvolga gli schieramenti senza posizione preconcette, cominciare da questa proposta di garanzia potrebbe essere un buon inizio.

Giustizia: perché l’isolamento da eccezione è diventato regola

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2009

 

Signor direttore, ieri il detenuto, preso da un momento di sconforto, ha commesso l’insano gesto autolesivo perché, a suo dire, ha problemi con la famiglia". È la formula di rito usata nei cosiddetti "rapportini" stilati dai poliziotti penitenziali di fronte al detenuto "che da di matto". Ed è anche il primo anello della catena che, passando per il direttore, porta il "matto" al colloquio di "sostegno" con lo psicologo o, nei casi gravi, con lo "psichiatra".

Due figure professionali peraltro rare nelle prigioni italiane, dove però non manca il medico di guardia al quale è demandata in prima battuta la decisione sulla "sorveglianza a vista" (Sav) del detenuto "a rischio". Che finisce seminudo (indumenti e accessori, come lacci delle scarpe o cinture, sono vietati perché potrebbero essere pericolosi) in una "cella liscia" (senza mobili, con branda di ferro inchiodata a terra, senza lenzuola), marcato a vista 24 ore su 24 da un agente. "Tutto il necessario, insomma, per evitare che "il matto" si faccia male - osserva Rino Pastore, psichiatra a Poggioreale - ma poiché il carcere fa male, il "matto" starà sempre male".

L’isolamento - che dura finché non cessa il pericolo -dovrebbe essere l’eccezione, ma spesso diventa la regola nelle carceri italiane. Carceri patogene, se è vero quanto si legge nel Rapporto sulla sanità penitenziaria, secondo cui il rischio di contrarre malattie è doppio rispetto a quello che si registra fuori. La mortalità, ormai, cresce di anno in anno: nei primi dieci mesi del 2009, ci sono stati 146 morti, uno ogni due giorni; i suicidi sono stati 60, uno ogni cinque giorni. Se il carcere del ventennio fascista era un "cimitero dei vivi", quello del terzo millennio sta diventando un vero e proprio cimitero. Eppure, uno dei parametri tradizionali per misurare l’efficienza del carcere è la sua capacità di tenere i detenuti in buona salute per tutta la durata della pena, evitando suicidi e autolesionismi. Fenomeni invece in aumento.

L’invivibilità del carcere acutizza o provoca patologie psicofisiche; produce insonnia, depressione, anoressia. E i detenuti reagiscono tagliandosi, suicidandosi o con scioperi della fame e della sete. Chi sopporta meno quest’invivibilità è considerato "uno che da fastidio" e spesso viene isolato. Ma già nel ‘98, l’ex capo del Dipartimento penitenziario, Alessandro Margara, ricordava che l’isolamento è una misura eccezionale, mentre è usata frequentemente "per finalità diverse".

Molti detenuti sperimentano l’isolamento quando entrano in carcere (perché lo shock dell’ingresso è il più duro da superare) oppure quando vengono a conoscenza della sentenza definitiva, soprattutto se è di condanna a un "fine pena mai". Diana Blefari non era in isolamento in quel momento, ma sola, nella sua cella singola del reparto alta sicurezza di Rebibbia, dov’era stata trasferita dal 41-bis.

Negli anni di galera aveva sviluppato un forte disturbo psicotico della personalità (nel 2007, la psichiatra ne aveva già segnalato "il rischio suicidario"), ma il magistrato aveva ritenuto sulla base di una perizia d’ufficio che le sue condizioni di salute fossero compatibili con la detenzione. In casi come questi, è infatti il magistrato a decidere. Se ritiene che il carcere sia incompatibile, può disporre il trasferimento (per non più di 30 giorni) o in un ospedale psichiatrico giudiziario o nel polo psichiatrico di un altro carcere, oppure in un ospedale civile. Dopodiché o si rientra in prigione oppure si va in detenzione domiciliare (magari in una casa di cura). La Blefari ha scelto invece di impiccarsi.

Giustizia: Alfano; Cucchi non doveva morire, ricercare la verità

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

"Prima di iniziare devo fare una premessa: Stefano Cucchi non doveva morire, si doveva evitare che morisse". Così ha esordito martedì mattina nell’Aula del Senato il ministro della Giustizia Angelino Alfano nell’ambito dell’informativa del governo sulla morte di Stefano Cucchi, morto all’alba del 22 ottobre scorso a sei giorni dall’arresto per spaccio di droga. "Ecco perché - ha aggiunto - il governo è in prima linea per accettare la verità. Tutte le nostre energie sono impegnate per accertare chi, anche con atteggiamento omissivo, abbia portato a questo tragico evento". E ancora: "Uno Stato democratico assicura alla giustizia e può privare della libertà chi delinque ma nessuno può essere privato del diritto alla salute".

Per la famiglia di Stefano Cucchi e per tutti i cittadini, ha continuato Alfano, dovranno arrivare "al più presto" gli "esiti chiarificatori medico-legali e investigativi" della vicenda. Occorre accertare "ogni dettaglio della verità" e gli eventuali "responsabili saranno chiamati ad assumersi le proprie responsabilità senza sconto alcuno". Il ministro ricorda che nell’inchiesta in corso ci sono due filoni: "Una è sulle lesioni su cui andrà appurato se siano state accidentali o provocate, l’altra sulla mancata alimentazione.

Stefano Cucchi, ha continuato il ministro, "era sempre lucido. Ha potuto decidere quello che accettava e quello che aveva deciso di rifiutare, durante la permanenza al Pertini". E lui, "ha rifiutato di sottoporsi alla visita in ospedale". Non solo. "Ha manifestato ai sanitari la volontà di non rilasciare notizie sul suo stato di salute ai genitori: in base alle notizie che mi sono state comunicate dall’amministrazione penitenziaria i familiari di Cucchi per due volte si sono recati presso la struttura penitenziaria dell’ospedale Sandro Pertini" per parlare con il giovane. Ma in entrambe le occasioni, "è stata rappresentata loro la necessità di munirsi di permesso di colloquio". Quanto al "diniego" sempre opposto ai familiari di incontrare i sanitari per avere informazioni sullo stato di salute del giovane, Alfano ha spiegato che "si è data applicazione all’accordo esistente con la Asl di Roma secondo cui nessuna informazione può essere data ai familiari senza l’autorizzazione del magistrato. Questo divieto può essere superato dall’autorizzazione firmata dal detenuto. Ma - ha aggiunto Alfano, citando alcune informazioni pervenute dal ministero della Salute - da quanto si evince dalla documentazione Stefano Cucchi ha firmato per non autorizzare alla diffusione le informazioni sulle sue condizioni di salute ai familiari".

La verità sulla morte di Stefano Cucchi è dovuta alla famiglia, all’Arma dei Carabinieri e ai medici italiani. È dovuta al Paese. Lo ha detto la presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, intervenuta in Aula al Senato dopo le dichiarazioni del ministro della Giustizia. Ha parlato con la voce a tratti rotta dall’emozione. Ha rivolto parole di apprezzamento al ministro: "Apprezziamo che lei sia qui, è un atto di rispetto e anche, in qualche modo, un atto di coraggio. Le chiedo, essendo lei un giurista, di farla per se stesso questa ricerca di verità. Noi dobbiamo sapere che cosa è successo a Stefano Cucchi e per i tanti Stefano Cucchi che cadono dalle scale e di cui non si sa nulla. Lei è un garantista per formazione ed educazione, e lo è fino in fondo".

Finocchiaro è poi tornata sulle questioni generali del mondo carcerario. "Lei - ha proseguito rivolta al ministro - aveva promesso un piano carceri che non abbiamo visto. La dignità è fatta anche di carceri degni e magari di circuiti alternativi. Le chiedo di farsi carico dell’istituzione del Garante nazionale dei detenuti. Si faccia carico di sapere - ha aggiunto - perché Diana Blefari possa morire impiccata in carcere. E queste cose accadono non solo perché sono sovraffollate le nostre carceri. Signor ministro le chiediamo di farsi garante di tutto questo. Vogliamo vigilare su questo senza protervie, senza strumentalità ". "Mi torna in mente - ha concluso Finocchiaro - la domanda che mi ha fatto mia figlia, che ha sedici anni, quando l’altro giorno mi ha chiesto: "mamma, ma che Paese mai è questo?" ".

La sorella di Stefano, Ilaria, era presente in Senato nella tribuna riservata al pubblico. Invitata dal senatore dell’Idv, Stefano Pedica, Ilaria Cucchi ha ascoltato l’informativa del ministro della Giustizia, Angelino Alfano. La sorella di Cucchi ha inoltre posto alcune domande al Guardasigilli che in Aula il senatore Pedica ha rivolto per lei. E alla fine dell’intervento di Alfano, ha espresso perplessità: "Aspetto di vedere la firma di mio fratello su quel diniego alle informazioni sanitarie alla famiglia", si è infatti lasciata sfuggire la ragazza conversando con i cronisti in Senato. Dubbi anche sul numero di richieste di colloquio avanzate dai familiari di Stefano: non due, come ha detto il ministro, "perché noi siamo stati lì tutti i giorni".

Giustizia: Ionta; 65.225 detenuti, è una "emergenza nazionale"

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

Ed anche quota 65mila è stata sfondata. Con la freddezza dei numeri, l’ultima rilevazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fotografa una situazione che lo stesso capo del Dap, Franco Ionta, nel piano carceri più volte annunciato come imminente dal Guardasigilli Angelino Alfano, ha definito da "emergenza nazionale".

I detenuti, ad oggi, sono 65.225 - contro un limite di tollerabilità di 63.568 posti - e di questi 24.085 (circa il 37%) sono stranieri, mentre 31.346 (il 50% del totale) in attesa di giudizio. Troppi. Tensioni, carenza di agenti, suicidi (il più eclatante quello della neobrigatista Diana Blefari Melazzi) o morti sospette (il caso Stefano Cucchi) hanno indotto Ionta a prendere carta e penna per invitare il personale penitenziario a "mantenere i nervi saldi" e a "lavorare con lucidità". Tutto questo in vista del piano carceri che il governo dovrebbe esaminare in settimana, o la prossima, in consiglio dei ministri.

‘La preoccupazione per l’ordine e la sicurezza pubblici, le manifestazioni di protesta dell’estate, l’attenzione da parte dei media e di numerosi parlamentari - scrive Ionta nell’ultima versione del piano carceri, datata 13 ottobre - sostanziano, all’evidenza, una situazione di emergenza e legittimano l’intervento eccezionale". Che però non potrà più realizzarsi attraverso indulti o amnistie (la Lega non lo consentirebbe) ma con la costruzione di nuove carceri, per arrivare, entro il 2012, a 21.479 posti in più.

Il piano prevede la realizzazione di 24 nuovi penitenziari, di cui 9 "flessibili" (vale a dire di prima accoglienza o destinati a detenuti con pene lievi, con controlli sulle mura di cinta affidati alla sola videosorveglianza) costruiti nelle grandi aree metropolitane (Milano, Napoli. Bologna, Torino, Firenze, Roma, Genova, Catania e Bari), a cui se ne aggiungono altri 8 in aree strategiche (Pordenone, Pinerolo, Paliano, Bolzano, Varese, Latina, Brescia e Marsala), anch’essi flessibili e ciascuno da 450 posti, per una spesa totale di 408 milioni di euro,e da realizzare seguendo le procedure veloci utilizzate per le nuove case dell’Aquila.

E ancora: altre 7 carceri tradizionali sono previste a Roma, Milano, Nola, Sciacca, Sala Consilina, Venezia e Savona (4.429 posti e 613milioni di euro totali), ai quali si sommeranno 47 nuovi padiglioni in penitenziari già esistenti. L’intera operazione vale circa 1,4 miliardi di euro. Per fare ciò, Ionta punta a diventare commissario delegato, con la possibilità di nomina di consulenti, e con il potere di secretare le procedure di affidamento dei contratti pubblici per la costruzione delle nuove carceri, selezionando - attraverso documentazione "riservatissima" - le aziende e gli operatori interessati agli appalti.

Nel piano è stata infine introdotta l’ipotesi di una modifica al codice penale su cui, però, Lega sembra debba ancora sciogliere la riserva: come ulteriore intervento di alleggerimento del sovraffollamento carcerario si pensa di concedere, con una procedura semplificata, gli arresti domiciliari ai detenuti che hanno un residuo di pena non superiore a un anno di carcere (ad esclusione dei condannati per reati gravi e per cui è previsto l’arresto in flagranza). Nel caso in cui il detenuto beneficiario di questa misura dovesse fuggire, allora l’evasione verrebbe punita più severamente, fino a un massimo di tre anni di carcere. In questo modo i penitenziari potrebbero essere così alleggeriti di circa 2-3mila detenuti.

Giustizia: Fp-Cgil; non basta dire agli agenti tenete i nervi saldi

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

"A questi servitori dello Stato non serve raccontare favolette o dire di "mantenere i nervi saldi" esprimendo a parole vicinanza, come ha fatto stamani il dottor Ionta, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Occorrono fatti concreti. Lo afferma in una nota Francesco Quinti, responsabile Comparto sicurezza della Fp Cgil in merito al messaggio inviato dal Capo del Dap agli agenti di polizia penitenziaria.

"L’accertamento della verità e delle eventuali responsabilità sulla morte del povero Stefano Cucchi non può e non deve trasformarsi in terreno di scontro istituzionale tra Corpi", rileva Quinti, che "nell’esprimere sincera vicinanza e solidarietà alla famiglia Cucchi" ritiene anche "sia giusto ed opportuno guardare con rispetto e riconoscenza agli operatori della Polizia Penitenziaria rimasti inconsapevolmente vittime delle generiche accuse fin qui loro rivolte da talune ricostruzioni giornalistiche".

Giustizia: Bernardini (Pd); interrogazione sui malati in carcere

 

Adnkronos, 3 novembre 2009

 

La deputata Radicale eletta nel Pd, membro della Commissione Giustizia, Rita Bernardini ha presentato un’interrogazione al ministro Alfano sul suicidio di Diana Blefari Melazzi nel carcere di Rebibbia e, più in generale, sulla piaga dei suicidi negli istituti di pena italiani. Sul caso Blefari la deputata Radicale si è rivolta al ministro Alfano per sapere se intenda verificare la dinamica dei fatti e, in particolare, se nei confronti della donna siano state adottare le misure di sorveglianza previste e necessarie, così da verificare eventuali omissioni e responsabilità.

Rita Bernardini, anche in ragione della segnalazione da parte della direttrice del carcere di Rebibbia di altri casi di sofferenza psichiatrica che richiederebbero l’assunzione in carico da parte di strutture in grado di curare questi soggetti e vigilare sulla loro incolumità, ha poi chiesto al ministro "se ritenga che persone così gravemente sofferenti dal punto di vista psichico debbano necessariamente scontare la pena all’interno di istituti non attrezzati per la cura di simili patologi".

Sull’evidente dramma generale dei suicidi in carcere, anche alla luce dei dati allarmanti diffusi da Ristretti Orizzonti, secondo cui un terzo dei centocinquanta decessi l’anno registrati in media nei penitenziari italiani avviene per suicidio e, dal mese di gennaio, si è già registrato un aumento del 30% di suicidi rispetto al 2008, la deputata Radicale ha sottolineato come "una politica di fermezza verso il crimine di certo non escluda la garanzia di condizioni minime di vivibilità in carcere, nel rispetto di quanto sancito dalla Costituzione, soprattutto verso i più vulnerabili al rischio-suicidio come le persone sottoposte a isolamento o comunque a forme di inasprimento del regime detentivo".

Bernardini ha dunque interrogato il ministro Alfano sui risultati acquisiti in passato dal monitoraggio avviato sui casi di suicidio in carcere dal Dap nell’anno 2000, chiedendo inoltre se il ministro non ritenga che l’alto tasso di suicidi dipenda dalle condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena e dalle aspettative frustrate di migliori condizioni di vita al loro interno.

La deputata radicale, infine, ha chiesto di sapere come Alfano intenda affrontare la gravissima carenza dell’organico della polizia penitenziaria nel carcere femminile di Rebibbia (dove delle 164 agenti previste in organico solo 120 costituiscono la forza operante, mentre quelle effettivamente in servizio sono solo 101) e quali misure intenda attuare per arrestare il drammatico flusso di suicidi nelle carceri italiane.

Rassegna: Cnca; Cucchi e Blefari vittime d’un carcere malato

 

Redattore Sociale - Dire, 3 novembre 2009

 

Contro il "sovraffollamento inumano" il presidente della Federazione delle comunità di accoglienza Babolin auspica il ricorso alle "misure alternative per chi ne ha diritto per legge".

"Un carcere sempre più malato produce episodi sempre più estremi e gravi: Stefano Cucchi e Diana Blefari ne sono le ultime vittime." Così Lucio Babolin, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) esprime il dolore della Federazione per le due diverse vicende e chiede alle istituzioni una rapida inversione di rotta per rendere più umane e trasparenti le condizioni di vita negli istituti penitenziari. "I gravissimi fatti di questi giorni - continua Babolin - richiedono, prima di tutto, che si accertino responsabilità e omissioni. A tal proposito, il Cncs ritiene che occorra agire rapidamente e senza avere riguardi per nessuno. Chi ha sbagliato, paghi." "Ma è chiaro che, in queste vicende - afferma il presidente del Cnca - riemergono questioni più generali, che rimangono del tutto irrisolte. In primo luogo, il passaggio - tutto da realizzare - da un’assistenza sanitaria per i detenuti curata dall’Amministrazione penitenziaria a una sanità che fa capo al Servizio sanitario nazionale. Oggi il sistema continua a non saper far fronte alle situazioni patologiche, fisiche e psichiche, che riguardano i carcerati, i quali stanno persino peggio di prima."

Il problema principale, secondo Babolin, resta il "sovraffollamento inumano". "Da tempo il Cnca propone di risolvere il problema - che è causa anche dell’altissimo numero di suicidi e di malattie di vario genere che colpiscono sia la popolazione detenuta sia gli agenti della polizia penitenziaria - ricorrendo alle misure alternative per chi ne ha diritto per legge. E ciò è possibile anche per le persone tossicodipendenti e per quelle immigrate. Si possono usare, a tal scopo, sia le risorse che si libererebbero togliendoli dal carcere, sia i fondi, di notevole entità, contenuti nella Cassa ammende - a cui affluiscono le somme versate per le pene pecuniarie - che dovrebbero per legge essere impiegati anche per favorire il reinserimento dei detenuti, ma che giacciono in gran parte inutilizzati."

Giustizia: Camere Penali in sciopero contro il sovraffollamento

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

Quota 65mila è stata sfondata. Con la freddezza dei numeri, l’ultima rilevazione del Dap, fotografa una situazione che lo stesso capo del Dap, Franco Ionta, ha definito da "emergenza nazionale". I detenuti, a ieri, sono 65.225 - contro un limite di tollerabilità"di 63.568 posti - e di questi 24.085 (circa il 37%) sono stranieri, mentre 31.346 (il 50% del totale) in attesa di giudizio. Troppi. Tensioni, carenza di agenti, suicidi (il più eclatante quello della neobrigatista Diana Blefari Melazzi) o morti sospette (il caso Stefano Cucchi) hanno indotto Ionta a prendere carta e penna per invitare il personale penitenziario a "mantenere i nervi saldi" e a "lavorare con lucidità".

Tutto questo in vista del piano carceri che il governo dovrebbe esaminare in settimana, o la prossima, in consiglio dei ministri. "La preoccupazione per l’ordine e la sicurezza pubblici, le manifestazioni di protesta dell’estate, l’attenzione da parte dei media e di numerosi parlamentari - scrive Ionta nell’ultima versione del piano carceri, datata 13 ottobre - sostanziano, all’evidenza, una situazione di emergenza e legittimano l’intervento eccezionale".

Che però non potrà più realizzarsi attraverso indulti o amnistie (la Lega non lo consentirebbe) ma con la costruzione di nuove carceri, per arrivare, entro il 2012, a 21.479 posti in più. Il piano prevede la realizzazione di 24 nuovi penitenziari. E ieri per protestare contro la situazione "intollerabile" delle carceri l’Ucpi ha proclamato uno sciopero per il 27 novembre prossimo. La decisione è stata presa dalla giunta alla fine di ottobre, ma la notizia è stata diffusa ieri. Il giorno dopo l’astensione dalle udienze, si terrà a Napoli una manifestazione pubblica "per la legalità della pena".

Giustizia: Ferrari (Garante Rovigo); il Dap conosce il problema

 

Redattore Sociale - Dire, 3 novembre 2009

 

L’analisi del presidente del Centro francescano d’ascolto: "L’amministrazione penitenziaria ha ben presente il problema, ma della politica non può certo dirsi lo stesso. Intanto, la gente reclusa muore e sta male".

"Al di là delle cause contingenti e delle riflessioni sulle motivazioni personali che spingono un detenuto a suicidarsi, il dito va puntato contro la classe politica, che ragiona per slogan e si disinteressa della situazione carceraria". Il dito puntato è quello di Livio Ferrari, presidente del Centro francescano d’ascolto e garante dei detenuti del comune di Rovigo, fondatore della Conferenza nazionale volontariato giustizia e presidente emerito del Seac (Coordinamento del volontariato che opera nelle carceri).

Secondo l’esperto, i dati raccolti nel periodo post-indulto testimoniavano di un abbassamento "enorme" dei suicidi in carcere, dovuto fondamentalmente al miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena. Ma ora che la situazione è tornata ad essere al limite, il problema è salito ferocemente alla ribalta. "L’amministrazione penitenziaria ha ben presente il problema - riflette -, ma della politica non può certo dirsi lo stesso. Intanto, la gente reclusa muore e sta male".

Alla base di tutto dunque, secondo Ferrari, c’è la situazione di sovraffollamento che da un lato toglie aria e spazi ai detenuti e dall’altro impedisce al personale di controllare adeguatamente tutti i reclusi. "Questa classe politica che governa l’Italia si disinteressa dei detenuti - incalza - e, anzi, insiste nel dire che più sono le persone in prigione più c’è sicurezza". Sulla questione delle celle di isolamento all’interno delle quali, secondo Ristretti Orizzonti, si toglie la vita un detenuto su quattro commenta: "Certo, questi sono luoghi in cui la possibilità di un suicidio è molto alta, ma se fossero adottate tutte le precauzioni che sono scritte sulla carta si porrebbero le condizioni perché questi suicidi non avvengano".

Giustizia: mio figlio morì in cella... ministro, guardi le sue foto

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

Dopo oltre sei anni di battaglie e di domande senza risposta, Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, il detenuto morto nel carcere di Livorno l’11 luglio 2003, ha preso carta e penna e ha scritto al ministro della Giustizia, Angelino Alfano chiedendogli di guardare su internet le foto del cadavere di suo figlio e di darle finalmente quelle risposte.

Maria Ciuffi ha scritto il ministro dopo il calore suscitato dal caso Cucchi e perché ritiene che la morte di suo figlio sia rimasta impunita. La donna è infatti convinta che il giovane non morì per cause naturali, come stabilito da una prima indagine della procura di Livorno, ma in seguito a un pestaggio avvenuto in cella. La procura ha aperto una nuova indagine nella quale risultano indagati un detenuto e tre agenti della polizia penitenziaria con l’accusa di omicidio colposo.

"Mi spieghi - scrive Maria Ciuffi ad Alfano - perché ci sono voluti sei maledetti anni per capire che era stato ucciso? Le foto di mio figlio sono così crude che io come mamma non dovrei neppure guardarle, ma se sono arrivata sin qui è solo grazie alla mia volontà di lottare e non grazie ai politici, è grazie alla stampa che, vedendo le foto, mi ha teso una mano, cosa che avrebbe dovuto fare il ministro della Giustizia e non la gente comune. La invito pertanto a guardarle su internet (basta digitare Marcello Lonzi). E non parlo solo per me, ma per tutte quelle madri che non hanno avuto lo stesso trattamento riservato al caso Cucchi".

Puglia: Sappe; in carceri regione, suicidi e tentativi in aumento

 

Il Velino, 3 novembre 2009

 

"La segreteria regionale pugliese del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), deve prendere atto con rammarico che a nulla sono servite le denunce relative alla drammatica situazione igienico-sanitaria e di vivibilità causata dal sovraffollamento di detenuti ristretti nelle carceri pugliesi, che da tempo ormai, risultano essere le più affollate della nazione.

Purtroppo i crudi numeri che abbiamo raccolto presso i penitenziari della regione raccontano di un disagio e una tensione preoccupante che è riscontrabile leggendo gli atti di autolesionismo o di protesta da parte dei detenuti, manifestazioni che sono aumentate in maniera allarmante. Infatti in tutto il 2008 furono registrati due suicidi, mentre dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle carceri pugliesi ci sono stati tre detenuti (Foggia, Lecce, San Severo) che si sono suicidati. Stesso discorso per i tentativi di suicidio che in tutto il 2008 sono stati circa 60 mentre dall’inizio del 2009 ad oggi se ne sono contati quasi 80 (in quasi tutte le carceri pugliesi)".

Lo evidenzia una nota del sindacato, che prosegue: "Purtroppo i freddi numeri non fanno giustizia del duro lavoro dei poliziotti penitenziari che nonostante la grave carenza di organici, fronteggiano con professionalità e sacrificio una situazione al collasso, anche mettendo a rischio per la propria incolumità. Il Sappe ritiene che l’elenco delle vittime di un disagio non più controllabile si sia fermato a questi numeri, proprio grazie al lavoro oscuro della polizia penitenziaria, poiché tantissimi sono stati gli interventi che hanno fermato all’ultimo momento il tragico epilogo di un gesto di protesta, derivante dalla invivibilità delle carceri. Ed è triste constatare che proprio i più deboli, i più indifesi, siano quelli che soccombono sotto il peso di una condizione da terzo mondo".

"Purtroppo - continua il Sappe - la miscela esplosiva che si sta formando nelle carceri, rischia di esplodere a brevissimo tempo, considerate anche le condizioni igienico - sanitarie e di promiscuità in cui sono costretti a vivere i detenuti soprattutto per quanto riguarda l’emergenza sanitaria. È bene che tutti sappiano che nelle carceri pugliesi un grande percentuale di detenuti sono a rischio, per tutta una serie di patologie da cui sono affetti (tossicodipendenti, malati cardiaci, malati cronici ecc.), e pertanto casi di influenza A H1N1 oltre a creare una pandemia potrebbero provocare danni seri sia alla salute delle persone che alla sicurezza delle carceri.

Per questi motivi il Sappe chiede una mobilitazione straordinaria da parte dell’assessorato alla Sanità della Regione Puglia, affinché le carceri siano considerate un obiettivo con il massimo grado di attenzione, alla fine di evitare conseguenze ai detenuti e agli operatori". Il sindacato si augura che "i fatti accaduti a Roma con il suicidio della terrorista a Rebibbia, che ha riportato prepotentemente alla ribalta il drammatico fenomeno dei suicidi nelle carceri che ogni anno aumentano in maniera preoccupante, possa smuovere le coscienze e consentire che una problematica tanto tragica quanto delicata come la situazione che si vive nelle carceri, sia finalmente affrontata dalla politica in maniera seria e concreta".

"Il Sappe - sottolinea la nota - teme che come accaduto anche in precedenti occasioni, il tutto si risolverà con qualche articolo di giornale e qualche presa di posizione del politico di turno che promette tutto a tutti, mentre la tragedia di vite spezzate per colpa di uno Stato incapace di assicurare condizioni di vita decenti nelle carceri, rimarrà come una macchia indelebile per la nostra democrazia e per una nazione che si ritiene civile". Il sindacato infine vuole ricordare che "a fronte di una popolazione detenuta che in Puglia negli ultimi anni, si è quasi raddoppiata in relazione alla capienza regolamentare (2.300 posti disponibili a fronte di circa 4.300 presenze) la polizia penitenziaria già in forte carenza, si è vista ulteriormente ridurre l’organico a seguito dei tanti pensionamenti di uomini e donne che non c’è la fanno più a reggere il peso di una situazione che sta diventando ingovernabile.

Il Sappe ritiene che per consentire condizioni di lavoro decenti nelle carceri pugliesi sia necessario l’incremento di almeno 500 poliziotti penitenziari, altrimenti la situazione si aggraverà. Ormai iniziano a scarseggiare lenzuola, letti, materassi poiché come si diceva prima non si sa più dove mettere i detenuti (Altamura 56 posti 90 presenze; Bari 290 con oltre 600 detenuti; Foggia 370 posti occupanti da 750; Lecce 1280 detenuti su 660 previsti; Lucera 125 posti e 230 persone; Taranto capienza a 220 e 500 detenuti; Trani 260 persone invece che 220 con mezzo carcere chiuso; Turi 112 posti con 169 carcerati)".

Verona: direttore; detenuto suicida, sconfitta su cui riflettere

di Chiara Bazzanella

 

DNews, 3 novembre 2009

 

"Una sconfitta su cui è impossibile non riflettere". Poche e piene di desolazione le parole di Antonio Fullone, nuovo direttore del carcere di Verona, sul suicidio di Domenico Improta, il detenuto che si è impiccato n e l l’infermeria di Montorio. Una vicenda che apre interrogativi, nonostante fossero state adottate tutte le misure del caso. Domenico, 29 anni, era tornato a Verona quest’estate, trasferito da un istituto del distretto a seguito di un banale trauma da gioco alla gamba. "Non aveva mai dato problemi", spiega il direttore. Ma in breve tempo erano apparsi i primi segnali di una caduta dell’umore. Da qui il trasferimento in infermeria, dove 15 giorni fa erano iniziati gli incontri con uno psichiatra. Fino alla tragedia di venerdì. Pochi istanti, che non hanno lasciato il tempo di intervenire a nessuno Continua Fullone: "Domenico aveva contatti regolari con la famiglia e conosceva la realtà del carcere.

Un quadro ordinario, degenerato improvvisamente". Fra Beppe, cappellano a Montorio, spiega: "Lo sconforto e la sfiducia arrivano improvvisamente e a volte una telefonata a casa solleva più di molto altro. I detenuti dovrebbero poter telefonare anche ai cellulari dei loro familiari. Per noi è sempre più difficile seguire una popolazione interna in continuo aumento". La Procura ha aperto un fascicolo. Il pubblico ministero Francesco Rombaldoni ha dato incarico al professor Franco Tagliaro dell’istituto di medicina legale per l’autopsia che verrà effettuata domani.

Pavia: esposto contro la direzione per detenuto tunisino morto 

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

Il legale di Mbarka Sami Ben Garci, il detenuto tunisino morto il 5 settembre scorso dopo uno sciopero della fame di 40 giorni portato avanti nel carcere di Pavia, ha presentato un esposto alla Procura di Pavia nel quale accusa la direzione del carcere, il direttore sanitario della struttura e una psichiatra di essere responsabili della morte dell’immigrato.

L’uomo era deceduto al Policlinico San Matteo di Pavia dopo uno sciopero della fame iniziato in carcere alla fine di luglio. Il tunisino aveva deciso di protestare in quel modo, dopo che gli era stata inflitta una nuova condanna per violenza sessuale, accusa che il nordafricano aveva sempre respinto. La Procura, subito dopo l’accaduto, aveva aperto un fascicolo a carico di ignoti con l’ipotesi di omicidio colposo, disponendo l’autopsia che, stando ai primi esiti, avrebbe individuato in una crisi metabolica la causa della morte.

Ora in Procura è arrivato anche l’esposto presentato dall’avvocato Aldo Egidi, al quale sono allegate alcune lettere che il legale inviò alla direzione del carcere per richiedere il trattamento sanitario obbligatorio per il detenuto, che non intendeva interrompere lo sciopero della fame. "Il mio assistito - ha chiarito il legale - venne trasferito in via d’urgenza in ospedale solo quattro giorni prima di morire". E al tunisino, ha concluso il legale, "non venne mai praticato il tso, che forse avrebbe avuto l’effetto di salvargli la vita. Dalla psichiatra dell’ospedale al direttore sanitario del carcere, tutti dissero che non c’erano elementi per il tso.

Caserta: detenuto morto per tumore, indagati medici carcere

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

La Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha prorogato di sei mesi i termini di indagine che vede indagati alcuni medici, i quali non avrebbero diagnosticato un tumore a un giovane detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Antonio Rengoni, 31 anni morto lo scorso agosto dopo aver beneficiato degli arresti domiciliari nel dicembre 2008.

Nella denuncia presentata dal legale del giovane indagato, si parla di lesioni colpose. Rengoni a seguito dei continui malori accusati avrebbe ricevuto per dieci mesi le visite dei medici che però non sarebbero riusciti ad accertare la presenza di un tumore. Il detenuto, rimasto paralizzato agli arti avrebbe chiesto più volte di essere sottoposto ad una risonanza magnetica ma senza successo. Il detenuto avrebbe fatto lo sciopero della fame e, a seguito del peggioramento delle sue condizioni di salute fu poi trasportato all’ospedale di Vallo della Lucania (Salerno) poi nel settembre 2008 fu operato per una estesa neoplasia da asportare. Ma, ad agosto di quest’anno Rengoni è morto mentre si trovava agli arresti domiciliari.

Teramo: Bernardini (Pd); qui la situazione è davvero disastrosa

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

"La situazione è davvero disastrosa". È duro il commento di Rita Bernardini, parlamentare dei radicali italiani, che questa mattina ha visitato il carcere di Castrogno dopo i recenti scandali che lo hanno visto coinvolto. Sui presunti episodi di violenza interna, al momento, è in corso un’indagine della Procura. "Il Comandante della Polizia Penitenziaria, Giovanni Luzi, ha riconosciuto la sua voce" ha detto Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa penitenziaria "anche se contestualizza la sua frase in seguito ad un episodio di violenza ai danni di un agente. L’uso del termine massacrare va inserito semplicemente in un gergo carcerario".

Una cosa è certa: il carcere di Castrogno versa in condizioni critiche ed è necessario intervenire subito. Il grido d’allarme giunge forte dalla voce della Bernardini. "Non sono qui per fare un processo" ha detto "ma per verificare e denunciare una situazione drammatica".

All’interno del penitenziario teramano, ci sono 400 detenuti a fronte di una capienza di 250, mancano 41 agenti di polizia e c’è un solo educatore rispetto ai sei previsti. Per non parlare delle condizioni igienico-sanitarie. "Secondo il medico interno molti detenuti soffrono di patologie veramente gravi". Scarseggiano, inoltre, le attività rieducative e i detenuti trascorrono gran parte del loro tempo in cella. "In questo carcere si marcisce nelle celle" ha continuato la parlamentare "che ho trovato umide e fatiscenti. Ai detenuti poi è consentita una doccia solo tre volte a settimana, perché manca l’acqua calda. Non c’è tempo da perdere, la situazione è esplosiva".

Quelle del comandante della polizia penitenziaria restano comunque delle frasi spiacevoli e molto gravi. "I detenuti con cui ho parlato questa mattina" ha detto la Bernardini "non hanno denunciato alcun episodio di violenza. Il ministro Alfano, però, non deve aspettare la rivolta per intervenire. Non può continuare a sbandierare piani carceri a destra e sinistra, c’è bisogno di risposte. Bisogna intervenire su misure alternative al carcere e assumere più personale. C’è una tensione altissima all’interno di questo penitenziario, oltre a registrare una forte assenza del direttore. In città avete una vera e propria bomba alla quale dovete prestare molta attenzione, non solo quando scoppia la scintilla".

Ferrara: gli agenti allo stremo… si aspetta che ci sia il morto?

 

La Nuova Ferrara, 3 novembre 2009

 

"Cosa si sta aspettando, che ci caschi il morto?". A lanciare l’inquietante domanda sono due sindacalisti della polizia penitenziaria, Riccardo Sarti e Massimo Vertuani, dell’Fsa-Cnpp, che nei giorni scorsi hanno partecipato al corteo culminato nell’incontro col sindaco, in Comune. La domanda l’hanno rivolta al prefetto Provvidenza Raimondo, alla quale hanno illustrato i problemi del carcere, da giorni al centro di diverse iniziative.

E in effetti la lista è lunga, troppo, se si tiene conto del fatto che il penitenziario di via Arginone ospita oltre 500 detenuti, alcuni dei quali accusati di reati molto gravi, e dà lavoro a 166 agenti, 66 in meno di quello che prevede l’organico ufficiale. Mentre nel Paese cresce la preoccupazione per l’influenza A, chi frequenta il carcere per lavoro deve fare i conti con la possibilità di ammalarsi anche di altro: hiv ed epatite, ad esempio, o tubercolosi, malattia che sta prendendo piede in particolare tra i cittadini extracomunitari, che in carcere rappresentano il 50% del totale. A fare da squallido contorno "le patologie indotte da scarsità di igiene e da parassiti aggravate dalla totale scarsità di dotazioni e forniture di materiale igienizzante al personale di polizia penitenziaria".

In carcere - denunciano i due sindacalisti - manca la carta igienica da fornire ai detenuti, ma anche detersivi e sapone, "prevenzione e profilassi sono concetti del tutto sconosciuti". Quando i detenuti escono, sottolineano gli agenti di custodia, "restano in città. Se non viene loro fornita una concreta opportunità di reinserimento continuano a delinquere.

Nella nostra città, a Ferrara, o altrove". Chi invece resta in carcere ha comunque una sua vita, compiti, obblighi ma anche attività e diritti. Ogni tanto deve uscire dal carcere (per raggiungere il tribunale, ad esempio) e allora "è come giocare alla roulette russa. Automezzi che cadono a pezzi, dal chilometraggio siderale, revisionati in modo simbolico, autentiche mine vaganti, per uomini spesso impiegati per ore e ore di servizio".

Tra i veicoli in dotazione uno ha oltre 260mila km, un altro quasi 190mila, altri hanno raggiunto i 231mila, i 206mila, un’utilitaria i 170mila. Ci sono un "Ducato" e un Ape immatricolati nel 1992, altri veicoli risalgono al 1996 o al 1998. Poi c’è la famiglia. "Per molti di noi - protestano i due agenti penitenziari - è maggiore il numero di ore trascorse in carcere rispetto a quelle trascorse a casa: per contratto dovremmo svolgere turni di servizio da sei ore, che ad oggi sono una assoluta rarità". Le ferie si accumulano senza possibilità di smaltimento e lo straordinario è diventato, lamentano i sindacalisti, "ordinario".

La considerazione finale è triste e sconfortante: "È un costume tipicamente italico aspettare che ci scappi il morto, prima di fare qualcosa". Una domanda che appare ancora più fondata se si allarga l’orizzonte al caso Cucchi e al suicidio, l’altra sera, della terrorista Diana Blefari. In entrambi i casi, avvenuti a Roma, il carcere non rappresenta uno sfondo neutro. I detenuti si possono considerare l’altro lato della medaglia. Oltre alla pena oggi devono scontare l’annullamento di qualsiasi spazio vitale (in cella sono in tre).

Solo nel 2009 - questi sono i dati che circolano - nell’istituto di detenzione di via Arginone sarebbero stati una decina gli atti di autolesionismo e gli episodi di aggressione, mentre per 16 volte i reclusi avrebbero fatto ricorso allo sciopero della fame. I detenuti stranieri, la maggior parte extracomunitari, sono per soprattutto albanesi, marocchini, nigeriani, tunisini: quelli provenienti da questi Paesi sono circa 200. Una constatazione che ha suggerito alla Lega Nord e al Pdl, nei giorni scorsi, una considerazione di questo tipo: "Se andassero a espiare la pena nei loro Paesi, il problema del sovraffollamento in Italia sarebbe in parte risolto". Un auspicio che non sembra destinato, però, a trasformarsi a breve in una prospettiva reale.

Vigevano: due detenuti sequestrano agente e tentano evasione

 

La Provincia Pavese, 3 novembre 2009

 

Tentata evasione l’altra sera dalla casa circondariale di Vigevano. Due detenuti, in carcere per rapina, hanno sequestrato un agente di polizia penitenziaria puntandogli alla gola un punteruolo rudimentale. In suo aiuto si sono precipitate tre guardie carcerarie che hanno sventato il piano.

I sindacati di categoria protestano per la carenza di personale. Uno degli agenti ha riportato ferite al volto giudicate guaribili in dodici giorni. Altri due agenti sono rimasti contusi: guariranno in sei. La tentata evasione è avvenuta l’altra sera nella terza sezione del carcere dei Piccolini. I due reclusi, un cittadino di origini marocchine e un italiano, hanno approfittato dell’apertura delle celle per il ritiro dei rifiuti per aggredire e sequestrare l’agente in servizio. Dopo avergli puntato alla gola un punteruolo rudimentale, hanno cercato di fuggire con l’ostaggio.

A far saltare il piano è stato l’agente in servizio nella sezione vicina, che è corso in aiuto del collega. Con coraggio ha affrontato i due riuscendo a strappare delle loro mani le chiavi e a gettarle lontano. Nella colluttazione ha riportato una ferita al volto, altri due agenti hanno riportato delle contusioni alle braccia. Difficilmente il piano poteva funzionare, comunque i due reclusi si erano, per così dire, divisi i compiti: uno doveva prendere le chiavi, l’altro sequestrare la guardia carceraria. Il direttore della casa circondariale di Vigevano, Davide Pisapia: "I miei agenti meritano un elogio. Quest’anno è la seconda volta che riescono a sventare un’evasione".

Quanto alle carenze d’organico, segnalate dai sindacati di categoria, Pisapia aggiunge: "Oggi, nel carcere di Vigevano, vi sono 420 detenuti, l’ideale sarebbe 380. Ma in questa realtà non vi sono problemi più grandi di quelli registrati negli altri istituti di pena della Lombardia. L’episodio dell’altra sera, cui i miei agenti hanno dato una risposta di grande efficienza e professionalità, è isolato, nel senso che è l’iniziativa individuale di due detenuti, non c’è stata nessuna sobillazione da parte degli altri".

Luigi Pagano è il provveditore regionale degli istituti di pena della Lombardia: "La prontezza degli agenti ha permesso di sventare un’evasione che poteva avere conseguenze pericolose". Molto critico sulla situazione nelle carceri Gian Luigi Madonia, segretario regionale della Uil comparto sicurezza: "Denunciamo da anni una cronica carenza d’organico, che espone gli agenti di polizia penitenziaria anche a notevoli rischi personali.

Con l’attuale organizzazione, a Vigevano di fatto non viene rispettato il contratto collettivo della forze di polizia, che prevede una giornata di sei ore lavorative, non di otto. Insomma, gli straordinari, in questa prigione come in moltissime altre, è diventato ordinario. È evidente che non si può sostenere all’infinito una situazione come questa con tutto ciò che comporta sul piano del benessere fisico e psicologico degli operatori".

La tentata evasione ha suscitato la protesta del segretario generale della Uil Pubblica amministrazione Penitenziari, Eugenio Sarno: "A Vigevano dove sono reclusi circa 400 detenuti, moltissimi ad alta sicurezza - dice Sarno - ieri sera (venerdì per chi legge, ndr) il personale in servizio assommava a sole 18 unità (nel turno notturno non superano la decina) comprese le tre unità di sorveglianza automontata, le portinerie e i responsabili dei servizi.

Insomma un solo agente sorveglia circa 100 detenuti. Abbiamo cercato di sensibilizzare il ministro, il governo e il parlamento sulle condizioni degli operatori penitenziari. Senza successo". Una tentata evasione è stata sventata anche a febbraio, e pure in quell’occasione furono le guardie carcerarie a evitare il peggio.

Ravenna: mancano i soldi; stop costruzione del nuovo carcere

 

Ansa, 3 novembre 2009

 

Non ci gira troppo intorno il responsabile regionale del Dap regionale (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Nello Cesari: "I soldi per la nuova casa circondariale? Non ci sono. Ravenna non è stata inserita nel piano carceri del ministero della Giustizia nonostante sia l’unico a non essere ancora stato ristrutturato in Romagna". Niente da fare, insomma: i 45 milioni di euro che servirebbero per costruire un nuovo carcere non arrivano. E allora bisogna "arrangiarsi in altro modo" spiega Cesari. Ma come? Una soluzione potrebbe essere quella di coinvolgere nella ristrutturazione dell’istituto di pena i privati. Se ne è parlato lunedì a Ravenna nel corso di una conferenza alla quale hanno partecipato oltre al sindaco di Ravenna e all’assessore comunale ai Servizi sociali Pericle Stoppa, anche il direttore del Dap e la nuova direttrice del carcere Carmela De Lorenzo.

L’ipotesi lanciata dallo stesso Cesari è dunque quella di stipulare una convenzione tra ministero Giustizia e associazioni di privati ("Potrebbero essere i costruttori, istituti bancari o ancora gli industriali; chiunque sia interessato alla ristrutturazione di un edificio di pregio, in centro storico, come quello", spiega) che impegni questi ultimi a coprire parte del costo dei lavori in cambio della rendita che frutterebbe l’affitto dell’edificio stesso al ministero per 10 o 20 anni.

Una sorta di project financing gestito però in questo caso direttamente dal Ministero. "Lì - prosegue Cesari - esiste un’agenzia che potrebbe dirigere questa operazione. Una volta trovato l’accordo si tratterebbe solo di convertire le spese da conto capitale in spese correnti". Una buona idea, secondo il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci. Talmente buona che, ha annunciato in conferenza stampa "ne discuterò con il presidente della Commissione giustizia del Senato, Filippo Berselli, che verrà in visita a Ravenna nel fine settimana".

In attesa di una (per ora solo ipotetica) nuova struttura, in via Port’Aurea c’è ci si rimbocca le maniche. La situazione all’interno delle mura della casa circondariale è migliorata negli ultimi mesi. In numero dei detenuti ospitati si è ridotto di oltre 60 unità: erano 176 a fine agosto, ora sono 113. Un numero ancora molto lontano dai 62 di capienza massima ma decisamente più accettabile: "L’obiettivo - spiega Cesari - è quello di ridurli a meno di un centinaio attraverso il trasferimento in altri istituti di pena".

Con la fine dei favori di ampliamento e ristrutturazione del carcere di Rimini e la costruzione di una nuova struttura a Forlì si libereranno 600 posti che potrebbero alleggerire la situazione a Ravenna. Un casa circondariale nei pressi di un tribunale attivo come Ravenna, d’altra parte, "è indispensabile", secondo Cesari.

E così il dipartimento da lui diretto ha cercato di alleviare una situazione ormai resa molto complicata dal sovraffollamento e dalla carenza di personale (vedi box). Negli ultimi due mesi sono stati investiti 100mila euro per le operazioni più urgenti di tinteggiatura e pulizia approfondita mentre un altro milione e 885 mila euro è in arrivo per i prossimi 3 mesi.

Serviranno, spiega sempre il responsabile del Dap, per ristrutturare parte della adiacente caserma e rifornire di docce interne e acqua calda le celle. Intanto sono riprese le attività di assistenza sociale interrotte nel corso della precedente amministrazione e il comitato locale esecuzione penale ha potuto riprendere la sua attività. È stato inoltre sottoscritto un protocollo d’intesa tra tutti i soggetti che operano in carcere.

Napoli: dal carcere di Poggioreale aiuti a detenuti del Camerun

 

Il Mattino, 3 novembre 2009

 

È Salvatore che mobilita l’entusiasmo di tutti i detenuti: "Se non li aiutiamo noi che stiamo assai meglio di loro, chi la aiuta quella povera gente". Parte dal carcere di Poggioreale una mano tesa per il Camerun, con la campagna promossa dalla Comunità di Sant’Egidio "Liberare i prigionieri in Africa". Così i detenuti di Poggioreale si autotasseranno per acquistare una stuoia dove dormire, il sapone, le medicine, cibo e, laddove è possibile, contribuendo al pagamento della tassa di liberazione per piccoli reati dei prigionieri di Garoua in Camerun.

L’iniziativa è scaturita nel corso di un incontro promosso da Antonio Mattone della Comunità di Sant’Egidio di Napoli. Il progetto ha già trovato l’adesione dei detenuti di Roma, Orvieto, Pescara. La Comunità di Sant’Egidio è presente in 15 paesi e 70 carceri e assiste 40mila detenuti. Grazie al progetto di Sant’Egidio, solo ad aprile, sono stati liberati 23 prigionieri. Un pizzico di ritrosia è superato dalle parole di Stefania Tallei della comunità che invita alla solidarietà. E dal fondo della sala Salvatore commenta: "Dare 1 euro riempie l’anima". I detenuti rispondono con un applauso.

Droghe: Radicali; parole vergognose di Giovanardi, su Cucchi 

 

Dire, 3 novembre 2009

 

"Ritengo vergognoso l’intervento di ieri del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, pubblicato ieri da Il Giornale. Lo afferma Giulio Manfredi, vicepresidente del Comitato nazionale dei Radicali italiani, che critica Giovandari "non tanto per il suo riproporre il cavallo di battaglia di tutti i proibizionisti, per cui il colpevole principale di tutti i mali del mondo - e quindi anche della morte di Stefano Cucchi - è "la droga", quanto per il fatto che "in realtà i responsabili di tutti i mali del mondo sono gli uomini e le politiche da essi concepite ed attuate". Nel nostro caso, critica, sono "le politiche proibizioniste che, nel nome della guerra alla droga, fanno in realtà, ogni giorno, ogni minuto, guerra ai drogati". Molti, prosegue l’esponente dei Radicali, hanno ricordato che un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è costituito da cittadini tossicodipendenti e un altro terzo da extracomunitari.

Davanti a questi numeri "è utile ricordare che una buona parte di quest’ultimi è in galera per reati connessi allo spaccio di sostanze stupefacenti". Quanto alla prima categoria, "è lo stesso Giovanardi a scrivere nella relazione sulle tossicodipendenze presentata in Parlamento a luglio che informazioni maggiormente dettagliate sono disponibili solo per una minima parte, circa 3.700 soggetti, per i quali è possibile definire un profilo dal punto di vista demografico ed epidemiologico sull’uso di sostanze e clinico per quanto riguarda la presenza di malattie infettive". E allora, conclude Manfredi, "chi è il colpevole dell’inadeguatezza dei dati forniti dal governo? La droga?".

 

 

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