Rassegna stampa 5 giugno

 

Giustizia: la politica degli annunci e.. l’illusione della sicurezza

di Achille Serra (Senatore Partito Democratico)

 

L’Unità, 5 giugno 2009

 

La richiesta di una "maggiore coesione sociale" riscontrata nel Paese dal Presidente della Repubblica, va di pari passo con l’esigenza della parte sana dell’elettorato di ridurre il divario tra azione politica e sfera etica.

Il rigore morale della classe dirigente, infatti, considerato in altri Paesi conditio sine qua non per governare, da noi, ormai, è diventato retaggio ingombrante di un sistema di valori passato di moda. La campagna elettorale agli sgoccioli ne è l’ennesima prova, laddove, ancora una volta, insulti e menzogne hanno messo all’angolo programmi e proposte concrete.

Sul fronte della sicurezza, quello che seguo con maggiore attenzione, il centro destra ha ricominciato a cavalcare le paure della gente, con la variante, rispetto a un anno e mezzo fa, dell’autocelebrazione. Grottesco, nella sua semplicità, lo schema proposto: "l’allarme sicurezza è ancora alto, ma il pugno di ferro usato negli ultimi mesi ha portato a risultati strabilianti".

Non occorre essere un esperto, per capire che la questione è ben più complessa e che il governo la sta affrontando quasi esclusivamente sul piano mediatico, a suon di annunci e spot elettorali. L’immigrazione irregolare si intensifica, anziché diminuire e la Lega lancia le "ronde", strutturate inizialmente come una sorta di Polizia fuori controllo, e ridotte poi, anche grazie all’intervento del Pd, a gruppi ben identificati, con il compito di segnalare il degrado urbano.

E ancora: tutti i sindacati di Polizia denunciano gli enormi tagli al comparto effettuati dal governo e, a coprir le loro proteste, spunta l’idea dei militari, categoria degna d’ogni rispetto, ma addestrata a compiti ben diversi dalla tutela dell’ordine pubblico. Preoccupante infine la complicità di certa informazione che oggi derubrica violenze carnali e reati, prima trattati con la doverosa attenzione, a meri incidenti di percorso.

Annunci e sotterfugi, dunque, e nessuna azione concreta. Non un solo un solo agente di polizia è stato sottratto alle innumerevoli scorte inutili per essere restituito al territorio. Non una sola competenza burocratica è stata trasferita dalle Questure ad uffici più idonei. Non un solo passo è stato mosso verso una riforma vera della Giustizia in grado di garantire certezza e immediatezza della pena.

Non ci stupiamo, allora, se le prossime elezioni, come denunciava ieri Michele Serra su la Repubblica, rischiano di segnare il record dell’astensionismo. La gente non crede più nella politica, perché la politica ha perso ogni contatto, non solo con la realtà, ma anche e soprattutto con quei valori di unità, coesione e onestà intellettuale indispensabili al raggiungimento di qualsiasi obiettivo comune, a partire dall’ambito della sicurezza. Questa, infatti, al pari della politica, non può essere scissa dall’etica, né garantita senza un ampio e condiviso riconoscimento di principi morali e valori irrinunciabili.

Giustizia: "lettera aperta" sulla sicurezza, alla Città di Treviso

di Lisa Clark*

 

Aprile on-line, 5 giugno 2009

 

Ordinanza anti accattoni, panchine segate con la fiamma ossidrica perché divenute "bivacco" di extracomunitari, respingimenti porta a porta: sempre di più, governi, comunità, famiglie, fanno scelte guidate dalla paura. C’è la ricerca di risposte che semplicizzino, e chi le dà sono i nazionalismi e i fondamentalismi, la violenza, il militarismo, l’omofobia, la misogina, il razzismo.

Il momento che stiamo vivendo è difficile, non occorre dirlo. Sempre di più, governi, comunità, famiglie, fanno scelte guidate dalla paura. C’è la ricerca di risposte che semplicizzino, e chi le dà sono i nazionalismi e i fondamentalismi, la violenza, il militarismo, l’omofobia, la misogina, il razzismo.

Treviso non è differente. Il suo ex primo cittadino e diversi suoi epigoni sembrano essersi fatti un punto d’onore nel perseguire la cancellazione di tutto quello che crea loro sconforto, fastidio, o conflitto. Perciò, che si tratti di panchine, di alberi, di cani, di cigni, di colombi, e persino di migranti, chi governa Treviso ne desidera l’eliminazione.

Ma come dimostrano tutti i conflitti armati, la cancellazione del "nemico" non risolve mai le istanze alla base del conflitto, semplicemente le esaspera, dando il via all’escalation delle violenze, al ciclo delle vendette, a disastri e rancori che durano generazioni. La trasformazione del conflitto è responsabilità di tutti, e spesso le persone comuni ed ordinarie sanno fare grandi cose in questo campo.

So che Treviso è migliore di chi la governa, e che i cittadini e le cittadine del luogo hanno spesso mostrato di poter vivere in pace con chi viene "da fuori", che si tratti di cigni o di altri esseri umani. Così, se le negoziazioni formali fra belligeranti possono stabilire trattati di pace, la pace vera va poi sempre costruita fra le persone, e le comunità di persone, che hanno sperimentato il conflitto.

In molte e molti, in Italia, siamo stanchi, esauriti, depressi ed arrabbiati, perché le crisi non sono mai solo economiche o solo politiche, ma sono sempre caratterizzate da rotture nelle relazioni, da tradimenti della fiducia, da amarezza e profonda sofferenza umana. Sono, sempre, crisi di senso.

Ma che si tratti di guerre, di violazioni dei diritti umani, di abusi od omissioni, tutto concerne il potere. E scelte vengono fatte ogni giorno nei luoghi del potere politico ed economico: chi sostenere, chi legare, che tipo di energie usare, che tipo di case costruire, che scuole creare, chi deve lavorare e come deve farlo, chi può restare e chi se ne deve andare.

Questo tipo di potere non è il solo esistente. Ogni singolo individuo umano ha del potere. E può usarlo per alzarsi e cercare di raddrizzare i torti. Può usarlo per costruire un mondo nonviolento, libero, solidale, che ripudia la guerra. È un mondo che possiamo costruire se sappiamo riconoscere gli altri come persone degne di rispetto, portatrici di diritti, capaci di restituzione solidale, valori che sono alla base dell’idea di Europa unita nata alla fine della seconda guerra mondiale come speranza di pace.

Questa è la vera sicurezza: essere ognuno lo scudo e il riparo dell’altro. La sicurezza dei corpi, dei cuori, delle menti, di tutte e tutti, è interconnessa. Possiamo imparare a piacerci l’un l’altro, e a cercare conforto l’uno nell’altro, a rispettarci l’un l’altro, e cosa più importante di tutte, possiamo imparare a provare una grande gioia nel farlo. Una città che abbia quest’anima, non ha bisogno né motivo di cacciare nessuno.

 

* Candidata al Parlamento Europeo nella Circoscrizione Nord-Est per Sinistra e Libertà

Giustizia: parlando di politiche penitenziarie con Mauro Palma

 

www.linkontro.info, 5 giugno 2009

 

Proseguiamo la nostra serie di conversazioni con Mauro Palma, candidato indipendente per Sinistra e Libertà al Parlamento Europeo nella circoscrizione Italia Centro. Oggi parliamo della situazione degli istituti penitenziari, del disegno di legge del governo "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica" e del Piano carceri del commissario straordinario Ionta, a partire dalla protesta che gli agenti di polizia penitenziaria hanno realizzato ieri in tutte le carceri italiane, rifiutando il pasto.

 

Caro Palma, il sovraffollamento negli istituti penitenziari ha raggiunto (e sta per superare) i livelli della fase pre-indulto, per una capacità di 43.000 posti attualmente i detenuti sono circa 63.000, cosa pensa di questa situazione?

I dati in nostro possesso parlano di un livello di saturazione vicino al collasso completo del sistema, infatti, nei 206 istituti penitenziari esistenti (al 31.12.2008) c’erano 58.127 detenuti (55.601 uomini e 2.526 donne) contro una capienza regolamentare di 43.066 posti e un limite "tollerabile" di 63.586). I detenuti con condanne definitive sono 26.587, quelli in attesa di primo giudizio sono 14.671, gli appellanti sono 9.555, mentre i ricorrenti sono 3.865. Gli stranieri in prigione sono 21.562, di cui 17.742 sono extracomunitari. Attualmente si sfiorano i 62.000 detenuti. Tale situazione è intollerabile e mina alle sue fondamenta tutto il sistema del trattamento della persona detenuta e le sue speranze di reinserimento sociale, senza contare le gravissime condizioni in cui i lavoratori dell’Amministrazione Penitenziaria sono costretti a svolgere le loro mansioni.

 

Proprio ieri, in tutte le carceri italiane, c’è stata una eclatante protesta organizzata dalla totalità delle Organizzazioni sindacali rappresentative del Comparto Sicurezza, a cui lei ha espresso la sua solidarietà. Con quali motivazioni?

Oltre alle pesanti e penalizzanti condizioni di lavoro rese in ambienti sempre meno dignitosi e sempre più insalubri ed insicuri, il personale è addirittura costretto a subire il rifiuto delle ferie e dei riposi settimanali. Aumentano i carichi di lavoro e le responsabilità, diminuisce la sicurezza delle strutture. Non si può chiedere al personale penitenziario di farsi carico, da solo, della gravissima situazione nella quale sono stati ricacciate le carceri italiane: non si può chiedere ai poliziotti penitenziari di garantire turni di lavoro inaccettabili, prolungati e gravosi, di assicurare lavoro straordinario finanche oltre la misura consentita, peraltro il più delle volte senza retribuzione. Non si può obbligare il personale a coprire da solo questo drammatico vuoto lasciato dal Governo e dal Ministro. Non voglio nemmeno lontanamente immaginare cosa potrebbe succedere nelle nostre carceri se entro l’estate non arriva un qualche segnale di distensione.

 

E quale sarebbe, a suo giudizio, una possibile soluzione?

Questo gravissimo problema si deve affrontare seguendo un doppio binario di azione, alla base di tutto però deve essere fortemente presente il convincimento che la tanto sbandierata sicurezza parte anche e soprattutto dai luoghi di detenzione e da come il sistema riesce ad intervenire virtuosamente sulle persone detenute. Il trattamento e la rieducazione devono essere percepiti non solo come una possibilità di riscatto del condannato ma come strumenti utili alla società nel suo complesso, dal punto di vista sociale ma anche economico. Ci sono studi basati su dati scientifici: la vera sfida è quella di capire che il mandato securitario del nostro sistema penitenziario non può prescindere dal dettato costituzionale dell’art. 27, altrimenti, caschiamo nella becera semplificazione tanto cara alla destra "più carcere più sicurezza".

 

Quali sono quindi le sue proposte?

Il doppio binario di azione consiste nel capire che il sistema penitenziario in Italia è una priorità e che quindi la mancanza di nuovi fondi o peggio il taglio delle risorse e del personale non devono essere applicate ad un settore in piena emergenza, anzi. La prima azione da compiere è l’inserimento di nuovo personale nell’Amministrazione penitenziaria, esiste una forte mancanza di personale di tutti i ruoli, dall’educatore al poliziotto penitenziario, dal contabile all’assistente sociale. Quindi, prima misura: concorsi veloci per andare a coprire l’assurda mancanza di personale in questo settore. La seconda linea di condotta è lo sviluppo, il potenziamento e l’allargamento delle misure alternative alla detenzione, nuove ed innovative forme di esecuzione penale esterna. L’implementazione di forme di giustizia riparativa e di utilizzo dei detenuti per delle attività socialmente utili. È una posizione difficile da sostenere in questo momento storico, ma è l’unica che può porre le basi per una soluzione duratura del problema.

 

Parliamo ora del disegno di legge del governo sulle "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica", l’art. 45 inserisce due nuovi provvedimenti, il primo è "Lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente nel territorio dello Stato è punito con la reclusione da uno a quattro anni" ed il secondo è "Lo straniero che non ottempera all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000", quale è la sua opinione a riguardo?

Il disegno di legge in questione contiene una corposa serie di nuovi provvedimenti nei confronti dei quali Sinistra e Libertà è assolutamente contraria. Vi è alla radice una visione della società in netto contrasto con la mia. Il reato di clandestinità è un fatto gravissimo sia in se che per le conseguenze che avrà sul sistema giudiziario prima e penitenziario poi. L’integrazione dell’immigrato è uno dei compiti più importanti e difficili che l’Europa del nuovo millennio si deve assumere, lo spostamento di grandi masse di popolazione dal sud del mondo verso l’Europa del benessere non è un processo che si ferma con il reato di clandestinità o con il respingimento dei barconi in mare aperto. Questo fenomeno epocale va affrontato con strumenti culturali, tesi all’integrazione e alla giusta accoglienza delle persone che, parole di Confindustria, mantengono in vita numerosi distretti industriali del nostro paese. La delinquenza va combattuta con tutti i mezzi che il nostro sistema democratico ci mette a disposizione, ma recludere una persona che non ha compiuto alcun reato per quattro anni è una concezione del governo del fenomeno immigrazione fuori dalla storia.

 

Un altro provvedimento inserito nel disegno di legge sulle "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica" è l’istituzione "presso il Ministero dell’interno un apposito registro nazionale delle persone che non hanno fissa dimora", non le sembra una misura in contrasto con i principi di uno stato di diritto?

Sì, è un ritorno al passato. La schedatura dei soggetti più deboli tesa al controllo e alla repressione è un fatto di inaudita gravità, d’altronde questo governo non hai mai fatto niente per nascondere le proprie tendenze. La politica di Sinistra e Libertà è diametralmente opposta a questi provvedimenti e si basa sullo studio del problema, sul capirne le cause e i motivi e sullo stabilire un piano di aiuto e di reinserimento dei soggetti più svantaggiati della nostra società.

 

Parliamo ora del Piano Carceri del Ministro Alfano e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ionta. Tra i punti centrali del piano carceri approvato dal Consiglio dei ministri figurano anche i poteri straordinari al capo del Dap Franco Ionta e iter più veloci per l’edilizia carceraria. Ionta dovrà individuare "la migliore e più razionale allocazione degli istituti penitenziari nel nostro paese" e potrà sostituirsi alle amministrazioni inadempienti. I nuovi istituti, ha detto Alfano, saranno considerati "strutture strategiche nazionali". In particolare, il commissario straordinario avrà anche la facoltà di "dimezzare tutti termini relativi alle autorizzazioni" proprio per accelerare l’iter per la realizzazione di nuovi carceri. Il piano porterà il numero dei posti disponibili per i detenuti da 43mila a 60mila. Quale è la sua opinione in merito?

Sono molto critico nei confronti dell’insieme dei provvedimenti contenuti nel Piano carceri, è un piano inutile e dannoso. Inutile perché non si è mai visto in Italia che in sei mesi si costruisca un carcere. A Gela ci sono voluti cinquant’anni. Dannoso perché alimenterà nuove ondate di affollamento penitenziario. Sono anche contrario ad ogni forma di presenza di privati nel management penitenziario, ricordando inoltre che in passato ci sono stati solo tentativi falliti e sono anche indignato per l’utilizzo dei soldi della Cassa delle ammende per la costruzione di nuove carceri, non si può spendere il denaro destinato alla risocializzazione dei detenuti per la costruzione di fantomatiche nuove carceri.

Inoltre è inammissibile che le Organizzazioni sindacali siano state tenute all’oscuro di tutto e convocate solo ed esclusivamente in fase di presentazione del piano. La riforma del sistema penitenziario è un processo complesso e articolato in cui la partecipazione di tutti i soggetti attori del pianeta carcere devono essere coinvolti, solo in questo modo può sussistere la speranza di migliorare le condizioni di vita della popolazione detenuta, dei lavoratori del settore e della sicurezza complessiva del sistema paese.

Giustizia: Marroni; entro il 2012 arriveremo a 100mila detenuti

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Il Garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio afferma di aver visionato un documento del Dap che illustra gli scenari futuri. "Si parla di costruire nuovi penitenziari, ma esistono già strutture che non vengono nemmeno aperte".

"L’affollamento delle carceri cresce in modo sistematico e non favorisce certo le condizioni sanitarie". Angiolo Marroni, garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio stigmatizza la crescita esponenziale del numero dei detenuti, che ha ormai raggiunto i livelli pre-indulto.

"I dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aggiornati ai primi di giugno 2009 - fa notare Marroni - attestano che i reclusi hanno superato quota 63 mila nelle carceri italiane, circa 20 mila in più rispetto alle presenze regolamentari. Ma un documento del Dap che io ho avuto modo di vedere, prevede 96.800 detenuti per il 2012. È una cosa dell’altro mondo, se andiamo avanti così faremo la fine degli Stati Uniti". Insomma, il numero dei detenuti cresce a vista d’occhio, le carceri fanno fatica a contenerli e l’organico rimane costantemente sottodimensionato rispetto alle esigenze del sistema.

"Si parla di costruire nuovi istituti penitenziari - commenta il garante - quando esistono strutture che sono state costruite, ma non vengono nemmeno aperte. A Reggio Calabria vi è un istituto, la cui costruzione è iniziata nel 1966 ed è stata terminata nel 2007, che rimane tuttora inutilizzato per la mancanza di un’adeguata strada di accesso. Anche a Rieti è stata costruita una struttura, peraltro completamente accessibile, che non viene aperta per carenza di personale". Ed è proprio questo il punto debole del sistema, di quello attuale e di quello futuro. "Non si dice mai - sottolinea - quanta polizia penitenziaria e quanti direttori, educatori, psicologi occorreranno per far funzionare queste carceri. Insomma, prima si costruiscono le strutture e poi per il personale Dio provvede".

"C’è poi un altro punto critico - avverte Marroni. - Con il passaggio della medicina penitenziaria sotto la competenza delle Asl, le regioni possono acquisire la strumentazione sanitaria presente nelle carceri soltanto se è a norma. Il problema è che le apparecchiature non sono mai a norma". La regione Lazio - racconta il garante - ha stanziato circa 5 milioni di euro "per indire una gara e comprare essa stessa, con propri fondi, la strumentazione da consegnare ai 14 istituti del Lazio e al carcere minorile".

Infine - ci tiene a precisare - il Tribunale di sorveglianza del Lazio è composto da 12 magistrati, "la maggior parte dei quali molto aperti e disponibili". Ma questi hanno già "la competenza su tutti i collaboratori di giustizia d’Italia, a cui si è aggiunta recentemente la competenza su tutti coloro che nel nostro paese sono sottoposti al 41 bis. Ed è molto difficile che, avendo un così gran numero di persone da seguire, i magistrati di sorveglianza riescano a occuparsi adeguatamente di una popolazione carceraria in continua crescita. Questo - conclude - vuol dire in pratica mettere in crisi un servizio".

Giustizia: Ristretti; 28 detenuti suicidi nei primi 5 mesi del 2009

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Dossier "Morire di carcere": dieci di loro avevano tra i 20 e i 29 anni, 9 tra i 30 e i 39. Dodici casi riguardano persone straniere. Ristretti Orizzonti: "Un numero mai raggiunto dal 2002 a oggi, il sovraffollamento tra le cause".

L’affollamento delle carceri italiane fa salire nuovamente il numero dei suicidi tra i detenuti. I primi cinque mesi del 2009 hanno fatto registrare un triste primato rispetto agli ultimi anni, sono stati 28 i casi di suicidio. Lo rende noto "Ristretti Orizzonti" il notiziario quotidiano sul carcere pubblicando i primi dati dell’anno del dossier "Morire di carcere", curato dall’associazione Granello di Senape Padova.

Dodici dei 28 casi riguarda persone straniere, dieci dei detenuti suicidi inoltre avevano un’età compresa tra i 20 e i 29 anni, nove tra i 30 e i 39. Secondo l’associazione, il dato parziale è il più elevato registrato ad oggi dal 2002, anno in cui è stato pubblicato il primo rapporto sui suicidi in carcere e va di pari passo con l’aggravamento del sovraffollamento delle carceri che attualmente contano più di 63 mila detenuti, un livello, spiega l’associazione, mai raggiunto nella storia della Repubblica italiana.

Dai dati raccolti nel dossier si evidenzia negli anni una flessione riguardo al numero dei suicidi in carcere successivamente all’indulto del 2006. In quell’occasione, infatti, si è registrato un numero minimo di suicidi contemporaneamente alla risoluzione temporanea del problema del sovraffollamento dei penitenziari. Nei primi cinque mesi del 2005 i suicidi riportati dal dossier sono stati 25, che scendono a 23 nel 2006. Il minimo storico registrato dal dossier è relativo al 2007, con 13 suicidi per i primi cinque mesi dell’anno, saliti lievemente a 17 nel 2008. L’impennata di casi dell’inizio del 2009, conclude l’associazione, ha riportato il numero dei suicidi al di sopra di quelli registrati fino ad oggi annullando la tendenza in diminuzione registrata dopo l’indulto.

Giustizia: Forum; la riforma della sanità penitenziaria è a rischio

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Allarme del Forum per il diritto alla salute in carcere. Il 14 giugno trasferimento di competenze al Ssn dovrà compiersi. Ma si registrano mancanze e ritardi nell’assegnazione di risorse. Quasi 158 milioni di euro stanziati: chi li ha visti?

La riforma della sanità penitenziaria va a rilento e rischia anzi di arenarsi. Mancano meno di due settimane al 14 giugno, termine massimo per il passaggio di competenze dal ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale e il trasferimento di responsabilità alle regioni è ancora in alto mare. Con gravi rischi per la salute di detenuti che, in questa fase di transizione, rischiano di vedere ulteriormente peggiorare le già non facili condizioni sanitarie all’interno degli istituti penitenziari. A lanciare l’allarme è il Forum nazionale per il diritto alla salute delle persone private della libertà personale, che ora teme di vedere fallire l’obiettivo per cui lo scorso dicembre si è costituito in onlus, convogliando alcune tra le principali organizzazioni del volontariato e del Terzo settore impegnate sulla questione carcere: rendere effettivamente operativa la riforma della medicina penitenziaria, nei tempi e nei contenuti previsti dalla legge, al fine di garantire la continuità dell’assistenza sanitaria per i detenuti.

Dallo scorso 1 ottobre in ottemperanza del Dpcm del 1 aprile 2008 - ricorda il Forum - le regioni hanno assunto la piena competenza della sanità in tutti gli istituti penitenziari per adulti e minori e negli Ospedali psichiatrici giudiziari. Eppure si registrano mancanze, inadempienze e soprattutto incomprensibili ritardi nell’assegnazione delle pur scarse risorse finanziarie. Dei 157,8 milioni di euro stanziati per l’anno 2008 non si è ancora visto un solo euro - denuncia sempre il Forum. E non sono arrivati neppure quei 32 milioni licenziati dal Cipe con una delibera dello scorso 6 marzo.

La ragione? Lo stanziamento è stato sì autorizzato, ma subordinato alla liquidità di cassa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti quelli che (operatori carcerari e detenuti) nel carcere ci vivono ogni giorno: siccome sono le regioni a doversi accollare i costi della sanità penitenziaria si determina inevitabilmente una situazione a macchia di leopardo. Le amministrazioni più ricche e sensibili investono denaro e si ingegnano a trovare soluzioni alternative, le altre restano in uno stato di inerzia. E così anche nel carcere si crea un’Italia a due velocità dove a soffrire sono soprattutto i piccoli centri, in particolare quelli del Sud.

Redattore sociale ha partecipato in esclusiva a un incontro organizzato dal Forum per fare luce sulla situazione di stallo in cui versa attualmente la riforma. Ne viene fuori una fotografia preoccupante, non solo per i detenuti, ma anche per gli operatori penitenziari e, in ultima analisi, per la cittadinanza nel suo complesso. Perché la maggioranza dei reclusi è condannata a scontare pene brevi e circa il 60% di chi è attualmente in carcere è in attesa di giudizio. Si tratta, dunque, di persone destinate a tornare presto in libertà, portando con sé tutti i problemi, sanitari e non, che in carcere sono nati, non sono stati adeguatamente affrontati o si sono addirittura acuiti.

All’incontro hanno partecipato Leda Colombini, presidente del Forum Nazionale e dell’associazione "A Roma insieme", Lillo Di Mauro presidente della Consulta penitenziaria della città di Roma e vice presidente del Forum nazionale, Fabio Gui, segretario generale del Forum e responsabile sanitario dell’ufficio del garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Anna Greco, presidente del Forum regionale per il diritto alla salute Piemonte e rappresentante della Cgil Funzione Pubblica e Angiolo Marroni, garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio e vice presidente del Consiglio dei garanti regionali.

Giustizia: Colombini; se non si applicherà la riforma, sarà il caos

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Passaggio delle competenze al Ssn, la presidente del Forum nazionale per il diritto alla salute delle persone private della libertà personale si dice molto preoccupata. "Non decollano nemmeno i tavoli di lavoro su Opg e riforma".

"Far fallire una riforma è molto semplice, basta non applicarla". Leda Colombini, presidente del Forum nazionale per il diritto alla salute delle persone private della libertà personale e dell’associazione "A Roma insieme", da anni impegnata per la tutela dei diritti delle donne in carcere, è molto preoccupata. Allarmata (si può dire) "per i ritardi e le inadempienze macroscopiche" che rischiano di mandare a monte non solo il trasferimento della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale, ma anche le speranze di quanti avevano visto in questo passaggio l’affermarsi di una "nuova democrazia" nelle carceri. "Le regioni hanno completato tutto l’iter di recepimento della riforma - spiega Colombini durante l’incontro organizzato dal Forum, a cui Redattore sociale ha partecipato in esclusiva - ma non è ancora andato in porto nessuno degli atti che il governo doveva compiere entro il 14 giugno prossimo per rendere effettivo il trasferimento delle competenze alle regioni".

Il problema è anche di tipo finanziario: "I fondi messi in bilancio per i primi tre anni dal decreto che disciplina il passaggio della medicina penitenziaria alle Asl sono stati resi disponibili, ma non sono ancora fruibili dalle regioni", aggiunge la presidente del Forum. Dei 157,8 milioni di euro messi a bilancio per il 2008 le regioni non hanno visto ancora un solo euro, anche se "con una delibera del 6 marzo scorso il Cipe ha reso disponibili 32 milioni, che però non sono ancora arrivati alle regioni. Quindi, o i fondi necessari vengono anticipati dalle amministrazioni regionali o, altrimenti, l’intera la sanità penitenziaria va in crisi". A questo si unisce il problema delle cinque regioni a statuto speciale che, pur avendo recepito formalmente la riforma, sono rimaste al palo in quanto la procedura prevede la presenza di due rappresentati del governo, che non sono stati ancora nominati.

A non decollare sono poi anche i due tavoli di lavoro sugli Ospedali psichiatrici giudiziari e sull’applicazione della riforma. "Dovevano servire da cabina di regia per garantire i Livelli essenziali di assistenza per i detenuti in tutte le regioni", prosegue Leda Colombini. Ma si sono insediati soltanto a febbraio e solo da poco si sono tenute le prime riunioni, a oltre un anno dal decreto e a meno di dieci giorni dal 14 giugno, il termine ultimo per l’espletamento dell’iter. "Insomma - insiste - si corre il rischio che il governo decida un ulteriore rinvio dell’applicazione della riforma". Cosa, quest’ultima, che il Forum vuole a tutti i costi evitare, "cercando di rendere rapidamente operativi i tavoli centrali, ma anche chiedendo alle regioni di aprire esse stesse dei tavoli per cercare di risolvere, come ha fatto il Piemonte, le questioni aperte: sia quelle del passaggio del personale dal ministero della Giustizia alle regioni, sia quelle dell’assistenza". Inoltre, spiega Colombini, alcune regioni sono più attive di altre. "L’Emilia Romagna, per esempio, partendo dalla drammatica situazione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia ha deciso di assumersi tutte le criticità che questo passaggio comporta e di passare entro l’anno da 47 operatori psichiatrici a 73, pur senza alcun corrispondente trasferimento di fondi". Tale operazione porterà l’Azienda sanitaria locale a innalzare lo stanziamento relativo dai 600mila euro del 2008 ai 3 milioni del 2009, fino ai 4 milioni del 2010.

"Abbiamo chiesto alla Conferenza Stato-Regioni di fare il punto sull’attuale situazione e di sollecitare le regioni a rivendicare con più forza quello che spetta loro di diritto da parte del governo", prosegue la rappresentante del Forum, che ha chiesto anche un incontro con i presidenti di Camera e Senato "perché a un anno dalla piena esecutività della riforma le commissioni parlamentari interessate non hanno esercitato i necessari controlli. Insomma - sottolinea - come a suo tempo ci siamo spesi per il decreto, ora ci auguriamo di riuscire a dare un contributo alla realizzazione della riforma per mettere in armonia il sistema della sanità e quello penitenziario, aprendo una forma di democrazia nuova anche nelle carceri". "Se la riforma non verrà applicata - ammonisce - si andrà verso il caos: per gli operatori carcerari, ma anche e soprattutto per la salute dei detenuti".

Giustizia: Di Mauro; ai detenuti non è garantito diritto alla salute

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Stranieri, tossicodipendenti, transessuali: situazione a rischio. Il presidente della Consulta penitenziaria di Roma: "Livello delle prestazioni diminuito rispetto all’epoca pre-riforma. E gli enti locali hanno effettuato tagli spaventosi".

"La riforma è stata voluta non semplicemente per passare al Sistema sanitario, ma soprattutto per fare un salto di qualità rispetto alla tutela del diritto alla salute da parte del detenuto", sostiene Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria della città di Roma e vice presidente del Forum nazionale per il diritto alla salute delle persone private della libertà personale. Perché una situazione come quella del carcere richiede necessariamente un intervento ad ampio spettro che solo il Sistema sanitario nazionale è in grado di garantire. "E questo per tutta una serie di ragioni - precisa il vice presidente del Forum - tra cui la mancanza di un’adeguata formazione da parte dei medici, la presenza di malattie trasmissibili come l’Aids, l’incremento dei tossicodipendenti e dei malati psichiatrici e l’aumento dei migranti che costituiscono ormai quasi il 40% dei detenuti e, in alcune regioni come il Piemonte, addirittura il 71%". Per questa ragione - precisa Di Mauro - varie organizzazioni si sono messe insieme per favorire questo passaggio. "Ma siamo rimasti comunque fregati - è il commento del vice presidente della Consulta cittadina - perché i detenuti non vedono garantito il proprio diritto alla salute".

"Sono trascorsi dieci anni da quando si è avviata la riforma e più di un anno da quando è stata definitivamente approvata e ancora stiamo discutendo del perché non viene pienamente applicata all’interno degli istituti penitenziari" prosegue Di Mauro. Il vero problema, anzi, è che il livello delle prestazioni nei confronti dei detenuti è ulteriormente diminuito rispetto a all’epoca precedente alla riforma. Inoltre, "a parte alcune regioni virtuose - dichiara - gli stessi enti locali hanno effettuato dei tagli spaventosi". E a soffrirne è anche il Terzo settore, che svolgeva un ruolo di "supplenza" rispetto alle carenze dello Stato: infatti gli interventi sul versante socio-sanitario o del recupero e reinserimento delle persone, attuati dal privato sociale, vengono sospesi e il carcere "rischia di implodere".

Non si tratta di questioni teoriche, insomma, perché in gioco c’è la salute di persone in carne e ossa con esigenze sanitarie particolari. Qualche esempio: "Ci sono le transessuali che, dall’ingresso in carcere, sono quasi sempre costrette a sospendere le terapie ormonali, con gravi devastazioni psico-fisiche e che, comunque, non sono seguite a livello psicologico", spiega. "Dal 2002 - continua - per i tossicodipendenti interviene il Sert, che si trova a trattare persone che non hanno solo il problema delle dipendenze, ma anche quello delle malattie correlate, tra cui epatite C e Hiv, senza poter contare su un’équipe medica in grado di affrontare i diversi problemi". E a questo punto il ruolo del medico si riduce alla prescrizione di metadone o all’invio della persona in comunità. È allora necessaria una vera rivoluzione culturale. "Bisognerebbe far capire all’opinione pubblica che se dal carcere esce una persona sana sarà sana tutta la comunità, ma se esce qualcuno con la tubercolosi o con un’altra malattia ne risentirà anche la comunità nella quale questa andrà a inserirsi".

Giustizia: Gui; nelle carceri molti anziani, disabili e "psichiatrici"

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Il segretario generale del Forum per il diritto alla salute dei detenuti: "Bisogna investire di più, perché quando il detenuto esce dal carcere, quella domanda di salute negata torna indietro come un boomerang".

"Molti dicono che in carcere si stava meglio prima. Ma il passaggio della medicina penitenziaria al sistema sanitario nazionale ha scoperchiato tante situazioni che prima restavano chiuse negli istituti". Secondo Fabio Gui, segretario generale del Forum per il diritto alla salute delle persone private della libertà personale e operatore dell’ufficio del Garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio, dire "si stava meglio prima" è "un discorso rischioso". "Si faceva abuso di psicofarmaci - spiega -, mancava la presa in carico della persona, non c’era continuità terapeutica e si verificavano troppi episodi di sfollamento, ovvero spostamenti da una struttura all’altra". Questo vuol dire che un percorso sanitario iniziato in un carcere può essere bruscamente interrotto per via del trasferimento in un altro istituto determinato dall’eccessivo sovraffollamento, dal superamento del primo grado di giudizio o semplicemente da "ragioni di opportunità".

"Per esempio - prosegue Gui - accade che i risultati di un test sull’Hiv non possano essere recapitati al detenuto perché nel momento in cui sono pronti questo è stato ormai spostato in un altro carcere. Oppure c’è il caso del malato di Aids che assume farmaci anti-retrovirali, che viene trasferito senza scorta di medicinali e per poter riprendere la terapia deve attendere la presa in carico e la prescrizione da parte del medico della nuova struttura. E sono proprio le persone più fragili e più problematiche ad essere spostate per ragioni di sicurezza e di opportunità".

Vi è poi il problema di quel che avviene al momento delle dimissioni. "Fino a oggi l’amministrazione, una volta terminata la pena, abbandonava il detenuto al proprio destino. Ora la riforma prevede la presa in carico della persona da parte del territorio". Ma ciò richiede un investimento economico sostanzioso, e i soldi destinati al carcere sono sempre stati e restano pochi. "Perfino quegli oltre 150 milioni annui stanziati dal governo e mai arrivati alle regioni sono troppo pochi - precisa il segretario. - Il Forum l’ha detto a chiare lettere: se ci fossero sarebbe meglio, ma comunque non bastano. Bisogna investire di più, perché quando il detenuto esce dal carcere, quella domanda di salute negata torna indietro come un boomerang".

Un’altra questione aperta è quella degli anziani, sempre più presenti tra la popolazione carceraria. "L’età porta con sé una domanda di salute particolare, che va dall’alimentazione alla deambulazione fino al superamento delle barriere architettoniche - spiega Gui. - E in un discorso di presa in carico è giocoforza inserire anche questa parte della popolazione carceraria in un disegno più ampio: nel territorio esiste una zona che si chiama carcere e all’interno di questa zona esistono situazioni sanitarie critiche". Ogni istituto, infatti, ospita un certo numero di detenuti disabili, anziani o affetti da problemi psichiatrici.

"E allora la riforma può essere l’occasione non solo per una presa in carico delle persone, ma anche per portare avanti un discorso di omogeneità, che è fondamentale - conclude Gui. - Perché in carcere non si verifica soltanto la perdita del diritto alla salute, ma anche quella dei diritti civili". Nelle prigioni italiane c’è di tutto: dagli internati che restano anche venti anni negli Ospedali psichiatrici giudiziari per via di una misura amministrativa a coloro che escono dal carcere senza neppure la residenza amministrativa. "Si tratta di diritti che qualunque cosa una persona abbia commesso non possono essere messi in discussione. Sono argomenti sui quali bisogna cominciare a riflettere".

Giustizia: Greco; regioni devono riprogrammare i servizi sanitari

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Parla la presidente del Forum per il diritto alla salute della regione Piemonte. La Riforma? Una rivoluzione culturale che comporta un prezzo da pagare. "E molte regioni sono arrivate impreparate all’appuntamento".

Una rivoluzione culturale che comporta un prezzo da pagare. Ma anche un’occasione preziosa che le regioni potrebbero cogliere per ridisegnare un sistema sanitario che sia realmente degno di questo nome. Così Anna Greco, presidente del Forum regionale per il diritto alla salute della regione Piemonte e rappresentante della Cgil Funzione Pubblica, giudica la riforma della medicina penitenziaria che ha spostato le competenze dal ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale. "La riforma della sanità penitenziaria - spiega Greco - rappresenta un forte cambiamento culturale, che ha comportato novità importanti, ha destabilizzato equilibri e ha leso alcuni interessi. Capisco che come tutte le rivoluzioni abbia il suo prezzo, ma mi sembra che a volte questo disagio sia voluto e amplificato proprio per dimostrare che si stava meglio prima".

D’altra parte, spiega la rappresentante della Cgil, "molte regioni, tra cui il Piemonte ma anche l’Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio, già da prima provvedevano ai farmaci perché, progressivamente nel corso degli anni, l’amministrazione penitenziaria ha ridotto i fondi destinati alla sanità. E mentre da un lato l’amministrazione penitenziaria ostacolava l’attuazione della riforma - aggiunge -, dall’altro quella stessa struttura sollecitava i direttori e i provveditorati regionali ad aprire nuove convenzioni con il territorio per far fronte alle spese che non poteva sostenere. In pratica miravano a mantenere una situazione ibrida per gestire con risorse del territorio un servizio che non era di loro competenza".

A questo va aggiunto che molte regioni sono arrivate impreparate alla riforma e per giunta questa è divenuta operativa proprio nel momento in cui hanno dovuto affrontare tagli dolorosi. "In questo contesto le regioni si sono trovate costrette anche ad anticipare i fondi perché dal governo centrale non è ancora arrivato un euro - sottolinea la rappresentante di Cgil-Fp -. E così mentre molte regioni non sono sicuramente ansiose di assorbire le funzioni di assistenza sanitaria in carcere, l’amministrazione penitenziaria che storicamente ha detenuto il controllo della medicina penitenziaria oppone una resistenza fisiologica. Si tratta infatti - precisa - di un’istituzione chiusa e poco propensa al cambiamento, la quale non vede di buon occhio l’ingresso di un servizio esterno nel carcere che fa saltare gli equilibri già esistenti e richiede uno sforzo di riorganizzazione reciproca che nessuno sembra desideroso di affrontare".

Vi è poi la questione che la riforma favorirebbe i detenuti a discapito degli operatori penitenziari. "Si tratta di una vera e propria bufala - commenta Greco. - È chiaro che se gli operatori vengono valorizzati dal punto di vista professionale e retribuiti in maniera adeguata prestano un servizio migliore al cittadino detenuto. Quindi gli interessi degli uni vanno di pari passo con gli interessi degli altri" chiarisce, ricordando che allo stato attuale "la maggior parte degli operatori sanitari non sono in un rapporto di dipendenza con l’amministrazione penitenziaria, ma in un rapporto di libera professione, che viene rinnovato di anno in anno, se e quando viene rinnovato". E allora "non è stata la riforma a rendere il servizio frammentario - fa notare - ma è stato ereditato un servizio già frammentario e frammentato".

Di fronte a questa situazione lo sforzo di sensibilizzazione e di stimolo all’attuazione della riforma da parte dei vari Forum regionali "deve essere quello di far comprendere che questo decreto non è una tegola che ci cade in testa, ma è l’occasione per riprogrammare un servizio sanitario regionale a tutto tondo". Perché mai come in questo momento "le regioni possono finalmente riprendersi la titolarità dell’assistenza a tutti i cittadini, liberi e detenuti, programmando un servizio che sia veramente degno di questo nome". In altre parole la riforma può costituire "l’occasione giusta per rideterminare il fondo sanitario - propone la presidente del Forum Piemonte - anche perché molte regioni sono più avanti rispetto al livello centrale nei percorsi di attuazione. E anche perché è proprio dai territori che può venire il cambiamento".

Va detto, tuttavia, che soprattutto nel periodo antecedente all’entrata in vigore della riforma, "sul territorio nazionale le eccellenze riguardavano solo poche realtà additate come fiore all’occhiello, mentre in altre regioni non si garantiscono neanche i servizi minimi". Infine - conclude Greco - "tra i tanti vantaggi della riforma vi è l’affermazione del principio che il detenuto è un cittadino, che paga per il reato che ha commesso con la perdita della libertà, ma che non per questo deve perdere i diritti di cittadinanza, a cominciare dal diritto alla salute e alla residenza che lo Stato deve continuare a garantirgli".

Giustizia: dalle Asl poca formazione a operatori sanitari carcere

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Critiche alla riforma dagli operatori sanitari dei Sert e delle comunità terapeutiche. Serpelloni: "Attiviamo un tavolo tecnico per proporre modifiche alla riforma e controllare gli standard di assistenza".

Mancanza di omogeneità e di uniformità di procedure delle regioni con il rischio di trattamenti differenziati tra le diverse aree del Paese, personale giudiziario che continua a intervenire sulla base del vecchio mandato del ministero della Giustizia, scarsa formazione da parte delle Asl dei 5.500 operatori sanitari in carcere (dati forniti da Co.N.O.S.C.I), attrezzature obsolete nei penitenziari, problemi legati al trattamento dei dati sensibili.

Sono questi i principali ostacoli che rendono difficile l’applicazione della riforma della medicina penitenziaria, entrata formalmente in vigore l’anno scorso ad aprile con il decreto attuativo della legge 230 del 1999 e che sancisce il passaggio della tutela della salute in carcere in capo alle Asl, e, quindi, dall’amministrazione centrale alle regioni. Così la pensano gli operatori dei Sert e delle comunità terapeutiche, che hanno espresso i loro dubbi durante un confronto organizzato dal dipartimento delle Politiche Antidroga del governo, a seguito della Conferenza nazionale di Trieste, sul tema specifico delle tossicodipendenze in carcere.

"A fronte dell’elevato numero di detenuti, gli psicologi che lavorano nelle carceri in totale non arrivano a 600, con la possibilità di un colloquio di 5 minuti ogni 30 giorni con ciascun detenuto", denuncia Vincenzo Saulino, psicologo a Rebibbia, della rete Co.N.O.S.C.I. La situazione è anche peggiorata con i tagli delle risorse. "Con il Dpcm approvato il 1 aprile del 2008, l’intervento dello psicologo non è stato trasferito al sistema sanitario nazionale, nei casi dell’osservazione e del trattamento e per i nuovi giunti, perché non giudicato sanitario", afferma Saulino, "e c’è stato un taglio del 50% delle ore agli psicologi.

Se a questo si aggiunge che l’80% del personale dei Sert non è di ruolo, questo incide sull’intervento e la presa in carico, l’organico non è in grado di sostenere il 50% della popolazione carceraria con problemi di droghe". Un altro problema ravvisato dal dottor Saulino e da molti altri operatori medici è relativo alla tutela della privacy del paziente detenuto. Il medico infatti svolge ancora i colloqui alla presenza dell’agente di polizia penitenziaria, con una prevalenza della sicurezza e del controllo sociale sul diritto alla tutela dei dati sensibili della persona.

Per quanto riguarda le misure alternative, come la "custodia attenuata" e il trattamento in comunità, il dottor Sandro Libianchi, del Coordinamento degli operatori Co.N.O.S.C.I, fa notare come "pur avendo l’Italia una strategia molto più strutturata di qualunque altro paese europeo, le 23 strutture presenti a livello nazionale che ospitano circa 400 persone in totale, stanno funzionando bene ma sono insufficienti per una popolazione di oltre 14.000 persone". Si tratta di istituti appartenenti a due categorie, quelle interamente dedicate alla cura delle tossicodipendenze e quelle che sono sezioni di strutture più grandi, come avviene nelle carceri di Ivrea e Como, dove vi sono sezioni specifiche per i detenuti tossicomani.

Il passaggio delle competenze alle regioni è lento e pochi enti territoriali si sono mossi finora. È questa la principale critica portata dagli operatori del settore alla riforma. Secondo Marco Cafiero di Fict, Federazione italiana delle Comunità terapeutiche, "bisogna rendere omogenei i criteri di scelta delle comunità da parte delle Asl e le tariffe.

Attualmente l’offerta del privato-sociale è limitata perché le comunità non prendono l’onere della custodia nei casi degli arresti domiciliari in quanto la tariffa è troppo bassa. Inoltre lo Stato continua a privilegiare le comunità con trattamenti più lunghi o quelle con le ex-convenzioni ministeriali, o comunque più restrittive, rispetto a quelle socio-riabilitative".

A conclusione dell’incontro, Giovanni Serpelloni, a capo del dipartimento delle Politiche Antidroga si è impegnato ad attivare un tavolo tecnico per "traghettare il passaggio dalla sanità penitenziaria alle Asl, con tre mandati: proporre integrazioni normative alla riforma, dare linee tecniche di indirizzo e contrastare la frammentazione e il rischio di avere standard diversi nelle diverse regioni attraverso il controllo dell’amministrazione centrale sui livelli essenziali di assistenza".

Giustizia: le carceri "terreno di scontro", per caccia al consenso

di Roberto Puglisi

 

www.livesicilia.it, 5 giugno 2009

 

Il carcere non è un argomento popolare. Solo quei matti dei Radicali se ne occupano con la coscienza civile di una denuncia perenne. Per il resto, la cella è uno dei tanti terreni di scontro della politica a caccia di consensi e non di soluzioni. Due diverse retoriche si contendono la tunica del "povero cristo" recluso oltre le sbarre. C’è la retorica forcaiola che anela torture, gogne, ceppi e sofferenze assortite, come se non avanzassero quelli che già ci sono. C’è la retorica buonista che spande lacrime, raccontando la favola di un mondo in cui ogni redenzione deve essere possibile e immaginando giardini fioriti al posto delle celle.

La prima sotterra la rieducazione. La seconda dimentica la colpa. E nessuno mette il dito sulla piaga concreta. Nessuno - né gli amici del boia, né i cantastorie - si prende la briga di affrontare la questione sul serio. Il risultato? Le carceri siciliane sono un abisso di soprusi e di violenze che spesso travalicano le misure di dignità e decenza stabilite dalle leggi e dalla Costituzione. Non lo diciamo noi. Lo dice l’ufficio del garante per i diritti dei detenuti che ha varato da tempo una specie di lista nera dei penitenziari.

Spiccano, nella speciale classifica, l’Ucciardone di Palermo, la galera di Piazza Lanza a Catania e l’orribile prigione di Favignana. Noi ricominciamo a martellare sulla questione carceraria, sfidando la leggerezza dell’estate. Martelleremo sull’illegalità delle carceri. Picchieremo a mani nude sulle sbarre, cominciando dalle condizioni del penitenziario di Marsala. Non siamo boia e non siamo buoni.

Pensiamo che "le prigioni" formino una questione che interpella tutti. Vorremmo che, per la galera, ci fosse lo stesso clima armonioso di concordia messo in campo per risolvere l’emergenza rifiuti a Napoli e a Palermo. Cos’altro è il carcere se non un cassonetto stracolmo di persone che gli altri considerano soltanto rifiuti umani?

Giustizia: sindacati di polizia penitenziaria; la protesta è riuscita

 

Ansa, 5 giugno 2009

 

"Un grande successo di partecipazione, con punte di astensione del 100% dalla consumazione dei pasti presso le mense di servizio di tutti gli istituti penitenziari del paese da parte del personale di Polizia Penitenziaria, è stato registrato nella giornata di protesta nazionale denominata Polpen Day".

Lo annunciano in una nota le sigle di categoria Sappe, Osapp, Uil Pa Penitenziari, Fp Cgil Pp e Uspp per l’Ugl. Oggi, a partire dalle ore 10, oltre 200 manifestanti hanno espresso il disagio lavorativo di tutti gli appartenenti del Corpo avanti alla sede centrale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a Roma.

Ne è seguito un incontro tra una delegazione dei sindacati e i vertici dal Dap, "apprezzabile nelle modalità e nei propositi manifestati - dicono le organizzazioni dei lavoratori - che però nulla aggiunge o toglie alla gravissima condizione che la Polizia Penitenziaria e tutto il sistema carcere stanno vivendo per il crescente e inarrestabile incremento della popolazione detenuta e per una complessiva disorganizzazione che l’emergenza attuale sta evidenziando in tutte le più deleterie conseguenze".

In attesa dell’incontro che hanno chiesto al ministro della Giustizia Alfano, i sindacati confermano lo stato di agitazione nazionale, annunciando che la prossima manifestazione nazionale si terrà il 17 giugno in concomitanza con la celebrazione della festa nazionale del Corpo all’Arco di Costantino a Roma.

Giustizia: Palma; solidarietà a protesta della Polizia Penitenziaria

 

Comunicato stampa, 5 giugno 2009

 

Esprimo solidarietà e sostegno alle donne ed agli uomini della Polizia penitenziaria che oggi, per protesta si asterranno dal consumare il pasto in tutti gli istituti penitenziari della Repubblica.

La protesta, organizzata dalla totalità delle Organizzazioni sindacali rappresentative del Comparto Sicurezza, è l’ulteriore ed ennesimo atto di denuncia per come, nel silenzio assordante del Ministro Alfano e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ionta, il sistema penitenziario sia ormai entrato in una pericolosa spirale di ingestibilità.

In questi giorni, in cui le presenze in carcere hanno superato quota 63mila, non ci sono spazi materiali dove allocare i detenuti; aumentano le aggressioni al personale e iniziano le prime forme di protesta dei detenuti, e guardando al di là del fumoso "piano carceri ciò che preoccupa fortemente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria è l’assenza di concrete prospettive per l’immediato.

Oltre alle pesanti e penalizzanti condizioni di lavoro rese in ambienti sempre meno dignitosi e sempre più insalubri ed insicuri, il personale è addirittura costretto a subire il rifiuto delle ferie e dei riposi settimanali. Aumentano i carichi di lavoro e le responsabilità, diminuisce la sicurezza delle strutture.

Non si può chiedere al personale penitenziario di farsi carico, da solo, della gravissima situazione nella quale sono stati ricacciate le carceri italiane: non si può chiedere ai poliziotti penitenziari di garantire turni di lavoro inaccettabili, prolungati e gravosi, di assicurare lavoro straordinario finanche oltre la misura consentita, peraltro il più delle volte senza retribuzione. Non si può obbligare il personale a coprire da solo questo drammatico vuoto lasciato dal Governo e dal Ministro.

Non voglio nemmeno lontanamente immaginare cosa potrebbe succedere nelle nostre carceri se entro l’estate non arriva un qualche segnale di distensione. Urgono interventi immediati, un piano di investimenti ed un progetto di decarcerizzazione per quelle fattispecie di reato di minor allarme sociale, serve un progetto credibile di riorganizzazione delle strutture e di migliore distribuzione delle risorse, umane e professionali. Altrimenti siamo tutti autorizzati a pensare che qualcuno, forse, sta lavorando proprio perché il sistema esploda e per poter poi, in tutta "tranquillità", proporre rinnovate e rinforzate politiche repressive.

 

Mauro Palma

Candidato indipendente alle Elezioni Europee

nelle liste di Sinistra e Libertà

Giustizia: Cassazione; vietato licenziare un lavoratore arrestato

 

Ansa, 5 giugno 2009

 

È vietato licenziare un lavoratore arrestato. Il dipendente ha diritto a conservare il posto durante il "soggiorno" in cella. Il monito viene dalla Cassazione che specifica però che in questo caso l’impiegato non avrà diritto allo stipendio. Tuttavia, con la Sentenza 12721, i giudici della sezione lavoro spezzano una lancia anche in favore delle imprese spiegando che se il datore di lavoro dimostra di essere stato costretto ad assumere un’altra persona per sostituire il detenuto, allora il licenziamento è giustificato.

Ma l’azienda deve dimostrare anche che non aveva alcuna possibilità di ricorrere ad una sostituzione interna temporanea. La Corte specifica che se l’arresto del lavoratore non "causa un danno eccessivo" all’azienda e all’organizzazione del lavoro, non è possibile procedere al licenziamento. In caso contrario, e a condizione che venga fornita la prova, il lavoratore finito in cella non può evitare la rescissione del rapporto di lavoro. La sentenza tuttavia si applica soltanto ai casi in cui il dipendente viene arrestato per reati che non riguardano la propria attività lavorativa. Resta infatti sempre possibile, per il datore di lavoro, licenziare il lavoratore che commettendo reati "in servizio" abbia tradito il rapporto fiduciario.

Il caso di cui si è occupata la Corte riguarda un impiegato della General Construction Spa, una società appaltatrice della Regione Campania per il trattamento delle acque e dei rifiuti. Il lavoratore arrestato dopo un mese di assenza forzata dal lavoro era stato licenziato nel febbraio 2002. Impugnato il licenziamento, il dipendente si è visto respingere il ricorso in primo grado mentre la Corte d’appello di Napoli nel 2005 gli ha dato ragione reintegrandolo al suo posto. Contro questo "ribaltamento di fronte" l’azienda è ricorsa alla Cassazione che ha però confermato la sentenza di secondo grado. Visto che non è stato necessario assumere qualcun altro al posto del detenuto, ribadisce in sostanza la Cassazione, la General Construction avrebbe dovuto conservargli il posto. Insomma, finire in carcere è un po’ come mettersi in aspettativa: un’aspettativa di libertà.

Giustizia: il ddl per la riforma del processo penale è "deludente"

di Ennio Fortuna

 

Italia Oggi, 5 giugno 2009

 

Alfano aveva ripetutamente annunciato la sua intenzione di promuovere la semplificazione, puntando a ridurre il vero tarlo del nostro processo penale, la micidiale durata delle procedure. A leggere però oggi il suo disegno di legge che comincia il suo iter al Senato non si può non rimanere assai delusi.

Tutte le promesse rimangono tali, e la logica ci dice che la riforma, se passerà nell’attuale testo, produrrà nuovi, assurdi ritardi e ulteriori complicazioni. In sostanza le linee direttrici della riforma sono soprattutto due: la riduzione delle prerogative del pm e l’aumento esponenziale di quelle della difesa. Chi ne fa le spese è la giustizia nel suo complesso, ancora una volta condannata alle attese, ai formalismi.

La principale novità del testo consiste certamente nell’obbligo del pm di attendere l’iniziativa della polizia giudiziaria: il pm non potrà più indagare, dovrà aspettare la segnalazione della polizia giudiziaria che, come tutti sanno, dipende gerarchicamente dal governo tramite i questori e gli ufficiali generali, e che potrà quindi controllare, filtrare e orientare le notizie di reato. Ma l’ostacolo potrebbe essere aggirabile con l’eventuale invito alla polizia giudiziaria di indagare e di riferire prontamente circa il fatto di cui il magistrato sia venuto a conoscenza a seguito di un esposto privato o magari attraverso la semplice lettura dei giornali o addirittura per effetto della voce pubblica.

Un’altra sconcertante novità consiste nell’eliminazione del tradizionale potere del giudice di eliminare o di ridurre le liste di testimoni presentate dalle parti. In tal modo è evidente che un processo con un imputato di grande peso sociale o economico, ovviamente se difeso da un legale esperto, non finirebbe mai: non ci sarebbero limiti possibili alla facoltà di citare e di pretendere l’escussione di testimoni, essenziali o no. Ancora: il progetto rivaluta inaspettatamente la competenza della Corte d’assise cui sarebbero attribuiti anche i reati di droga, di mafia, di terrorismo e di sequestro estorsivo (e altri ancora).

Chi ha qualche esperienza di vita giudiziaria sa bene che un processo in Assise è per definizione più complesso, più formalistico e burocratico di uno di tribunale, e che quindi dura assai di più. Per contro è stata riconosciuta al difensore la prerogativa di fare il maggiore ricorso possibile alle investigazioni difensive. Certamente non si potrà sostenere che la riforma va verso la semplificazione e verso la riduzione dei tempi delle procedure.

Giustizia: i vigili urbani rifiutano le armi e fanno ricorso al Tar

di Stefano Manzelli

 

Italia Oggi, 5 giugno 2009

 

La polizia municipale contesta la nuova disciplina sull’assegnazione dell’armamento ai vigili romani e chiede al Tar di valutare anche l’illegittimità costituzionale della legge n. 6571986 ritenuta poco coerente con le attuali funzioni dell’agente locale.

Lo ha evidenziato l’organizzazione sindacale Ospol delle polizie locali con il ricorso depositato il 2 maggio scorso al Tar del Lazio. La questione dell’armamento dei vigili della capitale è emblematica di una condizione normativa che risente delle mutate condizioni sociali e delle diverse richieste di sicurezza che pervengono dal territorio.

In pratica sono passati oltre 24 anni da quando con la legge n. 65/1986 si è disposto che la dotazione dell’armamento della polizia municipale è di fatto rimessa alla scelte dei singoli comuni. Ma anche se il consiglio comunale adotta questa determinazione come nel caso romano, evidenzia l’Ospol, con il regolamento approvato è sempre facoltà dei singoli munirsi di pistola e spray oppure girare disarmati come nella più classica delle icone cinematografiche. In buona sostanza, prosegue il sindacato, per la dotazione della pistola ai vigili romani allo stato attuale serve anche il consenso dell’interessato che in ogni caso può decidere di lasciare la pistola nel cassetto.

La determinazione adottata dalla giunta Alemanno, prosegua il ricorso, nel tentativo di forzare questa pur criticabile disposizione introduce una "seppure indiretta obbligatorietà", nel senso che l’operatore obiettore deve rinunciare tempestivamente in maniera espressa alla dotazione dell’armamento. Ci sono poi ulteriori censure evidenziate dal sindacato romano.

La dotazione di spray e manganelli ai vigili urbani risulta essere una prerogativa regionale insuperabile, mentre la visita medica degli agenti andrebbe effettuata con cadenza annuale e non ogni quattro anni. Inoltre l’aver generalizzato l’uso dell’armamento per tutti i servizi di polizia stradale e locale a parere dell’Ospol prevarica il dettato normativo che attualmente richiede una precisa individuazione locale dei servizi da svolgere armati. Spetterà al collegio, conclude il ricorso, valutare anche la legittimità costituzionale dell’ormai obsoleto impianto normativo che, tra l’altro, pare assegnare l’arma ai vigili solo per motivi di esclusiva difesa personale.

Lazio: convocato per il 15 giugno Forum diritto salute detenuti

 

Adnkronos, 5 giugno 2009

 

Valutare la situazione attuale della riforma che ha trasferito le funzioni della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alle Aziende Sanitarie Locali e le modalità organizzative intraprese per garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria alla popolazione detenuta. Su questi temi verterà la riunione del Forum regionale per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute della Regione Lazio, convocato per il prossimo 15 giugno alle 16, in Via di San Basilio, presso la sede regionale della Fp-Cgil.

L’applicazione della Legge 230/99, si spiega, ha "sicuramente messo in luce le gravi e storiche carenze della sanità penitenziaria praticata fino ad oggi, caratterizzata da macchinari obsoleti, e da prestazioni tanto spesso non adeguate". Tutto questo, si sottolinea, in un "quadro generale preoccupante per i detenuti delle carceri italiane, con il sovraffollamento degli istituti di pena e una serie di politiche governative e di atteggiamenti dell’opinione pubblica che cercano sostegno nell’infondata tesi che la sicurezza dei cittadini è un obiettivo raggiungibile solo attraverso misure restrittive, dure e punitive verso chi è recluso".

Verona: superati 900 detenuti, la situazione del carcere è critica

 

L’Arena, 5 giugno 2009

 

Lo scrivono subito: "Non chiediamo alcun regalo o privilegio e tantomeno la libertà". La richiesta ha ben altro tenore: "Vogliamo solo l’applicazione della legge Gozzini".

Sono i detenuti della casa circondariale di Verona che hanno spedito una lettera al nostro giornale nella quale segnalano le magagne che attanagliano il carcere di Montorio da tempo. E annunciano l’adesione alla mobilitazione delle carceri, promossa da Radio radicale. Di più: dal 26 maggio hanno iniziato una protesta pacifica.

"Battiamo alcuni oggetti metallici contro le sbarre per alcuni minuti alle 8.45, 12.45 e 17.45", scrivono nella lettera. Un’altra protesta con lo sciopero della fame era stata indetta dal 27 febbraio al 3 marzo scorso ma, scrivono i detenuti, "non abbiamo ottenuto alcun riscontro positivo". E così hanno ricominciato da otto giorni. Vita dura nel carcere di Verona.

"Abbiamo sfondato quota 900", rivela l’ispettore degli agenti di polizia penitenziaria e sindacalista Cgil, Carlo Taurino, "e presto, se non si corre ai ripari, arriveremo a quota 1.000". Nel frattempo, la vita nelle celle del carcere di Montorio è tutt’altro che allegra. "Viviamo in spazi molto piccoli", scrivono i detenuti, "con celle di dodici metri per due".

In quegli spazi, "mancano doccia e acqua calda". I carcerati poi segnalano la carenza di "personale medico, educatori e assistenti sociali, indispensabili per i programmi di recupero e reinserimento". Anche i contatti con i parenti e amici si fanno sempre difficili: "Causa il sovraffollamento", riporta ancora la lettera dei detenuti, "anche i colloqui sono più difficoltosi e talvolta ridotti rispetto ai tempi previsti dalla legge".

Chi va a fare visite in carcere si trova spesso costretto "a fare lunghe attese sotto le intemperie perché non esiste una pensilina di protezione". Aumenta anche il costo della vita nelle celle: "Ci sono prezzi gonfiati nella lista spese di sopravitto", scrivono i detenuti. C’è poi "una scarsissima opportunità di esercitare degli sport: possiamo frequentare campo da calcio e palestra per sole due ore una volta al mese", è la denuncia dei carcerati nella loro lettera. Ci sarebbe anche la biblioteca ma anche l’accesso in quella stanza è "limitata solo a mezz’ora alla settimana ed è priva da mesi di fotocopiatrice, indispensabile per la riproduzione dei moduli per le nostre istanze", precisano i detenuti di Montorio. La legge prevede, conclude la lettera, "che i detenuti possano beneficiare di misure alternative al carcere quando esistono le condizioni". Ma a Verona "tutto questo non avviene".

Verona: tentati suicidi, risse e ferimenti, il "primato" regionale

di Chiara Bazzanella

 

DNews, 5 giugno 2009

 

I dati dell’Osservatorio regionale devianze, carcere e marginalità sociali evidenziano una realtà al limite, con il numero dei reclusi, di gran lunga superiore al consentito, che non aiuta la gestione. Che nel penitenziario di Verona sia rinchiusa la maggior parte degli stranieri presenti nei luoghi di pena veneti è ormai noto.

Quello che invece forse si sa meno è che, secondo dati diffusi recentemente dall’Osservatorio, alla Casa Circondariale di Verona spetta il primato anche per il numero totale di eventi critici che riguardano la popolazione detenuta: tentati suicidi e autolesionismi. I dati, che restituiscono una fotografia delle carceri venete rispetto al secondo semestre del 2008, registrano un totale di 804 detenuti maschi e 63 donne a Verona, di cui 618 di nazionalità diversa da quella italiana.

Di questi, 42 stranieri e 11 italiani sono stati i protagonisti di eventi definiti appunto "critici". Se è vero che il carcere di Verona è il più capiente e di tutto il Veneto e, di conseguenza, non può che registrare dati più alti rispetto ad altre realtà, alcune cifre invitano a riflettere. Suscitano un particolare interesse i dati relativi ai soggetti protagonisti di ferimenti (ad esempio in casi di risse), di cui la maggior parte - pari a 132 su 211 - era rinchiusa a Verona, e solo 26 e 22 nelle rispettive Case Circondariali di Padova e Treviso.

 

In sei mesi 49 casi di autolesioni

 

Che la situazione nel carcere di Montorio non sia delle più idilliache, lo dimostrano anche i dati diffusi dall’Osservatorio regionale sulle devianze e sul carcere. Un dato su tutti: I numeri di detenuti che hanno posto in essere ferimenti nell’ultimo semestre del 2008 sono stati 132 a Montorio sui 211, quasi i due terzi di quelli verificatisi in tutti gli istituti della Regione.

"Occorre tenere presente", commenta l’ispettore Carlo Taurino, sindacalista della Cgil "che Verona è il carcere più grande del Veneto con più detenuti, in attesa di giudizio". Le noti dolenti arrivano anche dal numero di autolesionismi: a Verona sono stati 49 negli ultimi sei mesi contro i 34 di Padova i 17 di Venezia e i 14 di Belluno. Anche con i numeri di tentati suicidi, il carcere di Montorio primeggia: sono stati quattro negli ultimi sei mesi su un totale di nove in tutta la Regione. Nel nostro carcere, infine, sono stati 37 i detenuti che negli ultimi sei mesi hanno fatto lo sciopero della fame contro i 54 di Padova.

Taranto: è allarme per i troppi detenuti con problemi psichiatrici

 

Comunicato stampa, 5 giugno 2009

 

Il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - maggior sindacato di categoria, nonostante da diverso tempo sta denunciando la grave situazione di fatiscenza del penitenziario tarantino a cui si deve aggiungere il grave sovraffollamento dei detenuti che ormai ha superato le 500 (a fronte di 200 posti disponibili), ed a cui si contrappone una carenza di Poliziotti penitenziari di almeno 100 unità.

Tanto lavoro in più con molti Poliziotti in meno questa è la tragica situazione che si sta vivendo all’interno del penitenziario Tarantino, ove sono stati tagliati lavoro straordinario, riposi e ferie. Il Sappe deve segnalare poi che la situazione sta diventando ancora più incandescente a causa della folta presenza di detenuti affetti da gravi patologie psichiatriche, circa una ventina, nonostante manchino i presidi necessari per controllare tali patologie.

Non si contano più episodi di autolesionismo, tentativi di suicidio, minacce al personale, e per ultimo anche una tentativo di fuga peraltro sventato con professionalità ed efficienza dai poliziotti penitenziari.

Ancora una volta il Sappe denuncia la carenza nell’assistenza di questi malati che ricade soprattutto sulla Polizia Penitenziaria che è costretta a sopperire a tali mancanza, senza presidi e senza alcuna competenza. Infatti nonostante presso il carcere di Taranto, che si deve specificare non è un ospedale psichiatrico, siano presenti tanti detenuti affetti da patologie psichiatriche, la presenza delle specialista non supera le 3, 4 ore al giorno lasciando scoperto l’intero arco della giornata a cui si fa fronte con l’intervento di qualche infermiere o medico di guardia.

Il Sappe ritiene che non sia possibile accettare che il carcere diventi la discarica non solo dei delinquenti, ma anche di tantissimi malati affetti sia da problemi psichiatrici che da malattie importanti quali Hiv, Epatite, etc., senza che l’assistenza sanitaria sia adeguata alle necessità, né tanto meno che la Polizia Penitenziaria debba surrogare a tali compiti.

Proprio per questo, diciamo basta a questa inerzia della Politica che si è completamente disinteressata alle problematiche carcerarie (nascondendole sotto lo zerbino) poiché deve essere pubblicizzata l’efficienza dello Stato che difende i cittadini offrendo più sicurezza.

Il Sappe ritiene che tali comportamenti tra non molto verranno al pettine con risvolti assai dannosi sia per i lavoratori Penitenziari che per l’intera collettività, poiché l’immondizia verrà fuori e travolgerà chi si è occupato del Carcere nel 2006, solo per promulgare un indulto che avrebbe ripulito condannati eccellenti, senza nessun provvedimento per la soluzione della questione.

Il Sappe, qualora la situazione persista, praticherà lo sciopero bianco, nel pieno rispetto della legalità e con le modalità consentite dalla legge, che prevede la rigida applicazione dei regolamenti che provocherà probabili grossi disagi per i detenuti, per i familiari, per avvocati e magistrati dei quali ci scusiamo fin d’ora. Infatti tutta una serie di attività vengono svolte in violazione alle disposizioni vigenti, quali colloqui tra detenuti e familiari, immissione dei detenuti ai passeggi per l’ora d’aria, traduzioni sotto scorta per accompagnare detenuti presso i tribunali o luoghi di cura potrebbero saltare, poiché si applicheranno le procedure alla lettera.

 

Il Segretario Provinciale

Vito Ferrara

Firenze: l'Opg di Montelupo è molto giudiziario e poco ospedale

 

www.sabatoseraonline.it, 5 giugno 2009

 

Ospedale di nome ma, non del tutto almeno, nei fatti. Non sembra poter trovare soluzioni adeguate l’odissea dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Un’odissea cominciata ad inizio 2008 con le prime denuncie per pestaggi e maltrattamenti a carico del personale di custodia. E proseguita il 5 marzo scorso quando un sopralluogo dell’Asl 11 di Empoli trovò una situazione igienico sanitaria del tutto carente: sporcizia, sovraffollamento delle stanze, promiscuità inaccettabili nell’uso dei servizi igienici.

Ai sopralluoghi si sono aggiunte le ordinanze del Comune di Montelupo, i ricorsi al Tar, le sospensive, la richiesta di chiusura da parte del garante dei detenuti di Firenze.

Tutte misure amministrative che negli ultimi mesi si sono succedute ma che hanno lasciato intatti i "traboccanti" numeri dell’Ospedale psichiatrico giudiziario: a dicembre gli internati erano 186, ad aprile avevano toccato il picco di 196, oggi sono 184, e questo nonostante lo sfollamento di una decina (trasferiti ad altri Opg) e la chiusura di alcune celle della sezione Torre, le più fatiscenti di tutta la struttura.

"Siamo stati informati dal Provveditore Regionale - spiega il sindaco Rossana Mori - del trasferimento di 10 detenuti ad altri Opg, ma a noi non è dato sapere con quale criterio è stata operata la scelta dei soggetti. Avevamo anche richiesto che fossero messe in atto operazioni che garantissero le basilari norme igieniche dei locali: attendiamo l’esito del sopralluogo che sarà effettuato dal tecnico della Asl".

Una situazione che ha richiamato a Montelupo per la terza ispezione in meno di sette mesi la senatrice Donatella Poretti, da tempo impegnata sulle vicissitudini della struttura sanitaria. E il quadro che dipinge la parlamentare radicale è a tinte fosche.

"Celle da tre ospitano almeno sei detenuti, che diventano due in quelle costruite per essere singole. Inoltre 102 persone sono in una sorta di limbo: fuori, ma devono rispettare regole ferree come nelle misure alternative, per cui basta poco per rientrare dentro. Nonostante l’impegno del personale penitenziario e sanitario di questo Opg, è necessario rivedere alla radice l’impostazione dell’istituzione stessa. Dovrebbe prevalere la funzione della cura, ma il regolamento penitenziario lo rende impossibile".

L’evidente contraddizione di queste settimane è che quando l’Asl ha chiesto di non inviare più detenuti, e non superare la cifra di 169 (considerato come sovraffollamento accettabile, mentre la capienza della struttura è di 110) oltre la quale non può essere garantito un livello minimo di assistenza sanitaria, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha continuato a farlo, e quotidiani sono i nuovi ingressi.

Le misure antidegrado e affollamento chieste dall’ordinanza del Comune di Montelupo fiorentino sono state in parte avviate, ma basta dare un’occhiata agli organici in servizio per capire che la soluzione ottimale non è vicina. "L’assistenza sanitaria - prosegue Poretti - è garantita per ciascun reparto dalle 9 alle 18 con 1 o 2 psichiatri, 1 o 2 infermieri, un medico generico; il sabato pomeriggio e la domenica non ci sono psichiatri. Durante la notte, per tutta la struttura, c’è solo un medico di guardia e un infermiere.

Sul versante sicurezza invece gli agenti in forza effettiva (inclusi il nucleo traduzioni, piantonamento e amministrativi) sono 89, di giorno 1 o 2 per reparto e 40 per altre funzioni, oltre a 14-16 per l’amministrazione. Di notte (dalle 24 alle 8 di mattina) 6 agenti per tutta la struttura (uno per reparto, uno in portineria e uno mobile). Polizia penitenziaria che non solo non ha mai avuto alcuno tipo di preparazione per quel tipo di detenuti, ma non ha nessun supporto psicologico".

La proposta di Poretti è nota da tempo: scorporare gli Opg di qualunque valenza penitenziaria facendone in toto delle strutture curative. "L’Opg di Montelupo fiorentino andrebbe chiuso, riorganizzando un servizio solo territoriale e di cura per persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria e non di sorveglianza da parte degli agenti penitenziari".

Nel frattempo c’è stato chi, come Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, ha chiesto la chiusura definitiva della struttura: "Nelle condizioni attuali gli Opg ricordano i vecchi manicomi e devono essere assolutamente chiusi. Non solo gli Opg non si stanno superando, ma gli internati aumentano. In Italia i detenuti di questi istituti sono passati in meno di un anno da 1.200 a 1.600".

Torino: nell’aula-bunker 40 "celle di sicurezza", per gli arrestati

di Lorenza Pleuteri

 

La Repubblica, 5 giugno 2009

 

Quaranta posti. La gestione affidata a personale della questura e ai carabinieri, con il supporto della polizia penitenziaria. Spesa iniziale prevista, 150-200 mila euro. Inaugurazione, salvo dietrofront, subito dopo le vacanze. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi, pensa in positivo, nonostante i rumori di fondo di segno opposto e le resistenze messe in preventivo. Al progetto di creare un polo di celle di sicurezza, per risolvere il problema degli arrestati portati a palazzo di giustizia dopo una tappa forzata in carcere, lui ci crede.

Rivendica la paternità della proposta - "è partita dalla direzione dell’istituto Lorusso e Cutugno e da noi" - e anticipa qualche dettaglio, sul come e sul quando. Nell’edificio prescelto - una ex aula bunker alle spalle delle Vallette - "verranno realizzate quaranta celle di sicurezza, numero più che sufficiente a coprire le esigenze quotidiane".

La struttura, "verrà ristrutturata a spese del Comune e soldi, ci è stato assicurato, ci sono. Si tratta di 150-200 mila euro". Quanto al "crono programma", "si dovrebbe riuscire ad avviare tutto entro due o tre mesi al massimo, diciamo per settembre". E la gestione dovrebbe ricadere su chi fa la maggior parte degli arresti, cioè polizia e carabinieri. Il messaggio di Fabozzi è chiaro: "La polizia penitenziaria ha altri compiti istituzionali. Fornirà supporto, se necessario".

"Quando sono arrivato a Torino - ricostruisce il provveditore - c’era già questa situazione: l’accompagnamento in carcere di chi poteva essere portato in tempi brevi in tribunale. L’indulto ha alleggerito la popolazione carceraria. Ma gli istituti hanno cominciato a riempirsi di nuovo, abbiamo raggiunto livelli pesanti di sovraffollamento e carichi di lavoro extra che richiedono risorse, personale, sacrifici. Si è posto il problema di come togliere un po’ di pressione sul carcere, riflettendo su tutte le cause, sulle soluzioni possibili. È venuto fuori il problema dei detenuti destinati alle direttissime, appoggiati alle Vallette per due o tre giorni. L’abbiamo rappresentato al Dipartimento.

Il direttore Franco Ionta l’ha detto più volte e in più sedi, in convegni e in quelle note propositive mandate per conoscenza al capo di gabinetto del ministero e al sindacato: la ratio delle norme è quella di evitare il contatto con l’ambiente penitenziario dei soggetti arrestati in flagranza di reato, con l’accompagnamento in tempi ristrettissimi davanti al giudice, il quale solo è titolare del potere di disporre la permanenza in vinculis.

Sull’obbiettivo comune ancora parole di Fabozzi - devo dire che ho trovato la massima disponibilità di tutte le amministrazioni interessate. C’è un buon livello di dialogo tra i dirigenti delle istituzioni coinvolte. Credo che non si tirerà indietro nessuno". Nelle carceri piemontesi, per rendere di carichi di lavoro ed effetti collaterali, la popolazione detenuta (dato aggiornato a maggio) è arrivata a quota 4.806, a fronte di una capienza regolamentare di 3.355 posti e una capienza "tollerabile" di 5.278. Il personale è sotto organico del 30 per cento.

Modena: Cgil e Uil; i problemi di sicurezza del carcere sono irrisolti 

 

Modena 2000, 5 giugno 2009

 

"Come si temeva la risoluzione dei problemi del carcere "Sant’Anna è solo stata un "butade" elettoralistica". Lo affermano Luciano Ianigro e Raffaele Mininno rappresentanti sindacali della Fp-Cgil e Uil della Polizia Penitenziaria i quali hanno appreso da fonti ufficiali del Ministero di Giustizia che solo 50 detenuti saranno assegnati ad altri Istituti e non saranno invece trasferiti i 150 come era stato annunciato dall’Onorevole Bertolini.

Il dato certo è che a Modena continueranno a soggiornare oltre 500 detenuti in condizioni igienico-sanitarie precarie, in un carcere che ne può ospitare al massimo 220. "Ma non basta - affermano i sindacalisti - con queste prospettive è legittimo chiedersi se corrisponderà al vero l’eventuale arrivo di altri agenti la cui presenza presso il carcere di Modena dovrebbe essere assicurata solo dal mese di ottobre e solo per un eventuale contingente di 20 unità".

Nel frattempo i circa 190 agenti presenti presso il carcere "S. Anna" e suddivisi in tre turni da 8 ore dovranno vigilare su una popolazione detenuta che vive in condizioni disumane e pertanto saranno costretti a continuare ad effettuare circa 5.000 ore mensili di lavoro straordinario, peraltro retribuite solo parzialmente.

Va precisato, inoltre, che non tutto il lavoro consiste nella vigilanza ai detenuti. I lavoratori della polizia penitenziaria svolgono infatti servizi amministrativi - per assenza di impiegati - inoltre sono impegnati per un considerevole numero di trasferimenti di detenuti che impone prestazioni straordinarie di circa 80 ore mensili. "La campagna elettorale ha offerto un buona opportunità, per qualcuno, per giocare ancora sulla pelle dei lavoratori della polizia penitenziaria ma peggio ancora sulla sicurezza della città di Modena" continuano i sindacalisti.

Infatti è sempre stato taciuto il fatto che a breve sarà realizzato un ampliamento della Casa Circondariale "S. Anna" in previsione dell’arrivo di ulteriori 150 detenuti e quindi probabilmente i presumibili ulteriori agenti (20 + 20?) non serviranno per compensare le gravi carenze di organico, ma bensì per una parziale copertura delle nuove esigenze che si determineranno.

Per questi motivi, i politici che si sono susseguiti nelle loro visite al carcere di Modena, che hanno vantato una nuova politica di garanzia della sicurezza, devono prendere atto che le promesse questa volta hanno dovuto fare i conti, ed in tempi ristretti, con i fatti. "Continuiamo - affermano i sindacalisti - a dover purtroppo ancora una volta prendere atto che si sta sottovalutando il problema della sicurezza presso il carcere di Modena che non esclude riflessi sulla sicurezza per la città".

Alle promesse elettorali fatte nei giorni scorsi, oggi la risposta certa consiste nella permanenza definitiva di una popolazione detenuta oltre ogni limite di sopportazione, alla cui vigilanza sono preposti pochi lavoratori che non accettano di vivere in una condizione peggiore di quelli che devono vigilare.

Nei prossimi giorni i sindacati di categoria Fp-Cgil e Polpen-Uil continueranno con le iniziative di sensibilizzazione sulle problematiche dell’istituto "S. Anna", ma anche per assicurare uno standard di sicurezza decente per la città di Modena.

Pisa: l'impianto idrico è rotto e mancano i soldi per le riparazioni

 

Il Tirreno, 5 giugno 2009

 

"Sovraffollamento del carcere da un lato e sottodimensionamento degli organici di personale dall’altro, sono un problema storico degli istituti di pena nel nostro paese".

È questa la prima sensazione comunicata dal deputato Ermete Realacci all’uscita del carcere Don Bosco, dove si è recato in visita insieme all’assessore al sociale del Comune di Pisa Maria Paola Ciccone.

"Anche a Pisa - ha aggiunto Realacci - la situazione è in linea con questa negativa tradizione, e deve consolare solo parzialmente il fatto che grazie a molta buona volontà da parte degli operatori, a una buona gestione e a una rete di relazioni positive con le istituzioni locali e con il volontariato, magari si riescano a tamponare i maggiori problemi".

Venendo ai problemi particolari del Don Bosco, Realacci ha riferito di aver riscontrato nella sezione penale "quelli derivanti dall’impianto idrico rotto che determina una carenza di acqua che con l’arrivo della stagione calda peggiora notevolmente la qualità di vita". La riparazione è stimata intorno ai 15mila euro "ma la cifra non è nella disponibilità del carcere: vedremo cosa sarà possibile fare con il ministero per reperire questi fondi".

"In generale però - ha aggiunto - deve essere data grande attenzione alla qualità del servizio di medicina penitenziaria come nel caso del carcere Don Bosco e anche di garantire le adeguate strutture per una istituzione di nuova concezione come il Garante dei detenuti.

Ci deve essere anche la necessità di garantire il corretto funzionamento di tutta l’istituzione insieme alla necessità di rilanciare il progetto di legge che garantisce l’accesso agli istituti di pena non solo ai parlamentari e ai consiglieri regionali, ma anche ai sindaci e ai presidenti di Provincia che possono avere competenze dirette sull’organizzare delle politiche concrete sul territorio".

Alghero: in carcere tre classi di detenuti per la "scuola di cucina"

 

La Nuova Sardegna, 5 giugno 2009

 

Prosegue con immutato impegno ed entusiasmo l’attività dei corsi professionali all’interno della casa di pena di San Giovanni che grazie all’area educativa è riuscita nel tempo a rappresentare un riferimento assoluto nel comparto carcerario isolano.

Per ragioni diverse, soprattutto per problemi legati alla risorse umane da impiegare, nel tempo alcune iniziative si sono esaurite. Ma quest’anno sono state 3 le classi dell’Alberghiero attive all’interno del penitenziario: una prima, una seconda e una terza.

Nei giorni scorsi i detenuti della classe terza sono stati impegnati nella prova pratica dell’esame di qualifica per il conseguimento del titolo di commis di cucina. Otto studenti, guidati dalla docente Sabina Argiolas, con la collaborazione di assistenti tecnici, hanno indossato la divisa di chef per dare prova delle proprie capacità acquisite durante il corso e si sono sottoposti a una commissione esaminatrice che ha proceduto a espletare tutte le fasi della degustazione.

Oltre ai docenti dell’Ipsar e al commissario esterno, hanno partecipato alla prova d’esame il direttore Francesco Gigante, il commissario, gli educatori e gli agenti della polizia penitenziaria preposti alle attività trattamentali. I detenuti chef, segnala la coordinatrice del corso Giovanna Scala, con professionalità ma anche con emozione hanno presentato i piatti e fra qualche giorno si conosceranno gli esiti finali e il giudizio della commissione.

La realizzazione di un percorso di ordine professionale per i detenuti costituisce una iniziativa di straordinario valore in quanto fornisce a quanti stanno scontando la pena, e vogliono reinserirsi nella società una volta pagato il debito con la Giustizia, opportunità certe proprio grazie all’ottenimento di un titolo che apre le porte del mondo del lavoro.

Soprattutto attraverso i corsi dell’Alberghiero, nel carcere di San Giovanni, negli ultimi anni decine e decine di detenuti sono stati inseriti in un percorso riabilitativo e di professionalizzazione che ha portato risultati di estrema rilevanza, umana e sociale. Le difficoltà degli ultimi tempi, anche per lo svolgimento dei corsi, stanno nascendo per i problemi degli organici della polizia penitenziaria: diminuiscono gli agenti e aumentano i detenuti.

Una situazione che appare destinata a produrre conseguenze negative e non soltanto per la gestione tradizionale del carcere, ma anche per quanto attiene le iniziative di recupero e reinserimento legate ai corsi. Il reinserimento sociale dei detenuti, si è sempre detto, è un obiettivo primario della riforma carceraria. Ma soltanto a parole.

Monza: due detenuti-falegnami, in udienza da Benedetto XVI

di Paolo Rossetti

 

www.ilcittadinomb.it, 5 giugno 2009

 

Detenuti monzesi in udienza privata dal Papa per donargli una "tenda della parola" realizzata nella falegnameria della Casa Circondariale di via Sanquirico. L’incontro è previsto per mercoledì prossimo, in mattinata: dopo l’udienza generale in sala Nervi Benedetto XVI, infatti, riceverà due "ospiti" del carcere monzese e un loro collega che ha lasciato le celle del penitenziario dopo aver scontato la sua pena e si è reinserito nella società.

Al Santo Padre regaleranno, una "tenda della parola", un porta Bibbia di quelli che da circa due anni i reclusi della struttura brianzola realizzano nella falegnameria interna alle mura di via Sanquirico. Per Papa Ratzinger ne hanno realizzato uno speciale, in rovere bianco, con impressi la stella di Davide e lo stemma del Pontefice.

Il modello, comunque, rimane simile a quelli prodotti per la casa editrice San Paolo che ha commissionato proprio al laboratorio gestito dalla Cooperativa Sociale 2000 le "tende" vendute nelle librerie del gruppo editoriale. In tutto dalla Casa Circondariale ne sono uscite un paio di migliaia. Grazie proprio alla San Paolo e all’ideatore della "tenda della parola" don Marco Valentini, del porta Bibbia usato nelle chiese come nelle case si era parlato nel sinodo dei vescovi a dicembre. E da qui era nata l’idea di far conoscere anche al Papa il lavoro dei reclusi, donandogli un modello prodotto in carcere.

All’udienza parteciperanno il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, il direttore del carcere di Monza Massimo Parisi, ma anche il sindaco Marco Mariani e altri rappresentanti del Comune, oltre a quelli della Coop Sociale 2000 con il presidente Virginio Brivio. La falegnameria del carcere collabora con il servizio prevenzione e reinserimento del Comune. Le persone che lavorano nel laboratorio imparano un lavoro che poi potranno proseguire una volta usciti di cella.

Attualmente nella falegnameria operano quattro persone. Negli anni i lavoratori-detenuti hanno prodotto gli arredi per le case d’accoglienza dell’housing di Exit, ma anche una ventina di cucine per una cooperativa edilizia monzese che ha appena terminato la costruzione di appartamenti in città. Infine hanno realizzato panchine, tavoli e cestini per il Parco di Monza utilizzando il legno delle piante cadute nel polmone verde monzese.

Cagliari: torneo tra calciatori professionisti e selezione detenuti

di Mario Frongia

 

La Nuova Sardegna, 5 giugno 2009

 

Per il quarto anno di fila le porte di Buoncammino si sono spalancate per lasciare passare un gruppo di giocatori del Cagliari. Nel cortile del carcere, trasformato in stadio, si è disputato un quadrangolare di calcetto che ha visto darsi battaglia una selezione di detenuti, una di operatori carcerari e la "nazionale" dei frati.

Fuori classifica i rossoblù di Massimiliano Allegri che sono scesi in campo con Conti e Jeda, Mancosu, Lopez e Cossu. Tempi da 25 minuti, qualche botta ma soprattutto tanta voglia di normalità. E per qualche ora le magliette rossoblù hanno stemperato il grigio di una realtà che merita più attenzioni. Chi ha vinto? Come sempre la solidarietà.

"Conti, non andartene" urlano dall’alto. Detenuti informati. Da un’altra finestra, jeans e tshirt stese ad asciugare, rinforzano il concetto: "Jeda, guai a te se vai via". Carcere di Buoncammino, le tre del pomeriggio, un sole che cuoce il campetto in cemento. L’oasi ricreativa dei carcerati è coperta da una rete a maglie strette. Una gabbia nella gabbia. Eppure, la sensazione è di festa. L’atmosfera giusta per incrociare mondi, vite e futuri molto diversi. Due calci a un pallone come pretesto. Per sperare e non mollare.

Per il quarto anno di fila padre Massimiliano Sira ("mi raccomando, non sbagliatemi il cognome!" e via con lo spelling) ha messo su il quadrangolare di calcetto. In campo faccia a faccia tra le selezioni di detenuti, operatori carcerari e frati. Fuori classifica, i rossoblù. Con Conti e Jeda anche Mancosu, Lopez e Cossu. Tempi da 25 minuti, botte, ma neanche tante, comprese. A bordo campo, Gianfranco Pala, direttore di Buoncammino dal 1999.

"Abbiamo 492 detenuti, 160 sono tossicodipendenti seguiti dal Sert, e dovrebbero essere 380. Sulla carta dovrei avere 280 uomini e ne ho 207. Richieste? Sì. Serve personale e fondi per pagare chi lavora e per la manutenzione" snocciola con una smorfia. Per inciso, Buocammino ospita 24 ergastolani: "Mai prima d’ora così tanti, abbiamo anche un reparto di Badu ‘e Carros, chiuso per lavori" taglia corto il direttore. E il pallone? Viaggia a mille. Mentre Mancosu e Conti duettano in punta di piedi, i padroni di casa - si fa per dire - appena prendono palla calciano in porta. "Bocciddu!" gridano in coro.

Il risultato? Dettagli. "Lo sport è sempre benefico ma queste iniziative sono il pretesto per aprire ai detenuti una finestra verso l’esterno. Per aiutarli e - spiega Francesco Sette, presidente del tribunale di sorveglianza di Cagliari - per farli sentire parte integrante della società". Rossano, dentro per reati comuni, chiede l’autografo e la maglia a Conti. L’avrà. Giacomo, problemi di spaccio, senza incisivi e con ancora due anni da scontare, vuole la foto con Jeda. Arrivano i compagni di cella per un click di gruppo.

Salvatore, nativo della Barbagia, para il destro di Lopez: pacche, urla di giubilo, è lui l’eroe della serata. Il Cagliari è la "loro" squadra. Su giornali e tv non perdono una virgola dei rossoblù. Jeda si inventa una magia, dribbling stretto su due avversari, piede sopra il pallone e tacco smarcante: "Altro che Ronaldinho!" sbotta Marcello, 18 mesi "all’alba". "Potevamo andare in Uefa" aggiunge Maurizio, rapine e lesioni alle spalle. Intanto, le guardie sfidano i fraticelli. Paolo Congiu, arbitro Msp, deve fare gli straordinari.

Padre Massimiliano sgrida i suoi. Ma il team guidato, in campo e fuori, da Giuseppe Atzeri mette il turbo. Cireddu para tutto, Masala, Congiu, Demara, Pilia, Serrau, Dessì e Lai alternandosi fanno il resto. I detenuti fischiano. Ci sta. Finirà in un abbraccio collettivo a favore dei fotografi. "Un’ora di calcetto utile per farli sentire meno soli" commenta Carlo Renoldi, magistrato con il calcio nel sangue.

Lopez, Cossu e Mancosu firmano sciarpe, magliette, calendari. Lo spirito è quello giusto. E in questi casi, non si sa mai bene quale sia l’atteggiamento che funziona meglio. "Se prendete un altro gol vi stacco la testa" riattacca sornione il cappellano. I fraticelli lo prendono in parola. Vinceranno sul filo di lana, alla pari con i detenuti e le guardie penitenziarie. A Buocammino, il successo è collettivo per definizione. Gianfranco Pala è soddisfatto.

Il campetto è diventato una fornace. Si brinda a chinotto e coca cola. Si scattano le ultime foto. I rossoblù chiedono la rivincita. L’avranno: padre Massimiliano pensa già all’edizione 2010. "Conti, dobbiamo andare in Uefa!" rilanciano da un ballatoio. Già detto, detenuti informati. Con un argomento caldo da dibattere: palla al piede è meglio Cossu o Jeda? E di testa, Lopez va più in alto di Conti? E Mancosu? "Deve giocare di più" è il messaggio di Paolo - spaccio di droga per croce - ad Allegri. Altri dettagli. Ottimi per rendere meno indigesta una clessidra che pare non vuotarsi mai.

Cagliari: a Quartucciu progetto "Sport Mind, le ali della libertà"

di Alessandra Sallemi

 

La Nuova Sardegna, 5 giugno 2009

 

"Lo sport è una grande palestra spirituale, le regole che si apprendono nello sport sono quelle mancate a questi ragazzi, dai padri-padrone si è passati ai padri-peluche, genitori che non danno più regole e non impongono limiti ai figli": così don Ettore Cannavera cappellano del carcere minorile di Quartucciu ha commentato il progetto "Sport Mind, le ali della libertà" immaginato dalla direzione dell’istituto e realizzato attraverso l’associazione onlus Corsanus, il Coni, la Regione e l’impegno degli istruttori che il Comitato olimpico ha potuto reperire in terra sarda.

Il risultato è stato presentato ieri. L’appuntamento era nell’aula magna dell’assessorato alla pubblica istruzione: i ragazzi ospiti di Quartucciu, il 90 per cento dei quali è straniero, sono stati avviati agli sport scelti da loro. Tre, quattro volte la settimana di allenamenti veri, con i tornei finali dove una squadra del carcere (allenata da Enzo Molinas) si è meritata il primo posto. Si andrà avanti, diceva ieri il presidente del Coni Gianfranco Fara, perché la Regione inserirà il progetto nel bilancio, ma, se non fosse, cercheremo di trovare i soldi da qualche parte perché lo sport ha dato moltissimo a questi giovani.

E anche agli organizzatori: per istruttori e rappresentanti delle entità coinvolte è stata un’esperienza umana superiore. Sono serviti poco più di 25 mila euro, per comprare le attrezzature, le divise e rimborsare gli istruttori. Il progetto è stato monitorato e alcuni aspetti dell’incontro sport-detenuti sono stati esplorati sul piano psicologico da Marco Guicciardi dell’università di Cagliari con la collaborazione di due giovani laureate in Psicologia, Lucia Fanunza, e Scienza e tecniche del turismo, sport, tempo libero, Laura Trudu e, naturalmente, col sostegno della struttura carceraria nella persona del vicedirettore Michele Goddi.

Giuseppe Zoccheddu direttore dell’istituto minorile di Quartucciu: "Ci siamo rivolti al Coni perché era importante che ci fosse un’offerta varia di sport. I problemi ci sono stati, anche per gli istruttori, succedeva che i ragazzi se ne andassero dal carcere e l’allenamento doveva comunque essere fatto lo stesso, da parte degli istruttori c’è stata capacità di affrontare i risvolti connessi con la vita in carcere dei detenuti.

Noi non abbandoneremo questo progetto perché, è stato dimostrato ancora una volta, lo sport in carcere è importante. Intanto consente uno sfogo fisico, poi comporta il rispetto di varie regole, bisogna imparare a giocare assieme, a conseguire risultati assieme e a dividere il peso di una sconfitta ancora e sempre tutti assieme. I ragazzi si sono appassionati perché si è puntato molto sulla motivazione, soprattutto nel calcio".

Conseguenza del progetto: i tornei con le squadre dei ragazzi delle società cagliaritane e la gara di calcio che è stata vinta dagli atleti del carcere. Gianfranco Fara: "Per noi è stata un’esperienza molto positiva, si è incontrato qualche problema nell’individuare gli istruttori, ma la facoltà di scienze motorie ha fatto sì che le discipline carenti potessero essere integrate". Una brochure racconta del lavoro svolto, gli sport erano pattinaggio, basket, calcio, tennis, tennis tavolo, trampolino elastico, pugilato, pallavolo, danza sportiva, body building.

"L’abbiamo dedicata ad Alessio Muscas - ha detto commosso Fara - indimenticato presidente del comitato regionale della federazione Pesi e Cultura fisica che è scomparso di recente in un incidente stradale". La Regione ieri ha fatto la sua parte. L’assessore alla sanità Antonello Liori è venuto a salutare il gruppo: "Non è cosa di poco conto lo sport in carcere, questo è un progetto che ho subito sostenuto e che sosterrò.

Non c’è dubbio che per i servizi sociali la Regione spenda, forse però spende male, cercheremo di migliorare. Grazie per quello che fate". Fara ha ringraziato l’ex direttore delle politiche sociali, Remo Siza, da qualche settimana c’è un successore: Roberto Abis, ex presidente della federazione scacchi, è stato scelto dall’assessore per quell’incarico.

Ieri Abis è venuto in compagnia di un collaboratore, Guido Galassi, e con una buona novella: c’è un bando europeo, si chiama "Ad Altiora", scade il 30 giugno, è destinato alle categorie svantaggiate, fra le quali sono ricompresi i giovani detenuti, sarebbe mirato solo sui "progetti di soggetti privati", quindi per le amministrazioni pubbliche non ci sarebbe spazio, "ma per il ministero di Grazia e Giustizia si è deciso di fare una deroga", ha spiegato Galassi. Finalità del bando è favorire l’inserimento lavorativo, ma il più vasto tema dell’inclusione sociale, secondo lo staff di Liori, non può che riguardare anche il progetto che è riuscito a promuovere lo sport nel carcere di Quartucciu.

Libro: "Evasioni letterarie"... il sogno di quindici detenuti pavesi

 

La Provincia Pavese, 5 giugno 2009

 

"Il carcere è un dolore insonorizzato", che non può uscire né raggiungere il vicino. Ma con un’evasione di carta e parole i detenuti cercano di raggiungere il mondo che li circonda costruendo un alfabeto che parte dalla A di amicizia e arriva alle "Zanzare".

"Evasioni Letterarie" (Edizioni OMP, 7 euro) è un’antologia di poesie, prose e riflessioni scritta dai carcerati pavesi. Sono stati guidati da Elena Roveda e Anna Zucchi nel corso di un intero anno scolastico. Dal piacere di scrivere di una quindicina di allievi è nato il libro, con prefazione di Mino Milani, che stasera alle 21 sarà presentato da Giuseppe Polimeni sul barcone del Club Vogatori pavesi, in via Milazzo, per la rassegna Quattro chiacchiere con... sul fiume.

Polimeni sarà accompagnato da Vincenzo Andraous, uno dei primi scrittori-detenuti di Pavia. Spiega il professore: "La raccolta è nata dalle lezioni e dalle successive nottate sui libri dei detenuti. Prima era un ciclostilato, ora ha veste editoriale. È utile per far conoscere il carcere, una realtà che passa sotto silenzio". Chi sono gli autori? "Detenuti dai 18 ai 50 anni che si sono cimentati nella stesura di una lettera".

Perché sono evasioni "notturne"? "I detenuti scrivevano di notte e il tempo ha influito sul riaffiorare di un passato difficile da arginare. Ognuno fa i conti con quello che chiamano "L’errore", facendone capire le ragioni e i meccanismi: in "Sasà" un detenuto racconta di aver lasciato la ragazza che teneva in ostaggio "quando ha visto la paura negli occhi del poliziotto".

La giustizia? "Esce come "un cubo a sei facce", tanto per citare uno dei testi che spiega come la giustizia non sia solo quella che ci si trova di fronte. Ogni testo aiuta a capire meglio una parola quotidiana: l’avvocato diventa quella cosa da cui dipende la sorte di ogni detenuto; il colloquio è il ritorno alla normalità prima di ripiombare nel grigiore". Un libro per scappare? "Più che altro per dare un alfabeto a un dolore insonorizzato: ogni pagina acquista una terza dimensione e diventa una porta per tornare indietro e per poter riflettere su ciò che in questo momento manca".

Immigrazione: Onu; appello all’Ue per protezione richiedenti asilo

 

www.unimondo.org, 5 giugno 2009

 

In occasione dell’incontro dei Ministri della Giustizia e dell’Interno dell’UE che si tiene oggi e domani in Lussemburgo, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Antonio Guterres ha rivolto un appello agli Stati membri dell’UE affinché "le misure di controllo in tema di immigrazione non mettano a repentaglio i diritti fondamentali di richiedenti asilo e rifugiati". In una lettera indirizzata la scorsa settimana alla Presidenza Ceca dell’UE, Guterres ha espresso preoccupazione sulla situazione riguardante le persone intercettate nel Mar Mediterraneo e le relative risposte dei governi, incluso quello italiano.

L’Alto Commissario ha chiesto all’UE di sostenere la Libia al fine di migliorare la condizione generale dei richiedenti asilo e rifugiati nel paese. Ha quindi rivolto un appello agli Stati membri dell’UE affinché ammettano sul territorio coloro che risultano aver bisogno di protezione internazionale. Va ricordato che l’Unhcr ha ripetutamente condannato la pratica dei respingimenti così come recentemente messa in atto dal Governo italiano.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) riconosce l’onere che la migrazione irregolare rappresenta per i Paesi dell’Europa meridionale e auspica un maggior sostegno dell’UE per il proprio lavoro, ma sottolinea che "le attività dell’Unhcr non possono sostituire la responsabilità dei singoli Stati". Per questo motivo l’Unhcr "continua a chiedere ai paesi dell’UE di mettere a disposizione posti per il reinsediamento destinati a quei rifugiati per i quali non si è trovata alcuna soluzione in Libia e negli altri paesi dove non sono disponibili soluzioni durature".

L’Alto Commissario "è consapevole della particolare pressione esercitata dai richiedenti asilo e rifugiati in arrivo nei Paesi membri dell’UE ed in particolare in quelli che si affacciano sul Mediterraneo. L’Unhcr è pronto a sostenere meccanismi di condivisione delle responsabilità nell’UE, fra i quali il reinsediamento di persone ritenute bisognose di protezione internazionale, quando l’accoglienza ed i sistemi di asilo in specifici Stati membri siano particolarmente sollecitati" - prosegue la nota. "Allo stesso tempo è importante che gli Stati membri dell’UE raddoppino i loro sforzi per migliorare le strutture di accoglienza e le procedure di asilo, nel quadro dello sforzo congiunto per la costruzione di un Sistema Comune di Asilo Europeo".

Immigrazione: su asilanti l’Ue non accoglie le richieste di Maroni 

 

Italia Oggi, 5 giugno 2009

 

Un Consiglio europeo interlocutorio, che di fatto non risponde alla richiesta di solidarietà sull’immigrazione lanciata da Roma nei giorni scorsi. "Si è messo in moto un meccanismo, anche se sul piano dei contenuti siamo ancora lontani dalle richieste italiane", commenta alla fine, deluso, il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

I 27 hanno di fatto riconosciuto che l’immigrazione è un problema per tutti, che va affrontato il più possibile insieme. Ma di atti concreti ben pochi. In particolare, sul nodo principale, quello dell’accoglienza dei richiedenti asilo, l’Italia è riuscita a strappare solo un progetto pilota per far accogliere, su base volontaria da altri Paesi, alcuni rifugiati ospitati da Malta.

Secondo l’Italia la condivisione dell’ospitalità per chi ottiene il diritto di asilo dovrebbe essere spartita tra i Ventisette su base obbligatoria. "Invece spiega Maroni la linea passata è su una base volontaria". Però, ha spiegato, "non insisteremo su questo punto", in particolare dopo che la Germania ha fatto presente che incaponirsi sulla questione della obbligatorietà rischia di far saltare qualsiasi possibilità di intesa comune.

Maroni attende dunque "di vedere se l’impegno su base volontaria funzionerà, ma io credo di no". Il ministro ricorda che nel 2008 l’Italia ha concesso permessi per motivi umanitari a 20.000 persone e le stime sono che ci siano almeno 130.020 rifugiati stabilmente residenti, "una cifra che è un peso notevole per il Paese". Un peso che, secondo Maroni, richiederebbe un meccanismo non limitato alla volontarietà. Il ministro ha spiegato che la Commissione Ue metterà in piedi un progetto pilota che riguarda una ottantina di rifugiati a Malta, e si vedrà se il meccanismo volontario funziona. "Non vogliamo impone niente a nessuno", ha sottolineato.

Comunque per il ministro si tratta "di un buon inizio, e l’impegno dovrà rafforzarsi, in particolare nei rapporti con la Libia". Maroni, in questo senso, ha anche presentato ai colleghi una lista di richieste avanzate da Tripoli per poter continuare a collaborare con la Ue. Il ministro ha poi insistito nella richiesta italiana che il tema immigrazione dal Mediterraneo sia inserito al prossimo Consiglio europeo: "Spero che avvenga, almeno come approvazione di un documento per la presidenza svedese perché lo inserisca nel suo programma".

Su questo concorda anche il commissario europeo alla Giustizia, Jacques Barrot, che ha chiesto al prossimo summit "un segnale forte". Maroni ha una nota di ottimismo quando dice di credere che "alla fine l’agenzia Frontex si occuperà dei rimpatri e anche della identificazione. Frontex è un’agenzia della Ue e quindi sarebbe giusto che si occupasse di queste cose".

La riunione dei ministri ha anche dato il via libera al meccanismo di scambio di informazioni nel caso un paese decidesse di accogliere sul suo territorio un ex detenuto della base Usa di Guantanamo. La cornice Ue consente ai paesi di scambiarsi informazioni e dati contenuti nei dossier trasmessi dall’amministrazione Usa, ma la decisione sull’effettiva accoglienza rimane nelle mani dei singoli paesi Ue.

Immigrazione: legge Toscana; la Consulta decide costituzionalità

 

Asca, 5 giugno 2009

 

"Non può essere il Presidente del Consiglio a dire che una legge regionale è incostituzionale. Quella scelta spetta alla Corte costituzionale. Noi, comunque, aspettiamo gli esiti senza paura". Lo ha sottolineato a Grosseto, dove si trovava per la presentazione di uno studio sull’economia locale, il presidente della Toscana Claudio Martini, rispondendo ad una domanda dei giornalisti a proposito dell’annuncio ieri sera ripetuto a Berlusconi durante la trasmissione Porta a Porta sulla Rai. "Il presidente del Consiglio e il Governo - spiega Martini - hanno certamente il diritto ad impugnare una legge.

Così come noi abbiamo altrettanto diritto ad approvarla, ritenendola legittima. Ma la decisione sulla sua costituzionalità non spetta né a noi né a loro. La destra, purtroppo, ha il vizio di semplificare spesso troppo le cose". "Noi - ha concluso il presidente della Toscana - siamo pronti ad affrontare ed accettare il giudizio della Corte e difenderemo il nostro provvedimento. Ricordo solo che non è la prima volta che il Governo impugna una nostra legge. E nove volte su dieci la Corte ci ha dato ragione".

Immigrazione: Berlusconi; Milano sembra una... "città africana"

 

Corriere della Sera, 5 giugno 2009

 

Se ne è accorto "girando per le vie del centro": "Camminando in città come Milano per il numero di persone non italiane sembra di essere non in una città italiana o europea, ma in una città africana".

Silvio Berlusconi parla di immigrazione e conquista così l’ovazione del pubblico che lo ascolta al Pala-ghiaccio, due migliaia di persone che non riempiono lo spazio prenotato per la conclusione della campagna elettorale. Per ovviare a questa situazione "inaccettabile", è necessario "procedere con la politica dei respingimenti "che ci ha consentito di non far entrare più neppure un africano in Italia negli ultimi giorni".

Immigrazione: la Curia milanese attacca; così si asseconda l’odio

 

La Repubblica, 5 giugno 2009

 

Milano come l’Africa? La curia della città reagisce con un commento severo e preoccupato. E il presidente della Provincia, Filippo Penati, attacca: "Troppi immigrati? Berlusconi lo dica alla Moratti e ad Alberarli, loro hanno governato la città".

"Quella di Berlusconi - commenta don Giancarlo Quadri, responsabile della pastorale Migranti - è una brutta battuta di questa fase finale della campagna elettorale. Brutta e anche un pi ignorante - aggiunge il sacerdote - io invece sono ben contento della multi etnicità di Milano. Sono di questa città e la amo quanto e più di Berlusconi. Milano è diventata grande e ricca grazie alla presenza di genti diverse, e che ha sempre saputo accogliere come ricchezza i tanti popoli diversi passati nel suo territorio".

Don Quadri conclude, spiegando il punto di vista della curia milanese guidata dall’arcivescovo Dionigi Tettamanzi: "La presenza degli stranieri è un grande privilegio e un vantaggio per il futuro, non bisogna averne paura. A noi della chiesa di Milano piace così, e continueremo ad accoglierli".

Ancora più duro Penati. "Il premier - attacca il presidente della Provincia - si rivolga al sindaco letizia Moratti, ad Albertini e ai sindaci leghisti che li hanno preceduti, insieme al vicesindaco De Corate Questo è il risultato di 18 anni di governo di centrodestra".

Secondo Penati, "il problema non è tanto di quanti stranieri si possono incontrare in corso Vittorio Emanuele, ma di come sono state abbandonate le periferie in questi anni, senza una vera politica dell’immigrazione. Gli amministratori di questa città - aggiunge il presidente della Provincia - hanno lasciato soli i milanesi davanti al problema dei flussi migratori".

Anche l’ex segretario del Pd replica al premier: "Berlusconi - ribatte - non perde il vizio di dire cose stravaganti e sconcertanti". Prima di intervenire ad un’iniziativa elettorale del Pd in città, Fassino ha ricordato "il rispetto che si deve alle persone".

"Berlusconi - ha detto - dovrebbe sapere che tantissimi immigrati vivono, lavorano e contribuiscono alla ricchezza della regione. Tra Bergamo e Verona non c’è una cascina senza qualcuno con il turbante, due terzi delle colf sono straniere, sudamericane, somale, filippine e moldave". Per quanto riguarda poi la sporcizia a Milano, "se la deve prendere con l’amministrazione comunale - ha aggiunto l’ex segretario dei Ds -, certo non con noi".

Droghe: quasi metà dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Tra tossicodipendenti ufficiali e consumatori problematici non diagnosticati sono circa 50 mila quelli che transitano in carcere durante l’anno. L’identikit: 30enne, poco istruito e con una pena inferiore ai 4 anni.

Sono 63.574 (compresi i minorenni) i detenuti complessivamente nelle carceri italiane, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia e resi noti dal Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane (Co.N.O.S.C.I.), a margine dell’incontro su carcere e droghe alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’ambito delle consultazioni permanenti seguite alla conferenza di Trieste.

Le statistiche aggiornate al 4 giugno 2009 parlano di 63.044 adulti, di cui 2.757 donne e 530 minori, di cui 37 ragazze, ripartiti in 223 strutture penitenziarie. "Una cifra enorme, sulla quale non c’è eco di stampa", commenta il dottor Sandro Libianchi, presidente di Co.N.O.S.C.I, ricordando che "quando c’è stato l’ultimo indulto la popolazione carceraria era addirittura inferiore". Dal 1970 ad oggi il numero dei detenuti è stato sempre in lento e costante aumento, con la sola eccezione degli indulti. Ogni giorno in Italia ci sono dai 30 ai 50 reclusi in più".

"Quasi la metà delle persone che scontano una condanna nei penitenziari italiani è costituita da tossicodipendenti o appartenenti all’eterogenea area dei consumi di sostanze stupefacenti, molto spesso non diagnosticati. Proprio il fatto di sottostimare il numero complessivo di pazienti, porta a ipotizzare che durante tutto il corso dell’anno ci sia un numero di ingressi di tossicodipendenti pari a circa 50.000 persone", precisa Libianchi.

Un fenomeno che viene registrato dagli operatori sanitari ma non dalle statistiche ufficiali. Alla data del 30 giugno 2008 c’erano 14.743 presenze con la diagnosi di tossicodipendenza, secondo i dati del ministero della Giustizia, ma il numero cresce più del doppio se si considerano tutti gli ingressi durante tutto l’anno e il turnover della popolazione carceraria.

Fino ad arrivare a circa 50 mila se si considerano appunto i casi di consumatori problematici che non si dichiarano tali. Molti entrano ed escono dalle strutture penitenziarie, secondo un circuito che Gerardo Guarino, segretario di Acudipa (Associazione nazionale per la cura delle dipendenze patologiche) definisce "Porta girevole", fatto di tossicodipendenza, spaccio e altri reati e ritorno in carcere. Acudipa punta il dito sulla prevalenza di detenuti tossicodipendenti rispetto alla prevalenza di tossicodipendenti nella popolazione generale. Il 43% dei detenuti con problemi di droga è costituito da stranieri. "La violazione della legge sugli stupefacenti è tra le cause maggiori di ingresso in carcere e contribuisce in maniera determinante al sovraffollamento degli istituti", afferma Guarino.

Trentenne, senza un’istruzione adeguata e condannato a pene inferiori ai 4 anni di detenzione. È questa la fotografia dei tossicodipendenti presenti nelle carceri italiane scattata da Acudipa incrociando i dati generali sulla popolazione detenuta con quelli sui tossicodipendenti/spacciatori o che hanno commesso reati connessi alla dipendenza dagli stupefacenti. L’età maggiormente rappresentata dietro le sbarre è quella compresa tra i 25 e i 44 anni (65,3%), con un picco tra i 30 e i 34 anni (18,6%) e il titolo di studio non supera la licenza media inferiore nel 61% dei casi.

Secondo Jolanda Ghibaudi, del Gruppo Abele, una delle percentuali più preoccupanti riguarda i nuovi ingressi dei tossicodipendenti in carcere, che negli ultimi anni hanno subito un impennata, pari al 30% in più nel secondo semestre 2007 e saliti ancora a più 36% nel primo semestre 2008, sempre sulla base dei dati del ministero della Giustizia. Ghibaudi denuncia che "le misure alternative previste per curare queste persone non sono applicate".

Queste le cifre snocciolate dal Gruppo Abele: a fronte di un numero maggiore di tossicodipendenti in carcere rispetto al 2006, il numero degli affidamenti in prova di tossicodipendenti e alcooldipendenti è passato da 687 del giugno 2006 a 255 del giugno 2008; il numero di affidamenti terapeutici relativo allo stesso target è passato da 4.053 del giugno 2006, a 1072 del 30 giugno 2008. Un calo non imputabile a un risparmio di risorse, visto che le rette giornaliere in comunità costano meno della metà del mantenimento in carcere.

"Se davvero fosse condiviso da tutti il fatto che il carcere non è il luogo più idoneo al trattamento di quanti hanno un problema di dipendenza, non si registrerebbe il costante calo delle persone inserite nelle strutture riabilitative in regime di misura alternativa", afferma Ghibaudi. "Non credo che il carcere sia diventato un luogo dove trattare il tossicodipendente, né che queste persone vengano gestite solo in funzione della sicurezza e non più per la cura", ha risposto Giovanni Serpelloni, a capo del dipartimento delle Politiche Antidroga, a margine dell’incontro.

Droghe: Giovanardi; i tossicodipendenti detenuti vanno assistiti

 

Notiziario Aduc, 5 giugno 2009

 

"Il sistema generale dell’assistenza alle tossicodipendenze è fortemente in crisi e necessita di profonde riorganizzazioni. Infatti, a fronte di una carenza di investimenti e di un sostanziale affanno dei sistemi di risposta, assistiamo ad un intenso aumento del fenomeno". Cosi Giovanni Serpelloni, Capo del Dipartimento Politiche Antidroga, ha aperto i lavori di un convegno sul tema "carcere e tossicodipendenti, al quale hanno preso parte numerosi operatori del settore pubblico e privato sociale.

"È indispensabile - ha detto Serpelloni - individuare soluzione concrete il più possibile condivise che evitino la frammentazione regionale e i multistandard che troppo spesso scaturiscono dalla costruzione dei sistemi di assistenza ai tossicodipendenti ristretti in carcere".

Il detenuto tossicodipendente necessita non solo di interventi all’interno del carcere, ma anche di un percorso riabilitativo che lo accompagni e lo aiuti a reinserirsi una volta fuori; per questo è necessario prevedere una forte integrazione dei servizi che lavorano in carcere con quelli che operano sul territorio.

I relatori hanno messo in evidenza l’esigenza di lavorare su modelli organizzativi specifici per quanto riguarda la detenzione dei tossicodipendenti, attuando una buona prassi terapeutica e riabilitativa. In quest’ottica si è posto l’accento sulla cosiddetta "Custodia Attenuata", attiva in 23 strutture penitenziarie italiane.

Anche i Ser.T. giocano un ruolo fondamentale: attuano programmi di recupero per i detenuti tossicodipendenti con un lavoro di equipe, attraverso attività interdisciplinari, e garantiscono loro una continuità terapeutica una volta fuori dalle strutture carcerarie. Da non sottovalutare è la grave situazione dei minori nel circuito penitenziario, per i quali l’uso di sostanze stupefacenti sta aumentando tangibilmente e nei cui confronti è doveroso prevedere nuovi ed efficaci modelli educativi.

"Si può lavorare tutti insieme - ha commentato il Sottosegretario Carlo Giovanardi - senza barriere burocratiche, nella piena condivisione di criteri da applicare omogeneamente su tutto il territorio. L’attuale assetto normativo non può divenire l’alibi per il rimbalzo di competenze e il rallentamento dei necessari interventi a favore del pieno recupero della popolazione carceraria tossicodipendente".

Droghe: a rischio la "messa in prova" per minori tossicodipendenti

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

L’allarme lanciato da Serenella Pesarin, direttore generale Dap giustizia minorile: "Se le Asl non collocano i minori in comunità si ledono i diritti umani".

Problemi anche per la giustizia minorile con l’applicazione della riforma della medicina penitenziaria, dopo il decreto attuativo del 1 aprile 2008. A parlarne, in un confronto con gli operatori organizzato dal dipartimento delle Politiche Antidroga nell’ambito delle consultazioni seguite alla Conferenza di Trieste, è Serenella Pesarin, direttore generale per l’Attuazione dei provvedimenti giudiziari della Giustizia Minorile.

"Visto che la competenza di collocare i minori del circuito penale in comunità è passata alle Aziende sanitarie locali, ma le Asl non li collocano perché non trovano le comunità, vengono lesi i diritti umani dei minori", denuncia Pesarin nel suo intervento sui minori assuntori di stupefacenti dell’area del penale. "Il dpcm ha anche trasferito i fondi al servizio sanitario nazionale e quindi lancio un appello alle regioni per sapere dove sono finiti questi fondi", continua.

Per questo, Pesarin ha definito la riforma della medicina penitenziaria "un percorso in salita", ricordando che i minori vengono spesso dimenticati dalle statistiche, mentre l’Italia, grazie alla riforma del processo penale minorile, possiede uno strumento avanzatissimo quale la sospensione del processo e "messa alla prova" del ragazzo, che viene collocato in comunità o in percorsi fuori dal carcere.

Un istituto giuridico che rende la detenzione residuale per il minore e se, alla fine della messa alla prova, l’esito è positivo, c’è la derubricazione del reato. Di qui la necessità, secondo il direttore generale del Dap della giustizia minorile, di continuare con i risultati positivi ottenuti fin qui, "con solo 500 ragazzi collocati nei 17 istituti minorili d’Italia, a fronte di migliaia di denunce ogni anno". Tuttavia, sottolinea Pesarin, "la devianza minorile non è in crescita, è stabile, quello che preoccupa è il forte incremento di abuso di sostanze stupefacenti e di alcol tra i minori, i quali non si rendono conto di essere assuntori".

Riguardo l’istituto della "messa alla prova", che può portare alla cancellazione del reato per i minori, secondo Jolanda Ghibaudi del gruppo Abele, " il punto è che nessun servizio territoriale continua ad occuparsi di loro perché hanno saldato i conti con la giustizia minorile e allo stesso tempo sono troppo giovani per essere presi in carico dal servizio Sociale adulti".

Ghibaudi richiama l’attenzione soprattutto sui minori stranieri che giungono al termine del percorso di messa alla prova nella maggiore età: "Sono maggiormente penalizzati perché il loro permesso di soggiorno non è più valido; fanno richiesta di un nuovo permesso di soggiorno, ma la ricevuta di tale richiesta non è considerata valida ai fini dei tirocini lavorativi. Occorre attendere l’emissione del nuovo permesso di soggiorno che sovente si fa attendere per lunghi mesi, anche un anno". Il rischio è lo sfruttamento, il lavoro nero o peggio, il reclutamento da parte della criminalità organizzata.

Droghe: Asl Milano; buone prassi per i detenuti tossicodipendenti

 

Redattore Sociale - Dire, 5 giugno 2009

 

Terapie e comunità per i tossicodipendenti processati per direttissima, il progetto "Nave" per la riabilitazione, un’équipe multidisciplinare per seguire i minori. Un esempio poco diffuso in Italia.

Un’esperienza avanzata e una buona prassi a livello italiano ed europeo nella presa in carico e nella cura dei tossicodipendenti nei guai con la legge è quella della Asl di Milano, che da oltre dieci anni ha attivato una serie di servizi sia nei penitenziari sia all’interno del tribunale del capoluogo lombardo, ottenendo risultati incoraggianti.

"Siamo capofila in Europa e facciamo formazione nei paesi dell’Est europeo per il nostro servizio dedicato ai processi per direttissima", spiega la dottoressa Rossana Giove, direttore del servizio penale carceri per l’azienda sanitaria locale di Milano. La Asl è operativa con un ufficio all’interno del palazzo di Giustizia e si attiva ogni qualvolta, in un processo per direttissima, l’imputato si dichiara tossicodipendente.

A questo punto il procedimento giudiziario viene interrotto e la asl redige un percorso alternativo al carcere sottoposto all’approvazione del giudice. "La cura in comunità costa molto meno che in carcere, c’è un notevole risparmio", continua Giove, "In questo modo, fino a oggi, nel solo 2009 abbiamo agganciato circa 350 soggetti". Questo sistema, nato a Milano, è oggi attivo anche a Padova, Genova, Catania, Reggio Calabria e Napoli.

Nel capoluogo lombardo, a seguito dei colloqui attivati, nel solo 2008, 110 persone sono state liberate, 136 hanno avuto i domiciliari e 229 il carcere. Sempre nel 2008, secondo i dati forniti dalla Asl, di questi circa 500 soggetti processati per direttissima, oltre il 60% dipendeva dalla cocaina, gli altri, nell’ordine, da eroina, cannabinoidi e alcol. I reati commessi erano per oltre la metà legati alla detenzione a fini di spaccio, nel 23% dei casi reati contro il patrimonio, per il 7% inosservanza delle misure di pubblica sicurezza, seguono resistenza a pubblico ufficiale ed evasione.

Per quanto riguarda le attività penitenziarie, la asl milanese, oltre agli interventi di primo livello, di presa in carico del paziente, diagnosi anche psichica e somministrazione dei farmaci sostitutivi, ha all’attivo anche una struttura all’avanguardia: il trattamento avanzato "Nave", il primo del genere in Italia, aperto nel 2002 per il carcere di San Vittore. Si tratta di un reparto di secondo livello, con un periodo di permanenza breve, di circa 8 mesi in media.

Qui si aiuta il paziente "affinché il periodo di attesa del processo di primo grado sia di riflessione e di criticità rispetto al passato" e si inizia a ipotizzare un percorso di cura dalla dipendenza "prima in un reparto detentivo a trattamento avanzato e poi un percorso terapeutico alternativo al carcere". Lo spirito del servizio è quello di perseguire il reinserimento per evitare la recidiva. Tante le iniziative poste in atto dalla asl, dai corsi di teatro a quelli di cucina, fino all’educazione alla legalità insegnata dal magistrato Gherardo Colombo.

La Asl di Milano è attiva anche dal punto di vista dei minori. All’interno dell’istituto penale per minorenni "Cesare Beccaria" è attiva un’équipe multidisciplinare che si rivolge a ragazzi tra i 14 e i 21 anni. Nel 2008 sono stati assistiti 113 minori, di cui 11 seguiti anche con terapie di supporto psicologico nella sede esterna del servizio "Spazio Blu".

Giappone: dna scagiona un detenuto per omicidio... dopo 17 anni

 

Ansa, 5 giugno 2009

 

È uscito di prigione dopo aver subito una condanna all’ergastolo per un omicidio che non aveva commesso: è accaduto in Giappone. Per un ex autista di autobus di un asilo, Toshikazu Sugaya, l’incubo è durato 17 anni e si è dissolto grazie al test del dna. Le disavventure di Sugaya cominciarono nel 1991, con l’arresto a seguito degli sviluppi di un’inchiesta sull’omicidio di una bambina in quanto sul corpo della vittima era stato trovato materiale organico compatibile con il suo dna.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Precedente Home Su Successiva