Rassegna stampa 25 novembre

 

Giustizia: le carceri in ebollizione, il Governo "gioca col fuoco"

di Fulvio Conti

 

www.radiocarcere.com, 25 novembre 2009

 

"La Procura di Mantova è costretta solo in casi eccezionali ad emettere ordini di custodia cautelare in carcere, perché in carcere non c’è più posto". È l’affermazione del Pm di Mantova Marco Martani, riportata da un’agenzia dell’Ansa del 21 novembre.

Un’affermazione che sintetizza una soluzione estrema adottata dalla Procura di Mantova. Una soluzione che, se pur estrema, appare condivisibile. Condivisibile in quanto è finalizzata a non superare ulteriormente il limite di capienza massimo del carcere di Mantova. Carcere dove ci sono rinchiuse oltre 200 detenuti a fronte di una capienza di appena 120 posti.

Un tasso di sovraffollamento comune a tante altre carceri italiane. Un sovraffollamento che trasforma la pena in trattamento disumano e degradante. Un sovraffollamento contro cui i detenuti stanno in questi giorni protestando pacificamente. Urlano e battono le sbarre delle celle i detenuti di Genova, di Lucca e di Pescara. Proteste non violente giuste, viste le condizioni di vita a cui sono costretti i detenuti.

Ma, il Governo pare non capire la gravità della situazione. Una situazione carceraria degradata e sovraffollata che è destinata a non poter essere più controllata. Occorre fare attenzione. Molta. Senza interventi concreti e urgenti i detenuti si troveranno senza alternative. Le proteste dei detenuti si diffonderanno in tutta Italia. Le tensioni nelle carceri aumenteranno. Il rischio di rivolte incontrollate e, purtroppo, violente diventerà drammatica realtà. Una realtà oggi facilmente prevedibile, ma che si può ancora evitare.

Giustizia: Radicali; 7° giorno sciopero fame su mozione carceri

 

Il Velino, 25 novembre 2009

 

Prosegue l’iniziativa nonviolenta della deputata radicale Rita Bernardini, che è giunta oggi al settimo giorno di sciopero della fame insieme a Irene Testa (presidente dell’associazione Radicale "Il detenuto Ignoto"), Claudia Sterzi (segretaria associazione Radicale Antiproibizionisti), Alessandro Litta Modignani (della direzione Radicali Italiani), Annarita Digiorgio (del comitato nazionale di Radicali italiani) e Riccardo Magi (Radicali Roma), affinché venga calendarizzata la mozione parlamentare sulle carceri promossa dai deputati radicali nel gruppo del Pd. È quanto si legge in un comunicato stampa dei Radicali.

"Voglio ringraziare la Uil Pa Penitenziari della Toscana e il segretario generale Eugenio Sarno per il sostegno all’impegno politico di Marco Pannella e di tutti i Radicali a favore l’universo carcerario e per aver sollecitato adesioni all’iniziativa nonviolenta che stiamo portando avanti - dichiara Rita Bernardini -. Colgo inoltre l’occasione per ribadire il mio invito a tutta la comunità penitenziaria a unirsi a questa battaglia nonviolenta, per lottare insieme con proposte concrete". Intanto continuano ad aumentare i parlamentari, di tutti gli schieramenti, firmatari della mozione sulle carceri presentata dai deputati Radicali-Pd.

Queste le firme raccolte fino a questo momento: Rita Bernardini (Radicali/Pd), Maurizio Turco (Radicali/Pd), Marco Beltrandi (Radicali/Pd), Maria Antonietta Farina Coscioni (Radicali/Pd), Matteo Mecacci (Radicali/Pd), Elisabetta Zamparutti (Radicali/Pd), Benedetto Della Vedova (Pdl), Guido Melis (Pd), Mario Pepe (Pdl), Roberto Giachetti (Pd), Giulio Calvisi (Pd), Lino Duilio (Pd), Jean Leonard Touadi (Pd), Salvatore Torrisi (Pdl), Lucia Codurelli (Pd), Dario Ginefra (Pd), Mario Barbi (Pd), Ludovico Vico (Pd), Sandro Brandolini (Pd), Mario Cavallaro (Pd), Pina Picierno (Pd), Luisa Bossa (Pd), Antonio Boccuzzi (Pd), Caterina Pes (Pd), Ermete Realacci (Pd), Rigoni Andrea (Pd), Walter Verini (Pd), Marcello De Angelis (Pdl), Lorenzo Ria (Udc), Costantino Boffa (Pd), Francesco Laratta (Pd), Alessia Mosca (Pd), Pietro Tidei (Pd), Antonio Rugghia (Pd), Ludovico Vico (Pd), Pierangelo Ferrari (Pd), Emanuele Fiano (Pd), Enrico Farinone (Pd), Raffaella Mariani (Pd), Oriano Giavanelli (Pd), Maria Anna Madia (Pd), Claudio Barbaro (Pdl), Caterina Pes (Pd), Sabina Rossa (Pd), Enzo Carra (Pd), Anna Paola Concia (Pd), Antonio Razzi (Idv), Laura Froner (Pd), Alessandra Siragusa (Pd), Massimo Vannucci (Pd), Gino Bucchino (Pd), Silvia Velo (Pd), Marco Causi (Pd), Amalia Schirru (Pd), Furio Colombo (Pd), Gero Grassi (Pd), Cinzia Capano (Pd), Lapo Pistelli (Pd), Giovanni Burtone (Pd), Giuseppina Servodio (Pd), Gianni Cuperlo (Pd), Emilia De Biasi (Pd), Susanna Cenni (Pd), Antonio Milo (Misto - Mpa).

Giustizia: Idv; Alfano riferisca su piano per nuovi istituti di pena

 

Adnkronos, 25 novembre 2009

 

Il deputato dell’Idv Antonio Razzi ha presentato un’interrogazione, indirizzata ai ministri della Giustizia e delle Finanze, per chiedere "se esiste un piano predisposto dal Ministero della Giustizia e precisamente dalla Direzione il cui responsabile è il Dottor Ionta che prevede la realizzazione di 15 nuovi istituti di pena; quali sarebbero gli interventi previsti da questo piano sia per i vecchi sia per i nuovi istituti da realizzare; se per questo piano è stata fatta una valutazione di esigenze finanziarie sia per i singoli istituti sia per la sua globalità; se per questo piano esiste una copertura finanziaria".

Alle sue domande Razzi premette che "la situazione nelle carceri è arrivata ormai ad una situazione esplosiva in quanto: l’attuale sistema di edilizia carceraria fu realizzato per circa 40.000 posti e al momento i detenuti a vario titolo sono circa 66.000 con tendenza a crescere; è palesemente evidente la carenza di personale di Polizia Penitenziaria, carenza stimata intorno alle 5.000 unità, con indubbie ripercussioni negative su tutto il sistema penitenziario, a causa delle condizioni di disagio e il surplus di oneri lavorativi che quotidianamente ogni singolo agente di polizia penitenziaria deve subire per sopperire alla anzidetta carenza di organico".

Giustizia: Staderini (Radicali); necessità di una amnistia legale

 

9Colonne, 25 novembre 2009

 

"La rissa sui processi che vede impegnate le fazioni berlusconiane e antiberlusconiane del Regime italiano è destinata ad incattivirsi ancora di più nei prossimi giorni e settimane, con un solo risultato certo: impedire ogni vera riforma della giustizia che non sia destinata a salvare Berlusconi dai suoi processi e l’assetto corporativo dell’ordine giudiziario.

Mentre parlamentari e dirigenti radicali sono con Rita Bernardini giunti al sesto giorno di sciopero della fame per chiedere che il Parlamento affronti i problemi esplosivi dell’ultimo anello della malagiustizia italiana, quello di un sistema carceri totalmente fuorilegge, radicali Italiani ribadisce l’urgenza assoluta di porre fine alla condizione di delinquenza abituale dello Stato italiano che, con 10 milioni di processi pendenti, lascia milioni di cittadini senza tutela e determina lo sfascio economico e sociale dell’Italia. Lo afferma Mario Staderini, Segretario di radicali italiani. "Il cosiddetto processo breve - continua - non è una riforma bensì una rimozione della giustizia. Aumenterebbe i 200 mila procedimenti penali che ogni anno vanno in prescrizione, legalizzando ed aggravando l’impunità realizzata attraverso l’amnistia strisciante e di classe. Di tutto questo nessuno, nemmeno Di Pietro, sembra dolersi.

L’alternativa alla farsa del processo breve non è però il nulla assoluto opposto dal Partito democratico e dal partito dei giudici. Riformare la giustizia è davvero la priorità del Paese. Per realizzarla occorre avere il coraggio, contro l’amnistia di fatto che già oggi cancella indiscriminatamente ogni reato, di spiegare agli italiani la necessità di una grande amnistia legale, cioè una scelta politica di selezione dei reati da amnistiare che liberi gli stessi magistrati dall’abnorme arretrato che altrimenti vanificherebbe qualsiasi riforma. Affiancando ad essa anche una vasta azione di depenalizzazione dei reati senza vittima .- conclude -, a partire dai reati connessi al consumo di sostanze stupefacenti, che ingolfano inutilmente tribunali e carceri e provocano tragedie evitabili come quelle di Aldo Bianzino e Stefano Cucchi".

Giustizia: Cgil-Fp; occorre "piano Marshall" sul penitenziario

 

www.rassegna.it, 25 novembre 2009

 

La Fp Cgil ha organizzato per oggi presso il carcere romano di Regina Coeli, un’assemblea nazionale dei dirigenti penitenziari iscritti e simpatizzanti dell’organizzazione sindacale. A dirlo in una nota è il segretario nazionale della Fp Cgil, Antonio Crispi. Si discuterà, si legge nella nota, dello stato "di gravissima crisi in cui versano gli istituti penitenziari e delle inumane condizioni di vita detentiva e lavorativa cui sono sottoposti i cittadini momentaneamente privati della libertà personale e i lavoratori del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e licenzieranno una vera e propria piattaforma rivendicativa per il ripristino di condizioni di civiltà nelle nostre carceri".

"Il Piano carceri - spiega il segretario generale -, che da mesi il governo ed il ministro Alfano dichiarano essere pronto, è già roba vecchia ed inutilizzabile: l’idea di fronteggiare l’inarrestabile sovraffollamento della popolazione detenuta con una fantomatica costruzione di nuovi carceri denota l’inadeguatezza dell’esecutivo nell’affrontare quella che si sta già prefigurando come una vera e propria emergenza democratica. Più di 150 morti - prosegue Crispi - dall’inizio dell’anno ed il contestuale, tristissimo primato dei suicidi (61 fin ad oggi) sono la drammatica spia di un sistema che non è più in grado di rispondere al mandato costituzionale né di offrire garanzie di rispetto dei diritti, di cittadinanza, del lavoro".

"Occorre, e su questo discuteranno i direttori delle carceri - aggiunge il dirigente sindacale -, un vero e proprio piano Marshall sul penitenziario, le cui direttrici non possono che essere: massiccio ricorso alle misure alternative alla detenzione, introduzioni di misure sanzionatorie diverse dal carcere, comunità e servizi per i tossicodipendenti, cancellazione del reato di immigrazione clandestina". "Al termine dell’assemblea i direttori delle carceri - conclude Crispi - presenti saranno disponibili ad incontrare gli organi di stampa per informarli direttamente sull’esito della riunione".

Giustizia: Sappe; "tavoli politici e tecnici" sul sovraffollamento

 

Il Velino, 25 novembre 2009

 

"Attivare tavoli politici e tecnici per trovare, insieme, soluzioni al grave problema del sovraffollamento penitenziario". È quanto ha chiesto oggi, ancora una volta, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della categoria. "Come sigla sindacale abbiamo l’obbligo istituzionale di svolgere un’opera di controllo sulle questioni che ledono i diritti dei nostri iscritti - continua - e come Sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia penitenziaria abbiamo anche l’obbligo morale di perseguire un’attività di proposta e di indirizzo sulle problematiche penitenziarie, seguendo le indicazioni che sono frutto della nostra decennale esperienza sul campo.

Per questo auspichiamo che si attivi presso il ministero della Giustizia un tavolo tecnico sulle criticità penitenziarie, presieduto dal ministro Alfano. Il grave momento di crisi che ricade per ora unicamente sui quasi trentanovemila Agenti e sulle loro famiglie ci impone di trovare e discutere su soluzioni che possano essere comprese e condivise dai cittadini e fatte proprie dal governo. E noi vogliamo fare la nostra parte. Per questo lo scorso agosto, in occasione dell’iniziativa dei parlamentari che hanno visitato quasi tutti gli Istituti penitenziari del paese, abbiamo proposto di aprire un tavolo di trattative politiche e tecniche entro cento giorni da quelle visite. Appello del tutto disatteso, ma che non è più rinviabile tenuto conto delle quasi 66mila persone detenute e di un personale di Polizia penitenziaria che si assottiglia giorno per giorno, di cui ancora non è previsto un prossimo reintegro".

"L’iniziativa che sta perseguendo il ministro di far scontare la pena nei propri Paesi agli oltre 24 mila stranieri presenti nelle carceri italiane - aggiunge Capece - va di sicuro nella direzione giusta, ma invitiamo ancora una volta a riprendere il Decreto sull’utilizzo della Polizia penitenziaria presso gli uffici per l’Esecuzione penale esterna (Uepe), per il controllo sulle persone che usufruiscono delle misure alternative.

Il problema dell’enorme spreco di denaro pubblico dovuto al mancato utilizzo dei braccialetti elettronici che il Sappe sta denunciando da mesi sembrerebbe dipendere da problemi tecnici e burocratici per cui è la Magistratura che trova difficoltà pratiche a ricorrere al loro utilizzo come misura alternativa. Tutto ciò rende intollerabile il problema del sovraffollamento nelle carceri e rende pericoloso il lavoro quotidiano degli agenti penitenziari. La Polizia penitenziaria, in virtù anche degli istituendi Ruoli Tecnici, potrebbe facilmente ed efficacemente, provvedere alla loro installazione e gestione, con conseguente maggiore e più efficace controllo delle misure alternative, di quanto non succeda oggi. Chiediamo quindi di aprire da subito un tavolo di trattative tecniche con il ministro Alfano e le altre realtà sociali che operano negli istituti penitenziari, per trovare insieme delle soluzioni condivise e risolvere il grave momento di crisi che il settore penitenziario sta vivendo e che principalmente la Polizia penitenziaria sta fronteggiando e pagando in termini di condizioni di lavoro gravose e particolarmente stressanti".

Giustizia: quegli strani suicidi… con il gas e la busta di plastica

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 25 novembre 2009

 

4 novembre 2009. Carcere di Piacenza. Isam Khaudri, 27 anni, muore respirando all’interno di una busta di plastica il gas del fornelletto, usato per cucinare in cella.

14 novembre 2009. Carcere di Tolmezzo. Bruno Vidali, 46 anni, muore inalando il gas contenuto in un sacchetto dell’immondizia.

17 novembre 2009. Carcere di Palmi. Giovanni Lorusso, 41 anni, muore per aver respirato del gas all’interno di una busta di plastica.

Tre decessi. Tre persone detenute morte in circostanze analoghe. Tre morti causate dall’inalazione di gas. Gas assunto attraverso una busta di plastica. Tre casi analoghi che la magistratura sembra orientata a voler archiviare con una motivazione identica. Suicidio. Una tendenza a bollare come suicidio decessi che invece potrebbero non essere tali.

Una tendenza che non sembra tener conto di una prassi assai diffusa all’interno delle patrie galere. Sballarsi con il gas. Ovvero respirare il gas all’interno di una busta di plastica per stordirsi e non per uccidersi. Una pratica usata da chi è tossicodipendente e magari non ha soldi per comprarsi la droga in carcere. Una pratica usata anche da chi, pur non essendo tossicodipendente, cerca di stordirsi con il gas perché non sopporta di vivere nel degrado di una cella sovraffollata.

Il know how per sballarsi col gas galeotto è semplice. "Si mette la testa dentro a una busta di plastica, tenendola ben stretta al collo e lasciando solo un piccolo spazio per far entrare il gas." - spiega Fabrizio, ex detenuto nel carcere di Trieste - "Quando la busta è piena di gas si fanno dei profondi respiri. Tanto più si resiste dentro quella busta col gas, tanto più forte sarà lo sballo".

Uno sballo quello con il gas che però è molto pericoloso e può portare a svenimenti ed anche alla morte incidentale. "Sniffare il gas è frequente tra i detenuti, ma è una cosa rischiosa " - afferma Giovanni ex detenuto nel carcere Marassi di Genova - "Infatti capita spesso che qualche detenuto svenga con la busta in testa. Come capita che qualcuno, senza volerlo, ci rimetta la pelle. Al Marassi per esempio un ragazzo è morto mentre sniffava il gas. Non si voleva ammazzare, è stato un incidente. Come un’overdose".

"Anche tra le donne detenute è frequente stordirsi con il gas" - dice Rosa da poco uscita dal carcere di S.M. Capua Vetere - "Ho ancora viva l’immagine di molte detenute che svenivano con quei sacchetti in testa. Non tentativi di suicidio, ma tentativi per stordirsi a causa della disperazione. Vivere in 10 donne dentro una cella è una cosa insopportabile e, se sniffare il gas può dare sollievo, è normale che le detenute lo facciano." Ma c’è di più.

Leo Beneduci, segretario nazionale del sindacato Osapp della polizia penitenziaria, evidenzia un ulteriore ed importate particolare. Ovvero il tipo di gas che i detenuti possono comprare in carcere. "Nelle carceri" - spiega Beneduci - "I detenuti possono acquistare solo un tipo di bombolette a gas. Si tratta di bombolette da campeggio che contengono gas butano o propano. Ovvero un tipo di gas, assai più economico del metano, derivato dal petrolio e che per le sue componenti è molto più nocivo ove inalato".

Questa è quanto. Non decessi da archiviare frettolosamente come suicidi, ma morti che chiamano in causa la responsabilità di chi ha il dovere di salvaguardare l’incolumità della persona detenuta da gesti autolesivi.

Per finire: una perla. Al Ministero della Giustizia è nota la prassi galeotta dello sballo col gas. Ma, invece di intervenire sostituendo i fornellini a gas con delle piastre elettriche, ci si è limitati a inviare una circolare ai direttori delle carceri. Una circolare in cui si suggerisce di far firmare una liberatoria ai detenuti che acquistano le bombolette. In breve c’è scritto: se tu detenuto subisci dei danni sniffando il gas la colpa non è nostra. Ovvio.

Lettere: nel nostro sistema carcerario doppia "pena di morte"

di don Enzo Mazzi (Fondatore di Exodus)

 

La Repubblica, 25 novembre 2009

 

Quest’anno 63 detenuti si sono uccisi e poco meno di 150 sono morti per altre cause, che vanno dall’assistenza sanitaria disastrata ad altre situazioni poco chiare. Circa 500 i tentativi di suicidio la maggior parte dei quali sventato dai compagni di cella. Come si fa a dire che da noi non c’è la pena di morte? Direi che invece la pena di morte è doppia: c’è la morte fisica prodotta dalle condizioni della carcerazione e la morte sociale dovuta al quasi totale silenzio che grava sul carcere e sui suoi ospiti. Salvo poche eccezioni come quella di Stefano Cucchi.

La morte di Yassine, il ragazzo marocchino morto pochi giorni fa per suicidio nel carcere minorile di Firenze è già archiviato per l’opinione pubblica. La volontà suicida del ragazzo e la constatazione impropria che il carcere era più un luogo di accoglienza che di detenzione dal momento che l’alternativa per lui era la strada e la solitudine sono elementi che attenuano la responsabilità ma non assolvono le istituzioni e la città intera. E soprattutto non ci devono impedire di riflettere sulla situazione dei ragazzi e giovani tuttora reclusi nei carceri minorili dei quale pochi sanno perfino l’esistenza.

Oggi nel carcere fiorentino sono rimasti altri 21 ragazzi. Essi portano dentro di sé un dolore immenso per la morte del loro compagno, del quale hanno raccolto l’ultimo respiro e che hanno vegliato pregando Per alcuni di loro il suicidio di Yassine si somma ad altri già vissuti nonostante la giovane età. "Chi è entrato costantemente nel carcere minorile in questi mesi, non può dimenticare il suo volto. Vogliamo però non limitarci a una espressione di cordoglio, perché siamo consapevoli del fatto che la storia di Yassine non rappresenta un’eccezione": lo dicono le volontarie di volontari dell’Altro diritto onlus, che frequentano da dieci anni il carcere minorile, in un documento/riflessione.

Le stesse cose denuncia un importante coordinamento di associazioni che a Firenze, come accade in altre città, segue con passione e cura la situazione dei carcerati. L’art. 37 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui proprio in questi giorni si celebra il ventennale, stabilisce chiaramente che: "L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un minore devono costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile" perché non è uno strumento adatto alla risocializzazione.

Nella stessa direzione va la normativa italiana sul processo penale minorile, considerata come una delle punte più avanzate del mondo occidentale in tema di tutela dei diritti dei minori. Che la detenzione non sia uno strumento formativo lo dimostra il fatto che nello stesso carcere minorile fiorentino la scuola non è mai stata organizzata in modo stabile dal Provveditorato.

La presenza degli insegnanti dipende dalla buona volontà di chi si fa assegnare una classe di scuola elementare in carcere. La scuola media quest’anno non è nemmeno partita per mancanza di fondi. Si dà per scontato che in un periodo come questo, dove la scuola è in sofferenza, l’ultimo problema sia quello della scolarizzazione dei minori detenuti.

Eppure, la scuola non è per loro solo un diritto, ma è anche una delle poche finestre che essi hanno sull’esterno, un modo per impiegare le mattinate altrimenti vuote, tutte passate entro la cinta con un solo squallido cortile. Non basta piangere la morte di un ragazzo nella stanza accanto. Bisognerà premere perché quella stanza non sia la nostra discarica sociale ma un luogo dove possa filtrare almeno un po’ del calore umano che avvolge i nostri figli.

Emilia Romagna: emergenza carceri, governo deve intervenire

 

Dire, 25 novembre 2009

 

La Regione Emilia-Romagna sollecita il Governo ad intervenire sulla situazione delle carceri italiane. L’Assemblea legislativa, infatti, ha approvato oggi una risoluzione presentata dalla maggioranza e votata anche da Pdl e Udc.

Vista "l’emergenza carceri", L’Assemblea si impegna innanzitutto a giungere con urgenza all’elezione di un Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, chiedendo inoltre alla Giunta (dopo il trasferimento delle competenze sulla salute dei detenuti al Servizio sanitario nazionale) di stanziare risorse ed effettuare una ricognizione dettagliata su "problemi crescenti" come Aids, disturbi mentali e specifiche patologie presentate dagli immigrati. Per quanto riguarda il Governo, la risoluzione (presentata in aula da Gianluca Borghi del Pd) impegna la Giunta a sollecitare l’esecutivo perché predisponga un piano di risorse "per garantire l’applicazione delle norme previste per l’affidamento speciale dei detenuti tossicodipendenti e ogni altra misura idonea a potenziare il circuito delle misure alternative alla detenzione".

Sul Governo, inoltre, la Giunta regionale dovrà intervenire perché nella prossima finanziaria ci siano risorse per aumentare il personale sia di polizia penitenziaria che dell’area del trattamento, per stabilizzare gli psicologi "che lavorano in modo precario da 30 anni" e per dare un senso riabilitativo alla pena.

Il civico Carlo Monaco accoglie con favore la risoluzione ricordando lo sciopero della fame degli internati della Casa lavoro di Saliceta San Giuliano di Modena: sciopero che, riferisce subito dopo Enrico Aimi (Pdl), "è stato sospeso poche ore fa perché il magistrato di sorveglianza ha dato la disponibilità per un incontro".

Per quanto riguarda la risoluzione, Aimi parla di un "senso complessivo positivo" anche se ci sono alcuni aspetti non condivisibili: ad esempio, il riferimento al Garante regionale, "ulteriore figura pleonastica". Mauro Manfredini della Lega nord concede solo "un’astensione bonaria", e su Saliceta dichiara: "Non li capisco, hanno commesso dei reati e mangiano e bevono come in hotel".

Lombardia: detenuti-lavoratori, in Regione diverse esperienze

di Sara Monaci

 

Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2009

 

Il lavoro in carcere non è solo un’aspirazione filantropica. Per le aziende e le cooperative si tratta di una vera opportunità, già sperimentata con esiti positivi in molti istituti penitenziari. In base ai dati del ministero della Giustizia, aggiornati al primo semestre 2009, in tutta Italia lavorano 13.400 detenuti, di cui 1.790 alle dipendenze di una società non collegata all’amministrazione penitenziaria Di questi, 338 sono stranieri. La popolazione penitenziaria complessiva, relativa allo stesso periodo, supera le 63.600 persone.

La maggior parte dei detenuti, più di 8.660, scontano la pena in Lombardia, e in questa regione sono 2.144 i carcerati impiegati in attività lavorative, di cui 471 alle dipendenze di società terze. Sia in Italia che in Lombardia i lavoratori in carcere sono una realtà in crescita, anche se per ora circoscritta ad una piccola percentuale.

"Si tratta di un fenomeno ancora limitato - dice Maria Pia Marini, responsabile delle Politiche di settore di Unioncamere Lombardia - ma è pur sempre un fatto importante, che si sta rafforzando e che dimostra come sia possibile favorire le imprese e al tempo stesso aiutare il recupero sociale. Il nostro impegno, nei confronti delle imprese, è incrociare il fabbisogno sociale con la formazione in carcere, in modo da non creare assistenzialismo ma vere opportunità professionali".

A rendere interessante la possibilità di formare e dare lavoro all’interno delle carceri è la legge Smuraglia, approvata nel 2000 e rifinanziata quest’anno, che prevede sgravi fiscali fino all’80% del costo del lavoro per ogni recluso impiegato, più l’utilizzo gratuito dei locali forniti dall’istituto penitenziario. Le agevolazioni sono concesse alle imprese che assumono lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai 30 giorni o che svolgono attività formative, in particolare nei confronti dei giovani. Questi vantaggi proseguono anche nei 6 mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione. La modalità e le entità dello

sgravio sono determinate annualmente, sulla base delle risorse finanziarie dello Stato, ma si tratta pur sempre di una normativa particolarmente agevolati per aziende e cooperative. Proprio per far conoscere la potenzialità della legge Smuraglia e invitare le aziende ad apprezzare i risvolti del lavoro e della formazione negli istituti penitenziari, in Lombardia è nato il progetto "L’impresa sprigiona il lavoro", realizzato da Regione Lombardia, Unioncamere Lombardia e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria.

Tra le carceri più all’avanguardia spicca quello di Bollate, dove su un migliaio di detenuti un centinaio lavora con aziende e cooperative. Si va dalle attività di dimensioni più piccole, come le cooperative impiegate nel settore alimentare, nella floricoltura e nella sartoria, fino alle società più grandi attive nel comparto elettronico (vedi articolo sotto). La cooperativa "Abc la sapienza in tavola" è un esempio particolarmente virtuoso, dato che è riuscita a far nascere con il lavoro dei carcerati una società di catering di fascia alta, la cui cucina si trova proprio all’interno delle mura di Bollate. I reati commessi qui dentro sono di tutti i tipi, e molti sono i reclusi che devono scontare pene molto lunghe. La convivenza però, garantisce il comandante della polizia carceraria Alessandra Uscidda, è piuttosto equilibrata, così come il rapporto tra detenuti e datori di lavoro.

Nel carcere di Opera a lavorare alle dipendenze di aziende sono in 80, a cui si aggiungono altri 45 che svolgono impieghi in regime di semilibertà, su un totale di 1.300 detenuti. Una minoranza dunque, che però diventa particolarmente rilevante se si considera che 40 di questi addetti sono sottoposti al regime disciplinare dell’alta sicurezza, solitamente utilizzata per chi ha preso parte alla malavita organizzata. Come spiega il direttore del carcere Giacinto Siciliano, "lavorare rappresenta la possibilità di emanciparsi dalle organizzazioni criminali".

A Opera, dove i detenuti hanno tutti da scontare molti anni di reclusione, le attività svolte sono piuttosto eterogenee. Alcuni detenuti, tra cui qualche ergastolano, sono impegnati perfino nella realizzazione di strumenti musicali. Una piccola impresa insegna loro, con fini metodi di falegnameria, a costruire i violini. C’è poi chi si sta specializzando nel settore alimentare, nell’informatica o in attività più semplici del comparto metalmeccanico. La dedizione al lavoro da parte dei detenuti, spiega Siciliano, è piuttosto alta, e i risultati raggiunti attraverso i percorsi di formazione sono soddisfacenti per tutte le imprese che hanno scelto questa strada.

Anche nelle realtà più piccole e "movimentate" l’esperimento funziona. Nella casa circondariale di Cremona - dove i 250 reclusi scontano pene non superiori ai 5 anni e, a differenza di Opera e Bollate, ci sono anche imputati in attesa della sentenza definitiva che transitano dall’istituto solo per pochi mesi - il lavoro dietro le sbarre è diventato una realtà. Qui c’è una cooperativa, Labor, che dal 2006 collabora in pianta stabile con la casa circondariale, e che diversifica il suo lavoro in vari segmenti: falegnameria, restauro di mobili antichi, informatica, floricoltura e apicoltura. Tutte attività che, spiega il presidente della cooperativa Gerardo Maffei, "devono riuscire a stare in piedi sul mercato". Uno dei progetti realizzati dalla cooperativa è stata l’informatizzazione del materiale cartaceo del ministero della Giustizia. Oggi questa esperienza prosegue: i detenuti si occupano di trasformare in formato digitale gli archivi dell’anagrafe cremonese.

 

Carcere di Bollate: qui si riparano 700 cellulari al giorno

 

Non solo le cooperative sociali o le piccole attività artigianali hanno deciso di entrare in carcere sperimentando la formazione professionale dei detenuti. Per qualche grande azienda il lavoro negli istituti penitenziari è diventato qualcosa di più di una semplice vocazione sociale. Il caso di Samsung - o, meglio, delle aziende italiane fornitrici della casa coreana - è uno dei più significativi, dato che proprio all’interno delle carceri vengono realizzate gran parte delle riparazioni di cellulari, televisori, cineprese e fotocopiatrici destinate al mercato nazionale.

A Bollate è addirittura difficile distinguere detenuti e tutor. Il lavoro della Wsc, azienda fornitrice della Samsung che ha sede a Vimercate (Milano), si svolge in tranquillità all’interno di un’area coperta, più simile ad un capannone industriale che ad un carcere. E, a quanto pare, nemmeno gli assistenti si ricordano durante le ore di lavoro di avere a che fare con dei detenuti. Ci sono due file di operai specializzati che armeggiano con apparecchi elettronici e cellulari: da una parte i tutor, dall’altra i carcerati. Ogni detenuto ha quindi accanto un addetto dell’azienda che lo guida, insegnandogli le varie operazioni da eseguire. In tutto la Wsc forma 20 persone. Si comincia con i passaggi più semplici, poi, mese dopo mese, si passa a cose sempre più difficili. Qualcuno, dice il responsabile della formazione Luca Colli Vignarelli, "viene assunto una volta terminato il periodo di reclusione. Gli altri hanno almeno imparato un mestiere". Perché proprio i detenuti? "Lavorare con loro è come lavorare altrove, forse anche meglio, perché qui non essendoci distrazioni si svolgono le attività con più dedizione".

Il reparto è in effetti piuttosto efficiente. Da Bollate escono ogni giorno 700 cellulari in garanzia riparati, spediti verso tutte le destinazioni italiane. Gli apparecchi arrivano qui imballati dentro degli scatoloni, inviati dall’azienda che li raccoglie; poi vengono smistati e riparati, e da qui tornano all’indirizzo di provenienza. Un lavoro svolto quotidianamente da detenuti abbastanza giovani, la cui età media si aggira intorno ai 35 anni. Qualcuno è straniero, ma comunque ben integrato. Tutti vengono pagati regolarmente in base al contratto di categoria applicato.

I rapporti tra detenuti e tra detenuti e tutor sono sereni, forse perché, come spiega Colli Vignarelli, "l’atmosfera in queste ore è quasi anestetizzata - spiega -. A volte parliamo, i detenuti raccontano la loro storia. E ho capito che talvolta quello che è successo a loro può accadere a chiunque".

Mentre nel carcere di Bollate i detenuti sono specializzati nella manutenzione di piccoli apparecchi elettronici, nella casa circondariale di Monza vengono effettuate le riparazioni di fotocopiatrici e stampanti e il recupero delle componenti. La Trilogy 2000, società di consulenza per la riorganizzazione dei settori dell’assistenza tecnica, ha stretto un accordo con la Samsung. Alla casa coreana la Trilogy garantisce prodotti riparati grazie al lavoro dei detenuti di Monza, che ogni giorno riparano gli apparecchi o li smontano per riconsegnare i pezzi ancora funzionanti. "È stata una valutazione di marketing a farci entrare in carcere, per rendere questa realtà diversa dalle altre - dice Fabio Luca Pozzi, uno dei tre fondatori di Trilogy 2000 -. Oggi abbiamo quattro detenuti regolarmente assunti con contratto metalmeccanico".

Piemonte: la Regione istituisce il Garante dei diritti dei detenuti

 

Ansa, 25 novembre 2009

 

La Regione Piemonte si doterà di un garante dei detenuti, figura sul modello del difensore civico, istituita per interloquire con tutti i soggetti gravitanti intorno al carcere con l’obiettivo di migliorare le condizioni dei detenuti. Lo ha deciso il consiglio regionale, che ha approvato questo pomeriggio con i voti della maggioranza di centrosinistra la relativa proposta di legge, un testo unificato che raccoglie le proposte presentate da Pd e Prc.

L’iter del documento, avversato da An e Lega mentre porta la firma dell’esponente di Fi-Pdl Mariangela Cotto, parte da una battaglia iniziata dai Radicali nella precedente legislatura regionale (nell’attuale sono assenti, ndr). Ma quella proposta non poté andare in porto durante il governo di centrodestra che ha preceduto l’attuale, guidato da Mercedes Bresso.

"L’istituzione in Piemonte della figura del garante dei detenuti - commenta il capogruppo del Pd Rocco Muliere, relatore del provvedimento - è un fatto positivo, segno di civiltà e di attenzione alla condizione di persone che vivono situazioni di grande difficoltà. Sono oltre quattromila i detenuti piemontesi, il numero più alto dal dopoguerra. Compito del garante è il controllo delle condizioni di vita in carcere, insieme con il rispetto dei diritti e dei doveri inerenti il trattamento carcerario. Il garante non si sovrappone agli organi di sorveglianza, ma intende svolgere un ruolo di mediazione tra le istituzioni esterne e quelle interne al mondo carcerario. Ha tra i suoi compiti anche il tentativo di recupero dei detenuti, attraverso la realizzazione di progetti specifici. Aiutare il reinserimento non è solo interesse dei detenuti ma anche della società, che guadagna un cittadino a una vita nel rispetto della legge: un utile morale e insieme economico".

Toscana: la Uil-Pa sostiene lo sciopero della fame dei Radicali

 

Adnkronos, 25 novembre 2009

 

La Uil Pa Penitenziari della Toscana, in occasione del suo 3° Congresso, ha espresso sostegno convinto all’impegno politico dei Radicali sulle carceri. Inoltre il sindacato ha sollecitato adesioni volontarie all’iniziativa non violenta in corso, che vede Rita Bernardini al 6° giorno di sciopero della fame, insieme ai Radicali Irene Testa (presidente dell’Associazione radicale Il detenuto Ignoto), Claudia Sterzi (Segretaria Associazione radicale Antiproibizionisti), Alessandro Litta Modignani (della Direzione Radicali Italiani) e Annarita Di Giorgio (del Comitato Nazionale di Radicali Italiani), affinché venga calendarizzata la mozione parlamentare promossa dai deputati Radicali nel gruppo del Pd.

Ferrara: in carcere vigono le "3 T"... televisione, terapia e tagli

di Sergio Armanino

 

La Nuova Ferrara, 25 novembre 2009

 

"Di notte in carcere vigono le "tre T": televisione, ad alto volume, con i litigi che ne conseguono; terapia, ossia le urla per la sofferenza di chi ne avrebbe bisogno; tagli, ossia i gesti di autolesionismo per disperazione". Con questa spaccato agghiacciante, raccontato dal capogruppo dei Socialisti in Regione, Sergio Alberti, si è concluso ieri l’incontro con la stampa sui problemi del sistema carcerario, che toccano l’Arginone come tutti gli istituti di pena italiani, tornati al centro dell’attenzione. L’occasione era l’incontro "Le carceri che scoppiano", promosso da Radicali e Verdi di Ferrara in collaborazione con il gruppo consiliare Laici e Riformisti. L’iniziativa si è svolta nel pomeriggio alla Sala dell’Arengo, con l’intervento anche di Bruno Mellano, presidente Radicali italiani, ma i suoi contenuti sono stati anticipati alla stampa la mattina.

Leonardo Fiorentini (Verdi) ha introdotto il tema parlando di "situazione carceraria al collasso" e ricordando le proteste dei detenuti in diverse carceri italiane: "La situazione a Ferrara - ha aggiunto - è al limite. Per questo un gruppo di associazioni ha promosso un appello (a cui si può aderire da internet, collegandosi a www.fuoriluogo.it/blog/appelli) per chiedere di attuare tutte le forme alternative alla carcerazione già previste dalla legge Fini-Giovanardi, che certo non condividiamo, ma che già prevede per i tossicodipendenti di scontare la pena in strutture esterne".

A lanciare un inquietante allarme sul piano politico è stato poi Franco Corleone, presidente de La Società della Ragione, garante dei diritti dei detenuti a Firenze ed ex sottosegretario alla Giustizia: "La nostra preoccupazione è che non viene fatto nulla dal governo e dall’amministrazione penitenziaria, c’è un atteggiamento attendistico: o si aspetta che la valanga arrivi a valle per poi contare i danni, oppure si aspetta che scoppi l’emergenza per poi giustificare provvedimenti d’emergenza. È un atteggiamento irresponsabile, dovuto a incapacità, oppure si attende che ci scappi un morto, che non sia un poveraccio come Stefano Cocchi, per poi costruire carceri d’oro, oppure pensano che il carcere debba funzionare così e si aspetta che ci siano le risorse per il piano carceri, che ancora non è approdato al consiglio dei ministri".

Corleone rovescia la lettura della situazione: "Il problema non è che ci sono pochi posti in carcere (40mila, contro i 65mila detenuti), ma che ci sono troppi detenuti: c’è qualcosa che non va, nel diritto, nella giustizia. A riempire le carceri sono persone che hanno violato leggi sulle droghe: il carcere è una misura totale, da usare con parsimonia, invece è diventato un deposito di corpi di tossicodipendenti, stranieri e poveri, assomigliano agli ospedali psichiatrici di antica memoria". A fronte di dati impressionanti, con un terzo degli ingressi in carcere di tossicodipendenti, oltre 30mila, ecco l’appello ad applicare leggi già vigenti per l’affidamento alle misure alternative alla detenzione.

Che significherebbe anche un enorme risparmio: 50 euro al giorno per persona, che in carcere costa il triplo. Moltiplicato per i 10mila che potrebbero usufruirne, ecco la riforma carceraria attuata. Ha chiuso l’incontro Sergio Alberti, che da lungo tempo segue questa problematica e che ha aderito all’iniziativa nazionale "Ferragosto in carcere", visitando l’Arginone, "dove le celle - ha ricordato - sono state concepite per una persona e invece ne ospitano tre per 18 ore al giorno".

Annunciando che lancerà l’iniziativa "Natale in carcere", in segno di solidarietà con detenuti e polizia penitenziaria, "e chiederò al sindaco e alla presidente della Provincia di partecipare", Alberti ha ricordato che tutti i partiti di maggioranza in Regione hanno rivolto al governo un appello perché dedichi particolare attenzione al sovraffollamento delle carceri partendo proprio dall’appello delle associazioni.

Modena: Casa Lavoro; i primi ricoveri per sciopero della fame

 

La Gazzetta di Modena, 25 novembre 2009

 

Si fa sempre più dura la protesta degli internati della casa lavoro di Saliceta. Dopo il rifiuto dei pasti, da venerdì, 70 dei 92 ospiti, sono passati allo sciopero della fame vero e proprio, limitandosi alla sola assunzione d’acqua. Una protesta che a cinque giorni dall’inizio ha già fatto registrare i primi ricoveri in infermeria, come riferito dai volontari e dal cappellano della struttura. Gli internati chiedono sia messa la parola fine al loro stato di detenuti senza pena, vale a dire che siano reintrodotti i permessi concessi per il lavoro come è sempre stato fino a pochi mesi fa.

Una protesta che ha indotto anche diversi volontari che svolgono servizio a Saliceta, a scrivere un documento per denunciare con preoccupazione quanto sta avvenendo. "Da alcuni mesi - scrivono volontari e cappellano - il giudice di sorveglianza ha drasticamente ridotto le udienze agli internati e non rilascia più licenze e permessi con gravi conseguenze umanamente intollerabili. Alcuni internati che ad esempio beneficiavano di permessi o licenze per andare a lavorare sono stati licenziati, perdendo oltre al lavoro, l’unica loro speranza di reintregrarsi nella società.

La casa di Saliceta, inoltre, potrebbe ospitare fino ad un massimo di 50 persone, e adesso sono quasi il doppio, con un sovraffollamento nelle celle e un organico di polizia penitenziaria assolutamente insufficiente. Trasformare una Casa Lavoro, ovvero lo strumento che lo Stato ha a disposizione per il reinserimento nella società di persone che a breve usciranno comunque in libertà, in un luogo di frustrazione e umiliazione è inaccettabile". Tutto ruota intorno all’articolo 53 dell’ordinamento penitenziario che recita: "Agli internati può essere concessa una licenza di sei mesi nel periodo immediatamente precedente alla scadenza fissata per il riesame di pericolosità.

Ai medesimi può essere concessa, per gravi esigenze personali o familiari, una licenza di durata non superiore a giorni quindici; può essere inoltre concessa una licenza di durata non superiore a giorni trenta, una volta all’anno, al fine di favorirne il riadattamento sociale". Sull’interpretazione di questo articolo, dopo casi di cronaca, il ministro Alfano ha presentato ricorso in Cassazione che si dove però ancora esprimere. Nel frattempo però il procuratore generale della stessa Cassazione ha interpretato l’articolo facendo cessare la licenza a chi ne aveva già usufruito per 15 giorni.

Cagliari: detenuti rifiutano il vaccino contro l’influenza "suina"

 

Ansa, 25 novembre 2009

 

La maggioranza dei detenuti nel carcere cagliaritano di Buoncamino sta manifestando la volontà di rifiutare la somministrazione del vaccino contro l’influenza suina. Lo rendono noto i volontari dell’"Associazione Socialismo Diritti Riforme", la cui presidente, Maria Grazia Caligaris, aveva ritenuto indispensabili un migliaio di dosi di vaccino per la Casa circondariale, dove vi sono numerosi ammalati e tossicodipendenti immunodepressi.

"Il rifiuto a vaccinarsi, per molti versi inspiegabile, - sottolinea l’ex consigliera socialista - preoccupa i responsabili dell’Amministrazione penitenziaria e i sanitari. Sono infatti scattate anche le misure di prevenzione per evitare che la pandemia si diffonda e intensificate le precauzioni igieniche, è stato anche ampliato l’uso delle mascherine e dei guanti". Misure preventive che hanno allarmato i familiari dei detenuti, anche se, sino ad ora, non è stato registrato alcun caso di influenza i cui sintomi possano richiamarsi al virus AH1N1.

"Su richiesta del Provveditore regionale del Dap, sono stati invitati - conclude la Caligaris - a mettere per iscritto l’eventuale volontà di rinunciare alla vaccinazione contro l’influenza suina. In questa fase della pandemia l’assunzione dell’antivirale è, infatti, facoltativa e volontaria, tuttavia il Comitato scientifico regionale ne sottolinea l’opportunità e utilità soprattutto in ambienti sovraffollati".

Palmi (Rc): Uil; evasione sventata ma situazione incandescente

 

Il Velino, 25 novembre 2009

 

"Nel mese di agosto qualcuno si meravigliò e gridò all’esagerazione quando un detenuto ristretto presso la casa di reclusione di Rossano tentò di infilzare con i resti di un manico di scopa appositamente appuntiti un appartenente al corpo di polizia penitenziaria e riferii di un tentato omicidio. Ora, dopo il tentativo di evasione a mano armata e la gambizzazione di due agenti di polizia penitenziaria verificatosi a Palmi quello stesso qualcuno magari ci dirà che erano le prove generali per i giochi pirotecnici del prossimo Capodanno!".

Questo il primo commento di Gennarino De Fazio, della direzione nazionale della Uilpa penitenziari, a seguito del tentativo di evasione messo in atto da due detenuti durante una traduzione dal carcere di Palmi. "La situazione - continua - è incandescente e non solo metaforicamente. Da troppo tempo la politica sembra più impegnata a fare in modo che il carcere sia evitato dai potenti di turno, piuttosto che a migliorare le condizioni di vita per chi vi è ristretto e per chi vi è impegnato, in prima linea, a garantire la sicurezza del Paese".

"Due detenuti ergastolani - prosegue De Fazio - a massimo indice di pericolosità, durante il trasferimento dal carcere di Palmi al Tribunale di Reggio Calabria per un’udienza, sono venuti in possesso, per cause in via di accertamento, di un’arma da fuoco e la hanno utilizzata prima per intimidire la scorta e poi, atteso che non riuscivano ad ottenere l’apertura dell’automezzo, per gambizzare due agenti. La polizia penitenziaria si è dunque limitata a riportare in sicurezza i due detenuti, senza far uso delle armi.

Ciò dovrebbe far riflettere l’opinione pubblica anche a seguito dell’aggressione mediatica condotta in danno della polizia penitenziaria successivamente ai tragici eventi della cronaca recente. È necessario che si esca dall’ipocrisia. Come si può pensare che in un sistema di magazzini di stoccaggio in cui si ammassa materiale umano, quali sono le nostre patrie galere costruite per ospitare poco più di 40 mila detenuti, ma che ne contengono poco meno di 70 mila, e con la polizia penitenziaria in deficit organico di oltre cinquemila unità, dunque stremata nella forza e nello spirito, non vi siano degenerazioni?

Di fronte a tutto ciò - conclude De Fazio -, continuo a ripeterlo, il ministro della Giustizia Alfano ed il Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Ionta dovrebbero seriamente interrogarsi sulle rispettive responsabilità e trarne le dirette conseguenze. Rimane da capire come è quando i detenuti che hanno tentato l’evasione siano venuti in possesso della pistola. È ovvio che in un sistema allo sfascio come quello descritto, nonostante l’estrema professionalità e l’efficienza della Polizia penitenziaria, la cui prova è costituita dallo stesso gesto eroico di coloro che hanno preferito farsi sparare piuttosto che aprire una porta per consentire la fuga, possa sfuggire qualcosa nei controlli. Chiediamo però che si faccia piena luce ed immediata chiarezza su tutto".

Napoli: il procuratore; sovraffollamento è una vera emergenza

 

Agi, 25 novembre 2009

 

"Il sovraffollamento delle carceri è anche un nostro problema". Il procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore, a margine della firma di un protocollo contro la violenza sulle donne, fa proprio il problema dell’emergenza carceri posto dall’Unione delle camere penali che ha anche proclamato un giorno di astensione dalle udienze.

"È un problema anche nostro - insiste - perché di ordine pubblico. Le alternative sono due: o ci dobbiamo fermare e non arrestare più la gente, e così svuotiamo le carceri; o si costruiscono nuove carceri soprattutto qui in Campania. Le misure alternative non risolvono il problema, perché la maggior parte degli arresti che stiamo facendo non sono per reati semplici e le misure alternative non si possono applicare. Il problema è che qui ci sono troppi delinquenti". In alternativa, scherza, "si può aspettare il nuovo processo, così non se ne parla più".

Lucca: volontari; troviamo le risorse per ristrutturare il carcere

 

Il Tirreno, 25 novembre 2009

 

Silvana Giambastiani, presidente dell’associazione Volontari del Carcere, torna a chiedere iniziative contro il sovraffollamento. "Il disagio crescente, sempre meno contenibile, del sovraffollamento, delle scarse condizioni igieniche e di sicurezza per la salute, della carenza di spazi vitali, della carenza di personale di custodia, incombe e persiste da mesi - dice - come già abbiamo denunciato nell’agosto, allorché esplose una protesta che vide i detenuti astenersi dal cibo e rumoreggiare contro le sbarre.

A Lucca c’è un Osservatorio sul Carcere, c’è un protocollo di intesa fra enti, vi sono competenze di Comuni e di professioni eppure vi è una diffusa sensazione di impotenza, di fronte ad una impensabile dilatazione dei tempi e degli interventi. Ad agosto siamo andati in carcere, sono stati in molti a farlo: parlamentari, amministratori, sindaci. Ma ora cosa fare? "La risposta più semplice, più adeguata alla nostra comunità, più incisiva, e in linea con quella già espressa negli anni, sembra essere: "troviamo risorse per ristrutturare San Giorgio". Non vogliamo a Lucca un supercarcere. È tempo di guardare al problema carcere come a una priorità di tutti".

Forlì: un Protocollo, per il lavoro e la formazione per i detenuti

 

Dire, 25 novembre 2009

 

Un protocollo d’intesa darà nuova spinta al "Comitato locale dell’area esecuzione penale adulti". Il documento sarà sottoscritto giovedì alle 9.30 in Provincia e vedrà la partecipazione di ben undici tra enti e uffici: Provincia di Forlì-Cesena, Comune di Forlì, Comune di Cesena, Unione dei Comuni del Rubicone, Casa Circondariale di Forlì, Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Bologna (Uepe), Direzione Provinciale del Lavoro, Ausl Forlì, Ausl Cesena, Ufficio Scolastico Provinciale, Consigliera Provinciale di Parità.

"Riteniamo che siano maturate le condizioni per operare un aggiornamento alla composizione e all’organizzazione del comitato locale che già da alcuni anni è stato costituito per coordinare gli interventi pubblici e del privato sociale da realizzare a favore della popolazione detenuta", spiega il vice-presidente della Provincia Guglielmo Russo.

L’organo sarà presieduto dall’assessore al Welfare del Comune Davide Drei e avrà come scopi quelli di formazione e avviamento al lavoro di adulti in esecuzione penale, l’inserimento dei detenuti nel mercato del lavoro privato o pubblico, iniziative culturali, sportive e ricreative all’interno della Casa Circondariale per migliorare il livello di qualità della vita, attività formative e di istruzione che consentano il raggiungimento di un titolo di studio, percorsi di accompagnamento post-penitenziari a residenti nel territorio provinciale, mediazione linguistica, progetti educativi e culturali.

Genova: Uil; protesta detenuti al terzo giorno, siamo al collasso

 

Secolo XIX, 25 novembre 2009

 

E tre. Anche la scorsa notte i detenuti di Marassi hanno dato vita all’ennesima protesta contro sovraffollamento e disagi. Carenze lamentate sul fronte dei reclusi e carenze lamentate sul fronte della polizia penitenziaria, con l’aggiornamento della situazione da parte della Uil del settore penitenziario.

"La protesta è iniziati attorno alle 22. I detenuti non hanno ritenuto soddisfacente l’esito dell’incontro avuto con il direttore del carcere che ha portato al trasferimento da Marassi di 30 detenuti (alle Case Rosse i reclusi oscillano tra i 780 e gli 800 a fronte di 450 posti). Protesta molto rumorosa durata circa mezz’ora. - spiega Fabio Pagani segretario ligure della Uil Penitenziari Liguria -. Non è inutile ricordare che Marassi, dove i detenuti sono assiepati in cella in nove e su barnde a tre piani, la Polizia Penitenziaria lamenta una carenza organica di circa 150 Unità con turni di lavoro massacranti. Inoltre la rabbia aumenta di fronte all’immobilismo dell’amministrazione centrale, latita il Capo del Dap Franco Ionta, accompagnato da un ministro, impegnato esclusivamente nella politica".

Secondo la Uil i primi ad essere dimenticati sono "le donne e gli uomini della polizia penitenziaria". Il timore di Pagani è che per motivi e contingenze diverse le proteste passino ad una fase più dura trasformandosi in vere e proprie rivolte

Nella notte tra lunedì e martedì, una nuova protesta ha scosso il carcere genovese di Marassi, dove da giorni è in atto un duro confronto tra la direzione e i detenuti, infuriati per il sovraffollamento della struttura (la struttura dovrebbe ospitare al massimo 400 detenuti, ma attualmente ce ne sono 800): fra le 22 e le 23, tutti i detenuti hanno incominciato a colpire le sbarre con le scodelle di metallo e a urlare, invocando un trattamento migliore.

Sabato, dopo una veemente protesta notturna, il direttore del carcere, Salvatore Mazzeo, aveva incontrato i detenuti, concedendo loro la revisione del menu dei pasti e un "esodo", con l’eliminazione dalle celle della cosiddetta "terza branda", aggiunta appunto per motivi di sovraffollamento: "Oggi trenta detenuti saranno trasferiti in altre strutture regionali - ha spiegato Mazzeo - Abbiamo inserito il menu invernale approvato da una delegazione di detenuti. Attendiamo dall’amministrazione un esodo più massiccio".

In quanto alla protesta della notte, questa mattina Mazzeo spiega che si sarebbe trattato di "un gesto di solidarietà nei confronti dei detenuti delle altre case circondariali italiane, che hanno dato forma alla protesta".

Alla protesta dei detenuti, fra l’altro, si affianca quella degli agenti di polizia Penitenziaria, che lamentano di essere sotto organico e temono che la protesta sfoci in una vera e propria rivolta: "Non saremmo in grado di controllarla", ha ammesso Fabio Pagani, segretario regionale Uil-Penitenziari, che aveva espresso forti perplessità sulla possibilità che l’incontro con la direzione potesse fermare la protesta.

"Purtroppo per le note incapacità organizzative e amministrative dei nostri vertici - ha aggiunto polemicamente Pagani - paga ancora dazio il personale di polizia Penitenziaria, che anche ieri ha dovuto impegnarsi, sott’organico, a gestire la criticità dell’attuale momento. Evidentemente, l’amministrazione non riscuote alcun credito nemmeno presso i detenuti. Lo avevamo detto e lo ripetiamo: non servono impegni qualunquistici, ma atti concreti. Le parole contano poco, perché la tanto contestata "terza branda", in queste condizioni, è inevitabile. Stipare a Marassi 800 detenuti è da irresponsabili, considerato anche la grave deficienza organica di oltre 150 unità della Penitenziaria. Purtroppo, il capo del Dap continua a ignorare la richiesta di incontrare le rappresentanze sindacali, a testimonianza della siderale distanza che separa i problemi della periferia dalle comode poltrone romane. Eppure, basterebbe fare rientrare a Genova tutti i distaccati presso i palazzi del potere romano perché si ritorni almeno a respirare. Oramai i ritmi insostenibili e i turni massacranti di lavoro gravano solo sulle poche unità superstiti inevitabilmente logore, stanche e arrabbiate".

Palermo: manca la benzina a furgone Polizia, salta il processo

 

Ansa, 25 novembre 2009

 

Il cellulare è a secco, manca la benzina, così i detenuti non possono andare in Tribunale e salta l’udienza di un processo di mafia. È successo oggi a Palermo al processo per le presunte infiltrazioni mafiose nel business delle pale eoliche. Nel dibattimento in cui si doveva discutere di energia "alternativa", è arrivato invece l’imprevisto causato dal carburante (che mancava): il carcere di Trapani ha infatti comunicato ufficialmente di non avere a disposizione i buoni per la benzina che dovevano essere consegnati nell’arco della mattinata.

A quel punto il giudice dell’udienza preliminare, Daniela Troja, ha dovuto rinviare il processo che si svolge con il rito abbreviato e nel quale sono imputate sei persone: tra queste Vito Martino e Giuseppe Sucameli, che dovevano essere trasferiti dal carcere di Trapani. Gli imputati devono rispondere, a vario titolo, di reati che vanno dall’associazione mafiosa al concorso esterno, truffa, falso e corruzione, nell’’ambito dell’’inchiesta sugli appalti per la realizzazione dei cosiddetta "parchi eolici". Il processo è strato rinviato al 30 novembre. Un avvocato che difende i rappresentanti di un’azienda altoatesina è arrivato da Trento, facendo un viaggio a vuoto.

 

45 mila euro benzina non pagata

 

"Ammonta a 45 mila euro il debito contratto dalle amministrazioni delle carceri della provincia di Trapani con la Q8, società che fornisce il carburante". Lo dice il segretario regionale della Uilpa penitenziari, Gioacchino Veneziano, dopo che oggi a Palermo è saltata l’udienza di un processo di mafia perché il furgone, che doveva assicurare il servizio di traduzione, era senza gasolio. Renato Persico, direttore delle carceri San Giuliano di Trapani, conferma le difficoltà ma invita a non strumentalizzare. Oggi, per la momentanea indisponibilità dei buoni carburante, - dice - c’è stato un ritardo nella traduzione. Quando la cancelleria del tribunale ci ha comunicato il rinvio dell’udienza, il cellulare era già partito ed è, quindi, rientrato in sede.

Roma: odissea giovane costretto a girovagare fra Cie e carceri

 

Ansa, 25 novembre 2009

 

Non è cittadino italiano perché nato in Italia da genitori rom di origine bosniaca, ma non è neppure cittadino bosniaco, perché l’ambasciata di quel Paese rifiuta di riconoscerlo essendo nato fuori dai confini nazionali. E così un giovane di 28 anni è costretto a passare un anno fra Cie e carceri perché "impossibilitato" a dare seguito all’ordine di espulsione dall’Italia. La vicenda è stata denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. N.G., protagonista della vicenda raccontata dal Garante, nasce ad Aversa, dove i genitori rom di origine bosniaca sono arrivati dopo lo scoppio della guerra nella ex Jugoslavia.

Arrestato per furto, il giovane viene condannato a 8 mesi di detenzione; scontata la pena viene trasferito nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, dove in sei mesi di trattenimento non si riesce ad espellerlo perché l’ambasciata della Bosnia non lo (ri)conosce come cittadino. Il giovane lascia, quindi il Cie con un foglio di via e l’invito a lasciare il territorio italiano entro 5 giorni, ma non può farlo perché non saprebbe dove andare visto che la Bosnia non lo considera suo cittadino.

Fermato dalla polizia dopo pochi giorni per "mancata ottemperanza al decreto di espulsione", viene condannato e riportato in carcere e da qui, presumibilmente, a fine pena di nuovo in un Cie dove, dopo altri sei mesi, riceverà un nuovo foglio di via. Il tutto senza soluzione di continuità.

"Quello che denunciamo non è un caso limite - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - ma l’emblema delle difficoltà pratiche che esistono nell’applicare le normative di contrasto all’immigrazione irregolare e clandestina. Magari le leggi, per essere efficaci, dovrebbero essere seguite da intese e trattati con i Paesi esteri maggiormente interessati per evitare, ancora una volta, di risolvere un fenomeno di rilevanza sociale ed economica come l’immigrazione facendo ricorso al carcere".

Rieti: 100 i detenuti nel nuovo carcere, riempito entro gennaio

 

Il Messaggero, 25 novembre 2009

 

Santa Scolastica è ormai definitivamente un ricordo. E il nuovo carcere di Vazia va, destinato a raggiungere entro l’inizio del 2010 il tutto esaurito, che poi sarebbero i 257 posti previsti dalla capienza ufficiale. Per il momento è raddoppiato il numero dei detenuti che fino a ieri erano ospitati nella vecchia casa circondariale di via Terenzio Varrone, arrivando a oltre cento con gli ultimi trasferimenti in programma in questi giorni. In particolare arriveranno a Vazia almeno trenta reclusi provenienti da Sollicciano, carcere toscano che ospita spesso personaggi arrestati per reati di terrorismo e mafia. Si tratta di soggetti ad alta pericolosità che nel nuovo carcere saranno sistemati in un’apposita sezione.

Non è un mistero che il nuovo penitenziario realizzato in un’area dove per anni hanno prolificato cave per l’estrazione di inerti, venga visto come una valvola di sfogo per altri carceri dove il sovraffollamento sta ingenerando proteste e rivolte (per ora pacifiche) da parte della popolazione carceraria. A Vazia potrebbero perciò essere dirottati quei soggetti in grado di accendere reazioni più forti all’interno dei penitenziari italiani.

È triplicato invece il numero degli agenti di custodia rispetto all’organico in servizio a Santa Scolastica, tra essi ci sono anche diversi reatini che prima erano impiegati altrove. In buona sostanza quanto si sta registrando corrisponde alla tabella di marcia indicata dal ministro di Grazia e Giustizia, Angelino Alfano, nel corso della sua visita a Rieti avvenuta prima delle elezioni amministrative di maggio.

E dovrebbe essere proprio il Guardasigilli a inaugurare la struttura, presumibilmente prima delle consultazioni per il rinnovo dei consigli regionali, fissato per la fine di marzo. L’entrata in funzione a pieno regime del nuovo carcere dirà poi se davvero si verificherà quell’aumento di attività indotte che dovrebbe portare con se anche qualche posto di lavoro. Del resto, dopo il buio tra gli anni Ottanta e l’inizio di quelli Novanta, quando, nel corso della prima Repubblica, la provincia non ha avuto rappresentanti politici di peso in grado di far realizzare nel Reatino infrastrutture e opere viarie, quella del carcere è la seconda grande opera pubblica (dopo l’ospedale De Lellis) completamente finanziata dallo Stato.

Radio: "Radio3 Scienza"; quando Ippocrate è dietro le sbarre

 

Il Velino, 25 novembre 2009

 

Una settimana al fresco e ti puoi ammalare davvero. Puoi anche morirci. Ma non è il clima, il problema: il problema è la compagnia. Nelle carceri italiane gli episodi di violenza sembrano essere all’ordine del giorno. È davvero così? E soprattutto, che ruolo hanno i medici penitenziari? Che cosa possono fare, e che cosa fanno, per i loro pazienti detenuti? Domani giovedì 26 novembre, dalle 10.50 alle 11.30, Elisabetta Tola ne parla con Elena Gheduzzi, psicologa presso l’Istituto penale per i minorenni Ferrante Aporti di Torino, e con Donatella Zoia, ex medico penitenziario della Casa circondariale San Vittore di Milano. "Radio3 Scienza" è un programma di Rossella Panarese, per la regia di Costanza Confessore. In redazione Silvia Bencivelli e Andrea Gentile.

Teatro: Bologna; sul palco l’ergastolo bianco dei detenuti Opg

 

Dire, 25 novembre 2009

 

"Sono l’unica regista contenta di perdere gli attori". All’Opg di Reggio Emilia il teatro è uno dei pochi modi per uscire dal carcere, un percorso terapeutico che nel 2008 ha permesso ad otto attori su 10 di lasciare l’ospedale psichiatrico per trasferirsi in comunità. Si capisce allora la soddisfazione di Monica Franzoni, che gestisce il laboratorio teatrale all’interno dell’Opg.

Questa settimana la compagnia partecipa al festival "Diversamente", che dal 24 al 29 novembre raccoglie a Bologna le esperienze di teatro e salute mentale presenti in Emilia-Romagna. Sul palco dell’Arena del Sole, il 28 novembre alle 19, andrà in scena "Aspettando Godot", di Samuel Beckett (l’ingresso è gratuito). "Abbiamo scoperto una corrispondenza fra l’attesa di Beckett e quella che si vive tutti i giorni in Opg - spiega Franzoni - si attende per qualunque cosa, data la lentezza della macchina burocratica, ma soprattutto si aspetta di uscire, e questa è un’attesa che può non avere fine".

Sono poche infatti le comunità in grado di prendere in carico i detenuti-pazienti, e così l’uscita dall’opg rischia di prolungarsi a tempo indeterminato. Non a caso lo spettacolo ha come sottotitolo "L’ergastolo bianco". "Di solito i pazienti hanno condanne dai cinque ai 10 anni, ma sul fine pena non c’è certezza - continua la Franzoni - basta poco ad allontanare il momento dell’uscita. E spesso anche chi va in comunità torna dopo qualche mese". Il gruppo teatrale mette quindi in scena questa particolare forma di attesa, affrontando anche il tema del suicidio, "fin troppo presente nella testa di chi vive in Opg".

Lo spettacolo, esito di un laboratorio di scrittura, vede il testo di Beckett e quello creato dagli attori fondersi e dialogare. Sul palco ci saranno tre allestimenti per raccontare la vita in un Ospedale psichiatrico giudiziario: la cella, il letto ("che si trasforma anche in letto di contenzione") e la televisione, unica finestra verso l’esterno.

I dieci attori di "Aspettando Godot", tutti uomini, hanno fra i 30 e i 70 anni. "Per loro fare teatro non è facile - spiega la regista - le terapie che prendono, ad esempio, rendono faticoso imparare le battute a memoria, in più hanno seri problemi su tutto ciò che riguarda l’espressività corporea". Per questo in opg si lavora soprattutto sulla parola e sulla capacità di entrare in relazione con gli altri. Al corpo è riservato un’attività a parte, con pesistica e stretching, separata da quella teatrale. "E naturalmente bisogna affrontare tutti i problemi causati dal sovraffollamento - aggiunge la Franzoni - il nostro lavoro non sarebbe possibile senza la collaborazione degli psichiatri e degli agenti penitenziari dell’Opg". Proprio gli agenti hanno lavorato insieme ai detenuti per costruire un presepe natalizio: sarà esposto dall’8 dicembre in piazza Casotti a Reggio Emilia.

Immigrazione: quando piccoli razzisti crescono (purtroppo)…

di Gian Antonio Stella

 

Corriere della Sera, 25 novembre 2009

 

Anticipiamo un brano del nuovo libro di Gian Antonio Stella "Negri froci giudei & Co. L’eterna guerra contro l’altro" (Rizzoli), da oggi in libreria.

"Al centro del mondo", dicono certi vecchi di Rialto, "ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli".

"Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: comaschi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, inglesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriatico, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xingani: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napòetani. Più sotto ancora dei napòetani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori". Finché a Venezia, restituendo la visita compiuta secoli prima da Marco Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infine i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: "i sfogi". Le sogliole. Per la faccia gialla e schiacciata.

Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro tutti. Da sempre. Ed è in qualche modo alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità. Tutti. A partire da quelli che per i veneziani vivono all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contrario, come dicono le parole stesse "Impero di mezzo", sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, non ancora tradotto in Italia, che il loro mondo sia "al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia".

È una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’"ecumene", cioè della terra abitata. Gli ebrei si considerano "il popolo eletto", gli egiziani sostengono che l’Egitto è "Um ad-Dunia" cioè "la madre del mondo", gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Kàba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi greci immaginavano il mondo abitato come un cerchio al centro del quale, "a metà strada tra il sorgere e il tramontare del sole", si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Delfi e al centro di Delfi la pietra dell’omphalos, l’ombelico del mondo.

Il guaio è quando questa prospettiva in qualche modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distribuire patenti di "purezza" etnica. Mario Borghezio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: "L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come nuova patria indipendente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invivibile dal razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale".

Anche in Europa, ha suggerito, "si potrebbe seguire l’esempio di questi straordinari figli degli antichi coloni boeri e "ricolonizzare" i nostri territori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle nostre tradizioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso contatti con questi "costruttori di libertà" perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società multirazziale".

La "società multirazziale"? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la "società multirazziale"? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei colonialisti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare (parzialmente) quelle che erano da migliaia di anni le loro terre? O i bianchi arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamento nella Pianura Padana dei romani che quelli come Borghezio ritengono ancora oggi degli intrusi colonizzatori, al punto che Umberto Bossi vorrebbe che il "mondo celtico ricordasse con un cippo, a Capo Talamone" la battaglia che "rese i padani schiavi dei romani"? Niente sintetizza meglio un punto: il razzismo è una questione di prospettiva. (...)

Non si capiscono i cori negli stadi contro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del demone antisemita, le spedizioni squadristiche contro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per "i metodi di Hitler", le avanzate in tutta Europa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa paranazista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli "zingari" anche se sono veneti da secoli e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clochard bruciati per "ripulire" le città e gli inni immondi alla purezza del sangue, se non si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insieme nuovissima e vecchissima. Dove l’urlo "Andate tutti a ‘fanculo: negri, froci, zingari, giudei & co!", come capita di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi economica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi e la tubercolosi che "era sparita prima che arrivassero tutti quegli extracomunitari". Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli che spudoratamente cavalcano le paure dei più fragili e dei più angosciati, sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fatta solo di slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravigliosa Orania padana fatta solo di padani.

Ma che cos’è, Orania? È una specie di repubblichina privata fondata nel 1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato cacciato oltre un quarto di secolo prima, da un pò di famiglie boere che non volevano saperne di vivere nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai neri, niente più autobus vietati ai neri, niente più ascensori vietati ai neri e così via. (...)

"Il genocidio dei boeri": titolano oggi molti siti olandesi denunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande criminali di colore gonfie di odio razziale che da Durban a Johannesburg sono responsabili dal 1994 al 2009, secondo il quotidiano "Reformatorisch Dagblad", di oltre tremila omicidi. Il grande paradosso sudafricano, quello che mostra come la bestia razzista possa presentarsi sotto mille forme, è qui. I boeri, protagonisti di tante brutalità contro le popolazioni indigene e oggi vittime di troppe vendette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del XX secolo. Perpetrato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africani nati da un miscuglio di olandesi, francesi, tedeschi... (...)

È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzismo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di pogrom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittura, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenrick e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, "fruttò complessivamente un "carniere" di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini". Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al "Manifesto": "L’antisemitismo è un Proteo". Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così com’è impossibile capire il razzismo se non si ricorda che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...

Cina: 4 poliziotti condannati hanno torturato a morte detenuto

 

Asia News, 25 novembre 2009

 

Il governo centrale ha riconosciuto gli agenti colpevoli di abusi su uno studente di 19 anni. Cercavano di ottenere una confessione per un omicidio. In tre mesi sono morte 15 persone nelle carceri cinesi.

Il governo centrale cinese ha condannato a meno di tre anni di galera quattro agenti di polizia, riconosciuti colpevoli di aver torturato fino alla morte uno studente liceale della provincia settentrionale dello Shaanxi. Il caso del giovane, l’arresto e la cortissima condanna dei colpevoli hanno scatenato un nuovo dibattito interno sulla condizione delle carceri in Cina. La notizia del rilascio dei quattro poliziotti è stata confermata ieri notte dall’agenzia di stampa governativa Xinhua.

I quattro - fra cui un capo della polizia locale - sono stati condannati con l’accusa di abuso di potere: l’uso della tortura, da loro ammesso, serviva ad ottenere dallo studente una confessione. Il giovane 19enne Xu Gengrong, infatti, era stato fermato il 1° marzo 2009 perché ritenuto coinvolto nell’omicidio di una studentessa. Dopo sette giorni in cella, è morto a causa delle violenze subite.

Il governo locale ha cercato di insabbiare l’accaduto. La famiglia di Xu, infatti, ha preteso di vedere il cadavere e ha scoperto dei chiari segni di tortura sul corpo: per convincerli a tacere, i dirigenti comunisti locali hanno versato al padre di Xu 1.200 euro per le spese del funerale ed ha promesso alcuni "benefici" a tutta la famiglia. Il 28 marzo, l’autopsia ha dichiarato che la causa della morte era stata "un attacco cardiaco, provocato dall’affaticamento".

I familiari non si sono arresi: hanno riesumato il cadavere del giovane, lo hanno messo in una bara ibernante e hanno chiesto ufficialmente nuove indagini. La seconda autopsia ha evidenziato abrasioni sul corpo, traumi ossei e un’emorragia cerebrale. Inoltre, secondo i medici gli agenti hanno impedito a Xu di bere per lungo tempo, dato che sono stati trovati nello stomaco soltanto 10 millilitri di liquido.

La popolazione locale si è unita alla famiglia per chiedere giustizia, e un’indagine interna ha accusato sei membri della polizia di aver ucciso il giovane. Ora però il verdetto ha riaperto le polemiche, anche perché fra gennaio e marzo 2009 sono morte in prigione 15 persone. Di queste, 7 sono state picchiate a morte; 3 si sono suicidate e 2 sono morte per "incidenti". Sugli altri 3 casi sono ancora in corso delle indagini.

Un’inchiesta delle Nazioni Unite nelle carceri cinesi ha definito l’uso della tortura in Cina "ancora ampiamente diffuso". Pechino ha promesso un intervento centrale per cercare di fermare gli abusi di potere da parte delle forze di polizia locale, ma rimangono altissimi i sospetti sulle "confessioni" con cui vengono poi condannate a pene detentive personalità religiose e attivisti per i diritti civili.

 

 

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