Rassegna stampa 13 gennaio

 

Giustizia: l’indipendenza della magistratura è falso problema

di Lorenza Violini

 

www.ilsussidiario.net, 13 gennaio 2009

 

In uno Stato di diritto le regole che presiedono all’organizzazione e al funzionamento degli apparati giudiziari hanno come scopo ultimo di far fronte al dramma che si svolge quando, amministrando la giustizia, una uomo giudica un altro uomo. Di qui la forte tensione a spersonalizzare gli attori di questo dramma, incanalando l’azione dentro rigide regole procedurali e spogliando l’uomo che giudica di tutti quegli aspetti "soggettivi" che potrebbero inquinare l’imparzialità della sua azione.

Avere una magistratura indipendente sia come corpo sia come singoli che ad essa appartengono fa parte di questa tensione, ben percepibile nelle norme, costituzionali e non, che trattano del tema, le quali - tuttavia - rifuggono da derive isolazioniste: si pensi dall’integrazione del Csm con membri di nomina parlamentare o alla norma sui limiti all’iscrizione dei magistrati ai partiti politici.

Due sono gli argini, dunque, entro cui si deve incanalare la logica dell’indipendenza per dare i suoi frutti: che essa sia percepita e invocata a garanzia del cittadino e non come una sorta di autoreferenzialità autogestita, e che peschi i suoi moti ispiratori in un humus culturale e politico in cui cittadini, magistrati, classe politica e mass media tendano a creare un clima in cui la priorità sia data al perseguimento della giustizia, pur nella consapevolezza della perfettibilità dell’umano tentativo.

La garanzia dell’indipendenza della magistratura è un compito che coinvolge tutte le istituzioni e non un affare interno alla magistratura stessa, da brandire contro la restante compagine delle istituzioni. Se così si muove, il terzo potere si espone alle critiche, che si vanno diffondendo, di stigma verso le smarginature del giudiziario. Ricorda, pur sommessamente, Jeremy Waldron, che la classe politica che compie errori ha dietro di sé il voto della maggioranza mentre il giudice non può che rifarsi a se stesso e, se sbaglia, egli resta pur sempre uno mentre gli altri sono e restano i molti.

Ora, in uno Stato di diritto il rispetto delle norme non è mai mera forma, ma comporta una lettura attenta, competente ed integrale dei dati normativi alla luce dell’esigenza ultima di giustizia che alberga nel cuore dell’uomo. La magistratura è il primo interprete e il primo difensore della legalità formale e sostanziale: un atto, pur formalmente corretto, se adottato per un diverso scopo o per l’affermazione di un proprio progetto di giustizia, di moralità, o del tentativo di influenzare il quadro politico, mette a repentaglio tutto l’impianto su cui si regge l’organizzazione della giustizia e ne mina la credibilità.

I recenti fatti di cronaca non sono problematici perché sono stati compiuti errori, ma per la palese strumentalizzazione dell’apparato giudiziario: privare, per esempio, un cittadino della libertà nella settimana antecedente al Natale non è problematico perché poi si è rivelato un errore tecnico, ma perché ha evidenziato una visione distorta che presiede all’attivazione di certi istituti quali la carcerazione preventiva.

Così torna lo spettro dell’ingiustizia, il dramma dell’uomo che, sulla base di proprie visioni, ideologie o sentimenti, sottopone l’altro a giudizio snaturando il tentativo di oggettivazione che anima le regole della giustizia in un Paese democratico. E non sarà una mera modifica alla composizione del Csm o la produzione di sistemi amministrativi più efficienti a restaurare un’integrità di coscienza e di azione che va scemando, forse non nella magistratura nel sua complesso ma almeno nei suoi elementi cui i mass media danno spicco e in certi suoi organi rappresentativi.

Tutto questo per dire che il problema della giustizia non è solo un problema tecnico. Ben vengano, certo, le norme sulla riforma delle procure, quelle volte a valutare l’operato dei magistrati (ma anche a farne valere le responsabilità quando compiono errori anche reiterati e compiuti "a cuor leggero"), quelle che mirano a garantire l’efficienza della macchina giudiziaria, scandalosamente lenta ed inefficiente.

Ed il problema non è neppure politico, se per politica si intende il tentativo di opporre disegno a disegno, moralità (vera o presunta) ad immoralità, come se la moralità fosse una questione di schieramento. Vi è, credo, una questione ben più radicale a cui è urgente che tutti, a partire dalla magistratura, comincino a cercare risposte, ed è quella di identificare una direzione verso cui avviarsi e una meta verso cui tendere, nella consapevolezza che sarà una strada non breve; anche se, forse, qualche sussulto, qualche albore di questa consapevolezza comincia a farsi, pur faticosamente, strada.

Giustizia: tutti d’accordo per magistratura "sotto controllo"?

di Pancho Pardi

 

Il Manifesto, 13 gennaio 2009

 

In tema di giustizia e magistratura, Mancino propone che "sia il Parlamento a scegliere i reati da perseguire". Violante aggiunge: "il vero problema è che oggi la magistratura è un potere dello Stato che non ha nessun contrappeso". Sta diventando sempre più difficile affermare un riformismo di centrosinistra che non incorpori le ragioni dell’avversario. Ma è impossibile vedere un riformismo di centrodestra che adotti la stessa logica.

Mancino è contrario alla separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e inquirenti, ma si sente in dovere di proporre che la scelta dei reati di maggior rilievo sia fatta dal Parlamento. Ciò significa abolire l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione, ma per addolcire il colpo Mancino inventa un correttivo anche più pericoloso: sia necessaria una maggioranza allargata "almeno a una parte dell’opposizione".

Come dire: mettiamoci d’accordo, tra chi vuole, su quali reati trascurare. Si è troppo maliziosi a temere che tra questi ci siano quelli di natura corruttiva a danno dell’interesse pubblico? Magari collegati al finanziamento illecito dei partiti?

Violante propone di rafforzare l’attività della polizia giudiziaria, ma è il suo modo per dire che quella va sottratta al controllo del pubblico ministero. Si potrà stare più tranquilli con le indagini di polizia ricondotte sotto il controllo del ministero dell’Interno? Ma Violante non si ferma qui. Poiché secondo lui è necessario che "le toghe accettino di perdere qualcosa" propone un Consiglio superiore della magistratura in cui la magistratura stessa sia in minoranza. Motivo? Si deve porre rimedio alle "correnti" che infestano l’organo di autogovèrno della magistratura. Ma si dovrebbe poi spiegare perché un numero maggiore di membri di nomina politica diminuirebbe la temuta politicizzazione.

In realtà è difficile sottrarsi al sospetto che ormai quasi tutta la politica, di maggioranza e opposizione, guardi alla magistratura come a un potere temibile da mettere sotto controllo. Altrimenti come spiegare l’accordo quasi generale sulla proposta barocca che vuole ben tre giudici per decidere un arresto? Tutti lamentano l’enorme arretrato accumulato dall’attività giudiziaria, ma invece di ridurne l’inefficienza non si trova niente di meglio che caricare i giudici di una nuova tripla incombenza.

Il controllo della magistratura il centrodestra l’ha teorizzato senza ipocrisie. Per loro la separazione classica tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario è ormai un vecchio arnese da mettere in soffitta. Il potere legislativo va ridotto a strumento esecutivo del governo. I poteri regionali e locali saranno aumentati, ma non è detto, dal federalismo. Per garantire l’unità nazionale ci sarà il presidenzialismo, basato sul rapporto plebiscitario e a senso unico tra presidente e popolo. La magistratura dovrà acconciarsi a processare gli immigrati arrestati dalla polizia e, ogni tanto, qualche mafioso di terzo livello.

Forse Violante guarda a un diverso orizzonte quando constata che "il quadro istituzionale sta cambiando". Ma l’unico che si vede venire avanti è proprio quello, opaco e insidioso. E in questo contesto il riformismo di centrosinistra può farsi accettare solo se è "coraggioso".

È questo l’eufemismo ormai dominante per indicare un riformismo che rinuncia alle proprie ragioni e adotta quelle dell’avversario. Ma questo dovere è tutto asimmetrico. La rinuncia tutta da una parte, il vantaggio tutto dall’altra.

Eppure si potrebbero immaginare tante riforme "coraggiose" per il centrodestra: ridurre la libertà imprenditoriale di moltiplicare il lavoro precario, destinare le accise sul petrolio al finanziamento delle energie alternative, aumentare gli investimenti per la scuola pubblica, dare il diritto di voto agli immigrati che lavorano e mandano i figli a scuola, stabilire l’incompatibilità tra proprietà dei mezzi di comunicazione e esercizio del potere politico.

Giustizia: su riforma non prevalga una doppia intransigenza

di Stefano Folli

 

Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2009

 

Nessuno si può illudere che la riforma della giustizia sia a portata di mano. La fermezza di Berlusconi nell’affermare che la maggioranza farà da sé, in assenza di un’intesa con l’opposizione,significa al momento una cosa: per il presidente del Consiglio è sì, importante la riforma;ma assai più importante è la coesione del centrodestra.

e per correggere le regole dell’ordinamento giudiziario il prezzo da pagare è una stagione di polemiche e di distinguo, alla ricerca di un accordo con la sinistra che il premier giudica impossibile, allora è meglio serrare i ranghi.

Il che rende assai arduo il cammino parlamentare del progetto. In fondo, c’è una differenza sostanziale fra il punto di vista di Berlusconi e quello espresso da Fini. Il premier vuole imporre comunque le sue condizioni, convinto che in caso contrario l’esito sarà per lui svantaggioso: otterrebbe una riforma edulcorata, una maggioranza sfilacciata e un’opposizione rinvigorita.

Per cui al centrosinistra dice: prendere o lasciare. Viceversa, Gianfranco Fini si muove nel solco del Quirinale: il che significa cercare la strada di un accordo negoziato con l’opposizione. Utopia? Forse sì. Ma è bene notare che esiste un fronte ampio che vorrebbe evitare di fare della riforma l’ennesima guerra nucleare, da D’Alema a Violante, da Casini al presidente della Corte Costituzionale Flick. E sappiamo che nei giorni scorsi il vice presidente del Csm, Nicola Mancino, ha descritto i tratti di una riforma che, senza essere punitiva nei confronti dei magistrati, voglia rivelarsi abbastanza incisiva da non lasciare le cose come stanno.

Lo stesso Guardasigilli si muove con cautela e logico rispetto costituzionale. De resto, l’impressione è che nel Pd sia oggi forte come non mani la tendenza a trovare un punto d’incontro con il centrodestra e la piattaforma offerta da Fini sembra a molti un equilibrio ragionevole. Tutto questo on basta a creare una massa critica favorevole alla riforma.

Esiste una logica politica che va in senso contrario, per cui ci sono buone probabilità che a prevalere sia la solita doppia intransigenza. Quella di Berlusconi, pronto a nascondere dietro la linea dura il suo sostanziale scetticismo sulla praticabilità della riforma. E naturalmente quella speculare di Di Pietro, avversario di qualsiasi compromesso.

Giustizia: il Partito Democratico "apre" al Ddl costituzionale

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2009

 

Il disegno di legge su processo penale e sulle carceri, annunciato per i Consiglio dei ministri pre-natalizio, poi rinviato a quello successivo dell’Epifania, ha subito un ulteriore slittamento al 23 gennaio; il Ddl sulle intercettazioni non andrà in Aula prima di febbraio (il termine per la presentazione degli emendamenti, scade il 21 gennaio); e le modifiche costituzionali, forse tra Carnevale e quaresima.

Certo, l’uscita pubblica di Gianfranco Fini sembra aver creato un clima meno conflittuale e quindi ha creato le premesse per "un confronto". Se fino a ieri il Pd escludeva modifiche costituzionali, D’Alema fa sapere che non le ha "mai considerate un tabù".

Nient’affatto secondaria, infine, la marcia indietro di Silvio Berlusconi sulle intercettazioni per corruzione e concussione. Ma a parlare di accordo è prematuro, non fosse altro perché, finora, no c’è una sola carta che consenta di ragionare sul merito delle riforme. Il Ddl sul processo penale dovrebbe andare nella direzione indicata da Fini, ma andrà a toccare anche i rapporti tra Pm e polizia giudiziaria.

L’opposizione non è contraria a una modifica, purché non sottragga al Pm la direzione delle indagini, lasciando le investigazioni nelle mani della polizia. Nella maggioranza la Lega con Maroni e An con La Russa puntano a soluzioni radicali mentre in Fi e il resto di An si accontenterebbero di una soluzione più soft. Ancora: il Carroccio insiste sull’introduzione dei giudici onorari elettivi ma An è contraria.

An e Lega sono però unite nel difendere la scelta del Ddl Alfano di mantenere il reato di corruzione nella lista di quelli intercettabili, condizione posta anche dal Pd e dall’Udc. Quanto alle modifiche costituzionali, c’è una convergenza di massima sulla necessità di "riequilibrare" il rapporto tra laici e togati del Csm in favore dei primi e di rendere autonoma la sezione disciplinare.

La maggioranza però, punta a sdoppiare il Csm, l’opposizione è contraria a creare due corpi separati. Ma anche i questo caso, come in quello dell’obbligatorietà dell’azione penale è fondamentale avere un testo scritto di riferimento per capire la portata della modifica. In attesa di un confronto sul merito, resta il segnale politico delle aperture reciproche.

Giustizia: Csm; su "cancelleria unica" on-line serve confronto

di Liana Milella

 

La Repubblica, 13 gennaio 2009

 

L’Anm è il allarme, il Csm pure. Il progetto di un mega cervellone informatico che contenga, dall’inizio alla fine, tutti le inchieste giudiziarie italiane lascia di stucco il sindacato delle toghe e provoca "sconcerto" al Csm dove tutti si meravigliano che neppure una riga del protocollo siglato a fine novembre tra il Guardasigilli Angelino Alfano e il Ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, con aspetti così delicati, sia stato comunicato all’organo che pure si occupa dell’organizzazione giudiziaria.

E se a palazzo dei Marescialli si apprestano a valutare l’opportunità della prima mossa - chiedere al ministro della Giustizia un immediato confronto sulla questione per comprenderne nei minimi dettagli tutte le future conseguenze e l’impatto sul lavoro degli uffici -, il presidente dell’Anm Luca Palamara esprime subito i suoi dubbi e le sue preoccupazioni. "Sono favorevole all’informatizzazione, che è da sempre un nostro cavallo di battaglia, ma è altrettanto fondamentale la segretezza degli atti di indagine, soprattutto nei momenti più cruciali dell’attività investigativa, a partire dalle sue prime battute".

È evidente cosa allarmi Palamara: il rischio che, sin dal suo nascere, un’indagine finisca nel cervellone, perdendo così la sua caratteristica fondamentale, la riservatezza assoluta. Ragiona il presidente delle toghe: "È fondamentale trovare degli adeguati meccanismi che garantiscano la totale sicurezza degli strumenti informatici.

E comunque non scambiamo l’informatizzazione con il grande fratello e la conseguente pubblicità delle carte perché nel processo penale è già ben stabilito quando un atto può diventare conoscibile all’esterno per chiunque". Al Csm decideranno a breve il da farsi. Partendo da una riflessione: se al ministero della Giustizia si creano fascicoli virtuali accessibili alla polizia, e quindi al governo, di fatto il pm viene espropriato del suo maggior potere, la garanzia della segretezza.

Il protocollo Alfano-Brunetta non è un decreto o un disegno di legge, e quindi il Consiglio non può, stando ai suoi poteri, esprimere un parere, ma gli effetti della digitalizzazione si ripercuoteranno in modo massiccio sul lavoro delle toghe, e quindi sull’organizzazione del lavoro. E su questa, che fa capo alla settima commissione (la presiede la laica del Pd Celestina Tinelli), dovrebbe ricadere l’approfondimento.

Che potrebbe essere condiviso anche dalla sesta commissione (presidente il togato di Md Livio Pepino) che lavora invece sugli aspetti normativi. A contestare, ovviamente, qualsiasi possibile perplessità sul protocollo è il ministro Brunetta, entusiasta del progetto e dei suoi obiettivi. "Con la cancelleria virtuale si eviteranno, o almeno si limiteranno, anche le fughe di notizie che hanno intossicato la nostra giustizia. Tutta la comunicazione, ovviamente criptata e protetta, sarà disponibile on-line. E speriamo che non ci siano più spifferi".

Per certo, invece, sarà possibile un controllo continuo delle indagini, del loro inizio e del loro proseguire. Uno strumento che, accanto al lodo Alfano che blocca i processi per le alte cariche, consentirà a chi sta al governo di conoscere in tempo reale se ci sono indagini sul suo conto. In via Arenula confermano che il protocollo esiste, ma sminuiscono il proprio peso perché il ministero non avrebbe forze e risorse per gestire il cervellone e perché l’affidamento in outsourcing comporterebbe una gara europea e quindi tempi lunghi.

In compenso, tanto per renderlo attuale, nel progetto di riforma del processo penale Alfano vuole misurare la produttività dei giudici, cominciando a obbligarli all’uso obbligatorio degli strumenti telematici, pena rilievi disciplinari. Quindi non solo il mega computer ci sarà, ma tutti saranno obbligati a utilizzarlo se non vorranno finire sotto processo disciplinare.

Giustizia: codice anti-dossier illegali, Garante privacy in allerta

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 13 gennaio 2009

 

"Apprezziamo l’attenzione per rendere più veloce l’attività giudiziaria civile e penale. Ma a maggior ragione occorre adottare misure necessarie a proteggere informazioni riservatissime che transiteranno in modo più significativo sulle reti telematiche".

Franco Pizzetti, presidente dell’Autorità garante della protezione dei dati personali, condivide le preoccupazioni - rilanciate da Repubblica - legate alla centrale telematica che gestirà le informazioni "generate" da tutti i palazzi di giustizia italiani.

"Siamo in attesa di essere consultati - spiega Pizzetti - per esprimere il nostro parere al fine di rendere il più sicura possibile la rete sulla quale dialogherà il sistema delle notizie di polizia giudiziaria. Ma già l’ultimo provvedimento che il Garante ha adottato, è finalizzato fin da ora a offrire buone garanzie di sicurezza al progetto dei ministri Renato Brunetta e Angelino Alfano".

Il provvedimento al quale fa riferimento il Garante della privacy, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 24 dicembre 2008, è il nuovo codice anti-dossieraggio che s’è reso necessario per prevenire in futuro casi come quello Telecom-Tavaroli sulle intercettazioni illegali. Con questa normativa, tutte le aziende pubbliche e private, le amministrazioni pubbliche (come quella giudiziaria) e le forze di polizia avranno 4 mesi di tempo per mettersi in regola. Se non lo faranno, incorreranno in sanzioni fino a 2 milioni e 400 mila euro.

Enti pubblici e privati dovranno redigere l’albo degli "amministratori di sistema" (l’elenco dei tecnici qualificati che gestiscono banche dati e reti telematiche). Allestire il "registro degli accessi" da conservare per almeno sei mesi per consentire di risalire, in caso di un’indagine, a chi s’è inserito nel sistema telematico. E, infine, sottoporre l’amministratore di sistema ad una verifica una volta all’anno. Tutte queste informazione andranno raccolte e conservate nel "documento programmatico sulla sicurezza" che società e enti hanno l’obbligo di redigere. Serviranno queste misure a scongiurare il rischio che si ripetano gli scandali dei dossier illegali?

"I casi-Telecom - dice Pizzetti - in assoluto non si possono impedire. Ma con questi provvedimenti offriamo ai cittadini il massimo delle garanzie per evitare il trattamento illecito dei dati sensibili". "Fino ad oggi - aggiunge il Garante della privacy - in molti casi si può accedere ai dati telematici senza lasciare traccia, senza contare che quasi mai è nota l’esistenza della figura dell’amministratore di sistema.

Tutt’al più, la si immagina come una sorta di elettricista del computer. Mentre in qualsiasi sistema aziendale si presta attenzione ai vigilantes, controllando il personale e la sua affidabilità, non c’è consapevolezza che anche i sistemi informatici poggiano su un "portinaio": l’amministratore di sistema.

Per questa figura, dunque, secondo Pizzetti, deve essere riservata la massima attenzione in modo da selezionare "esperti qualificati, affidabili, seri, dotati di professionalità e competenza adeguate alla delicatezza della mansione. Per fare un esempio, anche nei nostri uffici del Garante, ogni qual volta spedisco una e-mail, c’è un signore che può vederne il contenuto per motivi d’ufficio. E questo vale per tutti".

Le aziende non devono limitarsi, tuttavia, a sottoporre a controlli periodici tutto il sistema della security informatica, ma hanno l’obbligo, aggiunge Pizzetti, "di adottare politiche interne per far conoscere agli utenti abituali della rete i nominativi di chi ha le chiavi di accesso delle banche dati più riservate".

Giustizia: Veltroni; i cittadini chiedono un servizio che funzioni

 

www.ilsussidiario.net, 13 gennaio 2009

 

"Credo che il vero centro della riforma debba essere quello di far funzionare un servizio ai cittadini oggi troppo deficitario, lungo, incerto. Su questo il Pd ha avanzato un pacchetto di proposte già a metà novembre, durante gli stati generali della giustizia, e non si tira indietro dal valutare altri provvedimenti che si rendessero necessari".

Il segretario del Pd Walter Veltroni spiega a www.ilsussidiario.net i punti principali della proposta dei democratici sul tema giustizia: riforma del codice di procedura penale, valutazione dei magistrati, garanzie per i diritti dei cittadini. Ma precisa: "ogni modifica costituzionale che facesse diminuire l’autonomia della magistratura non sarebbe in realtà una riforma in senso garantista per i cittadini, aprirebbe al contrario un colpo nell’equilibrio istituzionale e politicizzerebbe ancora di più l’accusa mettendola sotto il controllo del governo. Di qualunque governo".

 

Walter Veltroni, il problema giustizia è tra i più caldi dell’attuale dibattito politico: prima il lodo Alfano, poi la guerra tra procure, e infine, in ordine di tempo, una nuova "questione morale". Come risolvere il problema del rapporto tra politica e magistratura?

Che esista un problema di funzionamento della giustizia è certamente vero; quello che invece giudico sbagliato è un atteggiamento di contrapposizione se non di conflitto tra politica e giustizia, quasi fossero due poteri l’un contro l’altro armati. Bisogna perciò dare risposte concrete ai problemi concreti: ecco, il lodo Alfano non è una risposta ai problemi dei cittadini, ma ai problemi di un cittadino e per questo l’abbiamo giudicato molto negativamente. La guerra tra le procure è invece un segnale grave di malessere che il Csm, anche con l’impulso del Presidente Napolitano, ha iniziato ad affrontare.

 

Da dove cominciare per riformare la giustizia?

Credo che il vero centro della riforma debba essere quello di far funzionare un servizio ai cittadini (perché questo è, innanzitutto, la macchina giudiziaria) oggi troppo deficitario, lungo, incerto. Su questo il Pd ha avanzato un pacchetto di proposte già a metà novembre, durante gli stati generali della giustizia, e non si tira indietro dal valutare altri provvedimenti che si rendessero necessari. Abbiamo parlato di un manager per l’organizzazione del lavoro delle procure, di una indicazione di priorità per i reati da perseguire indicata dal capo della Procura insieme alle altre autorità dello Stato che operano sul territorio, di accorpamento di uffici giudiziari, di riforma del codice di procedura penale per favorire maggior equilibrio tra accusa e difesa. Vogliamo parlare anche della valutazione del lavoro dei magistrati e anche del rafforzamento della garanzie, perché quando si toccano le libertà personali bisogna farlo con tutte le cautele del caso. Ecco, questa è l’altra stella polare delle nostre valutazioni: la tutela della libertà, della privacy, della certezza dei diritti dei cittadini. Quando in ballo c’è una persona a cui viene sottratta la libertà non ci può essere alcuna decisione a cuor leggero: il ministro della Giustizia del governo ombra del Pd, Lanfranco Tenaglia, ha indicato l’idea di un collegio di tre magistrati per ogni decisione che riguardi la limitazione delle libertà personali e altre cose si possono fare sempre in questa direzione.

 

Il centrodestra, tra le altre cose, insiste molto su due temi: le intercettazioni e la separazione delle carriere. Qual è la sua opinione in proposito?

Sulle intercettazioni la nostra proposta è quella di non limitare l’uso di questo strumento di indagine, ma invece di proteggere la privacy: l’uso delle intercettazioni deve essere limitato ai processi. Bisogna porre fine a questo spettacolo delle intercettazioni finite sui giornali, anche con dettagli che nulla hanno a che vedere con fatti penalmente rilevanti o che riguardano persone estranee. Di altro segno sono invece i discorsi di chi punta tutto sulla separazione delle carriere, anzi meglio degli ordini, come ha ripetuto ancora recentemente il presidente del Consiglio, o dalla scomposizione del Csm. Credo che sul tema della distinzione delle funzioni si sia intervenuti già positivamente ed efficacemente nella precedente legislatura. Mentre ogni modifica costituzionale che facesse diminuire l’autonomia della magistratura non sarebbe in realtà una riforma in senso garantista per i cittadini, aprirebbe al contrario un colpo nell’equilibrio istituzionale e politicizzerebbe ancora di più l’accusa mettendola sotto il controllo del governo. Di qualunque governo.

 

In vista di una ripresa di iniziativa del governo, in gennaio, con la "bozza" Alfano, il capo dello Stato ha invocato una riforma condivisa tra maggioranza e opposizione. Quali sono invece i punti qualificanti della proposta del Pd?

Se devo riassumere i punti qualificanti e l’ispirazione delle nostre proposte li individuo in innovazioni che puntano, insieme, a rinsaldare le garanzie e a far funzionare la macchia giudiziaria sia per quanto riguarda la giustizia penale che per la giustizia civile, che è la più lenta di tutte e che è ormai diventata una palla al piede dello sviluppo economico del nostro paese. Ma siamo pronti anche a valutare delle proposte di innovazioni serie, purché si muovano lungo queste due linee.

 

Cosa risponde a chi fa notare che il Pd non ha raccolto le aperture di Violante, quando ha posto il problema di un potere eccessivo dei magistrati e della necessità di limitarlo?

Io credo che le vicende di cronaca anche di questi ultimi giorni abbiamo mostrato i rischi di errori, anche gravi, da parte di singoli magistrati. Sono cose che sostengo non da oggi e non perché alcune indagini siano rivolte verso il centrosinistra: queste cose le dico dai tempi di Tangentopoli, sono le stesse che scrivevo sull’Unità di cui ero allora direttore. Sul mio attaccamento alle garanzie non possono dunque esserci dubbi. Per tornare all’oggi, mi ha profondamente colpito il caso di Margiotta per il quale la richiesta di arresto è stata bocciata anche dal tribunale del riesame oltre che dalla Camera, o quella del sindaco di Pescara D’Alfonso. Ho parlato di situazione grave perché colpisce la libertà delle persona e anche la solidità delle istituzioni. Ma ripeto, non ho mai pensato a complotti e neppure ad un vero e proprio conflitto di poteri. E poi, insisto, credo che la questione del funzionamento della giustizia, di decisioni non ponderate e sbagliate sia una questione che riguarda tutti i cittadini, cominciando da quelli più deboli e finendo con i politici. Non il contrario.

 

Su questo giornale Violante ha affermato che "il centrodestra pensa prevalentemente alla magistratura come potere; il centro sinistra vi pensa prevalentemente come servizio. I primi pensano di conseguenza ad una riconduzione entro dimensioni a loro avviso fisiologiche del potere dei magistrati, gli altri pensano all’efficienza dei processi". Che Tangentopoli abbia fortemente condizionato la nostra storia recente è un dato di fatto. A suo avviso sta ancora condizionando la politica italiana? Come?

Non è questa la sede per una riflessione storico politica, ma che le vicende di Tangentopoli abbiano influenzato la vita politica italiana è certamente vero. Per rendersene conto basta guardare all’atteggiamento del presidente del Consiglio che ormai da anni ha fatto del conflitto con la magistratura uno dei suoi chiodi fissi. Credo che la riforma da fare passi anche dalla fine di questo tipo di atteggiamenti: non si fanno riforme serie senza o contro i magistrati o gli avvocati, ovvero quanti operano nel mondo della giustizia. Abbassare le armi della reciproca conflittualità tra politica e magistratura è una condizione per arrivare a riforme condivise.

 

In questi giorni il vicepresidente del Csm Mancino ha lanciato la proposta di una riforma del Consiglio superiore che sta facendo molto discutere. Cosa ne pensa?

È un tema di estrema importanza e delicatezza. Quello del vicepresidente Nicola Mancino è un contributo autorevole alla riflessione e al dibattito. Che nel Csm, anche per effetto di alcune modifiche introdotte tra il 2001 e il 2006 dal governo di centrodestra, possa prodursi uno squilibrio nel rapporto fra la componente laica e quella togata è un rischio reale. Proprio per questo in occasione della conferenza nazionale sulla giustizia del novembre scorso avevamo proposto come Pd di modificare, con legge ordinaria, la legge elettorale, il numero dei componenti (30 anziché 24) del Csm e la creazione di una Sezione disciplinare autonoma per i pubblici ministeri. Vedo che importanti giuristi come Vittorio Grevi sostengono proposte che hanno sostanzialmente questo stesso carattere. Queste proposte il ministro della Giustizia del governo ombra del Pd, Lanfranco Tenaglia, le ha illustrate ad Alfano in un recente incontro. Anche il contributo di Mancino è certamente importante e sarà oggetto del confronto che auspichiamo tra maggioranza e opposizione in Parlamento, coinvolgendo però anche le associazioni di magistrati e avvocati.

 

Lei ha rilanciato un’ampia operazione di rinnovamento politico, tanto che si è parlato a questo proposito di Lingotto Due per il Pd. L’azione della magistratura può essere "adoperata" a fini politici, fossero anche quelli del rinnovamento interno di un partito? Una "questione morale" riproposta in questi termini, non rischia di subordinare definitivamente la politica alla magistratura?

No. Io ho parlato di un rilancio dei temi riformisti di una innovazione nei contenuti programmatici e anche nei gruppi dirigenti perché ci credo, perché si muovono nello stesso senso che ho indicato al Lingotto un anno e mezzo fa. Non sto strumentalizzando i giudici né mi sento da loro forzato. Ho detto e lo ripeto che una questione morale - o meglio una questione politica - esiste ed è rappresentata da alcune zone di opacità nel rapporto tra politica e economia, tra amministrazione ed affari. Questa opacità va rimossa nell’interesse dei cittadini ma anche nell’interesse della politica che non deve puntare alla conservazione delle proprie classi dirigenti ma a rispondere ai problemi reali, alla necessaria modernizzazione del nostro paese. Vede, il Pd è la forza che amministra migliaia di comuni, decine di Province, la maggioranza delle Regioni italiane: di questo siamo orgogliosi perché crediamo di amministrarli bene. I sindaci, gli assessori, i presidenti che esprimiamo sono una grande risorsa per il paese.

Giustizia: su riforma Ds aprono strada, gli ulivisti la sbarrano

di Laura Della Pasqua

 

Il Tempo, 13 gennaio 2009

 

Franco Monaco sente aria di inciucio e dice: "Come è possibile che basti un articolo di giornale per sciogliere annosi problemi e profonde divisioni? Come è possibile che d’improvviso Berlusconi e Veltroni siano entrambi d’accordo con il lodo Fini? Miracolo o equivoco?" Per Monaco, "è improprio che sia il presidente della Camera a dettare le scelte di politica della giustizia. Ma, prescindendo dalla forma, si sente l’esigenza di capire".

Monaco dice di non capire come mai "Tenaglia e la Finocchiaro, che sino a ieri opponevano un no a modifiche costituzionali, ora, più modestamente, si limitano a un no a strappi costituzionali". L’interrogativo alla base è sapere se "il Pd cede alla tesi di cambiare l’assetto costituzionale della giustizia".

E in effetti ieri nelle file di Veltroni era tutto un tendere la mano. Anche D’Alema si è spinto in avanti: "riforme condivise non sono un tabù. Tra tante irritualità, quella di Fini rappresenta un momento positivo. È utile che persone ragionevoli cerchino vie percorribili utili per il Paese.

Le considerazioni di Fini non sono un programma ma lui ha messo dei paletti" dice il presidente di Italiani Europei riferendosi alla lettera scritta dal presidente della Camera. E aggiunge che resta la "preoccupazione di una perdita di credibilità del sistema giudiziario che è quello che sta accadendo. Per questo occorre avere il coraggio di riforme più incisive".

Ma c’è anche qualche scettico sulla possibilità di una riforma condivisa. Il ministro della Difesa e reggente di An, Ignazio La Russa non è ottimista. Nell’apertura della sinistra La Russa vede "non tanto l’approvazione di Fini quanto il tentativo di accreditare la tesi che tra Berlusconi ed il presidente della Camera ci fossero distanze incolmabili. Quando si accorgerà che non è così e che Fini ha solo favorito l’incontro - dice La Russa - sono sicuro che ritornerà a creare obiezioni di comodo". Perplessità anche da Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd: "La riforma del Pdl per ora è un oggetto misterioso.

Ancora stiamo discutendo di niente. Quando avremo un testo ne parleremo". La Finocchiaro però promuove Fini che "ha detto cose condivisibili e altre sulle quali mi piacerebbe discutere e confrontarmi" mentre boccia Berlusconi che "lancia solo diktat".

Il Capogruppo alla Camera del Pdl Fabrizio Cicchitto insiste invece sulla "condizione per il dialogo" che il Pd "prenda le distanze da Di Pietro e dal suo movimento". A parte questo aspetto, Cicchitto giudica "positivo il confronto che si è aperto tra maggioranza ed opposizione, un’occasione irripetibile per realizzare una riforma". Eppure nell’Idv c’è chi apprezza la mossa di Fini. Pino Pisicchio dell’Idv, già presidente della commissione Giustizia di Montecitorio dice: "Bene l’apertura di Fini e il suo attivismo istituzionale che riesce a forzare con successo lo spazio ristrettissimo cui il maggioritario muscolare costringe la politica. Il lodo Fini però va accolto e sviluppato anche guardando agli altri interlocutori: magistrati ed avvocati".

Giustizia: lodo Alfano; con Idv e Rc già un milione di avversari

di Anna Chimenti

 

Il Riformista, 13 gennaio 2009

 

Il milione di firme per il referendum contro il "lodo Alfano" raccolte da Antonio Di Pietro con l’appoggio di Rifondazione comunista segna una novità assoluta nella lunga storia referendaria: dai tempi d’oro del Partito Radicale, quando per arrivare alle cinquecentomila firme necessarie Pannella doveva lottare a colpi di digiuni e di imbavagliamento davanti alle telecamere della Rai, non era più accaduto che un piccolo partito, o l’unione di due piccoli partiti, riuscisse nell’impresa di arrivare a raggiungere il numero necessario di sottoscrizioni senza l’appoggio di partiti più grandi e mass-media.

Anche per i famosi referendum elettorali del 1991 e 1993 promossi da Mario Segni, con una forte valenza antipartito a cavallo di Tangentopoli, il comitato promotore, pur avendo ricevuto appoggi importanti come quello della Confindustria, non riuscì ad avere la certezza che le firme necessarie sarebbero state raccolte fino a quando non scesero in campo il segretario del Pds Achille Occhetto, che si recò solo a titolo personale a firmare in Campidoglio, e le Acli, che misero a disposizione le loro sedi. E tuttavia anche in quel caso non si arrivò al milione di firme, il doppio di quelle richieste dalla Costituzione.

Come sia riuscito, senza quasi nessun appoggio della tv e dei giornali, Di Pietro a centrare il suo obiettivo, è ancora da capire. Ma al di là di quel che potrà spiegare il leader dell’Italia dei valori sull’impegno dei militanti del suo partito, è evidente che la disponibilità di un milione di cittadini, in tempi brevi, a sostenere l’iniziativa anti lodo Alfano, contiene varie novità impreviste.

La prima è che, nel momento in cui, sia pure con vari ripensamenti, il maggior partito di opposizione esce dalla logica della contrapposizione frontale con Silvio Berlusconi (Walter Veltroni ha fatto una campagna elettorale tutta di proposta, rinunciando agli attacchi più rituali al Cavaliere), l’area dell’anti berlusconismo non si contrae, anzi tende a espandersi e a mobilitarsi. Se il lodo Alfano offre al premier (ma non solo) l’immunità sul terreno, per lui più rischioso, dei processi penali, l’area di quelli che considerano una legge come questa un inaccettabile cambio in corsa delle regole del gioco è crescente, non residuale come si tendeva a credere, e come molti sondaggi tendono a dimostrare quando dicono che la maggioranza degli elettori vuole che il potere dei magistrati sia ridimensionato.

La seconda novità è che, con una mobilitazione di questo tipo, non è pensabile che il referendum sul lodo Alfano (nel caso in cui la Corte costituzionale lo ammetta) possa esser fatto fallire con l’astensione, come è accaduto di fatto per i 21 referendum che sono arrivati alle urne dal 1997 al 2005. Un referendum su Berlusconi (che, beninteso, Berlusconi può vincere), e più in generale sulla "Casta" (perché questo sarà il leit-motiv della campagna dipietrista e abrogazionista), anzi, è destinato a produrre l’effetto originario che questo tipo di consultazione ha avuto sull’elettorato, tendendo a polarizzare le opinioni dei cittadini in due sole aree, pro o contro il lodo e il premier. E mettendo in imbarazzo il centrosinistra e la sua sofferta adesione al fronte della riforma della giustizia.

Se appunto quest’ultima posizione sarà mantenuta, come fanno pensare anche le recenti prese di posizione del vicepresidente del Csm Nicola Mancino, che dice a voce alta quel che il Capo dello Stato pensa ma non può dire con le stesse parole, e come confermano gli attacchi di Veltroni e di Luciano Violante alla magistratura, dopo gli arresti e le scarcerazioni di amministratori locali del Pd, il risultato finale del referendum, anche in caso di sconfitta, sarà di ridisegnare i confini tra maggioranza e opposizione a partire proprio dalla questione della giustizia: guarda caso, quella che ha portato alla caduta della Prima Repubblica e che ha tenuto fin qui aperta l’eterna transizione italiana.

Prima che questo accada, tuttavia, bisognerà aspettare la primavera 2010. E va ricordato che la Corte costituzionale, oltre a pronunciarsi sul referendum dovrà esprimere un giudizio di costituzionalità sullo stesso lodo Alfano. Se il lodo viene cassato, non dovrà più passare per il giudizio dei cittadini. Intanto, in questa primavera si vota per il referendum sulla legge elettorale: e per difenderlo dall’astensionismo e per far risparmiare allo Stato i costi della tornata (600/700) milioni di euro i promotori, non a caso, chiedono che si voti il 6 e il 7 giugno, in abbinamento con le Europee.

Giustizia: Coisp; le parole di Sofri sono apprezzabili ma tardive

 

Agi, 13 gennaio 2009

 

Adriano Sofri riconosce la responsabilità morale dell’omicidio del Commissario Luigi Calabresi: apprezziamo il gesto ma arriva in maniera tardiva rispetto agli eventi e alla storia che è ancora troppo recente per chiedere la pacificazione degli animi.

Lo dice il Segretario Generale del Sindacato Indipendente di Polizia (Coisp), Franco Maccari in riferimento al prossimo libro di Sofri Quella notte che Pinelli. "Una storia che troppo dolore e troppo sangue ha lasciato dietro di sé, perché un libro e l’assunzione di una responsabilità morale possano in qualche modo - aggiunge Maccari - pareggiare i conti con chi ha perso in quegli anni i propri affetti più cari a causa di una guerra ideologica, che però di ideale non aveva nulla, se non l’odio e le azioni verso un nemico che veniva identificato nello Stato e nei suoi apparati ed in particolar modo nei suoi servitori in divisa: abbiamo il massimo rispetto per chi tenta di intraprendere un cammino di riabilitazione di sé stesso rispetto ai propri errori - conclude - ma non si chieda alla società di cancellare o dimenticare, non si chieda di mettere una pietra sopra a quel sangue di persone innocenti. Si parta semmai dagli errori commessi, se ne riconosca la portata per intero e si dia il proprio contributo a difendere la libertà, non con la violenza, ma con il rispetto delle idee altrui e delle regole dello Stato".

Giustizia: Osapp; questione carceraria non è solo di "posti letto"

 

Agi, 13 gennaio 2009

 

"Sono 57.800 i detenuti presenti nelle carceri italiane, 700 in meno rispetto le ultime rilevazioni di Natale ma sempre troppi per i 43.000 della capienza regolamentare". È quanto afferma in una nota Leo Beneduci, Segretario Generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp).

"Il dato citato è preoccupante - aggiunge - comunque lo si voglia leggere e consiglierebbe quel cammino necessario che anche il Presidente della Camera ha voluto tracciare nella lettera al Corriere della Sera di due giorni fa". Per l’Osapp "il segnale lanciato, soprattutto sulla necessità che le modifiche derivino da "lucide valutazioni delle patologie" e non siano il frutto di questioni contingenti, magari scaturite dagli ultimi fatti di cronaca giudiziaria, ci vede d’accordo appieno" e "raccogliamo l’esortazione del Presidente Fini nell’intento che si possa contribuire alle riforme attraverso un ampio confronto con tutti gli operatori del settore, salvo però constatare il completo mutismo di un Ministro della Giustizia che sui tema della detenzione non fa altro che annunciare riforme mai veramente portate a termine".

"Se poi le riforme di cui si parla tanto servono solo a far ridurre la questione carceraria ad una mera valutazione dei posti letto, e di qui l’idea rivoluzionaria di istituire una figura ad hoc per l’edilizia, c’è il rischio assoluto che l’intento sia quello di trasformarci tutti in facchini d’albergo, mettendo a rischio le prerogative per cui il Corpo di Polizia Penitenziaria è nato tanto tempo fa", conclude la nota.

Bergamo: manca personale, nuovo reparto carcere inutilizzato

 

L’Eco di Bergamo, 13 gennaio 2009

 

Il nuovo padiglione del carcere di Bergamo non è utilizzabile per ospitare detenuti, causa mancanza di nuovo personale. In occasione di una risposta ad un’ interrogazione parlamentare presentata nello scorso mese di novembre, il ministro della Giustizia Angelino Alfano si è espresso così sulla possibilità di utilizzare il nuovo padiglione del carcere di Bergamo per ospitarvi i detenuti e ridurre il sovraffollamento della struttura di via Gleno.

Il Ministro della Giustizia ha infatti comunicato che - nella fase attuale - l’utilizzo della nuova area non è praticabile, dal momento che sarebbe necessario assumere nuovi agenti di custodia e l’attuale congiuntura economica non consente un aumento dell’organico.

Il Garante delle persone private della libertà personale Pietro Semeraro esprime la sua viva e profonda preoccupazione per la situazione di sempre maggiore insufficienza che contraddistingue il carcere di Bergamo, sotto il profilo della capienza e dello spazio (sono rinchiuse 525 persone in uno spazio progettato per 340).

"Secondo il Ministro - commenta Semeraro - non ci sono risorse finanziarie per l’assunzione di nuovo personale. Il ministero, tuttavia, utilizza solo una minima parte dei 103 milioni di euro depositati presso la Cassa delle Ammende e che potrebbero essere utilizzati per programmi diretti al reinserimento sociale dei detenuti anche nella fase dell’esecuzione di misure alternative alla detenzione; l’art. 129 del D.P.R. 230 del 30 giugno 2000 consente di erogare a scopi di rieducazione dei detenuti i fondi patrimoniali della Cassa delle Ammende".

L’auspicio del Garante è che nel corso del 2009 il Ministro Alfano possa reperire le risorse economiche necessarie per aumentare l’organico degli agenti di custodia e permettere di utilizzare il nuovo padiglione del carcere di Bergamo, e utilizzare maggiormente le somme depositate presso la Cassa delle Ammende per sostenere l’indispensabile attività degli operatori e dei volontari diretta al reinserimento sociale dei detenuti.

Roma: cantautore Alberto Mennini inizia tour in carceri minorili

 

Adnkronos, 13 gennaio 2009

 

Al via il tour nei carceri minorili di Alberto Mennini, nuovo cantautore dell’area underground di Roma. L’iniziativa "Liberi di contare anche le nuvole", inizierà il 21 gennaio dall’Istituto Penale per i Minorenni di Casal del Marmo di Roma e si sposterà in tutti i carceri minorili d’Italia. In tutto saranno 17 i concerti di Alberto Mennini.

La prima data costituirà l’inizio dei primi 7 concerti-evento che avverranno nelle maggiori città italiane fino ad aprile (Milano, Napoli, Torino, Firenze, Bologna, Catanzaro) per proseguire poi nel resto d’Italia fino alla fine dell’anno. L’iniziativa organizzata dall’associazione Liberi Onlus.

Alberto Mennini, cantautore tra i più apprezzati del panorama underground romano, sarà protagonista insieme alla sua band di veri concerti legati al tema "Liberi di contare anche le nuvole", una frase-simbolo estratta dal suo ultimo album "Liberi". Oltre al video di "Liberi" realizzato dal regista cinematografico Flavio Parente che verrà proiettato prima dell’esibizione della band, sarà chiesto ai ragazzi di partecipare attivamente con i loro sogni e i loro pensieri, come fosse un vero e proprio laboratorio creativo.

Al termine del tour Alberto Mennini trasformerà le riflessioni raccolte da centinaia di giovani detenuti per la realizzazione di un nuovo album che verrà distribuito non solo nelle carceri ma anche nelle scuole, nelle biblioteche e nei centri di aggregazione giovanile di tutta Italia. Il primo live "esterno" legato al tour sarà la sera del 21 gennaio a Roma, presso il Big Bang, in Via Monte Testaccio 22 (ore 22,00 - ingresso libero), dove Alberto Mennini si esibirà insieme alla sua band in alcuni brani del suo album "Liberi".

Trento: funzionario banca guidava ubriaco, 20 giorni in cella

di Andrea Selva

 

Il Trentino, 13 gennaio 2009

 

La prima volta gli hanno concesso la sospensione condizionale della pena, la seconda se l’è cavata con una multa, la terza volta è finito in carcere dove sta scontando 20 giorni per guida in stato di ebbrezza: ufficialmente in ferie, in realtà è in cella. Così ha deciso il tribunale di sorveglianza nei confronti di un alto funzionario di banca roveretano sorpreso per la terza volta ubriaco al volante. Una sentenza che conferma la linea dura dei giudici trentini.

Per evitare il carcere il funzionario di banca ha chiesto al suo avvocato di appellarsi al tribunale di sorveglianza. L’ultima spiaggia. L’udienza si è tenuta nel dicembre scorso e il tribunale - in composizione collegiale, presieduto dal giudice Carlo Alberto Agnoli - ha respinto l’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali o di detenzione domiciliare: "In carcere" hanno deciso i magistrati. E così è stato. Per evitare problemi sul lavoro il funzionario si è messo ufficialmente in ferie, ha preparato la valigia, ha salutato i familiari e si è trasferito nel carcere di Rovereto dove rimarrà fino alla settimana prossima.

L’avvocato difensore ha presentato subito ricorso in Cassazione, chiedendo nel frattempo al tribunale di sorveglianza di sospendere la propria decisione: l’udienza sulla sospensione si è tenuta ieri mattina, i giudici si sono riservati e intanto per il bancario roveretano, detenuto in cella assieme ai delinquenti comuni, i giorni trascorrono lenti verso il termine della pena.

Il bancario - uomo irreprensibile, se non fosse per quelle tre volte che è stato beccato ubriaco al volante - è comunque in buona compagnia: nel carcere di Trento sta scontando una pena analoga un pensionato di 64 anni, residente in valle di Cembra, beccato per la terza volta, mentre nelle scorse settimane era toccato ad un imprenditore denunciato per guida in stato di ebbrezza già sei volte.

E per chi esagera nel bere sono in arrivo tempi ben più duri, visto che le pene sono state inasprite con l’ultima riforma del codice penale che prevede l’arresto fino ad un anno per chi guida con più di 1,5 milligrammi d’alcol per ogni litro di sangue (attualmente la condanna massima stabilita dal tribunale di Trento è di un mese di arresto).

Il presidente del tribunale di sorveglianza, Carlo Alberto Agnoli, spiega così la linea del proprio ufficio: "Parliamo di persone che sono "plurirecidive", cioè sorprese al volante in stato di ebbrezza per almeno due volte, ma in genere tre o più volte. Cosa vuole che conti l’affidamento ai servizi sociali in prova per venti giorni? Un’alternativa possibile sarebbe il percorso di recupero previsto per chi ha problemi con l’alcol, in collaborazione con il servizio di alcologia che più volte ha sottolineato la gravità del fenomeno. Ma nei casi in questione non è stata percorsa questa via, che non abbiamo mai rifiutato a nessuno".

Il giudice Agnoli spiega che la linea del tribunale è sempre stata condivisa da tutti i componenti del tribunale, dove proprio ieri ha preso servizio il giudice Ettore Di Fazio, proveniente dal tribunale di Rovereto. Si tratta di un atteggiamento in coerenza con la severità della procura della Repubblica di Trento, già annunciata più volte dal procuratore capo Stefano Dragone.

Il carcere per chi guida in stato di ebbrezza è in realtà un fatto piuttosto singolare nel panorama giudiziario italiano, visto che in altri distretti i procedimenti per questo reato (punito dall’articolo 186 del codice della strada) si chiudono con la prescrizione a causa dei tempi troppo lunghi. Angoli conferma: "Nonostante le forti carenze organizzative della macchina giudiziaria siamo molto aggiornati, direi "fortunosamente", su tutti i reati, non solo su quelli come la guida in stato di ebbrezza"

Canada: botte e scosse elettriche mortali, polizia sotto accusa

di Francesco Veronesi

 

Corriere Canadese, 13 gennaio 2009

 

Claudio Castagnetta, Robert Dziekanski, Fredy Villanueva. Tre casi uniti da un tragico filo conduttore, un sottofondo fastidioso declinato dalle presunte - e ufficialmente respinte - responsabilità delle autorità di polizia canadesi.

Tre vicende che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica del nostro Paese, tre tragedie che hanno suscitato indignazione, proteste, rabbia, disillusione, senso di impotenza, voglia di giustizia. Ma nello sconfortante scenario delineato dai tre fatti di cronaca nera - che hanno provocato ferite profonde che non si sono ancora rimarginate - emergono incongruenze, coni d’ombra, domande che pretendono risposte.

Perché di fronte alla richiesta di verità delle famiglie delle vittime il silenzio in cui si sono rifugiate le autorità è assordante, la promessa di fare luce sulle vicende è caduta nel vuoto, un impegno solenne questo che non è stato in grado di produrre nulla, se non inchieste dalle conclusioni contraddittorie, indagini ondivaghe, zoppicanti, barcollanti, sentenze discutibili.

La tragedia di Québec City. Claudio Castagnetta, 32enne, italiano residente in Québec ormai da diversi anni, viene arrestato a Québec City il 18 settembre del 2007. Scalzo, in evidente stato confusionale, il giovane era stato bloccato dalla polizia e durante l’arresto era stato colpito da cinque scariche di taser gun, l’ultima durata ventuno secondi.

Dopo una notte passata in carcere, Castagnetta chiede di poter essere ricoverato in ospedale. Per tutta risposta viene rimandato in cella, dove muore il giorno dopo. In un primo momento le autorità quebecchesi ipotizzano che il decesso sia sopraggiunto "per ferite auto inflitte dalla vittima".

Tesi questa smentita categoricamente dai risultati dell’autopsia: l’esame autoptico stabilisce che a provocare la morte dell’italocanadese è stato un edema, causato probabilmente da intossicazione acuta di anfetamine. Il procuratore Stephane Godri avvia un’indagine per stabilire le circostanze che hanno portato alla morte del ragazzo. Il 22 agosto del 2008 presenta un rapporto nel quale vengono completamente scagionati i poliziotti che arrestarono Claudio e le guardie carcerarie. Ma il 2 novembre arriva il colpo di scena. Il coroner capo del Québec Jean Brochu rende pubblico un documento di 14 pagine che suona come un vero e proprio atto d’accusa verso il lavoro svolto da Godri.

Brochu dice esplicitamente che ci sono state delle responsabilità evidenti, ci sono state colpe, negligenze, contraddicendo quanto stabilito in precedenza dal procuratore. Ci sarebbe materiale a sufficienza per provocare un terremoto politico-giudiziario. Ma non accade nulla. Cadono nel vuoto le richieste di parte dell’ambasciatore italiano Gabriele Sardo e del deputato liberale Joe Volpe di avviare un’inchiesta pubblica per fare luce sulla vicenda, il ministro della Pubblica sicurezza Jacques Dupuis decide di non intervenire.

Quei dadi maledetti. Anche giocando a dadi si può morire. Lo sa fin troppo bene la famiglia di Fredy Villanueva, un ragazzo di 18 anni ucciso da due colpi esplosi da un poliziotto a Montréal. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, il giovane stava giocando a dadi insieme al fratello e alcuni amici in un parco della città. Due poliziotti si avvicinano e cercano di identificare i ragazzi: il gioco dei dadi in un luogo pubblico è vietato da un regolamento comunale. I ragazzi oppongono resistenza: ne nasce una violenta colluttazione durante la quale un agente estrae la pistola d’ordinanza e apre il fuoco. Due giovani vengono feriti di striscio, va peggio a Fredy, raggiunto da due colpi che non gli lasciano scampo.

Il giorno dopo, durante una manifestazione spontanea, si scatena l’inferno. Cariche della polizia, folla inferocita, auto in fiamme, vetrine infrante. La guerriglia urbana dura parecchie ore, termometro della rabbia popolare - in un quartiere ad alta percentuale di immigrati - e si conclude con feriti e arresti. Parallelamente gli inquirenti avviano le indagini. A dicembre l’agente che aveva aperto il fuoco e ucciso Villanueva viene completamente scagionato. Riesplode la protesta, numerose associazioni chiedono la testa del sindaco di Montréal e del capo della polizia. A gettare acqua sul fuoco ci pensa il ministro della Pubblica sicurezza Jacques Dupuis, che decide di avviare un’inchiesta pubblica. Questa partirà il prossimo 16 febbraio.

Quando la morte arriva in mondovisione. Robert Dziekanski, polacco di 40 anni, arriva in Canada per raggiungere la madre, che vive nel nostro Paese dal 1999. Dopo un viaggio di ventuno ore, giunge all’aeroporto di Vancouver alle 3.21 del pomeriggio del 13 ottobre 2007. Tra l’indifferenza generale - Dziekanski non parla inglese - attende i controlli di routine degli ufficiali della dogana. Poco dopo la mezzanotte del 15 ottobre - a oltre trenta ore dalla sua partenza dalla Polonia - un dipendente della Canadian Border Services Agency finisce di controllare i documenti dell’immigrato, che sono in regola.

Dziekanski, sfinito, viene portato in un’altra stanza. Continua l’estenuante attesa. Poco dopo l’una di notte, l’uomo inizia a dare in escandescenza: getta a terra un computer e cerca di sfondare un vetro. Viene avvertita la polizia, mentre un viaggiatore che si trovava in una stanza adiacente inizia a riprendere l’uomo con la telecamera del suo cellulare. Intorno all’1.25 di notte arrivano quattro poliziotti. Gli agenti usano la taser gun per ridurre alla ragione Dziekanski. Quando l’uomo crolla per terra, un agente lo blocca, appoggiando il suo ginocchio sul collo del cittadino polacco per circa 45 secondi. L’immigrato perde conoscenza, arriva un’ambulanza, ma non c’è più nulla da fare. Dziekanski muore per arresto cardiaco.

A causa delle pressioni del governo polacco e dell’indignazione scatenata dalle immagini che vengono fatte vedere in tutto il mondo, il governo della British Columbia decide di aprire un’inchiesta per fare luce sulla vicenda. Il 12 dicembre del 2008 il Criminal Justice Branch presenta il resoconto delle sue indagini. Nella sostanza vengono completamente scagionati gli agenti che arrestarono Dziekanski. "Il decesso - si legge nel rapporto - è stato causato da morte improvvisa sopraggiunta in seguito all’arresto".

Un concetto contorto e bizzarro che non spiega nulla. L’autopsia, invece, conferma solamente l’arresto cardiaco, senza entrare nel merito di cosa l’abbia provocato. Nota a margine. Uno dei quattro agenti implicati nella morte di Dziekanski è stato in seguito sospeso dal servizio in attesa del processo che lo vede imputato nella morte di un uomo provocata - questa è l’accusa - mentre il poliziotto guidava in evidente stato d’ebbrezza.

Due pesi e due misure. Dopo la morte di Fredy Villanueva viene avviata un’indagine che si conclude, quattro mesi dopo, con il pieno proscioglimento dei poliziotti implicati nella vicenda. Nonostante questo, il ministro Dupuis decide di avviare un’inchiesta pubblica per "rassicurare i cittadini sui ben fondati motivi della decisione assunta dal procuratore della Corona". Ineccepibile. Ma perché lo stesso trattamento non è stato riservato a Claudio Castagnetta? "Quanto fatto dal ministro Dupuis sul caso Villanueva - dichiara al Corriere Canadese Corrado Castagnetta, padre del giovane italiano morto a Québec City - è in netto contrasto con quanto fatto su mio figlio. L’avvio di un’inchiesta pubblica - aggiunge - avrebbe permesso di conoscere la verità, ufficializzando in tal modo l’inefficienza di tutto il sistema giudiziario e della pubblica sicurezza del Québec".

Uno, due, tre: taser. Di taser gun non si muore. È questa la tesi degli esperti della Taser International, la multinazionale produttrice della controversa pistola elettrica, impegnata negli ultimi anni ad intentare azioni legali contro chiunque sostenga l’esatto contrario. Eppure, dati alla mano, la casistica di decessi in Nord America "correlati" - e non usiamo, per premura e cautela, la parola "provocati" - all’uso della taser è farcita di centinaia di episodi riportati nei rapporti di polizia.

Che ruolo ha giocato la taser gun nella morte di Dziekanski e Castagnetta? Nel caso dell’immigrato polacco, il rapporto del Criminal Justice Branch della British Columbia cerca di scagionare - senza riuscirci, per altro - la pistola elettrica. "Secondo il patologo forense - si legge nel documento - la taser gun non ha causato direttamente l’arresto cardiaco". Bene. Peccato che, esattamente cinque righe dopo, il procuratore ci dica come tra le varie concause che hanno concorso al decesso di Dziekanski - astinenza dall’alcool, insufficienza cardiaca, difficoltà respiratoria, ansia, disidratazione e così via - ci sia pure l’utilizzo della stessa taser, responsabile di aver "aggravato" lo stress a cui era stato sottoposto l’uomo durante l’arresto.

Per chiudere il cerchio, ci manca solo che gli esperti ci dicano che un paio di scossette di taser siano addirittura salutari per chi le subisce. Nel caso di Castagnetta manca l’impatto mediatico - e l’indignazione di massa - provocata dalle immagini, crude, che hanno fatto il giro del mondo. Eppure - ci dice il rapporto del coroner - anche Claudio durante l’arresto ha subito lo stesso trattamento del polacco: cinque scariche, l’ultima delle quali lunga ventuno interminabili secondi. Secondo il coroner, la taser non ha avuto alcun ruolo nella morte di Claudio. "Dupuis - continua Corrado Castagnetta - si è rivolto ad un esperto per accertare che la taser in dotazione alla polizia possa essere considerata sicura.

Ma tale accertamento doveva essere effettuato su iniziativa del ministero della Sanità. Oltre a questo, il costruttore della pistola elettrica afferma che il colpo ha una durata non superiore a cinque secondi, per cui il poliziotto che ne ha fatto uso (o abuso) ha attivato l’arma per quattro volte consecutive. E se l’arma utilizzata sul corpo di Claudio fosse stata difettosa? Come mai il patologo ha escluso che l’uso della taser abbia provocato la morte di mio figlio? Sulla base di quali elementi? Ovviamente attendo risposte esaustive".

Il dossier? Quale dossier? Avrà un padre il diritto di conoscere le circostanze che hanno determinato la morte del figlio? Corrado Castagnetta ha continuato a chiedere il dossier relativo alla morte del figlio, richiesta che si è infranta sul muro di gomma innalzato nella provincia francofona fino allo scorso 24 dicembre, quando Dupuis ha finalmente consegnato tutti i documenti al legale di fiducia.

Solamente la verità. Con due casi sostanzialmente archiviati - Dziekanski e Castagnetta - e uno in attesa dei risultati dell’inchiesta pubblica - sono aperte le scommesse sull’eventuale futura responsabilità accertata dell’agente che aprì il fuoco e uccise Villanueva - la partita sembra chiusa. Tre persone hanno perso la vita e nessuno ne dovrà rispondere in un’aula di giustizia, nessuno ne pagherà le conseguenze. Con il passare del tempo anche gli echi dell’indignazione pubblica si stanno spegnendo, la battaglia per la verità sta diventando una lotta privata delle famiglie delle vittime.

Il silenzio sembra di nuovo l’arma più efficace delle autorità. Sarebbe nell’interesse stesso dei governi del Québec e della British Columbia fare luce completa su questi tre casi, e questo non perché si voglia per forza saziare un improbabile istinto forcaiolo contro le forze dell’ordine - che, detto per inciso, possono sbagliare come tutti quanti - ma perché un esame serio e trasparente su cosa sia realmente successo restituirebbe quella credibilità seriamente compromessa negli ultimi mesi.

Stati Uniti: Obama; subito Decreto per chiusura Guantanamo

 

Adnkronos, 13 gennaio 2009

 

Per chiudere effettivamente Guantanamo potrebbe volerci anche un anno di tempo. Stando a quanto reso noto da un funzionario della squadra di transizione del presidente eletto americano Barack Obama, scrive infatti il New York Times, dopo che il nuovo leader della Casa Bianca avrà emesso il decreto presidenziale per chiudere la struttura di massima sicurezza a Cuba, ci vorrebbero sicuramente diversi mesi, forse un anno, per concludere le operazioni relative al trasferimento in altri paesi dei 248 detenuti, alla decisione su come processare i sospetti e alla gestione dei molti altri problemi legali che implica la chiusura del campo.

 

Decreto entro sette giorni dal suo insediamento

 

Il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, darà l’ordine per la chiusura del carcere militare di Guantanamo nella sua prima settimana alla Casa Bianca. Nel penitenziario, situato in un territorio di Cuba controllato dagli Usa, sono rinchiusi i sospetti terroristi islamici. La notizia è stata riferita da fonti vicine al senatore democratico, a otto giorni dalla cerimonia per il suo insediamento a Washington. Durante la sua campagna elettorale, il candidato Barack Obama promise di chiudere il campo di prigionia, dove sono ancora detenute 250 persone. Domenica 11 gennaio, in un’intervista televisiva, Obama aveva ribadito la sua volontà di chiudere Guantanamo, ma aveva anche ipotizzato che sarebbe stata una sfida "farlo entro i primi cento giorni della mia amministrazione".

Con l’ordine esecutivo il nuovo presidente darebbe formalmente il via alle procedure per smantellare la prigione militare e darebbe disposizione al Pentagono di esaminare di nuovo ognuno dei casi dei circa 250 detenuti ancora presenti nella base navale, per stabilire possibili scarcerazioni.

 

Sale a 42 numero detenuti in sciopero fame

 

È aumentato a quarantadue il numero di detenuti in sciopero della fame a Guantanamo, il carcere militare statunitense a Cuba dove sono rinchiusi i sospetti terroristi. Lo ha annunciato l’esercito degli Stati Uniti, ma secondo le associazioni per la tutela dei diritti umani il numero sarebbe maggiore. Gitanjali Gutierrez, avvocato del Centro per i diritti costituzionali con sede a New York, ha detto ai giornalisti che più di settanta uomini trattenuti a Guantanamo rifiutano il cibo per protestare contro il loro confino.

Una responsabile della Marina, Pauline Storum, ha dichiarato che i detenuti che non accettano i pasti sono nutriti con la forza e nessuno è in pericolo immediato. Anche se fosse confermato il numero di 42, era dalla primavera 2006 che non c’erano tanti detenuti in sciopero della fame. Gutierrez, ritornato nel fine settimana da una visita alla base, ha dichiarato di aver calcolato i suoi dati in base a interviste con i detenuti e le lettere che molti hanno scritto ai loro avvocati.

 

 

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