Rassegna stampa 29 gennaio

 

Giustizia: "Prigione Italia"; e dietro le sbarre… c’è l’inferno

di Fabio Poletti

 

La Stampa, 29 gennaio 2009

 

Il paradiso è grande otto metri cubi. Quanti ne avrebbe diritto ogni detenuto secondo i parametri stabiliti dalla Ue. L’inferno sono le 208 carceri italiane, pochissime quelle a norma, sovraffollate in maggioranza. "Luoghi dove si esercita la tortura", lamenta il presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi, il carcere di San Vittore nel mirino, otto detenuti in celle dove dovrebbero essercene tre, sei sui letti e due in piedi qualche volta. Quando va bene un materasso buttato per terra. Quando va male c’è solo da raccontare quello che succede nelle altre carceri.

Tra Nord e Sud non fa differenza. In Emilia Romagna fanno il record: 3.915 detenuti contro i 2.270 posti letto effettivi con una percentuale di sovraffollamento del 172 per cento. A Latina i detenuti hanno a disposizione meno di tre metri quadrati ciascuno. Rinchiusi in sei per cella su letti a castello fino a tre piani, vivono la loro vita blindata in sedici metri quadrati. A piazza Lanza a Catania dicono che ci sono più topi che detenuti.

Il sovraffollamento è micidiale. I ritmi di ingresso nelle carceri sono da catena di montaggio. "Nel 2008 i reclusi sono aumentati di 1.000 unità al mese. Fino a poco tempo fa erano 1.000 all’anno. Il 37% sono extracomunitari che violano la legge sull’allontanamento con foglio di via.

Poi ci sono gli effetti della legge Cirielli sulla recidiva e quelli della Fini Giovanardi sulla droga", analizza queste immense discariche sociali che sono diventate le carceri Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone. "Alla Casa Circondariale di Padova l’80% dei detenuti sono stranieri. Da Pordenone all’Ucciardone di Palermo l’Asl è intervenuta più volte per lamentare la non agibilità delle strutture. Il carcere della Dozza a Bologna è sotto minaccia di chiusura se non verrà ristrutturato", racconta Francesco Morelli del Centro studi dell’Associazione Ristretti di Padova, che monitora giorno per giorno le carceri italiane. Non luoghi dove è difficile vivere, ma è facilissimo morire. Nel 2008 ci sono stati 48 suicidi. Nel 1990 erano stati 23. I casi di autolesionismo nemmeno si contano più.

 

Un buco nel materasso

 

"Il peggio però sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari", racconta ancora il ricercatore dell’Associazione Ristretti. I letti di contenzione con la cinghia di cuoio sono all’ordine del giorno. In alcuni casi il materasso ha un buco in centro per i bisogni fisici. I detenuti sottoposti a letto di contenzione nel 2008 sono stati 195. Alcuni sono stati legati anche per 14 giorni. Quando va male i detenuti con problemi psichiatrici finiscono in mezzo agli altri. Insieme ai tossicodipendenti bombardati con il metadone per placare le crisi di astinenza. Una terapia efficace. Un passo avanti rispetto agli Anni Ottanta, quando a San Vittore i detenuti si bevevano 70 litri di valium all’anno per calmare i nervi e sopportare quelle quattro mura fatiscenti in cui erano rinchiusi venti ore al giorno.

"Il 15% dei detenuti sono in Sicilia. Ventinove carceri su 208 sono in Sicilia. A Favignana ci sono più scarafaggi che detenuti. Le celle sono sotto il livello del mare. Dai rubinetti esce acqua salata. Abbiamo chiesto di chiudere questi lager", non usa tanti giri di parole Lino Buscemi dell’Ufficio Garante dei detenuti della Regione Siciliana. "Quando diciamo queste cose veniamo guardati con sospetto. Noi non difendiamo i delinquenti. Difendiamo i detenuti".

 

Tempo scaduto

 

A volte la difesa arriva in ritardo. Nel 2007 quattro medici della Casa Circondariale di Catania sono stati rinviati a giudizio per omicidio colposo per "aver cagionato la morte di Pietro Sangiorgi di anni 50. Morte cagionata per negligenza e imperizia per non aver effettuato né prescritto alcun esame cardiologico nonostante il detenuto avesse una sintomatologia dolorosa epigastrica di dubbia interpretazione", come ha scritto il pubblico ministero.

Dove non arrivano i medici ci pensano come al solito i detenuti. A Frosinone c’è un recluso che per problemi congeniti dovuti alla poliomielite ha una gamba più corta dell’altra. Dipende in tutto e per tutto dal suo compagno di cella. È la lotteria del carcerato, finire in una casa di reclusione piuttosto che nell’altra, ma sempre della stessa provincia. A Milano puoi finire su un materasso di San Vittore. Oppure a Bollate dove ci sono 750 detenuti per 970 posti letto, 25 studiano per la laurea e nel 2009 verrà inaugurato pure un Polo universitario.

Sembra un’utopia. È solo l’Abc della normativa europea. Altro che le promesse del ministro della Giustizia Angiolino Alfano che pensa a carceri ecosostenibili a emissioni zero: "Puntiamo all’utilizzo di vetro e acciaio con coperture e pavimenti studiati per evitare la dispersione del calore". Un’ottima idea, se a qualcuno venisse in mente pure di chiedere come mai il nuovo carcere di Gela la cui prima pietra venne posata nel 1959 aspetta ancora di entrare in funzione. Denuncia il Garante siciliano dei detenuti: "Sono 50 celle. Ne hanno costruita una all’anno. Nel 2007 fecero una cerimonia per dare le chiavi della struttura all’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. In quasi due anni non hanno finito nemmeno l’impianto elettrico".

 

Questione di indulto

 

E poi c’è chi si lamenta ancora dell’indulto, varato tra mille polemiche e che alla fine non è servito a niente. Con l’indulto sono usciti 27.472 detenuti. In due anni ne sono rientrati 9.785 e le carceri scoppiano peggio di prima. Qualcuno le vorrebbe far costruire e gestire ai privati come negli Stati Uniti. Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone dice che sarebbe meglio di no: "Negli Usa stanno facendo marcia indietro. Anche l’Onu ha dichiarato che solo le istituzioni nazionali possono garantire il corretto rispetto dei diritti umani". Che poi sarebbero quegli otto metri cubi a testa ricoperti dal cemento armato, che in Italia sognano come se fosse il paradiso.

 

L’Ucciardone di Palermo: 12 in stanze da 4 e topi che escono dalla turca

 

Sarà anche il "Grand Hotel dell’Ucciardone" come viene ironicamente chiamato dai detenuti, ma i servizi nella vecchia fortezza borbonica nel cuore di Palermo che funge da carcere dal 1832 non sono certo a cinque stelle.

I posti letto sono 378, i detenuti nel 2008 sono arrivati ad essere anche 718, quasi il doppio. In alcune celle da quattro dormono anche in 12 in grappoli di quattro letti a castello. Per dormire si fanno i turni tra il giorno e la notte. La televisione sempre accesa non concilia certo il sonno. Di privacy non se ne parla.

Le condizioni igieniche sono quelle che sono. I cessi alla turca sono spesso tappati con bottiglioni di vetro per evitare che i topi che escono dalle fognature fatiscenti invadano le celle. I lavandini sono rotti e senza lo scarico. L’acqua piove dai rubinetti sul pavimento o in alcuni bidoni che vengono svuotati dagli stessi detenuti. "Questo non è un carcere. È un lager, deve essere chiuso. Anche l’azienda sanitaria locale di Palermo ha detto che mancano i requisiti di agibilità", racconta Lino Buscemi, direttore generale dell’Ufficio del Garante dei detenuti che dipende dalla Regione Sicilia.

A rendere particolarmente complicata la vita dei detenuti spalmati in otto sezioni - la metà dei reclusi è in attesa di giudizio - sono anche le condizioni sanitarie. Ai numerosi tossicodipendenti viene somministrata una terapia metadonica, il reparto è in buone condizioni, al massimo qualche muro scrostato come tutto il carcere, ma soffre per la carenza di personale specializzato. Una cinquantina di detenuti soffre di problemi psichiatrici. È difficile trovare gli spazi adeguati per la loro reclusione, spesso vengono rinchiusi in cella con altri detenuti. Quando è possibile i detenuti con problemi psichici vengono trasferiti in osservazione al vicino Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto.

Soltanto un quinto dei detenuti è poi impegnato in lavori di qualche tipo. Nel carcere vengono organizzati corsi per falegnami, fabbri, calzolai e si tengono le lezioni per le scuole elementari e medie. Mancano però spazi adeguati per compiere i lavori. La maggioranza dei detenuti vive la maggior parte della reclusione in cella dove la luce è scarsa o nei cortili per le ore d’aria che hanno pareti crepate e fatiscenti.

Eppure, Ucciardone, il nome gentile del carcere, deriva infatti dal francese "chardon", la pianta di cardo che veniva coltivata intensamente sull’area. Su quel terreno venne poi costruita la fortezza borbonica destinata a diventare carcere duro già durante il fascismo; allora la struttura veniva chiamata Villa Mori, dal nome del prefetto di ferro Cesare Mori.

 

San Vittore: 50 arrivi ogni 24 ore, tre su quattro sono stranieri

 

Per tenere buoni i detenuti del carcere di San Vittore, alla fine degli Anni Ottanta si consumavano 70 litri di valium all’anno. Sono passati più di vent’anni ma il vecchio carcere nel cuore di Milano continua ad essere una polveriera sul punto di esplodere. Due sezioni di questa imponente struttura che risale al 1872 sono state chiuse perché fatiscenti. La capienza teorica è stata ridotta a 700 detenuti ma ieri ce n’erano quasi il doppio: 1.300 uomini, 90 donne, altri 90 ricoverati nel centro clinico.

"Questo carcere non è un luogo di tortura per i detenuti, ma il personale fa quello che può. L’ultima ispezione del ministero è del 2008. Veniva riconosciuto l’impegno del personale", apre il cahier de doléances di sempre Luigi Pagano, Provveditore alle carceri per tutta la Lombardia, una vita a dirigere la vecchia prigione di piazza Filangieri, Il Due secondo i milanesi che ricordano bene anche il numero civico.

Tra sei anni forse ci sarà la nuova cittadella giudiziaria auspicata ieri dal presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi. Nel frattempo a San Vittore si fa quello che si può. L’ultima ristrutturazione è costata dieci miliardi di lire. Non bastano. Non basterebbero mai in questo carcere nel cuore di Milano dove ogni giorno entrano tra i 40 e i 50 detenuti. "Capita ancora che qualcuno sia costretto a dormire su un materasso per terra. Non c’è spazio per le brandine da campo come usiamo a Monza", ammette Luigi Pagano.

A rendere particolarmente complicata la convivenza in carcere è la presenza dei detenuti stranieri. Sono il 75%. Tre su quattro. Hanno la loro lingua, la loro cultura, i loro usi e costumi. Non hanno niente di niente. "Una volta era un vanto per i detenuti rifiutare il vitto della casanza. Adesso anche gli italiani sentono la crisi. Sono molti quelli che non hanno i soldi per comperare il fornellino da campo", racconta il Provveditore alle carceri, 1.000 agenti di polizia penitenziaria solo a San Vittore, 700 quelli effettivi, la maggioranza impegnati nei trasferimenti dei detenuti verso i Tribunali per i processi. Alla fine il costo per ogni detenuto si aggira sui 200 euro al giorno. Potrebbe essere un grand hotel. È solo San Vittore dove ai tempi di Mani pulite i top manager litigavano coi topi. Adesso va meglio. Anche il vitto è cambiato. Ogni giorno per ogni pasto un detenuto ha diritto a un primo, un secondo fossero anche solo due uova il contorno e la frutta. Le tabelle nutrizionali le stila il ministero. Le cinque cucine lavorano a pieno ritmo. Sono in funzione da qualche anno. Una volta ce n’era solo una per oltre 2.000 detenuti. Ma la pasta scotta era l’ultimo dei problemi.

Giustizia: illegittimo uso di fondi Cassa ammende per l'edilizia

di Alessandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)

 

Ristretti Orizzonti, 29 gennaio 2009

 

Del piano costruzione nuove carceri del Ministro della Giustizia, se lo credete, dirò un’altra volta. Ora, invece, una sola osservazione su un aspetto della sua copertura finanziaria.

Il ministro ha affermato che, in primo luogo, il finanziamento sarà attuato con i fondi della Cassa Ammende, quantificati in 150 milioni di euro. L’annunzio è stato digerito tranquillamente, ma mi sembra egualmente abbastanza indigesto. La destinazione dei fondi della Cassa Ammende, non a caso istituita presso il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria-Dap, erano destinati al Consiglio di aiuto sociale per le attività dello stesso: art. 74 Ord. Penit., comma 5, n.1; attività individuate dai successivi articoli 75 e 76: assistenza penitenziaria e post-penitenziaria ai detenuti e alle loro famiglie, nonché soccorso e assistenza alle vittime del delitto. Pressoché tutte queste funzioni sono transitate agli enti locali per effetto del DPR 616/77, che istituiva un nuovo sistema di tutta l’assistenza pubblica. Per questi motivi, presso la Cassa delle Ammende, si formò una consistente giacenza di fondi non spesi fino a che il Dpr 30 giugno 2000 (nuovo regolamento di esecuzione Ord. Penit.) non diede nuove regole di gestione dei fondi, che restavano necessariamente, però, ancorati alle vecchie funzioni indicate dagli artt. 75 e 76 Ord. Penit.: vedi art. 129, commi 2 e 3 del Regolamento ricordato. Il Dap è molto parco nell’attingere a questi fondi, che sono di non molto superiori ai 150 milioni che il ministro vorrebbe spendere in nuove carceri, funzione che, alla evidenza, è molto diversa e lontana da quelle di cui si è parlato e che richiamo ancora: assistenza penitenziaria e post-penitenziaria e alle famiglie dei detenuti e soccorso e assistenza alle vittime del delitto. Recentemente, dopo la concessione del condono 2006 e la massiccia uscita quasi contemporanea di detenuti, vennero stanziati 3 milioni di euro (pochi, forse e senza forse) per l’assistenza e l’inserimento al lavoro dei c.d. indultati, spesi, per vero, con relativa tempestività.

Ora, intanto, direi che non sta bene che si prosciughi la Cassa ammende, eliminando le risorse esistenti per funzioni essenziali come quelle descritte e che il Dap ha il torto di utilizzare poco e raramente. Quando arrivò il condono si vide chiaramente che non esistevano né un sistema, né specifici programmi di aiuto per chi usciva dal carcere e affrontava il rientro nella società, sistema e programmi necessari e doverosi e per i quali, appunto, erano disponibili le risorse della Cassa ammende di cui stiamo parlando. Anziché attivare l’impiego di queste risorse, si sceglie la via di sopprimerle. Mi sembra molto eccepibile.

Ma bisogna accennare anche a un altro aspetto ed è, credo, ancora più grave. Il Codice penale subisce varie rivisitazioni, ma ho l’impressione che, sia pure attraverso un’altra norma - l’art. 323, anziché l’art. 314 - esista ancora la fattispecie del reato di peculato per distrazione, che consiste, in sostanza, nella utilizzazione di risorse pubbliche per fini diversi da quelli stabiliti dalla legge. In una qualunque rassegna di giurisprudenza si può trovare la conferma che l’elemento materiale del peculato per distrazione, ricompreso nella previsione dell’art. 323 C.p., sta nella procurata divergenza tra la destinazione prestabilita - nella legge o nel regolamento o nello statuto dell’ente - e la destinazione in concreto attuata. E allora? A nessuno è venuto qualche dubbio sulla legittimità della diversa destinazione di tali fondi annunciata dal ministro? A me il dubbio, e non solo quello, è venuto, ma non mi ero reso conto che questa volta il diavolo ha fatto la pentola, ma ha saputo fare anche i coperchi. E così, inserito in apposito decreto c.d. “mille proroghe”, è stata modificata la normativa sulla Cassa Ammende, prevedendo che, con le risorse della stessa, si possano costruire anche le carceri. Il che dimostra che, in precedenza, non si sarebbe potuto assolutamente perché quei fondi, come detto, erano finalizzati alla assistenza penitenziaria e ad altri analoghi scopi.

Morale. Con assoluta disinvoltura si spendono quasi tutti i quattrini che la legge destina a certi scopi, per scopi assolutamente diversi. Si legittima così l’uso delle risorse, che sarebbe stato un reato, dimostrando che la legge c’è per essere accomodata alle proprie esigenze, che soddisfano gli interessi del momento. E così quelli che escono dal carcere si possono arrangiare: il reinserimento sociale è assicurato: in galera appunto.

Giustizia: dopo il Piano carceri, ora Alfano realizzi la riforma

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 29 gennaio 2009

 

La decisione è nota. Il Consiglio dei ministri ha approvato un piano straordinario per le carceri. Il documento si divide in due parti. Nella prima è stata istituita la figura del commissario per le carceri, al fine di realizzare in tempi celeri nuove strutture penitenziarie. Nella seconda parte sono stati individuati i fondi per la loro costruzione.

Ora, oltre al dato normativo, la cosa davvero interessante è un’altra. Infatti il piano sulle carceri è stato accompagnato da un documento divulgativo che, oltre a contenere i dati aggiornati sulle presenze in carcere, spiega come il ministro Alfano intende affrontare la questione penitenziaria.

La lettura di questo documento, in verità, svela un modo completamente nuovo di affrontare il problema. Un approccio innovativo alla questione carcere che, ideologie politiche a parte, merita attenzione.

Nel documento, infatti, per la prima volta si condivide la necessità di una "diversificazione dei metodi di custodia, calibrati sulle diversità dei detenuti e sui loro differenti livelli di pericolosità". Come dire, servono diversi modelli di pena detentiva in base al tipo di persona condannata. Quindi servono non solo carceri nuove, ma anche diverse. Cosa assai diversa rispetto a quanto avviene oggi in carcere, dove i detenuti sono trattati tutti allo stesso modo. La soluzione prospettata è condivisibile. Contribuirebbe non solo ad evitare un inutile dispendio di denaro, ma consentirebbe un trattamento mirato sulla singola persona condannata. Trattamento che è indispensabile per restituire alla libertà una persona migliore e non peggiore rispetto a prima. Un’idea questa già nota ai lettori di Radiocarcere, ma mai condivisa da un esecutivo.

In questo senso il Ministro Alfano suggerisce di concentrare i detenuti sottoposti al regime di Alta sicurezza in appositi istituti, in modo da offrire anche a loro la possibilità di partecipare ad attività rieducative e formative. Al contrario, oggi accade che spesso queste persone detenute vivano ghettizzate all’interno di carceri che ospitano anche detenuti comuni. Il risultato: ai detenuti in alta sicurezza viene ingiustamente negata qualsiasi attività formativa. Infine, il documento di via Arenula afferma di voler creare per i detenuti comuni, che sono la maggioranza, un "metodo di custodia dinamica". Ovvero, un metodo che incrementi l’attività lavorativa e formativa dei detenuti. Un metodo detentivo già in uso, e con ottimi risultati, in carceri come Bollate o la Gorgona, dove i detenuti lavorano il giorno fuori dalla cella e vi rientrano solo la sera per dormire. Dunque un’impostazione che è un ribaltamento della situazione attuale. Infatti nella maggior parte delle carceri le persone detenute restano chiuse in cella per 22 ore al giorno e la loro principale attività "rieducativa" è l’ozio o guardare la Tv. Una realtà definita dallo stesso dicastero della Giustizia: "umanamente non sopportabile".

Unica perplessità è che questo bel progetto rimanga un annuncio. Uno spot politico e basta. L’Italia è piena di buoni progetti mai realizzati. E la giustizia penale ne è un pessimo esempio. Che cosa ne è stato delle riforme studiate dalle commissioni ministeriali che si sono succedute in questi anni? Nulla. E allora, che si passi dal dire al fare. Che il Governo realizzi questo programma di politica penitenziaria. Che costruisca nei tempi previsti le nuove strutture. Anche se ci vorrà tempo. 5 o 6 anni. Sarebbe inoltre auspicabile che questa riforma fosse accompagnata da quella del codice penale. Una riforma che preveda, una seria depenalizzazione, ma anche sanzioni diverse dal carcere. Come i lavori socialmente utili o la rimessa in pristino. Il tutto senza dimenticare un rigoroso intervento sul processo penale e sulla sua durata. Intervento non più rinviabile.

Giustizia: Rigoldi; misure alternative sono meglio dell’indulto

di don Gino Rigoldi (Cappellano dell'Ipm Beccaria di Milano)

 

La Repubblica, 29 gennaio 2009

 

Un carcere è per sua natura un luogo di patimento. Per questo dovrebbe essere riservato ai veri delinquenti. Lo dico con 37 anni di esperienza da cappellano, a contatto con persone che, spesso, avrebbero bisogno di un aiuto per rifarsi una vita, più che incattivirsi in celle sovraffollate. Vorrei che il codice - che ci governa - avesse la saggezza di svuotare le carceri non con gli indulti, ma con le misure alternative.

Ho conosciuto due fratelli al Beccaria, due ragazzi: quattro anni fa tentarono di rubare una bicicletta, sono stati condannati da poco a tre mesi. Che senso ha il carcere - che invece è giusto riservare a chi compie reati più gravi - per quei due ragazzi? Non sarebbe più utile - oltre che meno costoso - trovare per loro un´alternativa ai domiciliari, in una comunità, in un contesto in cui possano lavorare, imparare un mestiere? Sono loro a riempire San Vittore e gli altri istituti, spesso.

Certo, c´è il problema degli stranieri: ma anche tra di loro ci sono quelli che possono meritare la nostra fiducia, che possono scontare la pena fuori da celle dove non si può diventare migliori. Rimandarli in patria? Attenzione: ci sono paesi in cui esiste davvero la tortura, in cui non esistono i diritti umani. Costruire nuove carceri? Ci vogliono tanti soldi e tanto tempo, mentre i problemi - come giustamente dice Luigi Pagano - sono qui e oggi.

Giustizia: Vaticano; la riconciliazione è il fine ultimo della pena

di Antonio Gaspari

 

www.zenit.org, 29 gennaio 2009

 

Con una articolata riflessione, inviata al congresso della Commissione internazionale per la pastorale cattolica nelle carceri (Iccppc), in corso in questi giorni a Budapest, monsignor Giampaolo Crepaldi ha spiegato il rapporto che intercorre tra il mondo del carcere, la Chiesa cattolica e il rispetto dei diritti umani.

Il Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha ricordato che "la cristianità ha visto nascere lungo i secoli molte iniziative di carità verso i carcerati" e il Magistero ha spesso "illuminato con il suo insegnamento alcuni drammatici problemi del mondo delle prigioni, dagli imprigionamenti arbitrari, ai campi di concentramento, ai campi di lavoro forzato, alla disumana pratica della tortura, ai diritti delle persone arrestate". La Chiesa cattolica ha praticato la carità cristiana verso il mondo del carcere così come ha illuminato con insegnamenti di ordine morale la via della giustizia.

In merito al problema della pena, il Vescovo di Bisarcio ha rilevato che il Magistero riconosce la dignità di persona anche se colpevole. "Lo stato detentivo, infatti, lo priva sul piano esistenziale di alcuni suoi diritti esteriori, ma non gli toglie la dignità di persona che gli appartiene per natura", ha spiegato. Secondo il Magistero, "l’uomo, ogni uomo, è amato da Dio che lo ha creato e che lo ha redento dal male". Anche se, "sul piano dell’esistenza, qualcosa si è inceppato ed è stato incontrato qualche ostacolo, che pure va riconosciuto e il relativo torto riparato secondo le esigenze della giustizia, il carcerato non è perduto, anzi deve essere ritrovato".

Il Segretario del Dicastero pontificio, ha sottolineato come nell’enciclica Deus caritas est, il Pontefice Benedetto XVI afferma che la carità perfeziona la giustizia, perché "senza la carità la stessa giustizia non può essere applicata in modo veramente giusto e chi conosce il mondo del carcere sa che nemmeno la pena può essere comminata nel mondo giusto, ossia umano".

Sempre sul modo di misurare la pena, monsignor Crepaldi ha riconosciuto che "il primo scopo della pena è di riparare al disordine prodotto secondo criteri di proporzionalità", ma il Magistero più recente ha allargato lo sguardo, soffermandosi sulle "importanti questioni del recupero del reo, della non centralità della detenzione come forma tradizionale di pena, del compito rieducativo della pena e di una giustizia che sia anche riconciliazione".

"In questo modo - ha aggiunto - lo schema della retribuzione, senza venire negato, ha subito un allargamento di orizzonte in senso maggiormente umanistico". A questo proposito il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, precisa che lo Stato, ha il compito di "reprimere i comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali di una civile convivenza", ma ha anche quello di "rimediare, tramite il sistema delle pene, al disordine causato dall’azione delittuosa".

Con queste espressioni, che richiamano il paragrafo 2266 del Catechismo della Chiesa Cattolica, la Chiesa intende far riflettere sulla ricomposizione delle relazioni umane e sociali, sul ristabilimento della concordia e della pace, sul ritorno ad una situazione di condivisione dentro delle regole piuttosto che di contrapposizione e lotta al di fuori delle regole. Questo richiede che il detenuto venga considerato non come un oggetto passivo cui si impone una sofferenza fine a se stessa, ma un interlocutore di un dialogo, all’interno di un rapporto che tenda alla riparazione.

Per monsignor Crepaldi, "nella retribuzione non c’è nessun recupero dell’originale rapporto sociale vulnerato. C’è come una reciprocità nell’infliggersi un danno. Alla sofferenza subita dalla società corrisponde una sofferenza da far subire al colpevole". Nella riparazione, invece, "emerge un rapporto qualitativo e maggiormente personale. Al reo viene chiesto qualcosa di più che non la sopportazione passiva di una pena, viene chiesta una collaborazione per riparare il danno inflitto nel senso di ricostruire la situazione iniziale di equilibrio che il comportamento illegale ha infranto".

La riparazione però non è l’ultimo livello cui si può giungere nel rapporto con il detenuto; essa infatti può avere uno sviluppo ulteriore nella riconciliazione: chi ha trasgredito la legge e provocato un danno non solo si mobilita personalmente per ripararlo, ma rientra in società pienamente riconciliato e capace di esprime relazioni sociali di solidarietà e reciprocità.

"Si potrebbe dire - ha sostenuto il presule - che mentre la retribuzione e la riparazione guardano prevalentemente indietro, la riconciliazione guarda in avanti. Si tende non a dimenticare il fatto delittuoso ma a sublimarlo mediante una esperienza di radicale riconciliazione. Si noti anche che nella riconciliazione è impegnato non solo il reo ma l’intera società, mentre retribuzione e riparazione vertevano soprattutto sul comportamento del reo".

La riconciliazione è allora il fine veramente ultimo della pena. Per questo motivo Giovanni Paolo nel Messaggio mondiale della Pace del 2002 ha scritto che "la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura giusta e solidale".

A questo proposito, concludendo il Seminario sui diritti umani dei detenuti organizzato ai primi di marzo del 2005 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace il Cardinale Renato Raffaele Martino ha affermato che "i carcerati sono ‘nel’ carcere, ma la speranza cristiana invita tutti a guardare oltre il carcere".

Giustizia: Alfano; la "cura" è misurare l’efficienza delle toghe

 

Il Messaggero, 29 gennaio 2009

 

Più che la radiografia di un’ammalata terminale, sembra il referto di un’autopsia. In ventinove pagine, il ministro Guardasigilli ha illustrato l’altro ieri alla Camera lo stato di salute della giustizia italiana: nove milioni di processi pendenti, circa venti milioni di italiani coinvolti, sessantamila detenuti in carceri che hanno 42mila posti, spese folli e senza controllo, durata dei processi ultradecennale. Come dire: battito del cuore assente, encefalogramma piatto.

Ma c’è una novità: cambierà la cura. Non ci aveva provato mai nessuno prima di Angelino Alfano, 38 anni, da Palermo, Guardasigilli "con orgoglio, come lo hanno definito alcuni colleghi parlamentari. La parola magica si chiama efficienza. Anzi: controllo di efficienza. Perché la giustizia è, deve essere, un servizio al cittadino.

E al ministro di Giustizia, come stabilisce la Costituzione all’articolo 110, "spettano l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia". Alfano lo sa che i magistrati, quasi tutti, quando sentono parlare di controlli di efficienza sul loro operato saltano sulle sedie. E siccome è uomo di diplomazia, precisa: "Nessuno tema che ciò possa costituire un surrettizio strumento per una qualche forma di controllo delle attività giurisdizionali, sia requirenti che giudicanti. Queste attività sono di esclusiva pertinenza dei giudici e dei pubblici ministeri di cui va garantita l’autonomia e l’indipendenza".

Il colpo d’ala del Guardasigilli, che porta la sua politica giudiziaria a volare più in alto di quella dei precedenti ministri, riguarda proprio questa autonomia, questa indipendenza. Che non devono più essere considerati due totem dietro i quali pezzi della magistratura possono sbagliare, ritardare, interpretare e non risponderne a nessuno. Piuttosto, scandisce Alfano: "L’autonomia e l’indipendenza dei giudici non può scindersi dall’efficienza del servizio che i magistrati devono rendere ai cittadini e che questa efficienza deve essere tempestivamente monitorata così come va garantito il diritto-dovere del Ministro di sorvegliare, senza ostacoli, sulle scelte di organizzazione degli uffici giudiziari".

Il Guardasigilli e i suoi tecnici, dal Capo di Gabinetto Nebbioso al direttore dell’Organizzazione giudiziaria Birritteri, hanno ben chiaro un concetto: il risanamento della giustizia passa anche, e in larga misura, dalla responsabilità e dalla professionalità dei magistrati chiamati ad applicare le leggi. E questo rende non più rinviabile una riforma che comprenda anche un sistema efficace - che oggi è del tutto inesistente - per monitorare la produttività dei magistrati in termini di servizio-giustizia reso ai cittadini.

Il ministro è consapevole che l’unica strada per tentare il miracolo è quello della riforma organica: lo chiama approccio globale. Ed elenca i punti nevralgici sui quali intervenire: rafforzamento delle norme antimafia, processo civile e penale, riforme anche costituzionali, misure di efficienza legislative e non legislative, provvedimenti per le carceri, riforma della magistratura onoraria e delle professioni del ramo economico.

Di separazione delle carriere e di riorganizzazione del Csm, Alfano non parla. Ma c’è da ritenere che si riferisca proprio a questi due nodi quando parla di riforme "anche costituzionali. Per il resto, il ministro rende omaggio al Quirinale, mai così attento in passato alle delicate tematiche, anche istituzionali, che negli ultimi mesi sono nate negli uffici giudiziari del nostro Paese: "Desidero ringraziare il presidente della Repubblica - ha detto Alfano - per la costante attenzione che ha inteso riservare alle tematiche della giustizia, offrendo un grande contributo di equilibrio e saggezza anche in momenti di particolare tensione".

Per Giuseppe Consolo, An, membro della commissione Giustizia della Camera, "è una relazione densa di concretezza e giustamente piena di contenuti". Per Donatella Ferranti, Pd, anche lei in Commissione Giustizia della Camera, "Il sistema di giustizia italiano presenta notoriamente un grave aspetto di crisi; le nostre proposte affrontano questi aspetti e vorremmo confrontarci con le proposte del governo".

Giustizia: Ucpi; se neanche i magistrati si fidano di loro stessi

di Oreste Dominioni (Unione Camere Penali Italiane)

 

www.radiocarcere.com, 29 gennaio 2009

 

Oggi vengono evidenziati all’opinione pubblica alcuni fatti conseguenti allo "scontro" fra le Procure di Catanzaro e di Salerno, e cioè che i magistrati di Salerno, convocati dalla I Commissione del CSM per essere ascoltati, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, limitandosi a depositare una memoria, e poi il Procuratore capo ha presentato dichiarazione di ricusazione della stessa sezione disciplinare dell’organo di autogoverno della magistratura in quanto nell’atto di incolpazione a suo carico si afferma che egli avrebbe espresso "accuse allusive" e "giudizi denigratori" nei confronti della sezione disciplinare. La domanda che ci si pone è se ciò sia un grave segno della sfiducia reciproca che serpeggia nell’ambito giudiziario e se ciò possa a sua volta alimentare ulteriormente la sfiducia dei cittadini verso la magistratura.

La questione centrale della vicenda è che due Procure, intendendo entrambe investigare su medesimi fatti, non percorrano correttamente i canali procedurali per rimettere la soluzione di questo contrasto al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ma scelgano l’inopinata via di indagarsi a vicenda. Questo è un gravissimo snaturamento degli strumenti giudiziari e ciò è quanto innanzi tutto compromette il credito della magistratura.

Il resto discende a cascata aggravando il fenomeno. I magistrati incolpati in sede disciplinare, astenendosi dal rispondere e avanzando la ricusazione, esercitano loro diritti, ma, in realtà la questione non si chiude con questa osservazione, poiché tali atti, compiuti avanti e contro il CSM, amplificano a dismisura quegli effetti di far avvertire ai cittadini sentimenti di sfiducia nella magistratura.

Si tratta di un fenomeno da tempo in atto, che fa serpeggiare all’interno della magistratura situazioni non tanto di contrasto di opinioni, di per sé fisiologiche e legittime a patto che, per superarle, si attivino i previsti istituti processuali, quanto di veri e propri "scontri" irriducibilmente coltivati, con nocumento, in questo caso, degli stessi magistrati in gioco, ma, in altri casi, e ciò è ancor più grave, di cittadini coinvolti loro malgrado.

Si è di fronte a costumi giudiziari degradati, che è necessario fronteggiare in modo energico. La via disciplinare, indispensabile per stigmatizzare i singoli casi, non è però sufficiente. Occorre ripristinare il senso della legalità e comportamenti ispirati alla più alta deontologia, rompere concezioni per le quali svolgere funzioni giudiziarie non significa coltivare posizioni di potere che pretendano di sottrarsi a ogni controllo e di non rispettare nessun limite.

Ancora una volta si manifesta l’esigenza urgente della grande riforma della giustizia. Si illuderebbe chi pensasse di affidarsi solo a aggiustamenti normativi di basso profilo o di contare su "prediche inutili".

Giustizia: in arresto il progettista dei... "semafori intelligenti"

 

La Stampa, 29 gennaio 2009

 

Il progettista dei T-Red, Stefano Arrighetti, è stato arrestato dai carabinieri lombardi e da quelli di San Bonifacio (Verona) nell’ambito dell’inchiesta della procura di Verona sui cosiddetti ‘semafori intelligentì che vede indagate altre 108 persone. Arrighetti, 45 anni di Seregno (Milano), amministratore unico della Kria di Desio (Milano), è accusato di frode nelle pubbliche forniture.

Secondo quanto si è appreso, Arrighetti avrebbe omologato solo la telecamera e non avrebbe chiesto e quindi mai ottenuto dal Ministero dei trasporti l’omologazione dell’hardware dell’apparecchiatura che fa funzionare l’intero sistema. Tra i 109 indagati figurano 63 comandanti di polizia municipale tra cui quello di Perugia e di Mogliano Veneto (Treviso), 39 amministratori pubblici e sette amministratori di società private. Sono invece 80 i comuni del centro-nord Italia al centro dell’indagine nei quali sono state comminate decine di migliaia di contravvenzioni. Il provvedimento restrittivo che ha raggiunto Arrighetti è stato emesso dal gip scaligero Sandro Sperandio su richiesta del pm Valerio Ardito. I Carabinieri di San Bonifacio hanno inoltre provveduto al sequestro preventivo dei T-red in 64 comuni di 24 province, ma il numero crescerà nei prossimi giorni.

Le indagini, iniziate nel dicembre 2007, erano state avviate per accertare la conformità alla normativa vigente del sistema automatico di rilevamento delle infrazioni alla luce semaforica rossa (T-RED), installato presso gli incroci del veronese. A gennaio 2008, i carabinieri di Tregnago, Illasi e Colognola ai Colli, incaricati delle indagini, denunciarono un amministratore comunale, due comandanti di Polizia Locale e gli amministratori unici di Ci.ti.esse di Rovellasca, Maggioli di Santarcangelo di Romagna, Traffic Tecnology di Marostica e Open Software di Mirano per truffa aggravata e falsità materiale. A giugno le indagini furono estese anche ad altri 64 comuni dopo aver accertato che il T-red era difforme da quello omologato dal Ministero dei Trasporti di Roma dove Arrighetti aveva chiesto ed ottenuto l’omologazione solo per le telecamere dei T-red e non per le apparecchiature (come i relè, le spire ed altro chiamato tecnicamente hardware) contenute in un armadio di vetroresina posto nelle vicinanze delle telecamere.

Napoli: detenuto croato 37enne si suicida, era nella Sezione Eiv

 

www.informacarcere.com, 29 gennaio 2009

 

Un detenuto 37enne non ergastolano (croato) alle ore 7.00 del mattino è stato trovato impiccato nella sua cella (nella sezione speciale Venezia Eiv - Poggioreale). L’accaduto è stato scoperto da un detenuto mentre distribuiva il latte dando subito l’allarme. Quando sono corse le guardie e il medico e l’infermiere era troppo tardi.

Domenica sera il detenuto aveva chiesto alla guardia di poter parlare con il medico, però la guardia gli ha risposto che il medico di sera non c’era e che doveva segnarsi alla visita la mattina. Lunedì 26 gennaio alle ore 7.00 del mattino è stato trovato impiccato. Forse se il detenuto avesse parlato con il medico non sarebbe arrivato a tanto.

Questo detenuto fino ad un anno fa all’interno della cella faceva ginnastica. Poi dovette smettere perché all’improvviso sputava sangue dalla bocca e più volte accusava dolori al petto e ai polmoni (era fumatore), così venne ricoverato in ospedale per quasi un mese. Come disse, qui sembra che non gli avessero trovato niente di sospetto e lo ricoverarono al Centro Clinico del carcere che però lo stesso detenuto rifiutò solo perché all’interno della cella veniva a mancare la Tv e non poteva fumare né cucinare. Delle volte non prendeva nemmeno il cibo dell’amministrazione, dormiva sempre, usciva dalle celle solo per la doccia.

Il detenuto era seguito da uno psichiatra del carcere, tanto è vero che il pomeriggio e la sera gli venivano dati degli psicofarmaci tipo tranquillanti e sonnifero. Di solito quando un detenuto viene seguito da uno psichiatra, scatta automaticamente una sorveglianza particolare se c’è un sospetto di un tentativo di suicidio. Ma con questo detenuto ce l’avevano un po’ perché credo che avesse esposto una denuncia contro il carcere.

 

Un detenuto del carcere di Poggioreale

Palermo: Fleres; 27enne suicida all'Ucciardone, carceri invivibili

 

Ristretti Orizzonti, 29 gennaio 2009

 

"Da notizie stampa ho appreso dell’ulteriore presunto suicidio verificatosi presso la C.C. Ucciardone di Palermo. Al di là delle ipotesi riguardanti le motivazioni e le modalità che avrebbero determinato il fatto, su cui auspico la tempestiva apertura di un’accurata inchiesta, un giovane di appena 27 anni ha perso la vita, ed è necessario porre in essere i dovuti accertamenti ed il mio ufficio, in tal senso, ha già avviato le relative procedure.

Sempre dalla stampa, ha proseguito il Sen. Fleres, che proprio ieri dai banchi del Senato aveva lanciato l’ennesimo allarme sulla condizione di invivibilità nelle carceri italiane, apprendo che il giovane era detenuto per reati sessuali e la scoperta dell’avvenuta morte è stata effettuata dai compagni di cella.

Questa ulteriore morte, ha concluso il Sen. Fleres, mette ancora una volta in evidenza la carenza o, purtroppo, l’assenza di psicologi che possano adeguatamente seguire il percorso dei detenuti, pertanto, continuerò la mia battaglia affinché si possa dare seguito ai concorsi già espletati per questa particolare figura e per quella degli educatori, indispensabile all’interno degli istituti di pena. Il problema, ha concluso il Sen. Fleres, non è quello di rivedere il sistema delle pene né di auspicare uno Stato buonista. Il nostro sistema carcerario ha bisogno che insieme alla certezza della pena si instauri la certezza dell’azione di recupero, come previsto dall’art. 27 della Costituzione".

 

Sen. Salvo Fleres

Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia

Cagliari: Caligaris; il detenuto malato trasferito in Sardegna

 

Ristretti Orizzonti, 29 gennaio 2009

 

"Sta per concludersi la lunga odissea nelle carceri della penisola di Francesco Catgiu 68 anni di Orgosolo, in gravi condizioni di salute ed attualmente recluso a "Secondigliano" di Napoli. La richiesta di trasferimento in Sardegna è ora all’esame del Dipartimento dell’Amministrazione della Giustizia interessato al caso anche dalla Presidenza della Repubblica". Lo afferma la consigliera socialista Maria Grazia Caligaris (PS), componente della Commissione Diritti Civili, che ha denunciato la gravità delle condizioni del detenuto sardo da oltre 24 anni in carcere e "praticamente abbandonato a se stesso, ignaro perfino che l’avvocato difensore aveva rinunciato ad assisterlo e che per comunicare è costretto a utilizzare un compagno di cella".

Milano: a San Vittore otto detenuti in celle da tre... è tortura!

di Luca Fazzo

 

Il Giornale, 29 gennaio 2009

 

Alla fine la parola che parlando di San Vittore nessuno voleva pronunciare è arrivata dalla fonte più autorevole: tortura, dice Giuseppe Grechi, presidente della Corte d’appello. "San Vittore è un caso di tortura a pochi passi dal Duomo", dice ieri l’alto magistrato davanti all’assemblea dei penalisti milanesi. Grechi non ha in mente la tortura di Abu Graib o del gulag, ovviamente.

Ma ritiene che quello che ha visto nel carcere di piazza Filangieri, otto uomini stipati in celle per tre, costretti a fare i turni per alzarsi in piedi, muovere un passo, allargare le braccia, sia talmente indegno di un paese civile da meritarsi il nome di tortura. E che comunque non possa essere più tollerato. Poco cambia che, come precisa più tardi Grechi, si trattasse di una sorta di autocitazione: "Di tortura avevo parlato mesi fa, prima che il ministro facesse partire un piano di svuotamento del carcere milanese". I dati dicono che oggi, 28 gennaio, San Vittore è un carnaio tale quale all’estate scorsa. 1296 detenuti, che salgono a 1476 con donne e malati.

Due raggi, il secondo e il quarto, sono chiusi perché ormai irrecuperabili. Al terzo e al quinto si vivacchia. Il sesto è un posto dove gli animalisti non permetterebbero di custodire le mucche o i maiali, e dove invece stanno esseri umani. "Ho voluto ricordare la situazione - dice Grechi - perché so che alcuni avvocati non sono contenti dell’idea di spostare San Vittore a Porto di Mare, perché sarebbe più scomodo da raggiungere. Mi dispiace per loro, ma il nuovo carcere è l’unico modo per riportare la situazione a livelli tollerabili. San Vittore, lì dove si trova oggi, è irrecuperabile".

La soluzione è dunque quella di cui si fa un gran parlare da più di un anno, la nuova cittadella della Giustizia che dovrebbe sorgere tra Rogoredo e il Corvetto inglobando carcere e uffici giudiziari. Costo approssimato, un miliardo. Passi concreti, zero. Tanto che ormai in tribunale si sono convinti - dopo avere sollevato il tema anche col ministro della Giustizia Alfano - che l’unica speranza concreta sia agganciare la Cittadella al piano Expo 2015: "Come possiamo presentarci al mondo con un orrore come San Vittore nel cuore della città?". Ma nel frattempo, come si fa a evitare che San Vittore esploda umanamente e sanitariamente?

Sabato prossimo, allegata alla relazione di Grechi che aprirà l’anno giudiziario, ci sarà la relazione di Luigi Pagano, a lungo direttore della "Casanza" milanese, oggi provveditore regionale alle carceri. Sarà il ritratto di un carcere diventato un enorme Cpt, un centro di accoglienza dove gli italiani non superano il 25 per cento dei detenuti, dove si mischiano novanta lingue diverse, dove la gente viene e va a ritmi forsennati - ogni giorno cinquanta o sessanta nuovi arrivi - che rendono impossibile il trattamento rieducativo. Le misure tampone sono arrivate. Stanno andando via i "protetti", i detenuti odiati anche dagli altri, perché pentiti o violentatori.

Andranno via appena possibile quelli già condannati in primo grado. In qualche modo si cercherà di scendere a "quota 1000", il numero di detenuti che consentirebbe di riportare la condizione detentiva a livelli vagamente costituzionali. Nel frattempo si cercherà di stare a galla in qualche modo: come si è fatto nei giorni della nevicata, portando qualche decina di detenuti a spalare (e a guadagnarsi qualche soldo) nelle strade cittadine, un esperimento che ci cerca di rendere stabile con l’Agenzia del Lavoro che viene presentata oggi in carcere.

Ma tutti sanno che si tratta di palliativi, e che neanche il carcere di Porto di Mare - come già accaduto con l’apertura di Opera e di Bollate - garantirebbe la chiusura del carcere. La realtà è che migliaia di apolidi che nessun paese al mondo è disposto a riprendersi gravitano su Milano, e che sono pronti - per scelta o per necessità - a delinquere. Per quanto grandi siano le carceri milanesi, si troveranno sempre uomini per riempirle. Cerchiamo di fare sì - è ieri il messaggio del presidente Grechi - che questo avvenga almeno con un minimo di civiltà.

Agrigento: celle separate per nazionalità, l'integrazione non c’è

di Francesco Di Mare

 

La Sicilia, 29 gennaio 2009

 

Tunisini con i tunisini, italiani con gli italiani. Nel carcere della città dei Templi in contrada Petrusa si registra un risvolto clamoroso, tra i tanti offerti quotidianamente dall’emergenza immigrazione clandestina. Accade infatti che numerosi detenuti del "belpaese" abbiano chiesto e ottenuto che nella stessa cella non si conviva con persone di altra origine etnica.

I motivi addotti per far sì che la richiesta venisse valutata e accolta positivamente dai vertici del penitenziario sono stati almeno tre. Quelli religiosi, quelli relativi alle abitudini alimentari e quelle che fanno riferimento all’igiene personale. Tre elementi della vita quotidiana che non sempre trovano momento di comunione tra ad esempio un marocchino musulmano praticante e un palermitano o agrigentino cattolico più o meno praticanti. Stessa esigenza è stata manifestata anche dagli stessi stranieri che preferirebbero stare tra loro.

Su 140 extracomunitari al momento detenuti nel carcere agrigentino - un record - quasi tutti sono dunque collocati in celle occupate solo da gente dello stesso stato, soprattutto del Nord Africa. L’intento della direzione del Petrusa è anche quella di agevolare la cosiddetta affinità tra persone della stessa origine e con le medesime abitudini. Ma si cerca anche di assicurare il massimo in termini di sicurezza all’interno della casa circondariale, che ospita in tutto quasi 450 persone, su un massimo consentito di circa 300. Quanto accade ad Agrigento dunque lascia intendere come l’integrazione tra razze, almeno dietro le sbarre è ancora un’utopia.

Cagliari: dossier "Morire di carcere", anche su Buoncammino

 

L’Unione Sarda, 29 gennaio 2009

 

Tra i decessi avvenuti nelle carceri italiane lo scorso anno, due sono quelli che hanno portato il lutto tra le celle di Buoncammino. Nel giro di tre giorni, il 22 e il 25 maggio 2008, sono invece deceduti Rose Ayough (33 anni) e Antonello Desogus (43 anni). Morti che posizionano la casa circondariale cagliaritana nella parte alta della classifica del dossier "Morire di carcere", redatto ogni anno dal centro studi dell’osservatorio "Ristretti Orizzonti".

Il Direttore - Ma c’è anche un dato positivo, per fortuna in controtendenza rispetto al resto d’Italia: nessun suicidio, mentre nelle altre regioni è stata registrata un’impennata con ben 48 casi accertati. "Quelle registrate nel nostro istituto", spiega Gianfranco Pala, direttore di Buoncammino, "non sono morti ancora da accertare. Una è naturale, l’altra è legata a un omicidio preterintenzionale: un pugno dato da un detenuto straniero nel cortile passeggi durante l’ora d’aria. Per quanto riguarda i suicidi, noi siamo ormai da qualche anno in controtendenza, nonostante i detenuti siano tornati a essere pressappoco quelli che contavano prima dell’indulto".

I numeri - Nella Casa Circondariale, ieri mattina, i detenuti erano 471 (prima dell’indulto sfioravano i 500), e di questi una quarantina avrebbero gravi problemi psichici, mentre quelli seguiti da psicologi e psichiatri, con l’ausilio del Centro di salute mentale della Asl, sono in totale 150. "Un anno e mezzo fa - prosegue il direttore - abbiamo istituito una commissione che si occupa di monitorare i detenuti al primo ingresso, quelli più a rischio di suicidio, ma anche quelli che risultavano liberi da almeno tre anni. Persone che vengono costantemente monitorate da uno staff di medici esperti, ma anche da educatori e psichiatri". "Morire di carcere" ha accertato che nel 2008, nelle carceri italiane, sono morti almeno 121 detenuti: 48 per suicidio, 32 per cause da accertare (in questa classifica è inserito il penitenziario di Buoncammino), 20 per malattia, uno per le complicazioni di uno sciopero della fame, gli altri per cause naturali.

Prevenzione - "Ma anche se da qualche anno stiamo lavorando sulla prevenzione grazie alla nuova commissione", conclude Pala, "non prendiamo sottogamba il fenomeno dei suicidi. Entro febbraio, proprio su questo tema, organizzeremo una conferenza allargata con esperti, operatori interni ed esterni, ma anche personale specializzato dell’Azienda sanitaria locale".

Pesaro: "Il gatto e la volpe", vende oggetti creati dai detenuti

 

Ansa, 29 gennaio 2009

 

Domenica 1 febbraio, per il taglio del nastro in via Castelfidardo, ci saranno il sindaco Ceriscioli, l’assessore Pecchia e la direttrice del carcere Clementi. Il negozio sarà aperto dai volontari tutti i venerdì ed i sabato, dalle 16.30 alle 19.30. Lavori di falegnameria, ceramica, tipografia. E poi ancora giochi e oggetti costruiti con materiali poveri riciclati e riutilizzati. Sta per aprire in via Castelfidardo (al civico 36) Il gatto e la volpe un punto vendita di prodotti realizzati dalle detenute e dai detenuti della casa circondariale di Pesaro. Lavori frutto dei laboratori gestiti negli ultimi anni in carcere dall’Agenzia per l’Innovazione, dal centro per la Formazione e dalla cooperativa sociale Il Labirinto.

In questo modo l’istituto di pena pesarese presenta alla città la propria realtà concreta ed operosa, fatta di incontri e di relazioni fra operatori, docenti ed ospiti, di formazione professionale, di lavoro, di possibilità da sfruttare per la vita all’esterno. Il gatto e la volpe sarà inaugurato domenica 1 febbraio alle 17.30, alla presenza del sindaco di Pesaro Luca Ceriscioli, dell’assessore al Patrimonio e al Bilancio del Comune Sabrina Pecchia, della direttrice della casa circondariale Claudia Clementi e della presidente dell’Osservatorio permanente sulle carceri Silvia Lazzari. Il negozio sarà aperto dai volontari tutti i venerdì ed i sabato, dalle 16.30 alle 19.30.

Nello spazio di via Castelfidardo verranno esposti e messi in vendita lavori artigianali che trovano la loro collocazione più idonea in un locale del centro storico della città, messo a disposizione dall’Amministrazione comunale e gestito, per conto della direzione della casa circondariale, dai volontari dell’Osservatorio permanente sulle carceri, che per tre anni hanno curato la promozione dei manufatti con la presenza mensile al mercatino dell’antiquariato. Ora il punto vendita consentirà un rapporto più diretto fra i laboratori ed il pubblico, offrendo anche la possibilità di ordinare oggetti su misura, personalizzati a seconda delle esigenze dei clienti.

Milano: Edison e Iveco portano il rugby nel carcere "Beccaria"

 

Ansa, 29 gennaio 2009

 

Il rugby, dopo aver contagiato il calcio con il suo terzo tempo, prova a portare i suoi valori nelle scuole, ma soprattutto in un contesto difficile come quello delle carceri giovanili. Il progetto dell’As Rugby Milano è una sfida: introdurre uno sport di combattimento tra ragazzi che hanno problemi nella gestione dell’aggressività. Ma è già stata vinta con il tesseramento dei primi due ragazzi ex Beccaria, mentre gli sponsor, Edison e Iveco Milano Carri, si sono impegnati ad aiutare i giovani nel reinserimento nella società.

Due le iniziative dell’associazione dilettantistica. La prima coinvolge da ottobre scorso i ragazzi reclusi nel carcere minorile Beccaria. Venti i ragazzi di diverse età (tra i 15 e i 21 anni) e anche di Paesi senza tradizione rugbistica che hanno aderito. Gli allenamenti, una volta alla settimana, hanno portato già a giocare la prima partita insieme ai giocatori over 35 del club. I primi veri tesserati sono intanto arrivati in questi giorni: due fratelli egiziani ora affidati a una comunità.

Ma il progetto è soprattutto un accompagnamento anche dopo il periodo detentivo - ha detto Stefano Curioni, consigliere del club - perché l’Asr si è impegnata ad accogliere ogni ragazzo che lo desideri per essere un punto di riferimento anche una volta fuori dal carcere. Inoltre, i due sponsor si sono impegnati nel reinserimento dei giovani attraverso, ad esempio, stage in azienda. "È un ottimo progetto - ha detto don Gino Rigoldi -. Crea gruppo, fa sfogare le energie e insegna a gestire l’aggressività all’interno di precise regole", mentre il direttore dell’istituto, Sandro Marilotti, sogna "la nascita di una squadra di rugby, visto l’entusiasmo e la presenza di almeno due veri talenti".

Immigrazione: medici non spie, 50 associazioni contro la Lega

 

Vita, 29 gennaio 2009

 

Appello di 50 associazioni contro l’emendamento della Lega sulla segnalazione dei clandestini negli ospedali. Un emendamento che fa già paura: sono scesi del 30% gli accessi degli stranieri alle strutture sanitarie. "Siamo medici e infermieri, non spie".

50 associazioni, capitanate da Medici Senza Frontiere, dicono no all’emendamento targato Lega Nord al pacchetto sicurezza che elimina il principio di non segnalazione alle autorità per gli immigrati irregolari che si rivolgono a una struttura sanitaria. Il voto sull’emendamento è in programma il 3 febbraio a Palazzo Madama. Ma solo il fatto di averlo proposto ha avuto già degli effetti concreti. In due mesi - ovvero da quando si è cominciato a parlarne - "sono scesi di ben il 30% gli accessi degli immigrati alle strutture sanitarie, quelle realizzate ad hoc per loro, ma anche pronto soccorso e corsie degli ospedali". La cifra la fornisce Foad Hodi, fisiatra e presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi), a margine della conferenza stampa dove le associazioni hanno lanciato un appello ai senatori per convincerli a bocciare la misura. "La diminuzione di stranieri irregolari nelle strutture sanitarie", aggiunge Hodi, "è dovuto a un aumento della paura, con conseguenze che minano la salute pubblica di tutti noi, nessuno escluso".

"Si rischia una clandestinità sanitaria", aggiunge Salvatore Geraci, presidente della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), "con ripercussioni pesanti sulla salute collettiva. È un emendamento inutile, dannoso e pericoloso. Inutile perché non raggiunge i suoi obiettivi: non farà diminuire il numero di irregolari presenti sul territorio ma renderà ancora più complessa la loro situazione. Creerà, inoltre, dei percorsi paralleli al Ssn con maggiori rischi per la sicurezza, oltre che costi per la sanità pubblica, perché queste persone raggiungeranno gli ospedali solo quando le loro condizioni di salute saranno degenerate".

"Si viola un principio, quello del diritto alle cure", sostiene Kostas Moschochoritis, direttore in Italia di Medici senza frontiere, "che è riconosciuto dalla nostra Costituzione ed è un caposaldo dei diritti fondamentali". "L’articolo 32 del nostro testo costituzionale", gli fa eco Gianfranco Schiavone, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), "non fa alcuna distinzione, e tutela l’individuo in quando tale, non il semplice cittadino. Si tratta, dunque, di un diritto non comprimibile, una sfera che va salvaguardata. Neanche la legge Bossi-Fini aveva modificato questo impianto. Il diritto alle cure va esercitato in assoluta libertà, e al personale sanitario non devono essere assegnati compiti che non gli spettano".

Dal 2003 ad oggi Medici Senza Frontiere ha attivato e gestito sull’intero territorio nazionale 35 ambulatori Stp per stranieri privi di permesso di soggiorno visitando 18.000 pazienti, grazie a protocolli d’intesa con l’Asl locale di riferimento, per favorire l’applicazione delle normativa italiana che riconosce il diritto alla salute come un diritto umano fondamentale.

Per lunedì prossimo, dalle 17 alle 20, a Piazza Montecitorio, è stata anche convocata anche una fiaccolata, sempre per protestare contro l’emendamento. Per aderire all’appello: http://www.divietodisegnalazione.medicisenzafrontiere.it

Brasile: Battisti; a Camera mozione unitaria per l'estradizione

 

Asca, 29 gennaio 2009

 

"Siamo molto soddisfatti che tutti i gruppi parlamentari della Camera abbiano condiviso una mozione unitaria per chiedere al Governo brasiliano la revoca dello status di rifugiato politico e l’estradizione di Cesare Battisti".

Lo dichiara il deputato del Pd, Giovanni Bachelet che insieme a Giuliano Cazzola (Pdl),Carolina Lussana (Lega Nord), Silvana Mura (IdV), Ferdinando Adornato (Udc), Carmelo Lo Monte (MPA) e Ricardo Merlo (Gruppo Misto-Italiani all’Estero), più capigruppo, vice capigruppo e un centinaio di deputati di tutti i gruppi parlamentari, hanno presentato stasera una mozione sul caso Battisti che riassume e assorbe in sé, sostituendole, le mozioni presentate in precedenza dai singoli gruppi a seguito della mozione Cazzola.

Il testo è il seguente: "La Camera, premesso che: la politica europea di contrasto diretto e indiretto e di repressione del terrorismo ha inizio, alla fine degli anni ‘70, con la Convezione europea di Strasburgo, del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1977, ratificata in Italia con legge 26 novembre 1985, n. 719, a cui hanno fatto seguito numerosi altri atti ma soprattutto l’articolo K1 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in materia di cooperazione di polizia ai fini della prevenzione e della lotta al terrorismo, (ora articolo 29 della versione consolidata del Trattato sull’Unione europea); la decisione quadro (2002/584/GAI), relativa al mandato d’arresto europeo (Mae) e alle procedure di consegna tra Stati membri prevede, in luogo dell’estradizione, l’adozione di una procedura di "consegna semplificata" delle persone colpite da provvedimenti restrittivi della libertà emessi dalle autorità giudiziarie dei Paesi membri. In Italia il mandato di arresto europeo ha trovato attuazione nel primo semestre 2005, in forza della legge n. 69 del 22 aprile 2005; proprio in questi giorni è tornata prepotentemente alla ribalta delle cronache la vicenda di Cesare Battisti, ex leader dei Pac - i Proletari armati per il comunismo, un terrorista condannato in contumacia con sentenze definitive, pronunciate secondo le leggi della Repubblica italiana, all’ergastolo e ad un periodo di isolamento diurno, oltre che per banda armata, rapine, detenzione di armi, atti di violenza a mano armata (gambizzazioni), per ben quattro efferati omicidi: in due di essi (omicidio del maresciallo degli allora agenti di custodia, Antonio Santoro, Udine 6 giugno 1978; omicidio dell’agente Andrea Campagna, Milano 19 aprile 1979), egli sparò materialmente in testa o alle spalle delle vittime; per un terzo (Lino Sabbadiri, macellaio, ucciso a Mestre il 16 febbraio 1979) partecipò materialmente all’agguato facendo da copertura armata al killer Diego Giacomini; per il quarto (Pierluigi Torregiani, Milano 16 febbraio 1979) fu condannato come co-ideatore e co-organizzatore; Cesare Battisti venne arrestato nel 1979 nell’ambito di un’operazione antiterrorismo e detenuto nel carcere di Frosinone, dal quale il 4 ottobre 1981 riuscì ad evadere e a fuggire in Francia da cui poi si trasferì in Messico.

Rientrò a Parigi nel 1990 dove, poco tempo dopo, venne arrestato a seguito di una richiesta di estradizione del Governo italiano. Nell’aprile 1991, dopo quattro mesi di detenzione, la Chambre d’Accusation di Parigi lo dichiarò non estradabile. La magistratura italiana richiese nuovamente la sua estradizione, che venne concessa dalle autorità francesi il 30 giugno 2004; il Consiglio di Stato francese e la Corte di cassazione, con due successive decisioni sulla richiesta di estradizione, autorizzarono la consegna di Cesare Battisti alle autorità italiane. A seguito di tale provvedimento Cesare Battisti si rese latitante, lasciando la Francia e facendo perdere le sue tracce sino al suo arresto avvenuto a Copacabana, in Brasile, il 18 marzo 2007, a seguito di indagini congiunte di agenti francesi e carabinieri del raggruppamento operativo speciale; l’ultimo ricorso, presentato da Cesare Battisti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, contro la sua estradizione in Italia, venne dichiarato dalla stessa Corte inammissibile nel dicembre del 2006 in quanto manifestamente infondato; con la legge di ratifica del 23 aprile 1991, n. 144, entrava in vigore, per una durata illimitata, il trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile, fatto a Roma il 17 ottobre 1989; con una decisione che i firmatari della presente mozione reputano opinabile sul piano giuridico perché in netto contrasto con quanto stabilito nel richiamato trattato Italia-Brasile e eticamente discutibile perché offende la memoria delle vittime del terrorismo, i loro familiari e il Popolo italiano tutto che vede così stravolti i principi democratici di giustizia e certezza della pena, in data 13 gennaio 2009, il Ministro della giustizia del Brasile, Tarso Genro, ha concesso lo status di "rifugiato politico" a Cesare Battisti con la motivazione di "timori di persecuzione politica" al rientro di Cesare Battisti nel nostro Paese, stracciando di fatto non solo gli accordi in essere con lo Stato italiano in materia di estradizione ma rinnegando tutte le diverse pronunce delle Corti europee e internazionali che più volte si sono espresse in favore dell’estradizione in Italia del Battisti. Tutto ciò ha suscitato unanime sdegno e riprovazione del Governo italiano e del Presidente della Repubblica italiana, che, con "rammarico e stupore", nel difendere le garanzie del nostro Ordinamento Giuridico, ha scritto al Presidente della Repubblica federativa del Brasile rendendosi interprete di quella "vivissima emozione e della comprensibile reazione che la grave decisione ha suscitato nel Paese e tra tutte le forze politiche italiane"; la decisione sullo status di rifugiato politico concesso a Cesare Battisti, assunta in maniera isolata dal Ministro della giustizia, Tarso Genro, ancor prima della conclusione del giudizio sulla richiesta di estradizione, è in palese contrasto con la decisione del Comitato nazionale per i rifugiati del Brasile che sulla concessione ditale status già si era espresso negativamente; la decisione del Ministro della giustizia del Brasile ha scatenato polemiche all’interno dello stesso Governo del Brasile, tanto che il Tribunale Supremo Federale ha bloccato la scarcerazione di Cesare Battisti, contestando la ricostruzione del Ministro della giustizia e giudicandola, difatti, "un atto isolato", impegna il Governo: ad adottare ogni opportuna azione utile per la tutela del proprio ordinamento giuridico in sede internazionale, perseguendo e potenziando gli interventi già intrapresi dal Governo sul piano delle relazioni diplomatiche, economiche e commerciali, al fine di richiamare il Governo della Repubblica federativa del Brasile al rispetto dei trattati internazionali sottoscritti in materia di estradizione e, dunque, invitare il Governo del Brasile ad operare immediatamente per la revoca dello status di rifugiato politico a Cesare Battisti, concedendo l’immediata sua estradizione, affinché possa scontare in Italia la pena a lui comminata per i reati commessi; a rafforzare gli strumenti di cooperazione internazionale per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, sia in ambito europeo, trattando con paragonabile energia casi analoghi a cominciare da quello di Marina Petrella, sia attraverso una più ampia e fattiva collaborazione con i Paesi extra-europei in materia di sviluppo di iniziative volte a favorire l’armonizzazione e la reciprocità degli ordinamenti giuridici".

Giappone: pena di morte, nel 2009 eseguite quattro condanne

 

Ansa, 29 gennaio 2009

 

Il Giappone ha giustiziato quattro detenuti accusati di omicidio impiccandoli. Queste sono le prime esecuzioni dell’anno nonostante le critiche avanzate dal panorama internazionale. Le ultime esecuzioni risalivano allo scorso ottobre, quando vennero impiccati due detenuti. Secondo un comunicato del ministero della Giustizia, i quattro prigionieri sono stati impiccati a Tokyo, Nagoya e Fukuoka. Due degli uomini giustiziati erano stati condannati alla pena capitale per aver ucciso due donne, aver bruciato e fatto in pezzi i loro corpi. Gli altri due invece erano stati condannati a morte perché responsabili di furti e di successivi omicidi. La pena capitale è largamente sostenuta dalla popolazione Giappone, Paese con il più basso tasso di criminalità del mondo.

 

 

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