Rassegna stampa 15 gennaio

 

Giustizia: denuncia di medici carcerari "siamo all’emergenza"

di Valeria Pini

 

La Repubblica Salute, 15 gennaio 2009

 

In carcere stress da reclusione, disagi e sovraffollamento sono un terreno fertile per la diffusione delle malattie. Problemi che ogni giorno 2.000 medici e infermieri cercano di affrontare. Pochi per una popolazione detenuta che a fine anno ha toccato le 60.000 presenze, in strutture non adeguate. Un nodo, quello della salute in carcere, che ora, con il decreto attuativo che conclude la riforma del dl 230 del 1999, passa sotto la competenza del Servizio sanitario nazionale. Secondo l’ultimo rapporto della Commissione Giustizia del Senato, solo il 20% dei detenuti è sano, mentre il resto si trova in condizioni mediocri (38%) o scadenti (37%). Il 4% è in condizioni gravi e fra questi c’è una percentuale alta di "co-morbosità", in poche parole: più malattie e handicap in uno stesso paziente.

 

L’80% è malato

 

"In carcere", dice Andrea Franceschini della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe), "arrivano spesso persone che provengono da ambienti disagiati e già questo porta a un concentramento di patologie".

Il 21% dei detenuti è tossicodipendente, il 15% ha problemi di masticazione, il 16% soffre di depressione o di altri disturbi psichiatrici, il 13% di malattie osteoarticolari, l’11% di malattie del fegato, il 9% di malattie gastrointestinali e il 6,6% di malattie infettive. La tossicodipendenza è spesso associata a Aids, epatite C e disturbi mentali.

"Secondo uno studio del Simspe il 17% dei detenuti è affetto da patologie virali croniche, fra cui l’epatite C", dice Franceschini. "Per quanto riguarda l’hiv il calcolo è più complesso, dal momento che il test non è obbligatorio e solo il 30% dei detenuti accetta di farlo. Per questo il dato reale può essere diverso rispetto alle stime".

 

Spazi minimi

 

Dal nord al sud il sovraffollamento è una emergenza, soprattutto per l’incidenza sulla diffusione delle malattie infettive. A ottobre i detenuti erano 57.739 a fronte di una capienza tollerabile di 43.084 unità. Più di 21.400 sono extracomunitari. In Lombardia la Asl ha denunciato due situazioni gravi: a San Vittore, nel "sesto raggio", celle di due metri per tre ospitano sei detenuti, mentre a Monza sono stati segnalati parassiti pericolosi per l’uomo. "È un problema strutturale", commenta Angelo Donato Cospito, responsabile dell’Unità operativa di Sanità penitenziaria in Lombardia. "Solo in Lombardia ci sono 8.000 detenuti in continuo aumento. Ci si contagia più facilmente. Fra l’altro, con la presenza di stranieri, sono emerse malattie quasi scomparse, come scabbia e pediculosi".

Secondo uno studio di Vincenzo De Donatis, dell’Area Sanitaria della Casa Circondariale di Modena, un detenuto ha una probabilità 30 volte superiore alla media di contrarre la Tbc, nonostante i frequenti controlli negli ambulatori degli istituti di pena. Fra i problemi che portano alla diffusione di virus e batteri c’è anche quello della scarsa igiene. Nelle celle il water è vicino al lavandino dove si lavano frutta, verdura e stoviglie. Qui, le norme igieniche che si rispettano in casa, sembrano svanire nel nulla. A Bologna l’associazione "Papillon" ha denunciato problemi come la mancanza di acqua calda e il fatto che, secondo i carcerati, il cibo è causa di gastriti e altre patologie.

"In queste condizioni di disagio e sovraffollamento", dice Francesco Ceraudo, presidente dell’Associazione medici amministrazione penitenziaria italiana (Amapi), "dopo aver perso la libertà i detenuti rischiano di perdere la salute". "In carcere", aggiunge Franco Levita, responsabile sanitario dell’Opg di Barcellona, in Sicilia, e segretario dell’Amapi, "anche una semplice influenza può pesare come un macigno sullo stato fisico del paziente. In Sicilia abbiamo un incremento continuo delle presenze negli istituti, anche per l’aumento degli sbarchi di immigrati. Lo spazio vitale diminuisce sempre di più e aumenta non solo il disagio fisico, ma anche quello psichico".

Difficoltà di adattamento e stress da reclusione sono all’origine di numerosi disagi psichiatrici (16% fra le patologie) per chi vive in stato di reclusione. Giuseppe Nese, presidente del Forum per il diritto alla Salute in carcere della Campania, spiega che per affrontare le difficoltà dietro le sbarre e i continui stati d’ansia, in carcere viene spesso utilizzata una dose eccessiva di tranquillanti.

 

Disagi psichici

 

E poi c’è l’emergenza per le azioni di autolesionismo. Nel 2007 i casi di tentativo di suicidio sono stati 610 e 45 i suicidi, mentre gli atti di autolesionismo 3.687. Secondo i primi dati, nel 2008 su 72 persone morte in carcere 31 si sono suicidate. In otto anni sono decedute 1.100 persone dietro le sbarre, di cui 400 si sono tolte la vita.

"I giorni più pericolosi", spiega Giuseppe Nese, "sono i primi, quelli in cui la persona affronta lo stress da privazione della libertà. Per questo in quel momento sono previste visite psichiatriche. In un secondo momento la situazione migliora anche perché il detenuto trova una ragione di vita nella preparazione della sua difesa processuale".

 

La burocrazia

 

Esistono determinate situazioni in cui il detenuto si ammala e non può essere curato in carcere. In tutto 15 istituti di pena dispongono di propri centri per la diagnosi e la terapia, mentre sono pochi gli ospedali con reparti speciali per il ricovero dei reclusi.

Gli istituti penitenziari più grandi come, ad esempio, Poggio Reale o Rebibbia ospitano dei veri e propri centri clinici. In tutte le altre strutture c’è comunque una presenza infermieristica o medica 24 ore su 24. Nei casi più gravi si chiede di spostare il paziente in ospedale. Per quanto riguarda invece i casi di ricovero ordinario, se il detenuto è in attesa di giudizio, la direzione del carcere invia un fax all’autorità giudiziaria per l’autorizzazione al ricovero esterno. Nel giro di 24/48 ore è l’Autorità giudiziaria a autorizzare o meno il ricovero. In caso di esito favorevole, la direzione del carcere fa richiesta di posto letto agli ospedali per verificarne la disponibilità. Se si tratta di detenuti con pene definitive l’iter è lo stesso, ma è il magistrato di sorveglianza a decidere. Se, invece, la patologia richiede un ricovero urgente, la direzione del carcere trasferisce subito il detenuto in ospedale (di solito il servizio di emergenza sanitaria 118 si avvale del pronto soccorso del nosocomio più vicino) dandone comunicazione all’Autorità giudiziaria.

A volte non si riesce a intervenire in tempo. "Tutte le problematiche che affronta un libero cittadino nel suo rapporto con il mondo sanitario le incontra un detenuto, con l’aggravante d’essere privo della libertà", spiega il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. "Il detenuto deve fare i conti con una impostazione che vede il diritto alla salute subordinato alle esigenze di sicurezza. Nell’agosto scorso due reclusi malati di tumore sono morti in vana attesa che un giudice decidesse sulla loro richiesta di trascorrere fuori del carcere gli ultimi periodi di vita". La Lombardia sta portando avanti un progetto che prevede poli sanitari specializzati nei diversi istituti di pena. Così, ad esempio, se un detenuto del carcere di Lecco soffre di cuore viene spostato a San Vittore, dove si trova il polo cardiologico.

 

Lo shock da primo ingresso

 

I primi giorni dietro le sbarre sono i più delicati, soprattutto da un punto di vista psicologico, per la salute del detenuto. La gestione dei nuovi arrivati dovrebbe essere affidata a uno staff composto da: psicologo, medico, infermiere, psichiatra, rappresentante dell’area educativa e della polizia penitenziaria, operatori del Ser.T., assistenti sociali e mediatori culturali e/o sociosanitari. Il primo livello del servizio di accoglienza è rappresentato dalla "visita di primo ingresso". L’Ufficio Matricola si accerta di eventuali precedenti detenzioni, recupera la cartella personale del detenuto e contatta i servizi sanitari territoriali che eventualmente lo hanno avuto in carico prima della detenzione. È obbligatorio solo l’Rw, il test che controlla se il paziente ha la sifilide. Serve il consenso del paziente invece per l’Hbv (epatite virale B), Hcv (epatite C) e per l’Hiv.

Giustizia: accordo Ucpi-Dap su verifiche livello vita in carcere

 

Ansa, 15 gennaio 2009

 

Le Camere Penali hanno raggiunto un accordo con il responsabile del trattamento penitenziario dei detenuti per accedere nelle carceri a controllare le condizioni di vita dei reclusi e del personale di vigilanza. Lo rende noto un comunicato delle stesse camere. "Si è svolto - informa l’Unione delle Camere Penali - un incontro tra l’Osservatorio Carcere dell’Ucpi ed il responsabile Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento amministrazione penitenziaria Sebastiano Ardita, per un confronto molto aperto sui problemi del carcere e dei regimi differenziati di detenzione". L’ Ucpi "ha ottenuto di poter accedere all’interno degli istituti penitenziari per rendersi personalmente conto dei problemi legati alla esponenziale crescita della popolazione detenuta, delle condizioni della vita quotidiana dei detenuti, dei problemi che affliggono il personale penitenziario e gli agenti di custodia"-

 

Il comunicato dell’Ucpi

 

L’avv. De Federicis, dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, ha incontrato il Consigliere Sebastiano Ardita, Responsabile della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, per un confronto molto aperto sui problemi del carcere e dei regimi differenziati di detenzione. Di seguito una sintesi dei temi affrontati, che preludono a nuove occasioni di confronto.

Nel corso del colloquio, svoltosi in modo franco e cordiale, sono stati affrontati molti dei temi cari all’Unione delle Camere Penali Italiane in materia di detenzione carceraria e di diritti della popolazione detenuta. In particolare il colloquio ha preso le mosse dalla comune preoccupazione circa il drammatico problema del sovraffollamento carcerario che sta incidendo e inciderà ancor più nei prossimi mesi, inevitabilmente, sulle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari.

L’UCPI ha ribadito la propria posizione di evitare provvedimenti legislativi che portino ad una eccessiva e spesso ingiustificata "carcerizzazione", auspicando modifiche nell’ambito dei provvedimenti in discussione in Parlamento sulla sicurezza, che appaiono per vari aspetti troppo drastici e dai tratti illiberali.

Sul punto l’avv. De Federicis ha anzitutto rappresentato al Consigliere Ardita della volontà dell’Ucpi di essere autorizzata ad accedere, con una propria delegazione, all’interno degli istituti penitenziari per rendersi personalmente conto dei problemi legati alla esponenziale crescita della popolazione detenuta, delle condizioni della vita quotidiana dei detenuti, dei problemi che affliggono il personale penitenziario e gli agenti di custodia.

Si è discusso anche della possibilità di iniziative congiunte tra il Dap e l’Ucpi che possano contribuire ad affrontare alcuni dei nodi più importanti della questione carceraria.

Sono stati affrontati, su richiesta dell’Ucpi, anche temi "scottanti", quali quello dei regimi differenziati di detenzione non regolamentati per legge (Eiv; alta sicurezza etc.), in merito alla necessità di introdurre una tutela giurisdizionale, e dei detenuti in regime di "41 bis", anche con riguardo alla problematica della autonomia ed indipendenza dei magistrati di sorveglianza che si è posta in casi di cronaca che hanno comportato decisioni di annullamento della applicazione del regime speciale.

Altro tema affrontato nelle sue linee generali è stato quello di ipotesi di introduzione della effettiva applicazione della "regionalizzazione" nei trasferimenti dei detenuti.

Pur nelle rispettive diversità di ruolo, si è auspicata una collaborazione e contatti più frequenti tra il Dap e l’Unione delle Camere Penali Italiane nel quadro di una comune visione di reale applicazione della funzione rieducativa della pena e dei pericoli connessi all’abbandono dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari, "spesso considerati solo come numeri".

Nell’occasione il Consigliere Ardita ha reso noto che il prossimo 10 febbraio si terrà un interessante convegno all’interno del carcere di Rebibbia N.C., convegno cui ha invitato ufficialmente l’Ucpi come tangibile segno di interesse per la politica penitenziaria posta in essere dai penalisti italiani. Infine, il Consigliere Ardita ha recepito, assicurando l’impegno per una sollecita risoluzione, la problematica della pronta comunicazione delle nomine agli avvocati da parte degli istituti penitenziari. Si è concordato che una modalità potrebbe essere quella di utilizzare il veicolo istituzionale dei consigli dell’ordine e delle sale avvocati che ad esso fanno capo all’interno dei tribunali. All’esito dell’incontro si è concordata l’opportunità di possibili nuovi colloqui che consentano di affrontare più nel dettaglio le varie questioni affrontate.

Giustizia: sulla sicurezza un "cambio di stagione" non si vede

di Luca Ricolfi

 

La Stampa, 15 gennaio 2009

 

Ha fatto un certo scalpore la notizia, peraltro ampiamente prevedibile e prevista, che per il 2009 pagheremo ancora più tasse che per il 2008. Secondo il Corriere Economia il cosiddetto "Tax freedom day" - ossia il giorno di liberazione dalle tasse, in cui finalmente cominciamo a lavorare per noi stessi anziché per lo Stato - si è spostato di altri 2 giorni in avanti: quest’anno dovremo aspettare fino al 23 giugno, un vero record (dall’Unità d’Italia a oggi solo il governo D’Alema, nel 2000, riuscì a fare peggio).

Né possiamo consolarci pensando che le cose siano destinate presto a cambiare: anche per i restanti anni della legislatura il Dpef prevede una pressione fiscale costante, attestata intorno al 43%, nonostante il programma elettorale del centro-destra confidasse in un calo della pressione fiscale di almeno 3 punti di Pil, dal 43% al 40%.

Qualcuno, come Alberto Mingardi sul Riformista, interpreta questo ennesimo raffreddamento dell’anima liberale del centro-destra come la conferma definitiva della fine di una stagione, la stagione iniziata nel 1994 con Berlusconi leader di una destra anti-fiscale, campione della società contro lo Stato, dell’individuo contro la burocrazia degli apparati. Rispetto alla coppia libertà-sicurezza, il centro-destra attuale penderebbe sempre di più verso la sicurezza, l’ordine, la tradizione. Forse è così, ma quel che è interessante è che i risultati non si vedono nemmeno lì.

Naturalmente non è colpa di un governo appena insediato se gli sbarchi raddoppiano, la criminalità è ai massimi storici (superata solo dal picco post-indulto del 2007), l’affollamento delle carceri è tornato a livelli drammatici, gli stessi - circa 60 mila detenuti per 43 mila posti - che nel 2006 indussero il povero Prodi a promulgare l’indulto. Però è difficile sfuggire all’impressione che il governo non sappia come gestire la situazione, nonostante l’impegno di Maroni: i posti nelle carceri sono sempre quelli, quelli nei Cpt - paradossalmente - sono destinati a diminuire proprio a causa dell’aumento dei tempi di permanenza (se un clandestino viene trattenuto 10 mesi anziché 2, la capacità di accoglienza si riduce proporzionalmente). Nel programma si parlava di "costruzione di nuove carceri", "aumento delle risorse per la giustizia", "garanzia della certezza della pena", tutto fa pensare invece che nel 2009 il governo sarà costretto a nuovi provvedimenti di emergenza, presumibilmente destinati a scattare l’estate prossima, quando le presenze in carcere (e forse anche nei Cpt, ora rinominati Cie) toccheranno livelli insostenibili.

Ma non è tutto. I cavalli di battaglia elettorali del centro-destra non erano solo la riduzione delle tasse e la lotta a criminalità e immigrazione irregolare. C’era anche un terzo cavallo di battaglia, che stava particolarmente a cuore alla Lega e all’elettorato "padano": l’adozione da parte del Parlamento nazionale della proposta di legge sul federalismo fiscale della Regione Lombardia (votata il 19 giugno 2007). Pure questo cavallo è nel frattempo caduto, anche se pochi se ne sono accorti: la "bozza Calderoli", che ha sostituito la proposta lombarda, è un drammatico passo indietro rispetto al progetto originario, e infatti ha ottenuto il consenso di tutte le forze che in origine si opponevano al federalismo, soprattutto governatori del Mezzogiorno e importanti settori della sinistra. Per non parlare dei recenti ripianamenti dei deficit di Catania, di Roma, della sanità laziale, o della costosissima conclusione di vicende come Alitalia e Malpensa. È grazie a questo genere di passaggi che il federalismo, che in origine era un’opportunità per diminuire la spesa e le tasse, ha oggi molte più probabilità di aumentarle entrambe.

Uno-due-tre: meno tasse, più sicurezza, federalismo "lombardo". Su queste tre cose, a mio giudizio le più qualificanti (anche se non necessariamente le più condivisibili) del programma di centro-destra, non si vede proprio come Berlusconi abbia la possibilità di onorare le promesse. Ciononostante il consenso a Berlusconi resta molto alto, anche se da qualche tempo in calo. Perché? Per due ragioni almeno. La prima è ovvia: il tradimento del programma per ora è evidente solo sul versante delle tasse, e in questo momento - con la recessione economica incombente - la gente chiede più protezione, non più libertà. I guai veri verranno se e quando esploderà il problema delle carceri e il federalismo, nonostante l’uscita dalla recessione, si mostrerà incapace di ridurre davvero le tasse e la spesa.

Ma la ragione più importante del perdurante consenso del centro-destra è un’altra: il Pdl non ha seri nemici a destra, esattamente come il Pci non ne aveva (e non ne tollerava) a sinistra. È questa la ragione politica per cui i fallimenti del governo non si traducono in consenso all’opposizione: federalismo vero, meno tasse, linea dura su criminalità e immigrazione sono "missioni" che interessano una parte considerevole dell’elettorato, ma non le forze di opposizione, che semmai considerano positivo il fatto che il centro-destra stia annacquando il suo programma. Gridare alle tasse troppo alte, alla pericolosità delle città, al pasticcio federalista non è congeniale a un’opposizione che pensa che le tasse siano "bellissime", gli immigrati "buonissimi", e il federalismo rischiosissimo a meno che noi illuminati lo rendiamo "equo e solidale". Insomma, il curioso della situazione è che il centro-destra sta abbandonando le sue bandiere, ma non c’è nessuno che abbia la voglia o la possibilità di raccoglierle. Per questo, almeno per ora, Berlusconi può dormire sonni tranquilli. Un po’ meno gli elettori che lo hanno votato sperando che, questa volta, avrebbe mantenuto le promesse.

Giustizia: Alfano; Consulta non boccerà il Lodo, la riforma va

 

Il Velino, 15 gennaio 2009

 

"Non crediamo che questo lodo potrà avere un giudizio negativo da parte della Corte Costituzionale". Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia Angelino Alfano ai microfoni della trasmissione "Radio anch’io" a proposito della decisione che la Consulta dovrà prendere sulla legittimità o meno della legge che porta il suo nome e che introduce l’immunità per le quattro alte cariche dello Stato.

"La Corte Costituzionale - prosegue - ha considerato validi i principi che sono alla base di questa legge affinché ci sia il sereno svolgimento del lavoro delle alte cariche dello Stato". Alfano ha assicurato che sono stati mantenuti i principi indicati dalla Corte e rimediato ai vizi presenti nella sentenza con cui la Consulta aveva bocciato il precedente lodo Schifani. "Crediamo di aver fatto una legge al servizio del Paese e delle istituzioni". E se la legge dovesse bocciare il lodo Alfano? "Io mi occupo di fare - sottolinea il Guardasigilli - il ministro della Giustizia con queste leggi, non mi occupo di fanta-giustizia".

Per quanto riguarda la riforma della giustizia, Alfano non crede sarà frenata dagli alleati, perché c’è una condivisione di fondo sul provvedimento. "Il 23 gennaio - afferma - avvieremo la discussione sul testo di riforma del processo penale e nell’ambito di pochi Consigli dei ministri si farà la scelta fondamentale per la cornice di interventi sulla Costituzione".

"Sto raccogliendo le istanze di tutti - sottolinea il ministro della Giustizia - e sto elaborando l’articolato, che spero conterrà anche le istanze dell’opposizione, e lo sottoporrò nei prossimi giorni a tutti i partiti". L’obiettivo della riforma del processo penale che, ribadisce Alfano, intende portare al Consiglio dei ministri della prossima settimana è quello di "puntare sulla maggiore efficienza della giustizia, sul giusto processo, sulla certezza della pena e anche sulla qualità dei procedimenti". "Occorre garantire - spiega il Guardasigilli - i principi del giusto processo attraverso la parità di accusa e difesa.

Ciò significa che il pm continuerà a fare il suo lavoro e rafforzeremo le garanzie della difesa". Per il "caso Battisti" Alfano ha intenzione di mandare al ministro della Giustizia brasiliano "un’istanza di ripensamento" perché riveda la decisione presa e, nei limiti del possibile, pensi a un ricorso alla Cassazione del Brasile. "Contatterò personalmente il ministro brasiliano per spiegare a voce l’indignazione delle famiglie delle vittime del terrorismo e le ragioni per cui la giustizia italiana ha condannato Battisti con tutte le garanzie e che la pena sarebbe scontata con tutti i criteri di democrazia".

"Il governo italiano - afferma Alfano - è sorpreso, deluso e amareggiato ma non rassegnato: valuteremo tutti i rimedi giuridici previsti dai trattati internazionali e dalle leggi brasiliane. Faremo tutto ciò che è possibile fare e faremo pesare il fatto che Paesi che intendono collaborare per la democrazia mondiale, come il Brasile al G8, non possono immaginare di agevolare il loro percorso attraverso la negazione di diritti accertati dalla giustizia di un altro Paese".

Sul caso De Magistris per il quale il Guardasigilli ha sollecitato i trasferimenti di sei magistrati e la sospensione del procuratore capo di Salerno Luigi Apicella, Alfano spera che il Csm dia presto riscontro alla sua richiesta. "Ciò che è accaduto tra le procure di Salerno e Catanzaro è inaccettabile e getta onta sull’intero sistema giudiziario. È ridicolo e una follia sostenere che il ministero della Giustizia intenda creare una cancelleria unica virtuale gestita come una sorta di Grande fratello su tutte le inchieste giudiziarie in corso. E se c’è qualcuno che ritiene che dalla cancelleria del tribunale di Milano si possa accedere ai dati del tribunale di Palermo si rende ridicolo da solo".

"Se qualcuno - ribadisce Alfano - pensa che la giustizia deve rimanere così com’è, con faldoni polverosi o processi annullati perché manca un atto che non arriva, oppure se qualcuno vuole tornare a carta, penna e calamaio, sappia che questo governo sta dalla parte della digitalizzazione della giustizia, dell’uso di internet, della segretezza degli atti e dell’efficienza. Noi preserveremo la privacy dei cittadini e garantiremo l’efficienza". Il ministro, infine, ha annunciato che nel ddl di riforma del processo penale che andrà al Consiglio dei ministri del prossimo 23 gennaio, sarà prevista una delega al governo per la informatizzazione degli uffici giudiziari.

Giustizia: prima il federalismo il ddl sicurezza slitta a febbraio

 

Ansa, 15 gennaio 2009

 

L’aula del Senato ha sospeso i lavori sul Ddl sicurezza. Le votazioni agli emendamenti, causa federalismo fiscale, riprenderanno il 3 febbraio. Rimangono quindi in sospeso alcune delle questioni più spinose. Della tassa sul soggiorno per gli immigrati, come del nodo carcere per i graffittari su cui la Lega ha posto il veto, se ne riparlerà dopo l’approvazione del ddl sul federalismo fiscale. Oggi le votazioni sul ddl si sono fermate all’articolo 33 che prevede norme più stringenti per la confisca dei beni mafiosi.

Giustizia: Alfano; "cabina di regia" per efficienza dei tribunali

 

Asca, 15 gennaio 2009

 

La nascita di una "cabina di regia" in grado di misurare il livello di efficienza della macchina giudiziaria di Milano. L’annuncio arriva dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, volato oggi a Milano per incontrare i vertici del Palazzo di Giustizia e le autorità politiche locali. Presenti al vertice, tra gli altri, il presidente del tribunale, Livia Pomodoro, il presidente della Corte di appello Giuseppe Grechi, il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, e il sindaco di Milano, Letizia Moratti. Il Ministro ha parlato di "un grande spirito di squadra", fino a indicare nel modello milanese "un tipo ideale di come si debba intendere la giustizia al servizio dei cittadini".

È poi toccato al presidente del Tribunale, Livia Pomodoro, spiegare gli obiettivi della cabina di regia: "trovare le risorse per rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia. Si tratta di trovare le risorse materiali riguardo l’efficienza informatica, per il personale, e per tutto quello che è necessario per avere un’amministrazione efficiente". Per Livia Pomodoro, la Cabina di Regia "potrà essere aperta anche ad altri rappresentanti pubblici", e proprio per questo rappresenta "patto istituzionale per dare ai cittadini risposte sui loro diritti e interessi legittimi".

A verificarne l’efficacia sarà lo stesso Ministro della Giustizia: "Tra 6 mesi - ha assicurato Alfano - tornerò qui per misurare i risultati di questa cabina di regia". Il Ministro si è anche soffermato sulla nuova cittadella giudiziaria che dovrebbe essere realizzata entro il 2015, confermando "la validità di quel progetto che restituirà a Milano, logisticamente, simbolicamente e operativamente il decoro dei luoghi dove lavorano gli uomini che si occupano di giustizia".

Soddisfatto per l’esito dell’incontro anche il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giuseppe Grechi: "Il ministro - ha commentato - ci ha spiegato e garantito che un terzo dei soldi che verranno recuperati dall’evasione andranno alla giustizia e che ci sarà uno stanziamento per nuove carceri". Per Grechi, la realizzazione della nuova cittadella giudiziaria rappresenta una "priorità assoluta" per Milano, considerato soprattutto che la questione "è direttamente collegata al problema delle carceri".

Giustizia: Garante detenuti Lazio; settore minorile in pericolo

 

Adnkronos, 15 gennaio 2009

 

C’è un settore del tanto bistrattato sistema giudiziario italiano che funziona tanto bene da essere preso a esempio dall’Unione Europea. Si tratta del settore della giustizia minorile: un settore che, tuttavia, è oggi in serio pericolo perché il Governo, in nome dell’esigenza di risparmio e di ottimizzazione delle risorse, intende accorparlo nell’organizzazione del Ministero della Giustizia. Lo afferma il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni che sottolinea come la giustizia minorile è al centro di una valutazione del Governo che ne può compromettere la sua collaudata autonomia che si è distinta nel tempo dalla cultura carceraria degli adulti, di cui pure ne aveva rappresentato l’emanazione.

Per Marroni, la strada ipotizzata dal Governo comporterebbe la fine di un’esperienza positiva e l’umiliazione di competenze professionali. La giustizia minorile - aggiunge - ha da tempo affrontato una questione oggi all’attenzione del sistema degli adulti come certi aspetti della gestione del trattamento del minore sia in carcere che fuori, e in particolare l’istituto della messa in prova. Il Garante conclude affermando che se proprio dovesse essere necessario giungere a una ristrutturazione, si potrebbe pensare ad un ritorno della Giustizia Minorile all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, come è stato in passato.

Giustizia: Lega; il carcere per i writer?, una misura eccessiva

 

Redattore Sociale - Dire, 15 gennaio 2009

 

"Siamo contrari al carcere per i writer, abbiamo presentato i nostri emendamenti ma stiamo lavorando a una soluzione". È quanto dice il capogruppo della Lega al Senato, Federico Bricolo, secondo il quale "chi scrive su un muro non può essere colpito più duramente di chi commette reati più gravi".

La pena del carcere per i graffittari contenuta nel ddl sicurezza all’esame del Senato, "è eccessiva - sottolinea - il testo così com’è non ci trova d’accordo". Quindi conferma che la Lega ha presentato suoi emendamenti per chiedere che l’articolo 7 (quello appunto che prevede le misure contro il reato di deturpamento e imbrattamento) sia soppresso ma che si sta lavorando nella maggioranza a una mediazione che potrebbe risolversi con un emendamento del governo.

"Ci stiamo confrontando - aggiunge - e come per tutte le altre questioni troveremo quella che è la soluzione migliore". L’esponente del Carroccio sottolinea che comunque "c’è tempo" perché le votazioni sul ddl sicurezza sono state rimandate al 3 febbraio dopo il voto sul federalismo fiscale".

Giustizia: alcuni interventi su "terrorismo, vittime e perdono"

 

Una Città, 15 gennaio 2009

 

Una vicenda, quella dei familiari delle vittime del terrorismo, sempre al crocevia tra pubblico e privato; la parola "riconciliare" e l’inesigibilità del perdono; uno Stato che carica le vittime di responsabilità che non hanno; il senso di colpa e il volto dell’altro. Interventi di Benedetta Tobagi, Luigi Manconi, Guido Bertagna.

Nell’ambito dell’iniziativa "Alla ricerca del Buongoverno", promossa dal Comune di Siena", lo scorso 15 novembre si è tenuto il seminario, introdotto da Marcello Flores, dal titolo "Terrorismo, vittime, perdono: scelte individuali e morale pubblica" cui hanno partecipato Benedetta Tobagi, Manlio Milani, Luigi Manconi e Padre Guido Bertagna, direttore del Centro Culturale San Fedele di Milano. Omettiamo l’intervento di Manlio Milano, Presidente Associazione dei caduti di Piazza della Loggia, di cui pubblicheremo un’intervista nel prossimo numero.

 

Benedetta Tobagi

 

Riassumo brevemente la mia storia. Sono figlia di Walter Tobagi. Mio padre era un giornalista, inviato speciale del Corriere della Sera, ma anche uno storico, si è occupato soprattutto di storia del sindacato e dei movimenti della sinistra giovanile, era infine attivo nel sindacato di categoria, è stato presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti. È stato assassinato il 28 maggio del 1980, da una neonata formazione terroristica di sinistra, attiva solo a Milano, la Brigata 28 Marzo, che voleva con quell’azione accreditarsi presso le Brigate Rosse. Il suo omicidio si colloca verso la fine della parabola del terrorismo.

Aggiungo un altro elemento personale, che ha condizionato molto la mia percezione di tutta questa vicenda: io allora ero una bambina, avevo tre anni. Non ho memoria diretta né di mio padre né del contesto in cui è maturato il suo omicidio. Un altro tratto peculiare dell’esperienza mia e di tanti altri che hanno subito esperienze simili è che la nostra vicenda è al tempo stesso privata e pubblica, le vittime del terrorismo in Italia si trovano in questo scomodo crocevia tra pubblico e privato, che entra come elemento molto condizionante nell’approccio alla questione del perdono e della riconciliazione. Un’altra peculiarità del "caso Tobagi" è che la vicenda giudiziaria si intreccia strettamente con il grande fenomeno del "pentitismo", che si è palesato verso la fine del terrorismo e ha dato un contributo sostanziale alla disgregazione delle bande armate. Uno degli assassini di mio padre, Marco Barbone, è stato uno dei cosiddetti "grandi pentiti", per cui la vicenda mia, personale e della mia famiglia, si intreccia con i feroci dibattiti scatenatisi intorno alla legislazione premiale.

L’uso del pentiti ha fatto molto discutere anche nell’ambito dei procedimenti che riguardano la criminalità organizzata, per cui è un tema ancora molto sensibile e di grande attualità.

Devo dire che io ho cominciato ad occuparmi di ciò che è successo a partire da un’esigenza personale, che poi naturalmente è confluita in gran parte in un’esperienza più ampia di testimonianza e di approfondimento: ho fatto degli studi prima filosofici, poi storici, perché era troppo forte l’esigenza di capire che cosa fosse successo nel Paese -proprio perché il mio lutto era anche una vicenda pubblica. Credo che si possa tracciare un’analogia tra l’esigenza psicologica di un giovane di capire la propria storia e quella di un’intera società di fare i conti col passato, di conoscere le proprie radici, anche per poter trovare una direzione sensata di sviluppo.

Oggi mi occupo e scrivo di questo passato doloroso, del terrorismo, che continua a essere presente nel dibattito pubblico. Ho scelto di impegnarmi anche in attività concrete per il recupero della memoria e per l’approfondimento della conoscenza storica di quel periodo. Esiste una fitta rete di soggetti e di iniziative che attraverso l’istituzione di centri di documentazione, archivi, "Case della memoria" contribuiscono indirettamente alla ricerca storica.

Vorrei fare una considerazione a partire dalla cronaca. A metà ottobre sul Corriere è uscito un articolo dal titolo "Il nodo resta la riconciliazione con le vittime". Ecco, io credo che questo non sia vero.

Certo, le vittime e i familiari delle vittime del terrorismo sono moltissime, e questo è sicuramente un elemento molto sensibile, urticante, ma non dobbiamo dimenticare che quegli anni, diciamo dal ‘69 ai primi anni ‘80, sono stati molto "affollati", per citare Gaber, un periodo molto complesso, molto inquieto, ma anche fecondo, dal punto di vista sociale, politico. Sicuramente anche molto traumatico per molti gruppi sociali, non solo per le vittime del terrorismo.

Quante esperienze di militanza e impegno politico sono "defunte", schiacciate dalla situazione di emergenza e scontro frontale tra lo Stato e i terroristi? I lutti che hanno colpito me e altre persone sono solo i più palesi e più gravi, ma sono moltissime le ferite da rimarginare nella società. Ora, mentre il perdono è un fatto individuale, che riguarda la coscienza del singolo e il suo rapporto con Dio, se è credente, la riconciliazione è qualcosa di diverso. Il termine è impiegato con significati e intenti diversi, generando ambiguità (Padre Bertagna su questo potrà forse confortarmi, dal punto di vista anche teologico). Riconciliare, io sono andata a rivedermelo sul dizionario, vuol dire letteralmente "ristabilire un rapporto normale, temporaneamente deteriorato, nell’ambito giuridico, affettivo o anche politico".

Ora, come accennavo, sono tanti i "rapporti lacerati" da considerare. Il rapporto tra vittima e reo è in realtà il più anomalo: il rapporto infatti si crea con il reato; io ad esempio non voglio costruire un nuovo rapporto con gli assassini, vorrei anzi sciogliere questo nodo, cancellare lo spettro degli assassini dalla mia vita. Ci sono invece altre lacerazioni da riconciliare. Manconi ricorda, per esempio, quella fra ex nemici, come i militanti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Ne aggiungo un’altra, che secondo me è la più grande, quella fondamentale: la lacerazione che si è prodotta fra le istituzioni dello Stato e la cittadinanza. Mi pare sia questo il rapporto più urgente da ricostruire. Parlo di un rapporto di fiducia e di senso di appartenenza dei cittadini nei confronti di questo Stato - pensiamo alle vicende relative allo stragismo - che ha spesso mostrato un volto opaco, oscuro. Questo ha contribuito, ad esempio, al fatto che nel ‘78 in molti si riconoscessero nella formula "né con lo Stato né con le Br".

Tutti possiamo concordare che ancora oggi c’è un forte e diffuso senso di distacco dalla politica e dalle istituzioni, prodotto anche dalle esperienze di quegli anni: credo che i percorsi di riconciliazione si debbano innestare in un discorso molto più ampio del rapporto tra vittime ed ex-terroristi, configurandosi piuttosto come tappe di un percorso di elaborazione degli eventi della storia recente, per riappropriarci anche di un senso di cittadinanza rinnovato.

 

Luigi Manconi

 

Devo dire che raramente mi è capitato, in occasione di discussioni sui temi che sono al centro del nostro confronto, di trovarmi in tanto pieno accordo con altri interlocutori. Lo dico con sincerità. Gli interventi che mi hanno preceduto mi trovano così largamente consenziente, che mi limito a evidenziare alcuni passaggi. Primo punto: io riterrei indispensabile un processo che chiamiamo per convenzione di "riconciliazione", lo ritengo strettamente indispensabile, ma sono convinto che nel nostro paese non si potrà realizzare. Non semplicemente, non principalmente, come ha detto Marcello Flores introducendo questo seminario, perché in Italia non c’è stata la tragedia di una guerra civile. Direi principalmente per una ragione che ha a che fare con la codardia della classe politica e del ceto intellettuale. Secondo punto: ribadisco ciò che Benedetta Tobagi ha detto: il perdono è un fatto strettamente individuale, che va custodito nella sfera delle scelte più intime e che là solo si può realizzare. Contemporaneamente non va dimenticato che esiste anche nella sfera pubblica qualcosa che evoca il perdono, che non è giusto chiamare perdono, che può avere effetti simili, ma ragioni totalmente diverse. Nell’ambito dell’ordinamento giuridico sono previsti il condono, l’indulto, l’amnistia, che hanno effetti concreti, riguardo alla condizione del colpevole, ma che non sono motivati da ragioni private, di ispirazione morale, di sensibilità religiosa, che muovono da un percorso individuale, bensì da un sacrosanto calcolo economico-strumentale, direi utilitaristico. Condono, indulto, amnistia, possono essere estremamente utili per l’efficacia di una condizione giudiziaria, per il suo sviluppo positivo, per il superamento di condizioni d’emergenza. Terza questione, quella perfettamente enunciata da Milani: caricare le vittime di una responsabilità che non hanno.

Questo caricare le vittime corrisponde, per un verso, ad una sorta di viltà istituzionale, che attribuisce all’altro, alla vittima, quindi alla figura più fragile, un compito che invece dev’essere delle istituzioni che se ne devono assumere la responsabilità. Ma attenzione, io penso che ci sia qualcosa di ben più importante e ben più delicato in quel caricare le vittime di un ruolo che non è il loro. Detta in maniera sintetica e grossolana, lo Stato di diritto nasce nel momento in cui la giustizia e l’esecuzione della pena vengono sottratti dalle mani delle vittime del delitto e assegnati a una istituzione terza. Prima dello Stato di diritto, la vittima o i suoi familiari esercitavano la facoltà di rifarsi sul colpevole, giudicavano ed eseguivano la pena. Lo Stato di diritto nasce esattamente nel momento in cui da una giustizia tribale si passa a una giustizia esercitata da istituzioni terze, dai tribunali. Dunque, nulla è più vile, come diceva Milani usando questa formula, e per l’altro verso regressivo, di quella indecente consuetudine mediatica, ma anche politica, per cui, nel momento in cui la magistratura di sorveglianza sta per decidere di un beneficio da assegnare ad un ex terrorista, si interpellano i familiari delle vittime chiedendo loro se condividono quel provvedimento. Ripeto, non è solo un atto di viltà, è una regressione culturale e giuridica molto grave. E io credo che a questa tentazione la gran parte dei familiari delle vittime, ormai da tempo, abbiano imparato a sottrarsi. Veramente io penso che ci sia stata una straordinaria novità che vede un’attenzione molto sensibile a non mischiare i due ruoli. Diceva ancora Benedetta Tobagi: "Ho letto sul vocabolario la definizione di riconciliazione", e quella definizione io credo che sia quella giusta, quella da accettare: la ricostruzione di un rapporto. È esattamente questo. Ma il significato che io do alla parola riconciliazione, e che avrei auspicato potesse avere il processo di riconciliazione, e che, ahimè, ritengo irrealizzabile nel nostro paese, è esattamente la ricostituzione di un rapporto, ma non tra vittime e colpevoli, bensì tra lo Stato e i cittadini. Quello cioè che si è rotto è il legame sociale fra una parte di generazioni attive, mobilitate, protagoniste degli anni ‘60 e ‘70, e il sistema di allora. È la rottura del patto sociale che ha provocato quella sfiducia, quella lontananza e quella ostilità, che non hanno immediatamente prodotto e tanto meno giustificato il terrorismo - credo sarebbe veramente irresponsabile vederla in questi termini - ma hanno contribuito, questo sì, a creare un clima nel quale il terrorismo poteva trovare sue forme ambigue di omertà, di indifferenza e in qualche caso di simpatia.

Qual è la sostanza del patto sociale che s’è incrinato, e per certi versi rotto, negli anni ‘70? Il fondamento del patto sociale fra cittadino e Stato è molto semplicemente il fatto che lo Stato ha come primo suo compito quello di garantire l’incolumità fisica dei cittadini. Nel corso degli anni ‘70, giustamente o meno, io ritengo motivatamente, una parte dei cittadini ha ritenuto: a) che lo Stato non garantisse la loro incolumità fisica; b) che lo Stato, suoi apparati, suoi pezzi, suoi segmenti, suoi uomini, sue strutture, contribuissero attivamente ad attentare all’incolumità fisica dei cittadini. Questo è accaduto negli anni 70!

Quel patto fondativo del sistema della cittadinanza si è incrinato, o comunque una parte dei cittadini, non solo giovani, ha ritenuto che si fosse incrinato.

L’interpretazione dello slogan, che tutti tranquillamente possiamo oggi definire scellerato, "né con lo Stato né con le Br", fu chiarita nitidamente all’epoca da Leonardo Sciascia in un’intervista purtroppo trascurata. Egli diceva "né con le Brigate rosse, né con questo Stato", e sottolineava esattamente quello che io sto cercando di dire. E qualche anno prima, Pier Paolo Pasolini, in quell’articolo, forse troppo ricordato e poco letto, sul Corriere della Sera, in cui diceva "io so", esprimeva lo stesso concetto. Allora, se c’è stata questa incrinatura, per certi versi rottura, del patto sociale, del legame di affidamento, di reciprocità, della obbligazione fra Stato e cittadini, la sua ricomposizione non è mai avvenuta, perché quella incrinatura, quella rottura è stata semplicemente rimossa. È stata rimossa grazie alla vittoria militare dello Stato nei confronti del terrorismo, che ha consentito alla classe politica di cancellare il problema. Ma, e su questo concludo, cosa voglio dire quando affermo la necessità di quel processo di riconciliazione? Primo: la classe politica, gli apparati, le istituzioni cos’hanno saputo dire delle stragi degli anni ‘70? Cos’hanno saputo ricostruire di quelle responsabilità? E cosa hanno saputo autocriticare, non in sede penale, sia chiaro, ma in sede storica e morale? Niente, non c’è stata alcuna autocritica, né da parte della classe politica, né da parte delle istituzioni attraverso i suoi uomini e le sue amministrazioni. Ma faccio un altro esempio, che forse è meno semplice da fare anche in questa sede: l’omicidio di Luigi Calabresi. Chi l’ha ucciso? Di chi è la responsabilità? Certo, c’è un esito giudiziale… Ma perché non ricordare che 800 persone di grande prestigio intellettuale, di alta moralità, quando Luigi Calabresi era ancora vivo, hanno sottoscritto un documento in cui veniva definito "commissario torturatore"?

Quante di quelle 800 persone, massimamente stimabili per tutto il resto della loro esistenza e delle loro opere, hanno saputo ricostruire le ragioni di quella scelta? Non era l’atto materiale dell’omicidio. Ancora una volta non si chiedeva un’autocritica formale, si chiedeva una loro ricostruzione storica, culturale, e infine morale, del perché 800 mitissime persone avessero firmato. Io ricordo alcuni dei firmatari, non c’era solo Norberto Bobbio, giustamente considerato uno dei grandi intellettuali del 900, c’erano dei pacifici poeti, ricordo la firma di Nelo Risi, c’erano persone di sacrosanta coerenza, c’erano persone mosse da sentimenti religiosi encomiabili... Quanti di quelli hanno ricostruito? Ma forse che loro sono gli assassini di Luigi Calabresi? Assolutamente no. Sono però corresponsabili, insieme ad altri, di un clima complessivo nel quale non la giustificazione del terrorismo, ma forme di legittimazione di esso si diffondevano e, come dire, dominavano addirittura in determinati ambienti.

Io ricordo che nel 1968, avevo esattamente 20 anni, firmai un improbabile articolo, ovviamente imbarazzante se lo rileggessimo adesso, che, unitamente a molti articoli di persone che avevano 30 o 40 anni più di me, faceva bella mostra di sé in un fascicolo di una rivista cattolica, che si chiamava Momento, nella cui redazione c’era un numero significativo di sacerdoti, alcuni dell’Università Cattolica di Milano da me allora frequentata, e che questo fascicolo si chiamava "la violenza giusta" e che trovava nella dottrina sociale della Chiesa la sua legittimazione. Ecco, quando io parlo di riconciliazione, parlo esclusivamente di questo.

Parlo dell’opportunità, purtroppo mancata, di un’opera di ricostruzione storica, culturale, politica e morale di quello che è stato.

 

Padre Guido Bertagna

 

Una premessa: questo invito nasce dalla stima e dall’amicizia con Marcello Flores che risale al tempo della sua venuta a Milano al Centro Culturale San Fedele, per un convegno dal titolo "Vittime. Fabbrica di pace". Un tentativo di visitare con l’aiuto di testimoni e di esperti il delicatissimo mondo delle vittime. I titoli che posso avere per essere qui, a parte il fatto di essere un prete, credo siano principalmente quelli di avere semplicemente provato a camminare accanto a delle persone che sono state in un modo o nell’altro coinvolte in questa storia, o dalla parte degli autori del reato, o dalla parte delle vittime e dei familiari delle vittime. E quello che io posso dire sono principalmente parole non mie.

Alcune sono quelle che imparo dalle persone che vivono e camminano con questo peso, da una parte o dall’altra di questi due versanti difficili eppure indissolubilmente legati, cioè gli autori del reato e le loro vittime, e dall’altra parte una parola non mia che può venire soprattutto dalla Scrittura e dalla riflessione che nei testi biblici si percorre, attraversando il tema della colpa, della violenza, della distruzione dei rapporti e delle possibili vie di ricostruzione di questi rapporti.

Vorrei fare un cenno a proposito della violenza, con cui viene spesso, troppo frettolosamente, identificato il mondo degli anni fine ‘60 e ‘70. Quegli anni hanno conosciuto anche un vivacissimo e profondo desiderio di cambiamento e di giustizia. Sono state domande forti, esigenti, e, casomai, ci si potrebbe chiedere che cosa è rimasto di quella ricerca appassionata e vitale. Inoltre, la via della violenza non era affatto "obbligata".

È accaduto che sia stata una via praticata, scelta da tanti in un clima in cui anche i modi della partecipazione sociale e politica e i linguaggi spesso erano violenti. Ma non era l’unica via possibile. Identificare gli anni ‘70 come gli "anni di piombo" rischia di apporre un’etichetta esclusivamente negativa, senza dimenticare che ogni etichetta è sempre pericolosa, specialmente quando dietro ha storie e drammi umani. C’erano altre vie possibili, anche di lotta politica, che erano praticate da altre persone; c’era la lezione di uomini come Danilo Dolci, che non sono stati ascoltati.

C’erano vie seguite in altri paesi, ad esempio, il cammino dei diritti del popolo nero, negli Stati Uniti: aveva altri presupposti, cercava vie di "non violenza". Perché in Italia non sono state seguite quelle tracce?

La violenza distrugge i rapporti. Ha ragione Manlio Milani, quando ricorda che morire per lo scoppio di una bomba che colpisce indiscriminatamente gruppi di persone o morire come un "obiettivo simbolico" in una aggressione diretta e mirata, contiene qualche significativa differenza. Sono due esperienze diverse, chiedono di essere gestite in modo diverso. Ad esempio: un conto è sapere chi ha sparato, altro è non sapere chi ha messo una bomba, non sapere e trovarsi in un clima di coperture e di omertà nella ricerca della verità. Cambia anche l’elaborazione di questi fatti. Risultato, tuttavia, è che noi ci troviamo di fronte a un tessuto sociale da ricostruire.

Anche Luigi Manconi lo dice, nel suo libro Terroristi italiani, quando parla del patto sociale, e sottolinea anche un altro elemento importante, vale a dire il patto tra le generazioni, tra gli adulti e i giovani: anche questo va ricostruito dopo le lacerazioni del terrorismo. È un sistema di rapporti che è stato minato alla radice, sfilacciato o distrutto. Occorre ricostruire questo patrimonio di relazioni. In Italia non ci siamo ancora riusciti. Perciò il terrorismo, se è stato sufficientemente sconfitto sul piano eminentemente militare e politico (dico "sufficientemente", perché fatti relativamente recenti si sono incaricati di dirci che non tutto è chiuso) nulla invece è stato fatto per ricostruire le relazioni. Non è stato fatto pressoché nulla per permettere alle persone, non solo quelle colpite, o quelle che hanno colpito, ma anche a tutta una società civile che è stata in un modo o nell’altro coinvolta, di ripensare e ricomprendere il vissuto di quegli anni.

Credo che questo aspetto preceda la riflessione su una possibile ricomposizione sociale, o sul tentativo di trovare una via di riconciliazione o perdono. Invece, proprio su questo punto fondamentale non c’è stato nessun passo a livelli importanti, da parte dello Stato. Certamente ci sono state discussioni fra membri del Parlamento, ma non c’è stata apprezzabile e positiva ricaduta dal punto di vista istituzionale e da quello del coinvolgimento del Paese. C’è un altro punto: è stato detto, giustamente, che un conto è un’esperienza di perdono, strettamente legata a un percorso individuale, altro è ricostruire rapporti, riconciliare un tessuto sociale lacerato. Sono due aspetti diversi, ma l’uno evidentemente non esclude l’altro, anzi. Darei tuttavia al perdono un peso sociale maggiore, pur stando attenti a non caricare soprattutto le vittime di responsabilità che sarebbero solo loro a dover portare (basti accennare, al riguardo, alla decisione del ministro Bondi di coinvolgere i familiari delle vittime sulla delicata questione del progetto del film "Miccia corta", vincolando e cercando di legittimare il parere del ministero in base all’orientamento dell’associazione dei familiari delle vittime: appare operazione goffa di uno Stato che fa fatica ad assumere le proprie responsabilità, cerca la via della delega e manifesta in tutta evidenza di non sapere in che direzione andare).

Le conseguenze dell’esperienza del perdono anche sul tessuto sociale e sui rapporti sociali da ricostruire, dicono che siamo di fronte a qualcosa di più di un fatto puramente individuale. Innanzitutto, perché il perdono evidentemente non chiude con la memoria, non la elide, né mette la proverbiale "pietra" sopra un vissuto così sofferto. Evidentemente alcuni avvenimenti sono incancellabili dalla memoria. Il lavoro che si può fare su questi avvenimenti, allora, è qualcosa che ha a che fare con il senso di questo vissuto. Una persona uccisa è un fatto irrimediabile, irreparabile, Ricoeur direbbe "imperdonabile". Che lavoro può fare un cammino di riconciliazione, l’elaborazione di un perdono? Non si concentra tanto sui fatti, perché sono incancellabili per definizione, ma lavora sul senso dei fatti, lavora sui sentimenti, sulle emozioni, e soprattutto sulla direzione di senso che quei fatti prendono e assumono nella vita della persona che li rielabora.

Scrive Paul Ricoeur: "Il perdono è anzitutto il contrario dell’oblio passivo […] non verte sugli avvenimenti in se stessi, la cui traccia al contrario deve essere accuratamente protetta, bensì sulla colpa, il cui peso paralizza la memoria e, per estensione la capacità di proiettarsi in modo creativo sul futuro. L’oggetto di oblio non è l’avvenimento passato, l’atto criminale, ma il suo senso e il suo posto nell’intera dialettica della coscienza storica". Mi sembra che qui ci sia la prospettiva che può essere decisiva sul piano personale ma, insieme, costituire un apporto preziosissimo nella ricostruzione di rapporti sfibrati e feriti. Ecco perché servirebbe uno spazio di rielaborazione di una memoria condivisa, che non c’è mai stato e continua a non esserci in questo Paese.

Continua infatti ad essere difficile già il solo parlarne; può darsi si dimostri un’impresa impossibile da realizzare ma, proprio per questo, un obiettivo da cercare dovrebbe essere la costruzione di uno spazio in cui fosse possibile condividere il racconto del proprio vissuto, la propria esperienza, la verità, quella dei fatti, (ancora non completamente acquisita, anche perché lo Stato continua a non fare quello che può per aprire e rendere accessibili gli archivi), ma anche la verità del vissuto.

Questa verità "vissuta" attende la possibilità di poter essere comunicata in uno spazio in cui altre persone possano ascoltare e accogliere il racconto di chi ha sofferto, così come chi ha sofferto possa accettare il racconto di chi il danno e le ferite le ha recate. La pena inaridisce i colpevoli che vengono di fatto privati, insieme al bene prezioso della libertà personale, di ogni possibilità di impegno nell’ambito di un fare costruttivo e, al contempo, inaridisce le risposte attese dalle vittime le quali si trovano tragicamente poste nella condizione di doversi "accontentare" della sofferenza patita dal reo. Ben altri sono invece i bisogni e le risposte che esse vanno cercando.

Si profila così un diverso contorno dell’idea di responsabilità: non più solo responsabilità "per" il fatto attraverso la pena, bensì responsabilità "verso" qualcuno attraverso un gesto sofferto -ma significativo- di riparazione (Ceretti). La responsabilità che può, forse, mitigare il dolore ha a che fare più con il "rispondere" all’appello che compare sul volto dell’altro (Lévinas) che con gli aridi, eppur tragici, meccanismi processuali e sanzionatori. Incontrare il volto e rispondere alla sua domanda consente di incontrare l’eccedenza personale ed esistenziale racchiusa in ogni storia (Mazzucato).

È attraverso il volto l’uno dell’altro che colpevoli e vittime possono "misurare" il crimine nella sua "immane concretezza" (Forti). Già la tradizione giuridico-liberale insegna che il reato non è (solo) la violazione di una norma, ma l’offesa rimproverabile di beni e valori rilevanti. Nell’incontro dei volti, i valori offesi possono "personificarsi" e diventare più che mai concreti: è questa vita che è stata spezzata, con tutte le conseguenze che ciò comporta (Mazzucato). Conseguenze indicibili -per colpevoli e vittime e per i loro familiari- fatte di aspetti inenarrabili e di piccoli dettagli struggenti.

È forse dentro questo struggente indicibile, intriso di esistenza, che si nasconde ciò che occorre davvero capire del crimine commesso e ciò che le due "facce della stessa medaglia" (Bolognesi) hanno vicendevolmente da spiegarsi.

Nello spazio di una memoria condivisa occorre tentare di comporre un racconto, una narrazione sufficientemente ampia e policentrica per contenere la pluralità delle memorie nella consapevolezza che solo parole fragili possono metterle in relazione senza nascondere distanze ineliminabili. Occorre provare a dilatare il linguaggio di ciascuno consentendo una narrazione a più voci attraverso la quale ognuno possa spingersi fino ad accettare che altri, al pari di se stesso, possano dire "io". In questo modo, si abita diversamente il proprio vissuto: si apre uno spazio di coabitazione, di compresenza, senza eliminare il passato ma sostenendo le persone nel disinnescare le singole memorie congelate nel dolore.

Tutto ciò è delicatissimo, anche solo il parlarne. Delicato perché implica da parte di ognuno la rinuncia alla propria esclusiva parzialità, che pure deve esserci, perché è la propria, perché è il proprio vissuto. La rinuncia a questa parzialità, d’altra parte, vuol dire accettare di abbandonare la posizione che ognuno ha acquisito, accettando anche di non essere chiusi definitivamente nel proprio ruolo, di autore del reato o di vittima, e accettare che ci sia il racconto di altri che integra il proprio e completa la propria ricostruzione.

Io non so se questo è qualcosa di fattibile, di realizzabile. Mi auguro però che da parte dello Stato, e da parte dei movimenti e dei centri della cultura (intellettuali, studiosi) ma anche da parte dei singoli cittadini, messi in condizione di poterci riflettere, ci possa essere una seria presa in considerazione di una possibile via praticabile verso la ricomposizione sociale e la riconciliazione.

A Carole Tarantelli (il marito Ezio fu ucciso dalle Brigate Rosse il 27 marzo 1985) -che non solo a me, ma a diversi che si sono accostati a questo difficile mondo, è stata e continua ad essere di grande aiuto con la sua riflessione- fu chiesto in una intervista curata da don Salvatore Bussu (l’intervista risale a pochi anni dopo l’omicidio del marito), come viveva la prospettiva del perdono, che cosa è il perdono e che cosa si può perdonare.

Dopo aver risposto che è in gioco la presa di coscienza di chi ha commesso il fatto circa la gravità di ciò che ha compiuto (a questo riguardo, c’è un aspetto positivo della punizione, se può essere di aiuto a prendere coscienza di quello che è avvenuto) ricorda che il perdono è un atto individuale, e che si vive tra due persone, faccia a faccia, e prosegue: "Non credo che sia giusto perdonare indistintamente: vi perdono tutti, siete tutti perdonati. Per me il perdono è un atto individuale, tra due individui. Nel momento in cui l’assassino ha capito quello che ha fatto e vive il dolore terribile per quella vita che ha cancellato e per quella sofferenza che ha prodotto, e chiede di essere perdonato, io posso trovare la forza di perdonarlo. Ma solo per quanto mi riguarda. Non posso perdonare per gli altri familiari, né tanto meno posso perdonare il crimine che ha commesso in quanto c’è un concetto sacrosanto che vale per tutti, secondo cui a un crimine deve corrispondere una punizione. Posso solo perdonargli la sofferenza che ha causato a me, dalla mia sofferenza parlare alla sua, e lui a me, da essere umano ad essere umano". Come definirebbe questo perdono? le viene chiesto, allora. "Secondo me - risponde- questo perdono è il gesto da parte della vittima che dice di recepire il dolore dell’assassino e di non voler produrre in lui più dolore di quello che ha già...". (Un prete tra i terroristi, p. 235).

Credo che anche nella riflessione biblica sul perdono o le vie della riconciliazione che possono condurre al perdono, si trovi qualcosa di simile a ciò che racconta Carole Tarantelli: un passaggio decisivo, infatti, è costituito dal farsi carico non solo del proprio dolore, ma anche del dolore dell’altro. In particolare, nel cercare di evitare a chi ha commesso del male, un male analogo.

Questo è il motivo per cui l’impostazione squisitamente retributiva, che continua ad avere il nostro Diritto, è insufficiente, e lo si vede specialmente di fronte a un male imperdonabile e irreparabile, come un delitto. È chiaro che è necessario un itinerario, a volte lungo o anche lunghissimo, di presa di coscienza di quello che è stato commesso da parte di chi ne è stato l’autore (il come è potuto accadere a me, come è potuto accadere che io mi sia caricato di un gesto così grave). Questa faticosa presa di coscienza deve sempre misurarsi con l’elaborazione di profondi e laceranti sensi di colpa. Ma nell’itinerario biblico il senso di colpa è solo un passaggio, magari necessario ma incompleto: ancora più importante è un altro passaggio, quello che fa muovere dal senso di colpa verso il "senso del peccato".

Il senso di colpa rischia di tenere la persona prigioniera del passato, in una perenne e mai compiuta elaborazione delle proprie colpe, in un itinerario che si esaurisce nel rimando continuo alla propria sconfitta e continua, di fatto (consapevolmente o meno), a lasciare la persona da sola a occupare il centro del (suo) mondo, continuamente fissata su se stessa, senza potersi aprire ad alcuna relazione. Invece, insieme alla persona uccisa, alla sua vita e alla sua storia, sono esattamente le relazioni ad essere state distrutte.

Nei suoi numerosi interventi su colpa, pena e giustizia il Card. Carlo Maria Martini ha spesso richiamato l’attenzione sul fatto che "nella colpa, almeno in qualche modo, c’è già la pena. I peccatori nella Bibbia prendono gradualmente coscienza che, commettendo quel reato, si sono autocondannati a vivere al di fuori della famiglia di Dio, a vivere da stranieri. Nella colpa è insita una sconfitta, un fallimento, un’umiliazione drammatica" (Non è giustizia, p. 83).

Il senso del peccato, invece, nella prospettiva biblica, apre alla relazione. Quello che è accaduto non è solamente il fatto che un uomo abbia commesso del male, e sia umanamente penalizzato, danneggiato, diminuito, e possa sentirsi in qualche modo imperdonabile, prigioniero del suo gesto, senza via d’uscita. Questa tappa può avere un primo effetto positivo se permette di prendere coscienza della gravità del male compiuto, ma poi il percorso biblico indica un salto di qualità, invita ad aprirsi a un senso del peccato che mette al primo posto il dolore dell’altro, e dunque l’assunzione anche di questo dolore. Da parte sua, anche Ricoeur sottolinea che "a differenza dell’oblio di fuga, il perdono non rimane chiuso entro un rapporto narcisistico tra sé e sé, poiché presuppone la mediazione di un’altra coscienza, quella della vittima, la sola abilitata a perdonare".

Ecco perché nella Scrittura Dio interviene spesso con un linguaggio che trova un’eco nella riflessione di Carole Tarantelli quando, parlando di sé e della propria esperienza ricorda: "Dal mio dolore, dal dolore della persona ferita, danneggiata, distrutta anche, da quel che è capitato, che ha cambiato completamente la vita, posso da questo punto parlare e guardare il dolore dell’altro" e dunque l’assunzione anche di questo dolore. Da parte sua, anche Ricoeur sottolinea che "a differenza dell’oblio di fuga, il perdono non rimane chiuso entro un rapporto narcisistico tra sé e sé, poiché presuppone la mediazione di un’altra coscienza, quella della vittima, la sola abilitata a perdonare".

Dio assume il ruolo della vittima e si identifica con essa, egli stesso vittima, senza però mai perdere di vista il dolore del colpevole. Da qui tutta l’attenzione e la premura con cui Dio si prende cura del colpevole. Basti pensare, ad esempio nel capitolo IV della Genesi, alla cura, all’attenzione, che Dio riserva a Caino. "Il sangue di tuo fratello grida a me", dice Dio per aiutare Caino a prendere coscienza, abbandonando autodifese e frettolose autogiustificazioni. Come se gli dicesse: "Io assumo questo grido, in questo grido c’è tutto il mio dolore, perché è fallita la creazione, la fraternità. Ho fallito anch’io, come Creatore". Il dolore di Dio è profondissimo, e tuttavia c’è indicazione anche di un percorso che invita ad aprire su possibili nuove vie di relazione.

Queste nuove vie possibili non potranno prescindere dalla domanda sul sangue del fratello. Ma, nella difficile e dolorosa assunzione di responsabilità che conduce (finalmente) a una risposta, Caino sa di poter contare sulla fedeltà e sull’amore di Dio che non viene meno, che non lo chiude nell’orizzonte della sua colpa identificandolo con essa.

Alla luce di questi pensieri, occorre quindi ricordare, sia pure solo per un cenno, che sempre nella prospettiva biblica, il perdono non è in senso stretto la conseguenza del pentimento, quasi un gesto dovuto da parte di Dio di fronte ad un pentimento sincero e compiuto. Piuttosto, la realtà decisiva di essere già amato (qualsiasi cosa possa accadere o sia accaduta), la possibilità di essere riaccolto, la possibilità di essere perdonato, la possibilità che la vita non si identifichi -non venga da Dio per primo identificata- con il male commesso, questo fonda la possibilità del cambiamento, di una presa di coscienza veramente autentica e profonda del male commesso, senza dover mentire a se stessi e agli altri, perché nei confronti di Dio so che questa è una strada che resta aperta. In questo senso, allora, il perdono fonda e rende possibile il vero pentimento, e dunque quel cambiamento del senso di ciò che è accaduto e dei fatti così come sono avvenuti.

"Erano seduti accanto, tristi e abbattuti, come se fossero stati gettati su una spiaggia deserta, soli, dopo una bufera. Egli la guardava e sentiva quanto grande fosse l’amore di Sonja per lui, ma, strano, a un tratto provò una grande pena al pensiero di essere tanto amato. Sì, era una sensazione strana e tremenda! Nell’andare da Sonja, aveva sentito che lei era tutta la sua speranza e la sua salvezza; aveva pensato di liberarsi, almeno in parte, delle sue pene; e invece, ora che il cuore di Sonja era tutto rivolto verso di lui, egli sentì e capì a un tratto di essere molto più infelice di prima". È uno dei passaggi decisivi del percorso dell’omicida Raskolnikov in Delitto e castigo di Fedor Dostoevskji. Lascia intuire con molta lucidità qual è il dilemma di Raskolnikov: accogliere, arrendersi all’amore di Sonja che lo chiama fuori di se stesso, fuori dal delirio autistico che lo ha illuso di poter lui, con i suoi schemi e i suoi pensieri, essere il metro del mondo ("Non ho ucciso per avere i mezzi e il potere e per diventare il benefattore dell’umanità. Sciocchezza! Ho ucciso e basta; ho ucciso per me stesso, per me solo"); oppure, resistere a questo amore, completando così la propria autodistruzione ("Ho ucciso me stesso, non quella vecchia! Mi sono accoppato con un colpo solo, e per sempre!...").

L’infelicità che si fa strada nel cuore di Raskolnikov è intuita con molta finezza dall’ispettore Porfirij Petrovic ("Eh, non disprezzate la vita! […] voi troverete qualcosa e vivrete […] abbandonatevi alla vita, senza ragionare; non preoccupatevi, vi porterà certamente a riva e vi rimetterà in piedi"). È un’infelicità che si alimenta di senso di colpa, certo, o del senso umiliante della sconfitta. Ma non solo. C’è qualcosa di più profondo, qualcosa che appartiene a quel sottosuolo che Dostoevskji ha saputo visitare e abitare nelle sue più inquietanti e scomode profondità. È qualcosa che ha a che fare con la gratuità. Raskolnikov non riesce ad accettare che l’amore di Sonja sia gratuito e debba essere capito per questo nella logica del dono e non di qualcosa meritato ("…sentì dentro di sé un moto di affetto; gli si strinse il cuore, mentre la guardava: ‘Ma questa donna, perché? - pensò - Che cosa sono io per lei?’").

Il dono spariglia le carte. Introduce una strana dissimmetria. Chiede certamente la reciprocità: ma non quella del do ut des, tipica dello scambio commerciale. Nemmeno quella di un pareggio formale degli sforzi e delle energie messe in campo. Il dono esce dalla logica del già saputo e del preordinato o del (già) regolamentato.

Non c’è vero attraversamento, vera uscita dal cuore di tenebra, senza la resa alla logica del dono. L’amore di Sonja rivela a Raskolnikov quanto vale la sua vita, quanto vale la vita di una persona. Proprio lui, che ha voluto ergersi ad arbitro e giudice della vita propria e di quella altrui ("Ho ucciso soltanto un pidocchio"), ora si sente chiamato a una relazione dall’intensità del tutto nuova, ad un amore che lo mette nella condizione e nella possibilità di rispondere.

Incontri come quello odierno, sono occasioni per riflettere insieme su questi temi di fondo di ogni vita e di ogni storia.

Sono gli incroci decisivi attraverso i quali passa e trascorre ogni esistenza. Sonja aveva suggerito a Raskolnikov di andare a chiedere perdono ai crocicchi delle strade, gridando il suo peccato e baciando la terra che aveva dovuto bere il sangue del suo delitto. Raskolnikov vivrà questo tragitto, con il dolore, con le sue cadute, l’incomprensione e la derisione della gente - come ogni vera via crucis - ma, alla sua seconda caduta si accorgerà che Sonja è con lui: "Si era nascosta dietro una di quelle baracche di legno che si trovavano sulla piazza; dunque, lo accompagnava in tutto il suo doloroso cammino! Raskolnikov sentì e capì in quel momento, una volta per tutte, che Sonja ormai era con lui sempre e che lo avrebbe seguito anche in capo al mondo, dovunque fosse destinato ad andare".

 

Benedetta Tobagi

 

Vorrei allacciarmi al tema della magnanimità, che dà il titolo a queste giornate. Partirei da alcune cose dette da Manconi e da padre Bertagna. Manconi ha ricordato che qualcosa di analogo al perdono si può trovare nelle soluzioni giuridiche che si basano su un calcolo "economico", o meglio: utilitaristico. Bertagna ha ricordato che il perdono può avere una grande ricaduta sociale: credo che sia vero. Apro un inciso, che è una confessione personale: devo ammettere di provare un’"allergia" per la tematica -abusata- del perdono. Il perdono è una scelta difficilissima, dalla posizione in cui mi trovo mi sento di dirvi -e provo pudore a farlo- che una vittima si trova in una posizione di fragilità, di vulnerabilità. La "pressione sociale" verso il perdono è una forma di disconoscimento delle vittime, ed è una cosa grave. Non è un percorso obbligato. Io devo poter avere il diritto di non perdonare. Devo sentire di poter ricevere il supporto di cui ho bisogno dalle persone che stanno intorno a me, anche della società in senso lato, che mi accompagnino verso un percorso di perdono, che è possibile, ma non obbligato. Questa cosa non viene considerata, purtroppo, anzi viene negata. Perdono e magnanimità sono cose grandi, sono forme, io direi, di amore, comunque. Come ha espresso splendidamente uno studioso che apprezzo molto. molto, Stefano Levi della Torre, l’amore è un rapporto di tensione dialettica con la giustizia: l’amore è cieco, sbilanciato, butta il cuore oltre l’ostacolo, così come può essere geloso. La giustizia invece è equa, ma fredda, può essere "disumana". Allora, quando e come si può essere magnanimi? Vorrei proporre uno spunto: un ragionamento impostato a partire dalle specificità della situazione italiana, ossia il rapporto lacerato con uno Stato che spesso ha disatteso la fiducia di noi cittadini: ecco, è sempre un balsamo, non solo per le vittime, ma credo per tutti i cittadini, quando lo Stato tiene una condotta all’altezza delle nostre aspettative, nel senso che rispetta le regole, amministra correttamente la giustizia (ad es. individuando e condannando i colpevoli di una strage), garantisce la certezza della pena.

È una cosa bellissima non dover subire lo spettacolo di comportamenti iniqui, opportunistici, situazioni di impunità, svicolamenti, scorciatoie, soluzioni eccezionali, ad personam.

Ora, leggendo i giornali, vedendo come vengono affrontati temi come l’estradizione Petrella, o il caso Mambro-Fioravanti -per citare due clamorosi- la cosa più terribile è che i gesti di clemenza fuori dalle regole, eccezionali, verso personaggi coinvolti in vicende particolari e per molti versi assai oscure, fanno sospettare -se posso essere franca- l’esistenza di connivenze insospettabili. I Nar Mambro-Fioravanti, otto ergastoli, perché sono fuori? Non è che si ricompensa il loro silenzio per coprire complici o mandanti? Petrella è in Francia... Perché un’appartenente della colonna romana delle Brigate Rosse - quella del sequestro Moro - beneficia di tante attenzioni? Queste sono cose che - in un calcolo utilitaristico - vanno messe in conto, per come impattano sulla sensibilità già offesa dei cittadini, perché se il nostro obiettivo è ricostruire un patto di fiducia con lo Stato e tra le generazioni, occorre tentare lo sforzo titanico di esercitare la magnanimità entro i binari delle regole, per quanto possibile.

Per esempio, se Marina Petrella fosse stata estradata in Italia, lo Stato italiano avrebbe avuto la straordinaria opportunità, di esercitare la propria magnanimità, essendo riconosciuto pubblicamente come Stato in grado di garantire un trattamento umano a una detenuta. Purtroppo questa possibilità si è persa. Tirando un po’ le somme, possiamo immaginare una specie di scala e il primo passo è l’accertamento della verità.

Io potrei parlarvi per ore di tutto quello che riguarda le politiche archivistiche, il problema della desecretazione e dell’accessibilità dei documenti governativi: vi rimando alla documentazione della "Rete degli archivi per non dimenticare" (www.archivioflamigni.org).

Esiste una rete di associazioni "attaccate al polpaccio" delle istituzioni, nella richiesta di maggiore democraticità e trasparenza nella gestione archivistica.

Manconi si è detto pessimista. Io mi aggrappo all’ottimismo della volontà, ma, voglio essere onesta, lo faccio anche perché mi è necessario, è una scelta di vita: condivido con molte persone che hanno subito grossi traumi la risolutezza nello scegliere la fiducia. Una scelta che è anche un impegno concreto, una direzione da seguire. Non è un dato di partenza naturale, ma un possibilità di speranza per cui ho lottato.

Su cosa mi sforzo di fondare la mia fiducia? Prima di tutto penso che, lavorando congiuntamente, ci sia la possibilità di lavorare coinvolgendo molti soggetti, in particolare le giovani generazioni, di cui io stessa faccio parte.

Esiste la codardia del ceto politico (che, per esempio, non rende accessibili le carte, in cui non c’è tutto, ma c’è moltissimo, indubitabilmente), ci sono poi le ambiguità di molti intellettuali ed ex militanti, che sono insidiosissime.

Esistono problemi obiettivi di comprensione. Un esempio banale: come trentenne che si interessa di argomenti come terrorismo ed eversione, mi trovo spesso in situazioni un po’ paradossali. Leggo un libro, ascolto un politico, uno studioso, e qualcuno mi avverte: "Ah, hai parlato con Tizio, stai attenta, lui ha questa storia" che vuol dire che quando affronta certi argomenti non è disinteressato, parla attraverso il filtro di una passata militanza politica, ha l’esigenza di giustificare il proprio passato. Ogni tanto mi sento intrappolata in una versione un po’ torbida di Alice nel Paese delle Meraviglie, perché ci sono tantissimi segreti di Pulcinella, che una persona nata dopo una certa data non può conoscere, né apprendere attraverso i libri. Le stesse parole sono cariche di significati di cui si è persa la percezione. Un esempio: Manconi ha ricordato un’interpretazione di "Né con lo Stato né con le Br", però io ho letto tantissimi giornali d’epoca in cui veniva detto: no, noi dobbiamo trovare nuovi modi di stare contro lo Stato, diversi da quelli delle Br. Il linguaggio può essere una trappola. Noi giovani, ma non solo, anche gli adulti e gli anziani di buona volontà, possiamo fare come il socratico tafano. Laddove non c’è una spontanea assunzione di responsabilità, secondo me esistono dei modi civili e garbati, non accusatori, esercitando onestamente il dialogo e l’intelligenza critica, magari appoggiandosi ai documenti, a volte facendo delle domande scomode; dei modi di pungolare il ceto politico e intellettuale, per favorire un disvelamento di responsabilità politiche o morali, oppure per cercare di fare chiarezza su alcune connivenze omertose, che possono essere residui di vecchie reti di solidarietà amicali.

Insomma, io credo che esistano degli strumenti, per, diciamo così, "indurre" un’assunzione di responsabilità in maniera "assistita". Occorre ripensare al ruolo che le vittime possono avere nella società. Spesso la vittima è temuta come portatrice di sentimenti di vendetta, tipici di una giustizia tribale. C’è stato il passaggio dal ghenos alla polis rappresentato nell’Orestea di Eschilo, ne siamo tutti felici e contenti, però le vittime fanno ancora un po’ paura.

Vorrei usare un’altra tragedia greca come simbolo delle potenzialità del ruolo che può avere la vittima nella società, previo riconoscimento della sua identità e della sua sofferenza, un riconoscimento che è un atto di empatia ed è dovuto non solo alla vittima di terrorismo, ma alle vittime di reati in generale, tutte. Ecco, la vittima è un po’ come Filottete, l’eroe dell’omonima tragedia di Sofocle, che aveva una ferita infetta, puzzolente, e perciò venne abbandonato in un’isola, dai greci -successivamente venne raggiunto e reintegrato nella comunità, dopo molte traversie. Inizialmente i greci non vanno a prendere Filottete, vogliono solo rubargli il suo arco, senza cui non sarà possibile prendere Troia. Solo Neottolemo, figlio di Achille, a un certo punto instaura un vero rapporto umano con Filottete, si rifiuta di ingannarlo e rubargli l’arco con cui si difende e si nutre.

A me piace enormemente questa tragedia, credo sia una bella rappresentazione del fatto che chi è stato gravemente ferito, se viene riaccolto in seno alla società, può portare qualcosa che è indispensabile - l’arco necessario alla vittoria - in molti sensi. Ne ricordo alcuni: in primo luogo, appunto, stimola un utilissimo esercizio di empatia nella società, che può diventare un eccellente modo di prevenire la violenza futura.

Io vedo che con i ragazzi funziona molto questo discorso. Parlare di terrorismo e di stragi, al grado zero, prima della comprensione storica e politica, è un modo di fargli capire che la violenza produce ferite insanabili, che avvelenano la società intera.

Poi le vittime possono essere un po’ questo tafano che stimola la ricerca della verità in una società addormentata. In molti casi, basti pensare alle stragi, non si è raggiunta la verità giudiziaria. La domanda di verità va ben oltre il desiderio di punizione per il reo, è ricerca di una comprensione del passato per migliorare il presente e costruire il futuro.

Tante persone impegnate in tutta Italia mi hanno fatto pensare: "Che bello, vedi, da un’esperienza di dolore, dolore che di per sé è inutile e mortifero -io non condivido la visione salvifica del dolore- c’è gente che è riuscita veramente a buttare il cuore oltre l’ostacolo e dire: non voglio soltanto la pena del colpevole, no, io voglio una verità storica che sia per tutti". Dedico l’ultimo pensiero proprio a mio padre e a tutti gli altri che non ci sono più. Ci sono state veramente delle pietre preziose, tra le esperienze delle persone che sono state uccise. Ieri ero con Agnese Moro, lei ricorda sempre la precisione chirurgica che c’è stata nella scelta degli obiettivi, è terrificante, e anche di questo potrei parlare per ore.

Io credo che recuperare Filottete voglia dire anche rimettere in circolo nella società la memoria dell’opera di tante persone assassinate, un capitale umano straordinario. Occorre ricordare che tante vittime hanno lavorato all’interno delle istituzioni, nel rispetto delle regole costituzionali, offrendo dei modelli di risposta democratica, interna alle istituzioni, al "volto oscuro" dello Stato. Il loro esempio ci sarà d’aiuto, per ricomporre le lacerazioni nel rapporto tra cittadini e Stato.

 

Luigi Manconi

 

Diceva Benedetta Tobagi dell’importanza del riconoscimento delle vittime. Penso anch’io che questo sia un nodo fondamentale. Vedo, come avevo già anticipato, degli elementi di novità positive, in questo senso, e dunque ritengo che si possa superare quella fase in cui alle vittime veniva assegnato un ruolo, a mio avviso umiliante, di ultimo, direi estremo, grado di giudizio rispetto agli autori di reato. Quello che prima evidenziavo nel porre ai familiari delle vittime il quesito: "Giudica equa la pena che è stata comminata al colpevole? È possibile concedere il beneficio?". Bene, rispetto a questo ruolo di estremo grado di giudizio, che ritengo appunto mortificante per la vittima, vedo molti segnali che mi sembrano quelli giusti per superarlo. Testimonianze recenti, libri pubblicati negli ultimi mesi e anni, segnalano appunto come vi sia un ruolo, tutto di natura morale, dei familiari delle vittime, che è quello che a mio avviso è utile all’intera società. Quello appunto di ammonimento, di richiamo forte, come diceva Benedetta, affinché non si riproducano quelle condizioni che hanno permesso in passato l’orrore.

Persino la tardiva istituzione della giornata della memoria, tardiva ma infine giunta, mi sembra un atto che va nella medesima direzione. Ma, ecco il punto, è possibile fare quanto padre Bertagna indicava? Padre Bertagna ha fatto un passo avanti che io ritengo addirittura eccezionale, disegnando un modello, tratteggiando proprio la forma di un discorso pubblico. Io dico subito che lo condivido fin nei dettagli, quel discorso pubblico di cui egli ha parlato. È l’impresa più difficile, perché richiede alcuni elementi addirittura cruciali. Il presupposto è uno: la disparità, la si voglia o non la si voglia modificare. La disparità è tra vittima e autore del reato. Non stanno sullo stesso piano, non sono soggetti intercambiabili, non viene cancellato il fatto, ma si cerca di trovare un senso a quel fatto. Se quella disparità viene mantenuta, io credo che tutto il resto si possa realizzare e sia prezioso. E tutto il resto è proprio quello che veniva detto, cioè la consapevolezza che sono necessarie due condizioni: primo, sottrarsi a una fissità del proprio ruolo, che è la cosa più impegnativa e faticosa, ma non è che è impegnativa e faticosa solo per la vittima, è impegnativa e faticosa per il colpevole.

Al di là della gestualità e del linguaggio, l’ex terrorista fatica enormemente a sottrarsi alla fissità del suo ruolo, e non perché -a mio avviso erroneamente- tutto intorno a lui tende a inchiodarlo a quel ruolo, ma perché uscirne, da quel ruolo, è appunto davvero doloroso. Per certi versi rimanere dentro quella dimensione è rassicurante anche per l’ex terrorista, perché è una dimensione certa, sicura, identificabile, dove alla stigmatizzazione che subisce si può opporre, come dire, la fierezza di chi diventa, di quella stigmatizzazione, vittima.

Lo stigmatizzato, ancorché colpevole, può trovare nel processo di stigmatizzazione che subisce, una sua confortante sicurezza. Ovviamente ancor più doloroso, perché immediatamente percepibile e faticosissimo, è per la vittima o il familiare della vittima, uscire dalla sua condizione. Ma solo se se ne esce, la comunicazione si realizza.

La seconda importante condizione è che - guardate, io su questo non riesco a esitare, non riesco a dubitare, per quanti sforzi faccia - tutti, e quindi anche le vittime e i familiari delle vittime ritengano essenziale il quesito, e lo dico con parole più povere e meno autorevoli di altri: come è potuto accadere? Su questo, guardate, nessuno può sfuggire.

Come è potuto accadere che non dei mostri, ma dei giovani di 16, 18, 20 anni, militanti comunisti o neonazisti, che volevano trasformare il mondo, e costruire una società diversa, gli uni di liberi e uguali, e gli altri, i neonazisti, una società magari gerarchicamente autoritaria e repressiva, ma comunque dentro un’ispirazione anch’essa salvifica, com’è potuto accadere che questi si siano trasformati in assassini?

Ora, se noi ignoriamo questo interrogativo, corriamo due rischi molto simili: primo, che continueremo a non capire cos’è successo, e dunque a non comprendere quali sono i percorsi di quella riconciliazione, come ricostituzione del patto sociale, e, secondo, non riusciremo a comprendere come evitare che tutto ciò possa riprodursi. Come è potuto accadere che dei giovani ventenni, che avevano ricevuto dalle generazioni precedenti certo cattive ideologie, ma anche buoni e sacrosanti valori, abbiano accolto l’idea e abbiano poi messo in pratica l’omicidio politico?

Ripeto, non è obbligatorio in assoluto porsi quell’interrogativo, ma è obbligatorio se vogliamo fare questo lavoro complessivo di elaborazione di quello che è un lutto nazionale. Ecco, questo è un percorso difficilissimo, ma non ce n’è un altro. Io ho oggi espresso rispetto a questo percorso il pessimismo dell’intelligenza, perché ritengo che questo fine interessi una componente irrisoria della classe politica, e addirittura ancora più irrisoria del ceto intellettuale.

Cosa c’è di positivo? C’è il fatto che quello che è potuto accadere è in realtà ciò che ha mosso, nella discrezione di colloqui non resi pubblici, nell’ombra di incontri senza telecamere e macchine fotografiche, molti familiari di vittime a incontrare il responsabile della loro tragedia. Molti, numerosissimi. Io posso davvero, ripensandoci, ricordare decine di nomi di persone che hanno voluto porre la domanda: come è potuto accadere? E l’hanno posta direttamente a coloro che hanno fatto accadere la tragedia. Ecco, questo sta avvenendo. Io ritengo addirittura positivo che avvenga nella discrezione, nel silenzio, nella penombra delle relazioni individuali. Certo, sarebbe importante che su un piano diverso come è quello storico politico, potesse avvenire anche in termini di discorso pubblico.

Questo, oggi, purtroppo mi sembra più difficile da realizzare. Se si realizzasse, io non ho il minimo dubbio che quello che diceva padre Bertagna sia profondamente saggio: chi di noi ritiene che anche il perdono individuale non abbia, in termini impropri, suoi effetti sociali? Io lo ritengo assolutamente certo, perché sono convinto della capacità che anche gli atti individuali possano avere effetti di pacificazione, o capacità di disinnescare, di disarmare, e non sono parole e retorica, ma effetti materiali assai concreti.

Quello che io ritengo che sia accaduto è che quel modello, così efficacemente rappresentato, di interlocutori che a partire dalla consapevolezza di una disparità e, però, anche dal sapere che ciascuno è titolare di una parzialità e insieme portatore di una sua verità, non si sia realizzato, ed è qui che nasce il mio pessimismo. Ecco, questo certo sarebbe il progetto che porterebbe a fare un passo avanti. E non per costruire una memoria condivisa, ma per costruire insieme, faticosamente, un terreno comune di ricostruzione storica.

Giustizia: ThyssenKrupp; iniziato il processo per operai morti

di Oreste Pivetta

 

L’Unità, 15 gennaio 2009

 

La fabbrica di corso Regina Margherita è un rottame, ormai, il giorno della prima udienza del processo per i morti della Thyssen. Sette bruciati tra fumi e olio rovente nella notte del 6 dicembre 2007. È anche il giorno del primo bilancio: in due settimane, nel 2009, i morti sul lavoro sono stati trentanove, più di cinque Thyssen insieme. La strage continua.

Una frase, lapidaria, era rieccheggiata, scritta sui manifesti, gridata o pronunciata con solennità: "Mai più". Invece è come prima e anche l’onesto sforzo di un governo (Prodi) e di un ministro (Damiano) di indurire le regole della prevenzione sono state cancellate dai loro successori. Perché Confindustria non gradiva che i suoi iscritti pagassero di più in multe per le loro inadempienze. I morti sul lavoro sono una tragedia evitabile: ad esempio, nei paesi del nord Europa, sono state quasi ridotte a zero. Però ci sono controllo stretto dei lavoratori e pronta risposta delle imprese.

 

Il processo-svolta

 

Antonio Boccuzzi lo si è visto tante volte in televisione: è un testimone, anzi un supertestimone come s’usa dire nei processi di richiamo. Quella notte era in fabbrica, in reparto, alla linea 5, ha visto tutto e si è salvato perché un muletto gli aveva fatto da scudo contro il getto infuocato. È diventato parlamentare del Pd, candidato per dimostrare quanto alla sinistra stiano a cuore i problemi del lavoro. Poi troppe volte ci si perde dietro le alchimie della politica.

Boccuzzi ha detto che il processo sarebbe stato un punto di svolta, uno spartiacque... Sarebbe possibile, davvero, anche se siamo lontanissimi dalla sentenza, considerando i primi passi. A giudizio ci sono sei dirigenti della multinazionale tedesca (citata anche come persona giuridica) a cominciare dall’ad Herald Espenhahn, che il giudice dell’udienza preliminare, Pasquale Gianfrotta, accogliendo le tesi dell’accusa, ha rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale e incendio doloso. Per gli altri l’accusa è di omicidio colposo con colpa cosciente. Una sentenza storica, commentò Guariniello.

Una prima grande vittoria, commentarono i familiari delle vittime. Non è mai successo in un processo per un infortunio sul lavoro che si sia arrivati al rinvio a giudizio sia delle persone fisiche che delle persone giuridiche, riconoscendo in un caso anche l’omicidio volontario. Cioè: la fabbrica non era sicura, lo si sapeva, sarebbe stato necessario intervenire, spendere, ma non si volle spendere, tanto la fabbrica era in via di chiusura.

L’incidente e la morte furono la conseguenza di quel calcolo: non buttar via soldi in un impianto che sarebbe stato smantellato. I giudice Gianfrotta: Espenhahn doveva finire sotto processo per reati dolosi perché "cagionava la morte" dei sette operai "in quanto ometteva di adottare misure tecniche, organizzative, procedurali, di prevenzione e protezione contro gli incendi... pur rappresentandosi la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza di più fatti e documenti... accettando il rischio del verificarsi di infortuni anche mortali".

 

L’Apocalisse, quel giorno

 

Occorrerebbero tutte le parole di quanti, lì dentro, avevano continuato a lavorare: un inferno di grasso, di nero, di rumore, di tubi che perdono, di scintille che possono scatenare l’incendio. Quando l’incendio scoppiò, quella notte, Boccuzzi afferrò l’estintore: ma l’estintore era vuoto. Seguirono scene che non riusciamo a immaginare: morti che camminano e che implorano di sopravvivere. Così li vide (e lo ha raccontato) uno dei soccorritori.

Il processo dovrà subito risolvere alcune questioni procedurali: decidere se ammettere le telecamere, stabilire se vi saranno altre costituzioni di parte civile. Il processo sarà lungo, molti mesi e due udienze alla settimana. Risentiremo spesso i nomi di quei morti: Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe Demasi. Rivedremo i familiari. Nella giuria, con i giudici togati siederanno anche sei giudici popolari, tre operai, una panettiera, due impiegati. La Stampa, il giornale di Torino, li ha intervistati. Hanno giurato di dar prova di equità. Chissà come reagirà la difesa. Tirar per le lunghe sarà probabilmente tra le strategie difensive. Nel tempo anche i dolori più forti scolorano. Il nostro è un paese che dimentica.

Giustizia: Psichiatria Democratica; storie di vita e… di follia!

di Davide Madeddu

 

L’Unità, 15 gennaio 2009

 

Alice che non riusciva a vivere più perché quelle voci le rendevano l’esistenza impossibile. Dormiva e sentiva le voci, camminava e sentiva le stesse voci. Un incubo da cui non riusciva a uscire. Poi Giuseppe che rinchiuso in carcere fissava la finestra per ore e stava senza parlare. Non una parola, non un sorriso. Un’esistenza persa per quel giovane che "in tanti consideravano pericoloso". Eppoi tutti gli altri. Quelli che sono finiti in un manicomio perché "matti" e gli altri ancora che hanno fatto la spola da un ospedale all’altro passando per case protette, carceri e comunità di recupero.

Esistenze disperate costrette a fare i conti con la malattia invisibile e, molto spesso, anche con la paura del giudizio degli altri e della vergogna. Perché "quando si dice che qualcuno è matto, si ha sempre vergogna". Storie di vita distrutta che gli psichiatri di Psichiatria democratica hanno deciso di raccontare, in occasione del trentacinquesimo anno di fondazione dell’associazione nazionale, nella pubblicazione "Storie di vita, storie di follia". Che è poi un viaggio nel mondo dei cosiddetti "matti". Quello che "forse è meglio far finta di non conoscere". Che in tanti fanno finta anche "che non esista".

"Con questo lavoro abbiamo scelto di narrare le storie dei protagonisti delle lotte di questi anni, utenti innanzitutto, ma anche operatori, familiari. Questo - spiega Paolo Tranchina, psichiatra e promotore di Psichiatria democratica in Italia - ci ha permesso di dare un volto concreto alla ricchezza delle pratiche, dei rapporti, della vita, e alla unicità di ogni essere umano. I pazienti, insieme a vissuti e esperienze profonde, hanno espresso con chiarezza ciò di cui hanno bisogno quando stanno male, permettendo così di fare affiorare in primo piano aspetti fondamentali della relazione terapeutica". Nelle numerose pagine che compongono l’edizione monografica "Storie di vita storie di follia" ci sono soprattutto le storie. Quelle delle persone che vivono e che ogni giorno devono fare i conti con i loro problemi, i drammi della vita. Storie che i volontari di Psichiatria democratica - come spiegano - hanno voluto raccontare per lasciare un segno. "Scrivere le storie - prosegue Tranchina - ha implicato per tutti momenti di profondo coinvolgimento emotivo, disvelamento della propria interiorità, esposizione al confronto, ma anche esplicitazione di aspetti riservati della propria soggettività, silenzi, intimità, segreti, e l’emergere della dimensione affettiva, indispensabile al nostro lavoro".

E dentro le pagine ci sono appunto le storie. Cinquantatre che, partendo dai manicomi, viaggiano seguendo il percorso che ha determinato la chiusura e il passaggio alle altre strutture. Il tutto senza dimenticare poi le esistenze. Le storie, come tengono a rimarcare i responsabili di Psichiatria democratica. Dalla signora bolognese che vede la distruzione della sua famiglia e la frammentazione lenta ma progressiva della sua esistenza, oppure del giovane che finisce all’ospedale psichiatrico giudiziario.

"Sia chiaro un aspetto che non deve essere mai dimenticato e sottovalutato - spiega Emilio Lupo, presidente nazionale di Psichiatria Democratica - prima di tutto ci sono le persone, le loro storie, la loro esistenza, non le cartelle cliniche, quelle vengono dopo".

Un punto di partenza indispensabile, a sentire lo psichiatra che opera in una struttura pubblica di Napoli, che tende a valorizzare sempre e comunque l’aspetto umano. "Non possiamo limitarci a considerare i casi, e le persone come semplici numeri. Qui si deve partire da un principio: quello delle storie legate alle persone, al contesto in cui vivono. Se non si parte da questo fatto non si può pensare di andare avanti e di trovare soluzioni ai problemi giacché i problemi vanno visti nel loro insieme". Premessa indispensabile per spiegare poi il lavoro che da 35 anni tutti i medici e i volontari di Psichiatria democratica portano avanti in tutta Italia.

"Proprio per questo motivo - prosegue - siamo convinti che sia necessario, quando si interviene, studiare il contesto in cui nascono i problemi. Ed è per questo motivo che, noi di Psichiatria democratica, da tempo stiamo lanciando il progetto casa lavoro, perché per risolvere i problemi questi due elementi sono necessari e indispensabili". Motivo? " Non si può trovare una soluzione senza avere una casa di riferimento e un lavoro. Quando mai ci potrà essere la crescita e il recupero di una persona?".

Lettere: completamente paralizzata, mi hanno messo in cella!

 

www.radiocarcere.com, 15 gennaio 2009

 

Mi chiamo Patrizia. Ho 46 anni. Sono completamente paralizzata. Un edema celebrare mi ha ridotto così. Praticamente sono un peso morto. Una mattina di qualche mese fa sono arrivati i Carabinieri a casa mia. Avevano dei fogli tra le mani. Era un’ordinanza di misura cautelare in carcere. I Carabinieri, quando si sono resi conto di come stavo, sono rimasti perplessi. All’inizio non volevano neanche più arrestarmi. Hanno anche telefonato al magistrato, ma non c’è stato nulla da fare. Io paralizzata dovevo andare in carcere.

Così sono stata presa di peso e caricata su un sacco, per evitare che cadessi per le scale. Arrivata nel carcere di Reggio Calabria, siccome l’infermeria non c’è, sono stata trasportata fino a quella che sarebbe stata la mia cella. Una piccola stanza con una branda. Prima di sistemarmi su quella branda c’hanno messo un telo di plastica. Una precauzione per evitare che io, non potendo muovermi per andare in bagno, sporcassi il materasso.

Dopo avermi sdraiato, la porta della cella si è chiusa e sono rimasta sola. Sola in quella cella, costretta immobile su quella branda. Non c’era nessuno che mi aiutasse per fare i bisogni o semplicemente per cambiare posizione. Nessuno che mi aiutasse per bere un bicchiere d’acqua. Nessuno.

Anche le medicine, che io devo assumere con regolarità, mi venivano date a casaccio. O addirittura, come spesso è capitato, non mi venivano date affatto. La conseguenza è stata che più volte ho perso i sensi. Più volte ho avuto crisi convulsive. Mancamenti da cui mi svegliavo più confusa, più sporca e più sola di prima.

Trascorrevo così le giornate da detenuta paralizzata. Non di rado, vedendomi ridotta in quello stato, ho sentito che non avevo più voglia di vivere. Più di una volta mi sono sorpresa a pensare come potevo riuscire a farla finita. D’altra parte nella mia condizione non è cosa facile!

La notte era il momento peggiore. Nessuno ascoltava le mie richieste di aiuto. Nessuno mai è entrato nella mia cella per chiedermi come stavo e se avevo bisogno di qualcosa. Non mi vergogno di raccontare che una sera ero così disperata che mi misi a piangere. Avevo fatto i bisogni ed erano ore e ore che aspettavo qualcuno che mi aiutasse per pulirmi. Pensavo di impazzire. Solo il giorno successivo una detenuta si è presa cura di me.

Poi una mattina è entrato nella mia cella il magistrato per interrogarmi. Mi ha guardato stupito per come ero ridotta. Come se non sapesse che ero paralizzata. L’aria era irrespirabile per via del fatto che non venivo cambiata ne lavata da giorni, tanto che un agente di custodia aprì la finestra della cella. Durò poco l’interrogatorio. Quel magistrato mi chiese come facevo a dimostrare che ero paralizzata. Gli riposi che, se non gli bastava vedermi in quello stato, poteva acquisire i documenti medici. Dopo andò via senza dirmi nulla.

Ho passato un’altra settimana dentro quella cella. Un’altra settimana di inferno. Andava sempre peggio. Iniziavo ad avere le pieghe da decubito. Il dolore era atroce e forte la preoccupazione di avere un’infezione. La mia salute, già precaria, si indeboliva giorno dopo giorno. Ed anche il mio equilibrio psicologico mi stava abbandonando.

Un pomeriggio sono arrivati degli infermieri. Avevano un sacco tra le mani. Quel sacco che mi aveva portato in carcere, ora mi stava riportando a casa. Ora sono agli arresti domiciliari, e attendo fiduciosa di essere giudicata.

Non voglio pietà. Né per il mio stato né per quello che ho passato. Ma ho deciso di raccontare la mia storia perché credo sia giusto far conoscere la tortura che ho subito. Perché di tortura si è tratto.

Lettere: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, i lager di casa nostra

 

www.agoravox.it, 15 gennaio 2009

 

Ogni anno qualche rappresentante delle istituzioni si reca, con tanto di scolaresche al seguito, ad Auschwitz per commemorare le vittime del nazismo. A pochi chilometri da Roma esistono almeno due lager denominati "Ospedali Psichiatrici Giudiziari".

Conosciuti un tempo come manicomi criminali, custodivano carcerati che, in preda a turbe di ordine psichiatrico, avevano commesso efferati delitti. La "mission" di queste strutture doveva essere la cura delle predette turbe, attraverso un percorso riabilitativo che contemplava l’utilizzo di farmaci e l’impiego di staff multidisciplinari. Di fatto i "pazienti" venivano sottoposti ad "elettroshock" e "riposavano" sui letti di contenzione, imbottiti di farmaci.

Con l’introduzione della legge Basaglia, vengono aboliti anche i manicomi criminali, ma soltanto formalmente. Oggi si chiamano "Ospedali psichiatrici giudiziari" e custodiscono soggetti condannati per omicidio ma non ristretti nelle carceri ordinarie perché "non in grado di intendere e di volere". Un cambiamento di facciata, perché a Montelupo Fiorentino ed Aversa, la condizione in cui vivono questi poveri cristi è allucinante.

In sette/otto occupano celle piccolissime, in mezzo ai loro escrementi, senza acqua calda. L’unica cura praticata consiste nella somministrazione di farmaci e nell’utilizzo nel letto di contenzione. Se qualche ricoverato si permette di lamentarsi, riceve torture di ordine psicologico e rischia di trascorrere la vita intera recluso in questi lager. Cari parlamentari, alzatevi dalle vostre poltrone, mettete fine a questo scempio ed evitate sprechi di pubblico denaro recandovi in Germania.

 

Vincenzo, da Roma

Milano: nessun fondo per carceri e "cittadella della giustizia"

 

Apcom, 15 gennaio 2009

 

Nessuna risorsa per le carceri milanesi e la cittadella della giustizia diventa sempre più un progetto aleatorio. È questa la denuncia del sindacato Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria) diffusa in una nota: "La cittadella milanese - si legge - sta diventando sempre più un progetto fantasma: affermare che un terzo degli stanziamenti sarà recuperato con la lotta all’evasione è come dire che il complesso non sarà mai edificato".

Leo Beneduci, segretario generale del sindacato interviene anche sulle ultime rassicurazioni che il ministro Alfano ha voluto offrire oggi nell’incontro al Palazzo di Giustizia.: "A differenza del presidente Grechi, e del suo moderato pessimismo, notiamo come in questi due anni si siano sprecate energie per individuare solo le aree di costruzione, senza invece preoccuparsi seriamente dei soldi. Partito come progetto autofinanziato, avendo come corrispettivo appunto anche la vendita delle storiche strutture del Tribunale e del carcere di San Vittore, ha preso sempre più le sembianze dell’ennesima finzione, che questo Governo s’appresta a confermare con i suoi propositi".

"A maggio - prosegue Beneduci - la direzione regionale ai beni culturali ha vincolato il Palazzo di Giustizia, rendendone di fatto impossibile la cessione ai privati, e adesso, attraverso questa operazione di facciata, si vuole recuperare il terreno perduto. Quando cioè il Ministro sa bene che i tagli operati con la Finanziaria di fine anno non permettono alcun progetto a lunga scadenza".

"Ma i problemi comunque permangono, per quei 500 milioni (costo dell’intera operazione) che di fatto mancherebbero all’appello. Mancherebbero - conclude il segretario dell’Osapp - perché il ministro non sa, o nessuno lo ha ancora informato, che solo con il recupero delle somme ferme nei depositi giudiziari, o delle somme dormienti, confiscate e mai impiegate, si potrebbe finanziare il piano edilizio per intero e salvare dall’impasse burocratica Governo, Provincia e Comune".

Milano: avvocati ad Alfano; non spostate carcere di S. Vittore

 

Agi, 15 gennaio 2009

 

Il carcere milanese di San Vittore resti dov’è e "non regredisca allo stato di galera, ma diventi un luogo di effettivo reinserimento sociale dei detenuti". Lo scrive l’avvocato Vinicio Nardo, presidente della Camera Penale di Milano, in una lettera consegnata al Ministro della Giustizia Angelino Alfano, in visita oggi al Tribunale cittadino. Nardo chiede che la struttura penitenziaria sia sottoposta a lavori di "ristrutturazione e ammodernamento e resti nella sua attuale collocazione centrale, in maniera da non separare quella parte di popolazione in essa rinchiusa dal resto della città". Nei progetti per la nuova cittadella giudiziaria milanese, che dovrebbe essere pronta per il 2015, si era parlato anche del trasferimento del carcere alla periferia sud - est della città.

Bologna: la direttrice; l’Ipm è un "campo di concentramento"

 

Redattore Sociale - Dire, 15 gennaio 2009

 

È "come nel caso dei campi di concentramento nazisti, quando la gente dei villaggi vicini non si accorgeva o non voleva accorgersi di quello che accadeva lì dentro: così è la situazione a Bologna". Parole dure, quelle di Paola Ziccone, direttrice del carcere minorile di via del Pratello, a Bologna, che oggi, a Palazzo Malvezzi, ha esposto ai consiglieri provinciali della commissione Servizi sociali, Istruzione, Lavoro la "situazione allarmante" in cui versa il penitenziario. "Molti ignorano il fatto che ci sia un istituto penale per minori nel centro della città, e le sue condizioni. Fino a quando tutto avviene nel più rigoroso silenzio, nessuno si accorge di niente". A richiamare, invece, l’attenzione sul Pratello è il recente episodio avvenuto il 6 gennaio, quando alcuni detenuti hanno aggredito le guardie. "Per forza: se i ragazzi vengono tenuti chiusi in stanze fatiscenti, senza la possibilità di seguire percorsi educativi perché non abbiamo le risorse - commenta la direttrice - si ribellano come farebbe qualunque essere umano".

E da allora la situazione si fa sempre più delicata: "In questo momento, su 26 guardie, 13 sono assenti per malattia. E tenete presente che per coprire tutti i turni ne servono 16", avverte Ziccone. E se da un lato "si fa fatica a mantenere la sorveglianza", dall’altro, secondo la direttrice "gli episodi di indisciplina sono destinati ad aumentare". Poche, pochissime risorse, dunque. E il carcere cade letteralmente a pezzi. "Il decadimento è progressivo, ogni giorno ce n’è una".

Per quest’anno si prevede il 40% di fondi in meno, rispetto a quello precedente. Per rendere l’idea, Zacconi racconta un episodio ai consiglieri: "Nel periodo natalizio c’era un ragazzo affetto da una patologia che necessitava l’isolamento sanitario: ebbene, per mancanza di posto abbiamo dovuto tenerlo in corridoio". Nelle celle, progettate per tre o quattro detenuti, i ragazzi arrivano ad essere in 20, mentre la palestra è inagibile perché allagata.

"Se la Ausl venisse a fare un controllo, rischieremmo la chiusura". I servizi, poi, sono ridotti ai minimi termini: "Con le assegnazioni del Governo riusciamo a coprire soltanto il vitto, nient’altro". Non solo niente psicologi e niente mediatori culturali per gli stranieri, ma anche assistenza sanitaria parziale: "Abbiamo ben quattro giorni scoperti (le spese sanitarie sono a carico della Regione)".

La Provincia, dal canto suo, che dovrebbe finanziare la formazione professionale dei ragazzi tutto l’anno, coi suoi fondi riesce a coprire solo tre mesi di attività. "Per essere uomini degni di questo nome, dobbiamo garantire i diritti minimi ai minori - afferma con forza la direttrice dell’istituto penale, rivolgendosi a tutti i consiglieri - potrebbero essere i vostri figli, i nostri figli". E ricorda che tra i detenuti c’è una percentuale in aumento di cittadini italiani.

"Allora c’è poco da commuoversi vedendo i bambini che muoiono a Gaza, quando si ignorano completamente le situazioni che abbiamo qui in casa". E mentre le scuole bolognesi chiudevano i battenti per mancanza di riscaldamento, osserva Ziccone, "i nostri ragazzi hanno passato tre mesi al freddo". "Se vogliamo dei giovani riabilitati non possiamo pretenderlo con la bacchetta magica", conclude Zacconi.

Treviso: visita Sottosegretario Casellati a carcere e Tribunale

 

Adnkronos, 15 gennaio 2009

 

Il Sottosegretario alla Giustizia, Maria Alberti Casellati, accompagnata dal senatore Piergiorgio Stiffoni, avrà un incontro con il direttore del carcere di Treviso, Francesco Massimo per affrontare i problemi inerenti il sovraffollamento della struttura carceraria e "l’ormai cronica mancanza di personale, assolutamente sotto organico". Successivamente, Casellati e Stiffoni faranno visita al Tribunale di Treviso, dove avranno un colloquio con il presidente Giovanni Schiavon che illustrerà ai due parlamentari le problematiche inerenti la giustizia nel territorio della Marca.

Cagliari: sit-in protesta Sappe per situazione a Buoncammino

 

Comunicato stampa, 15 gennaio 2009

 

Scenderanno in piazza a Cagliari mercoledì 21 gennaio alle ore 10 le donne e gli uomini aderenti al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della categoria, per denunziare la situazione di grave disagio che sono costretti a subire i poliziotti in servizio nella Casa Circondariale di Cagliari.

La situazione è semplicemente allarmante spiegano in coro il Segretario Generale Sappe Donato Capece ed il segretario regionale della Sardegna Antonio Cocco. Il carcere di Cagliari è caratterizzato da una grave carenza di organico che ammonta a circa 70 unità: in tale situazione, oltre a non garantire i diritti soggettivi del personale, è difficile assicurare adeguati livelli di sicurezza. E scendiamo in piazza per denunciare anche che la maggior parte del personale deve ancora fruire di una parte consistente delle ferie relative agli anni 2005, 2006 e 2007 e la situazione non sembra migliore nella fruizione dei riposi settimanali, atteso che vi sono molte unità che ne hanno accumulato oltre una decina.

Il Sappe, dunque, ha organizzato un sit-in davanti al carcere di Cagliari mercoledì mattina, ad iniziare dalle ore 10, perché queste gravi problematiche non possono essere ulteriormente ignorate e richiedono concrete misure urgenti, a cominciare dall’integrazione del contingente di personale di Polizia penitenziaria e dal ristabilire le condizioni lavorative normali.

Su queste criticità - che sono le medesime di ben 8 istituti penitenziari sardi sui 12 regionali, compreso l’Istituto per Minorenni di Quartucciu - e sulla complessiva e grave situazione penitenziaria sarda la Segreteria Generale del Sappe interesserà il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ed il Capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta.

Roma: Fp-Cgil; una Carta dei diritti per la salute dei detenuti

 

Ansa, 15 gennaio 2009

 

Una "Carta dei Diritti per la salute in carcere". È quella redatta dalla Fp Cgil, che sarà proposta al ministero del Welfare, ai responsabili dell’amministrazione penitenziaria e dei governi regionali, al sistema delle aziende sanitarie, agli operatori sanitari penitenziari, al mondo del volontariato, alle altre rappresentanze sociali e ai cittadini. Scopo del sindacato è quello di fornire uno "strumento per orientare le attività di contrattazione, sindacale e sociale sul tema".

Il processo di trasferimento delle funzioni di assistenza sanitaria in carcere dal ministero della Giustizia al servizio sanitario nazionale, rileva Rossana Dettori, segretaria nazionale Fp Cgil, "è sostanzialmente concluso. Mancano, di fatto, gli adempimenti formali delle Regioni a Statuto speciale e delle Province autonome che, secondo il decreto del Presidente del Consiglio del 1 aprile scorso, devono emanare specifici atti di recepimento dei principi della riforma (atti che auspichiamo siano immediati)".

Con il "trasferimento delle funzioni sanitarie ora - osserva Dettori - sono le Regioni e le Asl ad essere i soggetti istituzionali ai quali fa capo la responsabilità della tutela della salute dei circa 60 mila cittadini di questa Repubblica momentaneamente privati delle libertà personali: le Regioni e le Asl devono, a questo punto, operare per rendere concretamente esigibile la rete di diritti universali legati alla salute dei cittadini detenuti".

La Carta dei Diritti per l’assistenza sanitaria in carcere sarà presentata il 23 gennaio prossimo, dalle ore 10 alle ore 13.30, a Roma, presso l’Hotel Massimo D’Azeglio di via Cavour 10, alla presenza del sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio.

Immigrazione: il reato di "clandestinità" prevederà ammenda

 

Redattore Sociale - Dire, 15 gennaio 2009

 

Il Senato approva il "reato di immigrazione clandestina". La norma, contenuta nel ddl sicurezza, prevede però non più il carcere per gli stranieri che entrano e soggiornano illegalmente in Italia (come era scritto nel testo originario del governo) ma un’ammenda da 5 mila a 10 mila euro e la sanzione accessoria dell’espulsione decisa dal giudice di pace che si somma all’eventuale espulsione ordinata dal questore.

Il reato si estinguerà con il pagamento della contravvenzione. In caso di non pagamento l’immigrato irregolare sarà espulso. Nel caso di presentazione di una domanda di protezione internazionale il processo davanti al giudice di pace viene sospeso. Se la richiesta verrà accolta, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere. Pd, Idv e Udc hanno votato contro la norma. Compatto il sì della maggioranza (Pdl e Lega).

 

Il nodo della copertura economica

 

La modifica del reato di immigrazione clandestina approvata ieri dall’aula del Senato nel corso delle votazioni sul disegno di legge sicurezza rischia di far lievitare i costi inizialmente previsti dal governo. La denuncia arriva dal senatore Idv, Luigi Li Gotti, che spiega che essendo ora previsto non più solo l’ingresso ma anche il soggiorno illegittimo nel territorio italiano si amplia la platea di chi sarà sottoposto a processo prima dell’espulsione e quindi aumenteranno i costi del sistema giustizia, da un’iniziale previsione di circa 33 milioni di euro a 400 milioni. L’allarme dell’Italia dei valori viene accolto dal presidente del Senato, Renato Schifani, che lo ritiene "fondato e logico" e invita la commissione Bilancio, "compatibilmente con i lavori sul federalismo fiscale", a riunirsi per valutare la questione. "Giustamente Li Gotti - sottolinea Schifani - dice che aumentando la platea dei destinatari del nuovo reato i costi non sono gli stessi previsti inizialmente".

Dal senatore Idv arriva anche una quantificazione dei nuovi oneri per le casse dello Stato: "La copertura iniziale - spiega - era stabilita a 33.354.000 euro facendo riferimento a una platea di 49.050 unità, ossia solo chi entrava illegalmente. Visto che ora viene considerata reato anche la permanenza irregolare la platea dei clandestini diventa di 700 mila persone. Se calcoliamo i costi del gratuito patrocinio e degli interpreti necessari durante i processi per ogni irregolare e li moltiplichiamo per 700 mila la copertura necessaria sarà di 400 milioni". Il governo, conclude Li Gotti, "ha modificato l’articolo che riguarda il reato di clandestinità ma non quello sulla copertura finanziaria rimasto identico. Quindi chiedo che la commissione Bilancio, che nella sua relazione tecnica aveva già segnalato la questione, torni a riunirsi su questo".

Immigrazione: espulsione comunitari, dietrofront del governo

 

Redattore Sociale - Dire, 15 gennaio 2009

 

Dietrofront del governo sulle procedure di espulsione per i cittadini comunitari. Recependo le osservazioni arrivate dalla Ue, dopo che nel decreto sicurezza approvato lo scorso luglio era stata prevista la stessa modalità di espulsione sia per gli extracomunitari che per i cittadini di Stati membri, il governo ha presentato un emendamento correttivo nel ddl sicurezza all’esame dell’aula di Palazzo Madama. L’emendamento ha avuto il sì dell’aula.

La nuova norma prevede che l’espulsione di un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea, quindi extracomunitario, e degli apolidi sia eseguita dal questore con accompagnamento coatto alla frontiera. Per i cittadini comunitari invece, secondo quanto prevede la normativa europea sulla libera circolazione dei cittadini Ue, ci sarà l’allontanamento per motivi imperativi di pubblica sicurezza, che avverrà con notifica all’interessato da parte del prefetto. In pratica, un foglio di via. A luglio il governo aveva invece stabilito l’allontanamento coatto anche per i cittadini Ue sulla scia delle polemiche sui Rom.

Immigrazione: per il pestaggio di Emmanuel arrestati 4 vigili

di Alessia Ripani

 

La Repubblica, 15 gennaio 2009

 

Quattro vigili sono stati arrestati per il caso del ragazzo ghanese picchiato e insultato nel comando della polizia municipale di Parma. È il primo atto forte della procura che interviene disponendo gli arresti domiciliari per gli agenti responsabili del pestaggio di Emmanuel Bonsu, scambiato per pusher, picchiato e insultato con epiteti razzisti. Ma tutti i vigili che la sera del 29 settembre hanno partecipato all’operazione antidroga o si trovavano in caserma, più l’ispettore e il vicecomandante sono stati sospesi.

La decisione di sollevare temporaneamente dall’incarico "in via cautelativa" tutti i dieci indagati è stata presa dal sindaco Pietro Vignali nel pomeriggio, dopo che la voce degli arresti si era diffusa con insistenza in città. I quattro, di cui al momento ancora non si conoscono le generalità, sono stati raggiunti dall’ordine di custodia cautelare intorno alle 20.

Le accuse nei confronti degli agenti sono pesantissime. Sono indagati dalla procura di Parma, in concorso, per percosse aggravate, calunnia, ingiuria, falso ideologico e materiale, violazione dei doveri d’ufficio, abuso di potere e sequestro di persona per il fermo di Emmanuel Bonsu. Si tratta di otto agenti: Mirko Cremonini, Andrea Sinisi, Ferdinando Villani, Marcello Frattini, Graziano Cicinato, Giorgio Albertini, Pasquale Fratantuono, Marco De Blasi. Più l’ispettrice Stefania Spotti e il commissario Simona Fabbri. Ognuno di loro accusato con diversi gradi di responsabilità per l’aggressione e gli insulti razzisti ai danni dello studente ghanese, che da allora ha lasciato la scuola serale e rinunciato per il momento all’impiego come volontario nella comunità per tossicodipendenti di Betania, la stessa dove si trova Matteo Cambi, ex patron della Guru.

L’ultima inquietante indiscrezione sui fatti che avvennero al comando quella notte riguarda una foto-trofeo che sarebbe stata scattata con il cellulare da un agente e salvata sul desktop di un pc. L’immagine sarebbe stata cancellata e recuperata dai Ris che hanno sequestrato i computer e i filmati delle telecamere interne al comando.

Il ragazzo venne insultato - lo chiamarono "scimmia" - e prima del rilascio gli misero in mano una busta con i documenti con scritto "Emmanuel negro". Il comandante in carica dei vigili urbani di Parma si è detto " molto perplesso riguardo alla tempistica dei provvedimenti che arriva dopo quattro mesi dal fatto". "Ho sempre detto che chi ha sbagliato è giusto che paghi - aggiunge Giovanni Maria Jacobazzi (arriva al comando esattamente il giorno dopo la vicenda) - e confermo la massima fiducia nel lavoro della procura. Siamo però stati colti di sorpresa".

Immigrazione: stranieri e reati, l’intervista a Marzio Barbagli

 

Una Città, 15 gennaio 2009

 

I reati commessi da immigrati aumentano e sono gravi: violenze sessuali, omicidi, furti e rapine; a minare il senso di sicurezza della gente sono reati come furti d’appartamento e borseggi, in buona parte commessi da immigrati; la falsa idea di una responsabilità mediatica nel diffondere insicurezza. Intervista a Marzio Barbagli.

 

Marzio Barbagli, professore di Sociologia presso l’Università di Bologna, recentemente ha pubblicato Immigrazione e sicurezza in Italia, Il Mulino 2008.

 

Possiamo partire da questo dato, certo un po’ imbarazzante visto da sinistra, dell’aumento dei reati commessi dagli immigrati…

Visto da sinistra o da destra il dato non cambia. La mia fatica è stata quella di dimenticare che ero di sinistra. All’inizio è stato difficile, ma dopo tanti anni che faccio il ricercatore mi sono convinto che quello che trovo, anche se non mi va bene, va pubblicato.

Tanto più che i dati che presento sono dati solidi: arrivano dagli archivi dell’Istat, dal Ministero dell’Interno, dai carabinieri, dalla polizia, dalla guardia di finanza, ecc. Sono i dati migliori che abbiamo, e quello che risulta sostanzialmente è che c’è stato un forte aumento della quota di stranieri sul totale delle persone denunciate, sul totale delle persone condannate, sul totale delle persone che stanno in carcere (anche se quest’ultimo dato andrebbe ulteriormente discusso).

Faccio subito una precisazione che riguarda i reati presi in considerazione, che sono specifici, non sono tutti. Per esempio, qui non parliamo dei reati cosiddetti dei potenti o dei colletti bianchi. Intanto perché ci sono scarse informazioni, ma soprattutto perché sappiamo che troveremmo sicuramente pochissimi immigrati in questo settore.

Questo però non vuol dire che i reati commessi dagli immigrati siano, come un tempo sosteneva il direttore di Repubblica, furtarelli da "ladri di polli". No, qui parliamo anche di reati molto gravi, come violenze sessuali, omicidi e, in generale, furti e rapine, anche importanti cioè che producono ingenti somme di denaro. Si tratta in gran parte di reati contro il patrimonio e contro le persone.

Ci sono poi anche annotazioni curiose: ad esempio, colpisce il fatto che i due tipi di rapine per cui non è aumentata la quota di stranieri sono quelle che rendono di più, cioè le rapine contro le banche e quelle contro gli uffici postali, mentre la quota di immigrati è spaventosamente alta nelle rapine di strada o in rapine che prima quasi non esistevano, ovvero quelle contro le abitazioni, che però sono un reato non particolarmente diffuso, meno di quanto risulta dai media. In alcuni reati infine la quota di stranieri è davvero incredibile, cioè siamo ai livelli di 60-65% nei borseggi, e si supera il 50% anche nei casi di furti in appartamento.

 

In gran parte poi si tratta di stranieri che ai controlli risultano essere persone irregolari, ovvero senza permesso di soggiorno…

Anche qui però non vuol dire che i reati riguardino solo gli irregolari. In alcuni reati gravi, come le violenze sessuali o anche gli omicidi, i regolari sono una quota non irrilevante. Io non ho fatto i calcoli, perché probabilmente ho ancora dei freni inibitori, nonostante tutto, ma si può dire che in alcuni casi anche gli immigrati regolari commettono più reati degli autoctoni, degli italiani.

Un dato forse non così intuitivo e però fondamentale è che gli immigrati sono anche tra le principali "vittime" dei reati di cui parliamo.

Infatti, un dato altrettanto importante e drammatico è che una parte di questi reati sono commessi contro altri immigrati. Gli immigrati, cioè, sono più a rischio di subirli, oltre che di commetterli, degli italiani. Ci sono varie spiegazioni per questo fenomeno. Una è che, soprattutto gli omicidi, ma probabilmente anche le violenze sessuali (qui c’è un problema di dati perché le donne immigrate denunciano anche meno delle italiane) sono reati che hanno la tendenza ad avvenire nello stesso gruppo.

 

Il libro si interroga anche sulle cause del fenomeno, cioè del perché di questo grande e crescente -negli ultimi vent’anni - numero di reati. Anche attraverso confronti internazionali che però sono molto complicati, perché i dati sono diversi, poi le statistiche sulla criminalità sono tra le più difficili.

Certo è che non si tratta di un fenomeno solamente italiano. Ciò che mi sembra non sia stato recepito pienamente è che la relazione tra immigrazione e criminalità varia nel tempo. Invece mi sembra che nell’approccio continuino a prevalere le posizioni ideologiche, che portano quelli di sinistra a pensare che non ci sia nessuna relazione, e quelli di destra a pensare che ci sia sempre stata. In realtà, se prendiamo gli Stati Uniti, gli immigrati nei primi trent’anni del Novecento, come nell’ultimo ventennio dell’800, con le dovute eccezioni, commettevano meno reati degli autoctoni. Lo stesso avveniva per gli immigrati nell’Europa centro-settentrionale.

La situazione è cambiata negli anni ‘70, sia per gli immigrati di prima generazione che per gli immigrati di seconda generazione. In sostanza è cambiata la frequenza con cui gli immigrati commettono reati.

 

Come si spiega quest’inversione di tendenza?

Intanto negli anni ‘70 intervengono alcuni cambiamenti nell’economia e nel mercato del lavoro. Dopo il 1973, con la crisi petrolifera, si assiste alla fine di una fase di fortissima industrializzazione e sviluppo economico, di cui risentono anche i flussi migratori. Il rapporto tra push e pull, tra richiesta di immigrati e desiderio di venire nei paesi ricchi diventa così un rapporto squilibrato e questo induce molti paesi a introdurre delle regole per selezionare gli immigrati, per ridurre i flussi. Queste regole a loro volta hanno delle conseguenze, perché creano la figura dell’immigrato clandestino che prima non c’era.

Questa è la spiegazione generale. Ci sono poi ulteriori osservazioni specifiche che riguardano il nostro paese che credo si possano riassumere nelle difficoltà di adottare delle politiche e una legislazione capaci di aumentare l’efficienza dei controlli interni.

 

Nell’analizzare le due leggi, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, lei sostiene che sono molto meno diverse di quanto i rispettivi partiti politici le presentino...

È così. E aggiungo che entrambe hanno avuto qualche effetto nel senso che, se non altro, hanno arrestato l’aumento di immigrati irregolari, se possiamo dire così. Si potrebbe obiettare che la quota era talmente alta che non era difficile, comunque hanno aumentato la capacità di controllo interno da parte delle autorità italiane, che significa la capacità di espellere, di rimpatriare gli immigrati che le forze dell’ordine, la magistratura ritengono debbano lasciare il nostro paese.

Attenzione, qui non parliamo degli immigrati irregolari, bensì di immigrati su cui ci sono seri sospetti - o prove - che stiano commettendo attività illecite. Il termine tecnico usato dal Ministero degli Interni è persone "rintracciate", e si tratta di una piccolissima parte degli immigrati irregolari.

Sugli immigrati irregolari infatti la polizia non chiude solo un occhio, li chiude tutti e due. Non controllano certo le badanti, perché non hanno né le risorse né il mandato.

Il problema sono appunto i rintracciati che negli ultimi anni hanno raggiunto quota centomila all’anno, che in parte sono gli stessi perché non riescono poi a respingerli. E qui si apre un altro capitolo che è quello dell’identificazione. Queste persone infatti danno false generalità, non dicono da che paese vengono, rendendo pressoché impossibile rimpatriarle. Resta il fatto che grazie ai centri di permanenza temporanea, che certo sono nati male, e altri istituti introdotti dalle due leggi, la quota di persone rimpatriate sul totale dei rintracciati è aumentata, per quanto non in maniera lineare. Direi pertanto che la situazione da questo punto di vista è migliorata e ciò mostra che si potrebbe fare qualcosa.

Il nostro paese vanta poi altre due specificità. Una è l’esistenza di una forte quota di lavoro nero, luogo privilegiato per gli irregolari. È chiaro che la presenza di un settore informale dell’economia così ampio favorisce l’immigrazione irregolare. Il secondo fattore è il bassissimo numero di controlli fatti nei luoghi di lavoro. In altri paesi mediterranei, come la Spagna, ad esempio, i controlli (almeno dai dati) sembrerebbero decisamente superiori.

 

Nel capitolo che ha dedicato all’omicidio della signora Reggiani lei sfata l’idea che alla base di un aumento dei reati compiuti dai rumeni ci sia l’entrata in Europa della Romania. Può spiegare?

Intanto quel capitolo è stato frainteso, per motivi di convenienza, dai giornalisti rumeni che infatti volevano tutti intervistarmi. In realtà io ho cercato di dimostrare che è indubitabile che i rumeni commettano molti più reati del loro numero (ma questo vale anche per albanesi e marocchini), ma che era sicuramente sbagliata l’idea che questo dipendesse dall’entrata nell’Unione Europea della Romania e della Bulgaria.

Il fenomeno è iniziato prima, in corrispondenza di un’altra legge in base alla quale veniva meno il bisogno del visto. Questo ha fatto sì che, come i dati hanno mostrato, sono arrivati davvero un grandissimo numero di rumeni, parte dei quali sono stati successivamente regolarizzati dalla legge Bossi Fini. Chiaramente l’ingresso nell’Unione Europea ha accentuato ulteriormente questo processo che però era iniziato molti anni prima. Ecco, questo discorso è stato frainteso dai giornalisti rumeni che hanno scritto che io sostengo che era tutta una balla, e che i rumeni sono tranquilli…

 

C’è una ragione particolare per cui alcuni gruppi, rumeni, marocchini e albanesi, commettono più reati di altri?

Intanto sono i gruppi più numerosi e noi sappiamo che c’è una forte relazione tra immigrazione regolare e irregolare. Il discrimine tra regolari e irregolari è un confine quasi casuale, casomai dovuto al fatto che uno è arrivato prima… Tra gli irregolari poi ci sono anche quelli che effettivamente commettono reati; alcuni vengono già con l’idea di commetterli, altri si trovano a compiere azioni illecite una volta qui.

Un mio giovane collega, Asher Colombo, ha fatto la tesi di dottorato entrando in un gruppo di algerini e seguendoli. Ne è uscito un libro molto bello, perché è difficile fare ricerche di questo tipo. Questi giovani infatti, non corrispondevano allo stereotipo dell’immigrato disperato, poveraccio, erano persone di classe media che avrebbero potuto benissimo trovare lavoro in patria, ma che avevano aspirazioni più alte, e che non riuscendo a soddisfarle per le vie ordinarie, talvolta finivano con lo scegliere percorsi illeciti. È una dinamica che riguarda anche i giovani italiani: persone che non commettono reati ne conoscono altre che li commettono e non le andrebbero mai a denunciare, sono mondi confinanti, non esistono barriere rigide…

Insomma, ripeto, sono ambiti molto fluidi per cui è difficilissimo compiere indagini accurate. Sicuramente andrebbero maggiormente indagate anche le "reti viziose" oltre a quelle virtuose, perché è evidente che esistono reti molto efficienti anche nel campo della delinquenza.

 

Ma il numero complessivo dei reati è aumentato?

Anche qui bisogna fare attenzione, perché si rischiano fraintendimenti. Noi siamo in un periodo, iniziato dal 1991 (ce n’era stato un altro breve a metà degli anni 50), caratterizzato dal tasso di omicidi più basso della nostra storia, ovvero degli ultimi cinquecento anni. Gli anni ‘90 hanno inoltre visto diminuire molti reati predatori, come alcuni furti, ecc. Per esempio i furti di auto sono diminuiti (ma perché non convengono più).

Altri reati invece sono continuati ad aumentare, penso ad esempio alle rapine. Non solo, anche alcuni dei reati che hanno subito un calo in realtà mantengono tassi elevati. Questo significa che noi oggi abbiamo tassi di furti e di rapine molto più alti di venti, trenta e quarant’anni fa. Pertanto possiamo dire che c’è un alto livello di criminalità.

Certo, lo ripeto, gli omicidi sono diminuiti, però sfortunatamente gli omicidi non influiscono sul senso di sicurezza, perché sono pochi, difficilmente ci si identifica, di fatti non c’è mai correlazione tra il tasso di omicidi di un luogo e l’indicatore di sicurezza. Quelli che determinano il senso di insicurezza sono i reati più frequenti e visibili. Influiscono molto anche le forme di degrado, cioè le violazioni delle regole che non riguardano il codice penale, sono le cose di cui la cittadinanza bolognese si lamenta da quindici anni, sono Piazza Verdi o semplicemente i graffiti, le prostitute che pure tutti sanno che non commettono reati… e però vedere le prostitute, vedere i tossicodipendenti…

Questo meccanismo è stato anche spiegato: l’idea che le persone si fanno è che non ci sia nessuno capace di difendere l’ordine nel proprio quartiere, e quindi se loro vedono tossicodipendenti, persone che fanno rumore, che si ubriacano, che si picchiano, eccetera pensano che possa succedere qualcosa di molto più grave, e quindi si sentono in pericolo.

Questo è un grande problema -lo dico scherzando- per quelli di Rifondazione Comunista, perché loro nei dibattiti ripetono: "Ma come? Sono diminuiti gli omicidi!!", cioè pensano che il senso di sicurezza sia una palla inventata da Berlusconi e dai media. Ma non è così. E poi dicono una cosa apparentemente giusta ma che dimostra che non ci hanno pensato, cioè loro dicono: "Ma, e i reati dei potenti?!". Ma neanche quelli purtroppo influiscono sul senso di sicurezza!

Tutti sono consapevoli che ci sono ma non ho mai sentito nessuno dire: "C’è stato un grave caso di corruzione, ora mi sento meno sicuro". No, ci si arrabbia, ci si scandalizza, per motivi evidenti, ma non è che uno si sente minacciato. Uno si sente minacciato dal borseggio della zia, oppure dal furto d’appartamento del cugino, o di una persona che conosce.

Più ancora che le notizie stampa influisce quello che si vede e si apprende da persone che si conoscono che magari raccontano che la zia della zia ha avuto un borseggio, però se uno se lo sente raccontare un giorno sì e uno no…

 

Diceva che le rapine in casa però non sono così frequenti...

Le rapine in casa fanno molta paura, perché in genere avvengono con persone che ti minacciano, che magari sono armate o male intenzionate, sicuramente non sono cose piacevoli, però effettivamente sono un numero relativamente basso rispetto al clamore suscitato. D’altra parte hanno suscitato grande scalpore perché una volta erano rarissime. Negli ultimi anni sono sicuramente aumentate, e in questo gli immigrati hanno dato un certo contributo. Cioè queste non sono invenzioni dei media, sono cose vere. Come è vero ed è stato ampiamente documentato che molti borseggi vengono messi in atto da bambini nomadi, i cosiddetti zingari, che hanno meno di 14 anni o così dicono. Pure questo crea insicurezza, anche perché sembra un problema irrisolvibile e in effetti è difficile da risolvere, perché i bambini non possono andare in carcere quindi non si sa bene cosa fare, tra l’altro non è che questi si fanno mettere da qualche parte, se ne vanno via…

 

Quindi lei nega ci sia un rapporto tra i media e il diffuso senso di insicurezza…

Non sono io. Intendiamoci, i media contano naturalmente, però nella letteratura scientifica si dice che i media influiscono su quello che viene chiamato "concern about crime", cioè la preoccupazione della criminalità. Ma questo meccanismo è molto legato al grado di interesse politico della gente (cioè alcuni non le sentono proprio queste notizie). Ovviamente, il caso della signora Reggiani l’abbiamo sentito tutti, ma per molti altri fatti bisogna leggere i giornali e qui veramente è dirimente l’orientamento politico.

La "fear of crime", cioè la paura, il senso di insicurezza è un’altra roba ed è molto stabile, infatti laddove ci sono serie storiche di dati, come ci sono in Gran Bretagna e Stati Uniti, si vede che cambia poco. Perché cambi sono necessari dei mutamenti importanti, che la gente percepisca.

Ora, il senso di sicurezza in genere viene misurato chiedendo alla gente se ha paura ad uscire la sera di casa e a camminare da sola nel quartiere dove abita, questo è un indicatore tra i più usati.

Ecco, questo non varia a seconda di quello che dicono i media, è costante ed è costantemente alto. Ha cominciato a salire quando questo tipo di criminalità è aumentato in tutti i paesi occidentali, cioè in Italia dalla fine degli anni ‘60, in altri paesi prima. Una volta raggiunti i livelli alti negli anni ‘80 è rimasto costante, non ci sono stati mutamenti, mentre i giornali se la raccontano. Purtroppo anche chi fa i sondaggi spesso alimenta questa confusione.

Certo, ci sono anche delle situazioni che loro definiscono di emergenza, intanto perché le definiscono loro, e poi perché può succedere. Qualche anno fa, mi sembra fosse il 2001, a Milano ci furono dieci omicidi concentrati in pochi giorni, ma poi il numero complessivo degli omicidi non cambiò rispetto all’anno precedente…

Allora può darsi che un certo accanimento mediatico, anche nel sottolineare la nazionalità, alla fine influisca, io però credo più al fatto che la gente vede, vede che ci sono gli spacciatori, vede che una parte non sono italiani, oppure vede le prostitute e vede che non sono italiane… In queste cose le convinzioni si formano così, senza con questo sminuire i media, che certo contano, però secondo me sono sopravvalutati.

 

Nel tentativo di offrire delle spiegazioni a questi comportamenti devianti lei utilizza il concetto di "privazione relativa", cosa significa?

Per provare a capire in effetti esistono due spiegazioni. Una è la teoria del controllo sociale che ci aiuta a comprendere i reati non solo degli immigrati ma di tutti noi. L’altra è quella della privazione relativa e del gruppo di riferimento. Mi spiego: le persone, soprattutto i giovani, che vengono in Occidente hanno sempre più come gruppo di riferimento non quello che lasciano al loro paese ma quello che trovano nei paesi ricchi.

Da questo punto di vista, per la seconda generazione la situazione è ancora più grave, perché effettivamente questi giovani si specchiano a tutti gli effetti sui loro coetanei. Se poi, come è successo in Francia, godono anche degli stessi diritti politici, in qualche modo, paradossalmente, il confronto diventa più frustrante e possono scattare dei cortocircuiti. Intendiamoci, questo non vuol dire che non bisogna concedere i diritti politici, ma che non basta. Perché i giovani figli di immigrati nati e vissuti in Francia hanno tutti i motivi per considerarsi uguali nelle aspettative ai loro coetanei figli di francesi, e siccome dal punto di vista sociale e economico la situazione è invece molto diversa, ogni tanto si arrabbiano e sfasciano tutto, bruciano macchine, invadono le strade. Sono problemi che hanno tutti i paesi europei.

 

Che peso hanno le condizioni socio-economiche, la presenza di reti familiari, l’integrazione insomma?

L’integrazione è fondamentale. Anche come deterrente. Ho menzionato la teoria del controllo sociale, ebbene questa teoria, che tra gli studiosi di scienze sociali gode di maggiore credito, deriva dall’etica cristiana e in qualche modo può applicarsi alla generalità della popolazione: siamo tutti peccatori, ciascuno di noi può commettere reati, quelli che non li commettono è perché hanno dei forti controlli esterni e interni.

Ora, tra i controlli esterni non c’è solo il rischio della denuncia ma anche quello di far soffrire le persone care. I "controlli esterni" sono allora la mamma, la fidanzata, il marito, il compagno di lavoro. Perché pensi: "Ma se mi prendono do un dolore a mia madre". Ecco, nel caso degli immigrati, è evidente che questo vincolo è molto debole: molti di loro non hanno una rete all’inizio, a volte stanno dentro una rete nata proprio per le attività illecite, quindi sostanzialmente sono svantaggiati da questo punto di vista. Naturalmente sono svantaggiati anche dal punto di vista economico. Però la spiegazione che c’è nella testa della gente per cui questi commettono reati perché sono poveri, bisognosi, beh, non funziona.

 

Tanto più che non tutti sono poveri, certo magari non sono ricchi… Ma ad ogni modo non rubano perché sono poveri e bisognosi, no… Quanto conta invece la legislazione? Oramai è molto difficile entrare come "regolari". In fondo è stato questo labirinto di leggi e filtri a produrre il soggetto clandestino…

La farraginosità del nostro sistema certamente influisce. Il fatto che non siamo mai riusciti ad adottare una programmazione congrua dei flussi, e che quindi ci siano sempre più persone che devono entrare come irregolari, consapevoli che poi verranno regolarizzati secondo una sanatoria, beh, anche questo favorisce le attività illecite.

Basti guardare all’ultimo decreto flussi, è evidente che sono regolarizzazioni mascherate, perché sono tutti già qui. Se penso al mondo degli universitari, che conosco meglio, ecco anche lì molte volte le regole adottate per evitare abusi sono talmente tante che alla fine quasi costringono a fare abusi, perché poi alcune sono effettivamente assurde, e così per aggirarle si finisce con il moltiplicare gli abusi. E una volta che si passa di là, qualcuno può anche pensare che allora, abuso per abuso…

Pertanto, sicuramente la situazione delle leggi influisce. Ma influisce anche sull’altro versante. Un sistema come il nostro, che funziona male (anche se un poco meglio di prima) è un grande spreco di risorse e di capitale umano, e influisce negativamente sullo stesso funzionamento delle forze dell’ordine, della magistratura…

I poliziotti non ne possono più degli immigrati, perché vedono che la loro attività è in gran parte inutile: si ritrovano sempre gli stessi! Intanto è difficile provare che uno sta spacciando, perché naturalmente gli spacciatori sono bravi nel non farsi cogliere con le mani nel sacco, hanno una serie di trucchi che i poliziotti conoscono, e poi appunto se continuano a cambiare generalità è difficilissimo fermarli. Per non parlare del famoso indulto che ha avuto effetti disastrosi…

Come non bastasse, c’è questa infinita polemica tra destra e sinistra, in gran parte finta, fatta dai leader per dire ai seguaci: "Io difendo gli immigrati", e gli altri: "Io difendo voi dagli immigrati". Questo è normale però rende difficile trovare una soluzione ai problemi.

 

Esiste qualche paese che ha trovato il modello giusto?

La Svezia viene sempre citata, l’ho fatto anch’io, ma temo di essere stato influenzato dal mio orientamento politico nell’enfatizzare. Un mio collega, un criminologo svizzero molto bravo, a un dibattito a Torino mi ha fatto delle obiezioni. La letteratura dice che in Svezia gli immigrati di seconda generazione sono meglio integrati e quindi presentano meno problemi e la spiegazione sarebbe che quel paese ha investito moltissimo nelle scuole, eccetera. Il mio collega sostiene invece che il motivo principale è che lì c’è stata un’immigrazione diversa, perlopiù politica, di sudamericani e altri gruppi. In realtà nessuno di noi è però in grado di dimostrare efficacemente una tesi o l’altra. In generale è un problema che attanaglia un po’ tutti i paesi. Ad oggi non c’è un modello risolutivo. Lo stesso modello francese che è generoso nel concedere diritti politici e di cittadinanza agli immigrati, a differenza del modello tedesco, in questi ultimi anni ha mostrato i suoi limiti.

Oggi è sempre più chiaro che non basta concedere diritti di cittadinanza, diritti politici, poi bisogna occuparsi di tutto il resto, perché gli immigrati, in particolare la seconda generazione, non possono essere troppo diseguali, e quindi non basta nemmeno costruire case popolari nelle periferie, perché all’inizio ti ringraziano, ma poi si arrabbiano. Insomma è complicato, nei prossimi anni ne vedremo delle belle.

 

Una questione più di fondo: mentre la destra sembra benissimo attrezzata ad affrontare questi fenomeni, per quanto a suo modo, la sinistra continua a balbettare…

In realtà non è vero che la destra è benissimo attrezzata, è molto divisa al suo interno. D’altro canto, se pensiamo che una volta anche il solo affrontare il problema poneva ostacoli insormontabili, possiamo dire che la sinistra ha fatto dei passi avanti. A livello individuale, molti hanno preso atto della situazione e hanno cambiato posizione. Nel libro ricordo il percorso di Livia Turco e le sue posizioni prima di essersi occupata concretamente del problema, e dopo.

Nel corso dell’ultimo governo del centrosinistra ho collaborato con il Ministero dell’Interno e ricordo che c’era una simpatica avvocatessa, una cattolica di formazione di sinistra, che sono quelli che hanno il cuore più aperto, io all’inizio la prendevo in giro quando parlava degli immigrati. Quando è andata al Ministero degli Interni, dove le informazioni sono di prima mano, beh ricordo che mi diceva: "Eh, Marzio, in effetti ne sto vedendo delle belle". E questo vale in generale. L’approccio è cambiato. Se per sinistra si intende il Partito Democratico una parte dei dirigenti è cambiata.

 

Quelli che sono cambiati poco sono quelli della cosiddetta sinistra radicale, che sono scomparsi peraltro…

Quando sento Sansonetti, il direttore di Liberazione, mi fa un grande effetto, mi sembra di sentire me stesso quando avevo vent’anni… Certo, può darsi che io sia in una fase di rimbecillimento senile, però credo ci sia dell’altro, cioè questi fanno grande fatica a capire le trasformazioni.

È curioso: la gente comune ha capito questi problemi molto prima degli studiosi di sinistra, che sono accecati dalla loro ideologia, sono "fregati", non capiscono, sono così difesi dai loro schemi interpretativi che non rimettono mai in discussione, perché se no guai. Comunque, ripeto, mi pare che gran parte della sinistra sia cambiata nell’atteggiamento e nelle analisi.

Ma anche all’interno della destra non c’è un approccio monolitico, sono in molti a essere convinti che occorre fare dei passi avanti sulla strada della cittadinanza. Questo è un tema importante che purtroppo nessuno solleva in modo serio. La sinistra dovrebbe fare delle proposte coraggiose, invece che avvitarsi in questi discorsi che mostrano ottusità, per cui gli immigrati non sono un problema ed è tutto un’invenzione della destra. Gli immigrati sono anche un problema. Anziché giocare sempre di rimessa, dovrebbe assumere una posizione forte, soprattutto nel campo dei diritti politici, anche degli immigrati di seconda generazione, di cui invece non parla mai nessuno. Anche sul piano dell’integrazione nelle scuole, dove pure si fanno delle cose, ci vorrebbe un programma, un impegno straordinario.

Io non vedo e non sento nulla di tutto questo, neanche da parte della sinistra alternativa. Invece una parte della destra, secondo me, ci sta pensando a fare dei passi avanti sul tema della cittadinanza. Poi non pensiamo che la cittadinanza sia risolutiva, l’abbiamo visto nel caso della Francia, come anzi nascano altri problemi, però non c’è un’altra strada.

Droghe: non è reato coltivare marijuana finché non è matura

 

Notiziario Aduc, 15 gennaio 2009

 

La Cassazione allenta la repressione penale nei confronti di chi coltiva marijuana e afferma che, se le piantine non sono mature e non contengono dunque principio drogante, allora il coltivatore non può essere condannato.

Solo qualche mese fa le sezioni unite di Piazza Cavour avevano stabilito che la coltivazione di cannabis costituisce sempre reato anche se si tratta di piccole produzioni domestiche. "Con questa decisione - sentenza 1222 della IV Sezione penale - la Cassazione ha annullato con la formula perché il fatto non sussiste la condanna a un anno quattro mesi di reclusione e 3.500 euro di multa inflitti, dalla Corte d’Appello di Ancona, nel 2003, a Domenico N., un piccolo "produttore" al quale le forze dell’ordine avevano trovato, in un campo vicino a casa sua, 23 piantine di cannabis.

La consulenza tossicologica aveva spiegato che ‘le piantine avevano attecchito nel terreno e, se lasciate giungere a maturazione, avrebbero prodotto una notevole quantità di principio attivò. Secondo i giudici di Ancona la coltivazione di marijuana costituisce sempre reato e rappresenta un elemento di pericolo sociale e per la salute dei consumatori. Ma la Cassazione non è d’accordo e - stracciando la condanna - sottolinea che l’intervento punitivo dello Stato deve esserci solo quando è concretamente minacciato il bene della salute. In caso contrario il giudice, guidato dai principi di ragionevolezza della pena in presenza di una condotta offensiva, deve chiedersi se possa esercitare il potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per tutelare il bene delle salute, dinanzi a una offensività non ravvisabile neanche in grado minimo.

I supremi giudici ricordano che altre sentenze dello stesso "Palazzaccio" hanno condannato la coltivazione e il possesso di droghe prive di principi attivi in nome delle tutela della salute, delle sicurezza e dell’ordine pubblico, nonché a favore del "normale sviluppo delle giovani generazioni" che tuttavia sono - conclude la sentenza depositata oggi – "beni non presenti esplicitamente nella Costituzione, ma che ricorrono come valori guida di scelte di politica criminale (prevalentemente contingenti, per ricorrenti emergenze)".

 

Giovanardi: la Cassazione "si arrampica sugli specchi"

 

La Cassazione "si arrampica sugli specchi". È il commento di Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla droga, il quale rileva che "davanti ad una norma in vigore chiarissima che recita: "chiunque coltiva (...) sostanze stupefacenti o psicotrope (...) è punito", principio ribadito, anche recentemente, dalle sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quarta sezione della stessa Corte si arrampica sugli specchi inventandosi una differenziazione tra piante di cannabis in fase di crescita e piante giunte a completa maturazione".

Per Giovanardi, "c’è davvero da essere presi da un senso di sconforto nel constatare come gli sforzi delle forze dell’ordine e di decine di migliaia di operatori del pubblico e del privato sociale che, ogni giorno, combattono contro la diffusione della droga e le tragiche conseguenze del suo consumo vengano vanificati da chi dovrebbe tutelare e difendere la cultura della legalità".

Firenze: "riduzione del danno" a scuola, protestano i genitori

di Maria Cristina Carratù

 

La Repubblica, 15 gennaio 2009

 

Istruzioni per l’uso di cocaina, cannabis, alcol, funghi allucinogeni, ecstasy: "Fai attenzione alle dosi, la prima volta prendi al massimo la metà di quella degli altri, non puoi sapere come reagirai. Se il bruciore della cavità nasale è forte, o il naso sanguina, o si formano croste, smetti di sniffare".

O ancora: "È meglio sospendere o evitare l’uso di cannabis se essa amplifica o causa sensazioni negative". Oppure: "Le bevande alcoliche sono usate per disinibirsi, superare gli imbarazzi, sentirsi più carichi, avere più coraggio con l’altro sesso, divertirsi con gli amici".

Distribuiti dagli operatori di strada ai giovani dei rave, delle grandi feste, dei concerti, e mirati alla riduzione del danno da assunzione di sostanze altrimenti senza controllo, i depliant colorati del Progetto Extreme della Asl di Firenze sono finiti in una scuola. Ed è esplosa la protesta.

Tornati a casa, lunedì scorso, i ragazzi della II A e della II B del liceo scientifico Rodolico, succursale nel quartiere Galluzzo, hanno mostrato ai genitori il materiale consegnato da due operatrici di strada della Coop Cat, convenzionata con il Comune e impegnata in progetti di prevenzione con la Asl, al termine di due ore di "lezione" sulle droghe tenuta al posto delle nomali materie. Un progetto che fa parte del Piano di offerta formativa della scuola, ma dei cui dettagli il dirigente scolastico Alfonso Bajo si è detto ieri "all’oscuro". "Avvierò un’indagine interna" ha spiegato, mentre il Dirigente scolastico regionale ha già inviato un ispettore.

Secondo i genitori, le due operatrici della Coop Cat avrebbero parlato "quasi solo degli effetti delle sostanze sul sistema nervoso, descrivendo quello che accade quando si assumono" ma "senza mai invitare esplicitamente i ragazzi a stare alla larga dalla droga". Lasciando poi in classe le "istruzioni per l’uso" (compreso un braccialetto porta preservativo) destinate ai rave, cioè pensate per chi, facendo già largo uso di sostanze, più che messo in guardia va affrontato con strategie di riduzione del danno. "Mi sembra pazzesco che a ragazzi di questa età si spieghi per filo e per segno come farsi di cocaina". ha protestato una madre.

"È vero, quel materiale non doveva entrare nelle scuole", conferma la coordinatrice del dipartimento dipendenze della Asl, Paola Trotta. Quella che sarebbe stata seguita al Rodolico, in realtà, "non risponde ai criteri della nostra prevenzione primaria". Nelle scuole, spiega Trotta, più che sulle sostanze bisogna lavorare "sulle motivazioni positive della vita e sviluppare la capacità dei ragazzi di stabilire rapporti con gli altri". Una linea però non del tutto condivisa dal responsabile della Coop Cat Stefano Bertoletti: "Non facciamo un tabù della riduzione del danno" dice, "dipende da come se ne parla". Anche se è vero, ammette, che "distribuire quel materiale è stato un grave errore, che le operatrici dovranno spiegare". E mentre la Società della salute, che coordina Asl e Comune sul fronte socio-sanitario, ha chiamato a rapporto gli attori della vicenda, e annuncia un prossimo protocollo di intesa per coordinare le troppe competenze sui progetti nelle scuole su stili di vita e salute, i genitori chiedono che "al Rodolico sia chiamato ora un esperto vero, che rimedi ai danni provocati ai nostri ragazzi".

Francia: in 19 mesi 45mila espulsioni con "accompagnamento"

 

Redattore Sociale - Dire, 15 gennaio 2009

 

Il ministro Hortefeux presenta il bilancio: nel solo 2008 29.796 espulsioni, aumentate del 28,5% rispetto al 2007. Circa 80 al giorno. Ma le cifre comprendono anche i "ritorni volontari".

45 mila stranieri in situazione irregolare sono stati ricondotti alle frontiere francesi negli ultimi 19 mesi. Questo secondo i dati resi noti ieri da Brice Hortefeux, il ministro francese dell’Immigrazione. Hortefeux si è rallegrato per il suo bilancio, spiegando che nel solo anno 2008 le espulsioni sono state 29.796, con un aumento del 28,5% rispetto al 2007. In media, circa 80 espulsioni al giorno. Tuttavia, le cifre presentate mascherano in gran parte la realtà. Innanzitutto un terzo di queste (10.072) sono in realtà "ritorni volontari", con un aumento del 204% rispetto al 2007. Inoltre la metà delle espulsioni riguarda la sola isola di Mayotte, nell’arcipelago delle Comore. Infine, numerosi cittadini bulgari e rumeni espulsi ritornano automaticamente nell’esagono grazie all’adesione dei loro paesi rispettivi all’Unione europea.

Molte le associazioni che fanno invece un bilancio critico dell’azione del ministero dell’Immigrazione per "avere aumentato in misura sproporzionata la pressione sugli stranieri", e che chiedono un cambiamento di politica. Cimade denuncia un "rifiuto d’umanità", France Terre d’asile fustiga la predominanza del repressivo sul sociale. Per la rete Éducation sans frontières (Resf), la prossima partenza di Brice Hortefeux, candidato anche al posto di ministro degli affari sociali, è vista come la "fine della partita di caccia al bambino". "Questo modo di gestire l’immigrazione - sottolinea ancora l’associazione - è una costruzione tecnocratica, creata esclusivamente per il controllo, a scapito dell’aspetto sociale". Rispondendo alle critiche, il ministro ha dichiarato che "non vi sono buone e cattive espulsioni, la legge s’applica a tutti, europei o africani". Il ministro ha anche precisato che dal 2002 sono stati espulsi in tutto 135 mila immigrati irregolari, e che l’immigrazione familiare è diminuita del 10,6% rispetto al 2007, per il quarto anno consecutivo.

È in aumento invece l’immigrazione professionale: 14% nel 2007, 20% nel 2008, ma la Francia è ancora lontana dall’obiettivo del 50% fissato dal presidente della Repubblica. Inoltre, nel 2008 sono stati firmati quasi 104 mila "contratti d’accoglienza e d’integrazione", mentre circa mille genitori hanno potuto beneficiare di una formazione per facilitare la loro integrazione nella società francese. Si tratta di cifre importanti, superiori a quelle dell’Italia, se si considera che da noi si è parlato di "record di espulsioni" quando, a fine 2008, il dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero degli Interni ha reso noto che 6.635 immigrati irregolari sono stati espulsi tra novembre e dicembre 2008, al ritmo di circa 70 al giorno.

Secondo i dati forniti, gli stranieri allontanati dal territorio italiano da quando si è insediato il nuovo governo supererebbero quota 10 mila, oltre la metà dei quali, come detto, tra novembre e dicembre 2008: una cifra pari al 235 % in più rispetto agli immigrati passati per i Cpt nell’intero 2007. A questi vanno aggiunti, sempre secondo la fonte governativa, i 1.816 sorpresi in flagranza dalla polizia di frontiera marittima nei porti di Venezia, Ancona, Bari, Brindisi e rispediti verso la Grecia. 578, invece, i voli charter fatti decollare verso l’altra sponda del Mediterraneo nello stesso periodo, 391 dalle coste siciliane e 187 dalla Sardegna. Riassumendo, quasi 12 mila soggetti espulsi dal suolo nazionale nel 2008 (mese di agosto escluso).

Brasile: Alfano; su estradizione Battisti presenteremo ricorso

 

Il Gazzettino, 15 gennaio 2009

 

Sulla vicenda dell’ex militante dei Pac Cesare Battisti, a cui il Brasile ha deciso di riconoscere lo status di rifugiato politico, l’Italia sta pensando di presentare un’istanza al ministro della Giustizia brasiliano, affinché riveda il no all’estradizione. È quanto ha detto oggi il Guardasigilli, Angelino Alfano, il quale ha inoltre annunciato l’intenzione di proporre un ricorso alla Corte di Cassazione del Paese sudamericano. Il Guardasigilli - ospite di Radio anch’io - ha ribadito che contatterà personalmente il ministro della Giustizia brasiliana per "esprimergli le ragioni di indignazione delle vittime del terrorismo e delle vittime di Battisti, che è stato condannato in Italia con criteri di assoluta garanzia e che sconterebbe la sua pena secondo i criteri che si convengono ad una democrazia".

Alfano ha ribadito la delusione e l’amarezza di fronte alla decisione del Brasile nei confronti di un "un uomo che è un assassino e un criminale". Tuttavia, Alfano dice di "non essere rassegnato" e che cercherà di perseguire "tutti i rimedi giuridici" possibili. "Faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità. E faremo anche pesare - aggiunge - il fatto politico che i Paesi come il Brasile intendono contribuire alla democrazia mondiale, con la partecipazione al G8, non possono pensare di agevolare il loro percorso attraverso la violazione di quanto accertato dalla giustizia di altri Paesi. Le democrazie mondiali devono collaborare anche su questo".

La lettera di Cossiga Che battisti non sia un criminale comune pluriomicida ma un terrorista che ha commesso dei "delitti politici" finalizzati a innescare la rivoluzione, viene ribadito dall’ex presidente Francesco Cossiga. Gli attentati di cui si sono resi protagonisti i militanti della lotta armata, a destra come a sinistra, non sono certamente "crimini comuni ma politici". È l’elemento sottolineato in una lettera del senatore a vita, Francesco Cossiga, che il terrorista, latitante da anni e di cui il Brasile ha rifiutato il rimpatrio in Italia, ha utilizzato nella ‘memorià trasmessa al ministero della Giustizia brasiliano per ricorrere contro la richiesta di estradizione. Cesare Battisti non è un criminale comune pluriomicida ma un terrorista che ha commesso dei "delitti politici" finalizzati a innescare la rivoluzione. Gli attentati di cui si sono resi protagonisti i militanti della lotta armata, a destra come a sinistra, non sono certamente "crimini comuni ma politici".

È l’elemento sottolineato in una lettera del senatore a vita, Francesco Cossiga, che il terrorista, latitante da anni e di cui il Brasile ha rifiutato il rimpatrio in Italia, ha utilizzato nella "memoria" trasmessa al ministero della Giustizia brasiliano per ricorrere contro la richiesta di estradizione. In una conversazione riportata dal Corriere della Sera, il senatore a vita nega di essere imbarazzato per l’utilizzo che i legali di Battisti hanno fatto della sua missiva e ne spiega anche l’origine. "Imbarazzato? E perché mai - replica il presidente emerito della Repubblica - io quelle cose le ho sempre pensate e dette e dunque non potevo fare diversamente. Un giorno nella posta elettronica ho trovato un messaggio di un’avvocatessa francese che mi chiedeva di mettere per iscritto le posizioni che io avevo già tante volte sostenuto e che loro conoscevano, per allegarle agli atti della causa di battisti in Brasile".

"L’ho fatto, tutto qui. Del resto in Italia continuiamo a rifiutarci di discutere sulle vere cause del terrorismo per non arrivare a dire che i terroristi erano dei marxisti-leninisti che provenivano dal Pci...". Comunque sia, fa notare il giornalista del Corriere, i legali di Battisti hanno utilizzato la lettera per dimostrare che l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo è visto dalla giustizia in Italia come un perseguitato politico. "Io - conclude Cossiga - non ho detto e non dico che Battisti è un perseguitato politico ma che i suoi delitti sono politici".

 

 

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