Rassegna stampa 4 febbraio

 

Giustizia: 156esimi nel mondo, un "grave indizio" di sconquasso

di Beppe Del Colle

 

Famiglia Cristiana, 4 febbraio 2009

 

Sul tema della durata dei processi la Banca mondiale ci ha classificati al 156° posto su 181 nazioni. L’Italia condivide con tutto il mondo la crisi economico-finanziaria, e con Spagna e Francia l’angosciante questione dell’immigrazione. Ma è sola alle prese con un problema Giustizia che fa accapponare la pelle.

Tale questione è esplosa negli ultimi mesi ed è questa settimana di fronte al Parlamento, chiamato a discutere e votare su un progetto di legge del Governo. Sul finire della scorsa settimana le aperture dell’Anno giudiziario alla Cassazione e in tutte le 29 Procure della Penisola hanno fornito le cifre di un vero e proprio disastro, culminate in quelle che riguardano l’inefficienza e la lunghezza dei processi: la Banca mondiale ci ha classificati al 156° posto su 181 nazioni.

Le cause di tale disastro sono note da anni. Attualmente le denunce più pesanti che arrivano dal mondo giudiziario riguardano la carenza di mezzi e di personale, la dispersione di tanti piccoli Tribunali in troppe località, i ritardi nell’informatizzazione dei servizi, l’eccesso di burocrazia, la scarsa selettività fra i reati e i conflitti aperti davanti alle corti, molti dei quali potrebbero essere risolti senza ricorso ai processi.

Il risultato è che, come ha detto il procuratore Grechi a Milano, "abbiamo un "debito pubblico" di cause civili pendenti che è quasi il doppio della Germania, più del triplo della Francia, più del quadruplo della Spagna". Per di più, e proprio per questo, solo a Roma ci sono 21 mila avvocati, a fronte di 44 mila in tutta la Francia. Il quadro desolante si arricchisce con l’aumento dei reati, con la pessima condizione delle carceri, con la progressiva crescita della non effettività della pena, e così via.

Di fronte allo sconquasso ci si aspetterebbe un esame parlamentare del progetto di legge governativo libero da pregiudizi ideologici e strettamente politici, ma c’è un ma: si tratta di un progetto che, anziché badare agli aspetti pratici e immediati del sistema, da un lato offre altri tagli di spesa (del 40 per cento in tre anni), dall’altro propone rimedi "ordinamentali", come la riforma del Csm, la separazione delle carriere dei magistrati, un robusto ridimensionamento del ricorso alle intercettazioni telefoniche e ambientali (con microspie).

Moltissimi magistrati sono d’accordo col giudizio drastico del senatore Casson, già Pm a Venezia e ora capogruppo del Pd nella commissione Giustizia di Palazzo Madama: "Nessuna riforma del Csm, o la separazione formale delle carriere, o il taglio delle intercettazioni, potrà abbreviare di un solo giorno nessuno dei milioni di processi pendenti, e non renderà in alcun modo più certa l’esecuzione della pena".

Il conflitto fra Governo e magistratura è stato esacerbato ultimamente dalla sorte programmata delle intercettazioni (accusate di troppe ingerenze ingiustificate nella privacy dei cittadini) di cui si accorcia la durata, e che si consentono solo in presenza di "gravi indizi di colpevolezza", mentre finora si accettavano per "gravi indizi di reato". Bruno Vespa, su Il Gazzettino, ha proposto di limitare i danni sostituendo la parola "gravi" con "sufficienti". Ma rispondono in coro i giudici: con "sufficienti indizi di colpevolezza" si possono già disporre mandati d’arresto, non c’è bisogno di intercettazioni.

Giustizia: accordo nel Pdl, ma restano ancora punti in sospeso

di Marco Conti

 

Il Mattino, 4 febbraio 2009

 

Il testo della riforma del processo penale ancora non c’è. O meglio, il ministro della Giustizia Angelino Alfano lo tiene gelosamente chiuso in un cassetto temendo possa finire su qualche giornale prima del passaggio in consiglio dei ministri. E così ieri pomeriggio il vertice convocato dal Guardasigilli a palazzo Grazioli è stato l’occasione per mettere uno dietro l’altro gli argomenti che verranno affrontati in uno o più disegni di legge.

Al presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, al capogruppo della Lega Roberto Gota e ai colleghi dell’Interno e della Difesa, Roberto Maroni e Ignazio La Russa, il ministro Alfano e Nicolò Ghedini hanno illustrato il testo dividendo le norme che accelerano i tempi della giustizia (notifiche telematiche e processo digitale) da quelle che ridisegnano gli equilibri nel processo penale a favore della difesa e che riscrivono il rapporto tra pm e polizia giudiziaria.

Sui principi da inserire nella riforma non ha avuto nulla da eccepire nemmeno l’avvocato Bongiorno che per An ha già seguito la trattativa sul ddl intercettazioni. Nel pomeriggio di oggi si terrà una nuova riunione a palazzo Grazioli, ma non è detto che venga diffuso il testo del ddl. Sul fatto che "la polizia giudiziaria non dovrà stare più sotto il controllo del pubblico ministero", non sembrano esserci ostacoli di principio, ma nei dettagli si potrebbero annidare possibili contraddizioni.

A cominciare dal principio del "senza ritardo" che per An deve continuare a regolare il rapporto tra polizia giudiziaria e pm e che obbliga la prima a riferire "senza ritardo" al magistrato i reati di cui è venuta a conoscenza. In sostanza i paletti indicati da Gianfranco Fini nella sua ormai famosa lettera sulla giustizia pubblicata qualche settimana fa dal Corriere, vengono definiti dagli uomini di An "irrinunciabili". Non sarà quindi facile conciliare 0 principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sottolineato dal presidente della Camera al secondo punto della lettera, con il profilo di una polizia giudiziaria completamente autonoma e sottoposta all’esecutivo.

La Lega che sembra aver rinunciato all’elezione diretta del pm, suo vecchio cavallo di battaglia, ieri pomeriggio ha contribuito non poco a rendere buono il clima nella maggioranza. Al punto che ieri pomeriggio il ministro La Russa ipotizzava l’arrivo della riforma nel consiglio dei ministri di venerdì dove, ovviamente, non siede la Bongiorno.

Non è escluso però che gli alleati chiedano un supplemento di istruttoria e che quindi occorrano un paio di riunioni per licenziare una riforma complessa. È anche possibile che il governo possa quindi decidere di separare la parte del processo penale dal resto.

Parlando ieri mattina a Studio Aperto, Berlusconi ha anche parlato della "separazione dell’ordine dei giudici dall’ordine dei pm", ma il tema sarà in agenda solo successivamente, quando si predisporrà la riforma costituzionale della giustizia. Il premier è anche tornato sul tema delle intercettazioni, accennando ad una discussione in Consiglio dei ministri di un testo che però è già oggetto di emendamenti nella Commissione Giustizia della Camera. "L’equivoco", come lo definisce l’avvocato Nicolò Ghedini, non ha mancato di scatenare l’opposizione che con Donatella Ferranti hanno chiesto lumi sulle intenzioni del governo al presidente della Commissione Giustizia.

Equivoco a parte, è evidente che a Berlusconi l’accordo raggiunto dalla maggioranza sul tema delle intercettazioni, piace molto poco. Soprattutto teme che in aula il testo possa subire ulteriori modifiche. Magari per ammorbidire con altra formulazione la richiesta di "gravi indizi di colpevolezza" necessari per ottenere il via libera all’intercettazione.

Giustizia: la maggioranza accelera, forse la riforma già venerdì

Andrea Scarchilli

 

Aprile on-line, 4 febbraio 2009

 

Forse già al Cdm di venerdì la riforma del processo penale. Sulle intercettazioni, il premier fa balenare una stretta ulteriore. Nel frattempo, il ministro Fitto è rinviato a giudizio per turbativa d’asta. I fatti risalgono a quando era governatore della Puglia: avrebbe lavorato per favorire un imprenditore nella vendita di gruppo alimentare. Di Pietro indagato per piazza Farnese

Giornata di transizione sul fronte della giustizia. In attesa del Consiglio dei ministri di venerdì e del 23 del mese corrente, giorno di approdo del disegno di legge sulle intercettazioni alla Camera, la maggioranza affina le armi e il Partito democratico si prepara, su questo più che su altri fronti, all’opposizione netta. Nel primo pomeriggio si è svolto a Palazzo Grazioli un vertice tra i rappresentanti di tutte le anime del centrodestra. Trovata l’intesa sulla normativa che regola gli ascolti telefonici - sulla base del doppio binario di stretta, tempo limitato e autorizzazione solo in caso di "gravi indizi di colpevolezza" - la partita si sta concludendo anche per quanto riguarda il dossier della riforma del processo penale. Si sa che l’intervento principale riguarderà la rivisitazione del rapporto tra pm e polizia giudiziaria, con la sostanziale riduzione dei margini di manovra dei primi.

Al termine della riunione, il ministro della Difesa (e "reggente" di Alleanza nazionale) Ignazio La Russa si è sbilanciato: "Se riusciremo a limare gli ultimi dettagli, la porteremo venerdì nel prossimo Cdm". Oltre a La Russa, alla riunione di Palazzo Grazioli erano presenti il ministro della Giustizia Angelino Alfano, la presidente della Commissione Giustizia della Camera (sempre di An) Giulia Bongiorno e i leghisti Roberto Cota e Roberto Maroni, rispettivamente capogruppo del Carroccio a Montecitorio e ministro dell’Interno. Il premier Silvio Berlusconi è arrivato solo ad assise conclusa per occuparsi, pare, di Rai.

Lo stesso Cavaliere ha rilasciato, in mattinata, un’intervista a "Studio Aperto" dove è soffermato sul tema della giustizia. Facendo leva su una presunta insoddisfazione dell’opinione pubblica sul funzionamento del servizio (ha addotto come percentuale un bulgaro 88 per cento) ha promesso per l’immediato la citata riforma del processo penale e per i mesi prossimi modifiche più ampie all’ordinamento costituzionale, sintetizzate con la "la separazione dell’ordine dei giudici che giudicano dall’ordine dei pm che chiameremo gli avvocati dell’accusa.

Questi ultimi avranno accesso tramite concorsi diversi al loro ordine, lavoreranno in uffici separati e distanti dai magistrati giudicanti, dovranno chiedere appuntamento al giudice esattamente come gli avvocati della difesa, con il cappello in mano, bussando alla porta e dando del lei". Ha parlato del delitto di stupro, nel giorno in cui l’Aula del Senato si è accapigliata sulla visita dei radicali Sergio D’Elia e Rita Bernardini al carcere dove sono detenuti i romeni accusati dello stupro della ragazza di Guidonia.

Berlusconi, in riferimento ad altri episodi: "È un delitto imperdonabile, esecrabile, e credo che nella coscienza di tutti siano da considerarsi degli errori le decisioni del gip di Roma e dell’altro gip che ha liberato dopo appena venti giorni un ragazzo che aveva commesso uno stupro". Berlusconi ha sottolineato che a suo avviso "occorrerebbe che i giudici applicassero le leggi e tutti i cittadini sentissero che la pena è una certezza".

Ma, al di là delle metafore evocative e delle opinioni strumentali, è stato un passaggio sulle intercettazioni a destare la polemica. Berlusconi ha detto: le intercettazioni devono essere usate "solo quando esistono gravi prove di colpevolezza: quando cioé ci sono già altri gravi indizi e per un tempo limitato". Il fatto è che l’emendamento governativo al ddl Alfano prevede che si passi dall’autorizzazione in caso di "gravi indizi di reato" a quella per "gravi indizi di colpevolezza", ed è già così una bella stretta.

La dicitura berlusconiana sarebbe un’ulteriore fuga in avanti. Tanto basta alla capogruppo democratica in Commissione giustizia, Donatella Ferranti, per accusare: "O Berlusconi straparla o le sue sono affermazioni schizofreniche che rivelano la più totale mancanza di fiducia nella propria maggioranza e l’assenza di rispetto nei confronti dei lavori parlamentari". E ha spiegato: "La proposta di inserire le gravi prove di colpevolezza per autorizzare l’avvio delle intercettazioni è una norma ammazza indagini che uccide definitivamente l’utilizzo di un valido strumento per la ricerca della prova". Probabile che l’uscita berlusconiana sia l’ennesima gaffe verbale, ma la reazione della Ferranti rivela l’atteggiamento e la distanza del Pd dai progetti della maggioranza sul fronte della giustizia.

È arrivata anche la notizia, oggi, delle conseguenze del discorso di Antonio Di Pietro nel corso della manifestazione di una settimana fa, a piazza Farnese, contro la politica della giustizia del centrodestra. Finirono sotto i riflettori, allora, alcune frasi in cui il leader dell’Italia dei valori attaccava il Capo dello Stato rimproverandogli l’inattivismo su quel fronte. Ci fu una denuncia presentata dell’Unione camere penali e oggi, come "atto dovuto", la Procura di Roma ha iscritto Di Pietro nel registro degli indagati per offesa all’onore o al prestigio del presidente della Repubblica. L’ex pm ha reagito così: "Porterò con me, come testimoni, oltre 200mila persone che, attraverso la diretta streaming, hanno assistito al mio intervento. L’avvocato Dominioni (presidente dell’Unione camere penali, ndr) porterà solo un generico sentito dire".

Se il procedimento ai danni di Di Pietro è appena agli albori, più delicata è la posizione dell’attuale ministro dei Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto. Il Tribunale di Bari ha deciso oggi di rinviarlo a giudizio con l’accusa di concorso in turbativa d’asta e interesse privato del curatore negli atti di un fallimento. I fatti risalgono al periodo (2003 - 2004) in cui Fitto era presidente della Regione Puglia ed era in corso una procedura di amministrazione straordinaria per l’azienda Cedis, un gruppo attivo nella grande distribuzione alimentare.

In particolare Fitto è accusato di essere "concorrente estraneo" nella vicenda Cedis in quanto, dice l’atto, "referente politico" di alcuni degli altri otto indagati per i quali la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio. In concorso con altri Raffaele Fitto è accusato di reati compiuti in relazione alla vendita della Cedis ad un contraente predeterminato, che sarebbe la società Sviluppo Alimentare collegata all’imprenditore salentino Brizio Montinari, a una cifra ben inferiore rispetto al valore commerciale: sette milioni di euro anziché quindici milioni e mezzo. Il processo comincerà il 12 maggio prossimo di fronte al giudice monocratico del Tribunale di Bari.

Giustizia: sinistra antirazzista; contro le "derive", anche del Pd

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Il Manifesto, 4 febbraio 2009

 

"Gentile Augias, ho 49 anni, vivo a Roma, lavoro al Quirinale, ho studiato, leggo buoni libri, mi interesso di politica, leggo ogni giorno 2 quotidiani, guardo in tv Ballarò e Matrix e voto a sinistra, sono stato candidato municipale per la Lista Roma per Veltroni.

A 49 anni sto diventando un grandissimo razzista e non riesco a sopportarlo. Non c’è stata una molla scatenante, un atto di violenza compiuto verso di me o la mia famiglia o amici, ma un continuo stillicidio di fatti letti, di violenza vista… di fatti raccontati da persone sconosciute su un tram o una metropolitana. Perché se chiedo l’espulsione immediata dei clandestini violenti e ladri e meretrici e protettori di meretrici vengo immediatamente accostato a Eichmann?".

Questa la lettera di Claudio Poverini che Repubblica pubblicò il 7 maggio 2007. Un assist per Walter Veltroni che immediatamente dopo scrisse: "la sicurezza non è di destra né di sinistra". E poi quelli di sinistra se la presero a Firenze coi lavavetri e a Bologna coi punkabbestia. Tutti stranieri.

Poi un rumeno uccise Giovanna Reggiani. Veltroni, già candidato a premier, chiese una decretazione d’urgenza contro i rumeni. Repubblica, usando il signor Poverini, sdoganò il razzismo di sinistra. Veltroni assecondò questa perdita di buon senso. Poi sono arrivati Alemanno a fare il sindaco di Roma e Maroni il ministro degli Interni. Ed è partita una crociata violentissima e razzista nei confronti di rom, rumeni, extracomunitari.

Un razzismo istituzionale e sociale che ha avuto già i suoi primi provvedimenti approvati (l’introduzione nel codice penale della circostanza aggravante di clandestinità). L’indiano bruciato vivo a Nettuno è stato arso vivo da tre giovani che hanno pensato, seppur non in piena coscienza, di avere legittimazione istituzionale a bruciare uno straniero povero. In questi giorni il Partito democratico, dopo le ultime violenze sessuali, ha ricoperto le mura di Roma con manifesti del tipo: "Aumentano i reati a Roma. Alemanno che fa?".

Pare che la lezione non sia bastata. Si continua a fare propaganda sulla sicurezza proprio nei giorni in cui il Senato sta per approvare un disegno di legge (il famigerato 733) intriso di razzismo e di bestialità. In ordine sparso si prevedono norme del tipo: test di conoscenza della lingua italiana per i soggiornanti di lungo periodo, estensione del periodo di permanenza in un centro di identificazione per immigrati fino a un massimo di diciotto mesi, accordo di integrazione a punti per gli stranieri regolari, istituzione di un registro apposito per le persone senza fissa dimora, istituzione per legge di ronde private, reato di clandestinità punito con una ammenda.

Un emendamento leghista vorrebbe negare l’assistenza medica agli irregolari, trasformando i medici del pronto soccorso in delatori di Stato. Ci aspettiamo a questo punto quattro reazioni differenti. Dalle forze di polizia che vedono perdere il monopolio dell’uso della forza. Dalla magistratura che vede il proliferarsi di nuove centinaia di migliaia di processi penali. Dalle forze di sinistra parlamentare che non si facciano prendere da tentazioni bipartisan (fortunatamente la pattuglia radicale in Senato ha sinora svolto una battaglia significativa).

Dalle forze di sinistra extra-parlamentare, che si preoccupino meno del 4% e più del mondo in cui viviamo. D’altronde quando la sinistra è presente nei territori e orienta gli umori popolari accadono anche fatti positivi. Nel quartiere popolare romano di Quartaccio, dopo uno stupro, l’associazione locale storicamente legata alla sinistra, ha organizzato una fiaccolata che si è aperta con uno striscione: "più luce, meno monnezza, uguale sicurezza". Niente caccia allo straniero, niente xenofobia, niente razzismo. Di questa sinistra sociale e politica abbiamo bisogno.

Giustizia: voto bipartisan al Senato sull'inasprimento del 41-bis

 

Ansa, 4 febbraio 2009

 

Il Senato ha approvato con 249 voti a favore, 5 voti contrari e 14 astenuti l’articolo 34 del ddl sulla sicurezza che inasprisce l’articolo 41 bis che viene applicato soprattutto per i condannati di mafia e camorra. Un voto "quasi unanime" come ha sottolineato il presidente del Senato Renato Schifani che ha espresso plauso per "modifiche strategiche per il contrasto alla mafia".

La norma che inasprisce il 41 bis approvata nel ddl Sicurezza aumenta a quattro anni la durata dei provvedimenti restrittivi per chi è accusato di reati di mafia. Inverte sostanzialmente l’onere della prova e sposta la competenza funzionale al Tribunale di sorveglianza di Roma per tutti i ricorsi, per tentare di garantire un’omogeneità di giudizio per tutto il territorio nazionale. I detenuti sottoposti a regime speciale dovranno essere ospitati in istituti a loro esclusivamente dedicati, preferibilmente nelle isole. I colloqui tra i detenuti e le loro famiglie dovranno sempre essere ascoltati e registrati. La possibilità di colloqui telefonici mensili sarà ammessa soltanto per chi non avrà colloqui personali. Inoltre, i colloqui con i difensori non potranno essere più di tre a settimana. La permanenza all’aperto sarà ancora consentita, ma con maggiori restrizioni: non potrà superare le due ore e non potrà aver luogo tra più di quattro persone. Saranno introdotti alcuni accorgimenti per evitare che si comunichi tra detenuti, si scambino oggetti e si cuociano cibi.

Si punisce con la reclusione da uno a quattro anni chiunque consenta ad un accusato di mafia, sottoposto a regime del carcere duro, di comunicare con altri. Ed è inserita l’aggravante se il fatto è commesso da un Pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio o da un avvocato.

Chiara la soddisfazione del presidente di Palazzo Madama, Renato Schifani, dopo il voto. La seconda carica dello Stato crede, infatti, che "con questo voto il parlamento abbia dato un fortissimo segnale al paese di come il contrasto alla mafia, alla criminalità organizzata, fossero l’esigenza della convergenza fra tutte le forze politiche, per lo meno tra la stragrande maggioranza delle forze politiche". "La presidenza - ha quindi concluso Schifani - non può che compiacersi della quasi unanimità di questo voto".

"Dal Senato viene un forte messaggio per la legalità e per la lotta alla mafia", ha dichiarato il presidente del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, che si è detto "personalmente lieto di aver dedicato in tanti passaggi della mia vita politica e parlamentare un impegno personale su questo versante". "Il carcere duro - ha concluso Gasparri -deve essere applicato senza esitazioni per isolare chi ha seminato morte e terrore nel nostro paese".

Anche i senatori dell’Udc Gianpiero D’Alia e Salvatore Cuffaro, hanno espresso la propria "soddisfazione" sottolineando il "giusto clima di dialogo" in cui è stata approvato l’inasprimento: "Sul contrasto alla criminalità organizzata non possono esistere bandiere, e oggi il Parlamento ne ha dato una chiara e responsabile dimostrazione". Pur confermando "il no del Pd al ddl sicurezza del Governo di cui è inesistente la copertura finanziaria e che è contro i più deboli", il senatore democratico, Felice Casson, ha apprezzato "l’approvazione bipartisan delle proposte Pd sul 41 bis".

Giustizia: Caselli; se si conosce colpevole non serve intercettare

di Gian Carlo Caselli (Procuratore capo di Torino)

 

La Stampa, 4 febbraio 2009

 

Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno "sufficienti indizi di reato", per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno "gravi indizi di colpevolezza": si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data "quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini"), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta "dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato". Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, bypassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi "di sequestri mordi e fuggi"). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato.

Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele "basista"), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni "nei luoghi di sua disponibilità". Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.

Giustizia: Di Pietro; Napolitano non firmi legge su intercettazioni

 

Ansa, 4 febbraio 2009

 

Antonio Di Pietro, leader di Italia dei Valori, chiede al presidente della Repubblica Napolitano di non firmare la legge sulle intercettazioni all’esame della Camera. "Io risulto denunciato - ha detto Di Pietro parlando con i giornalisti a Montecitorio - da uno degli avvocati di Berlusconi per aver detto che il Lodo Alfano umilia le nostre istituzioni, e avrei preferito e preferirei che il Capo dello Stato su questo tema, come sulle intercettazioni, possa intervenire". "Ebbene ora ribadisco - ha aggiunto Di Pietro - adesso che arriva al Capo dello Stato il provvedimento sulle intercettazioni, che qui in Parlamento voteranno tutti per alzata di mano come soldatini, si chieda il Capo dello Stato se questo provvedimento sia costituzionale o no; o se non si umilia ancora una volta la funzione della giustizia, costituzionalmente garantita, come legge uguale per tutti".

Giustizia: è una politica "debole" che dà forza alla ‘ndrangheta

di Nuccio Iovene (Sinistra Democratica)

 

Aprile on-line, 4 febbraio 2009

 

La Corte d’assise di Locri ha condannato Alessandro e Giuseppe Marcianò, Salvatore Ritorto e Domenico Audino all’ergastolo per l’assassinio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, avvenuto a Locri il 16 ottobre 2005. La sentenza fa giustizia del delitto, ma non risolve il contesto in cui esso è maturato: dalle indagini di questi anni è emerso uno spaccato inquietante dei rapporti mafia - politica nel reggino, delle infiltrazioni criminali nella sanità e in tante attività amministrative di quel territorio, nonché di rapporti ambigui con apparati dello Stato.

Quattro ergastoli rispettivamente per Alessandro e Giuseppe Marcianò, Salvatore Ritorto e Domenico Audino, comminati dalla Corte D’Assise di Locri, che li ha considerati mandanti ed esecutori dell’omicidio di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio Regionale della Calabria: questa la sentenza che conclude il processo per l’omicidio politico mafioso più grave degli ultimi anni.

Un omicidio, quello consumato in un seggio allestito a Locri all’interno del centralissimo Palazzo Nieddu per le primarie dell’Unione il 16 ottobre del 2005, che ha condizionato pesantemente la vicenda politica della Regione Calabria e le cui implicazioni non sono state tutte chiarite fino in fondo. Dalle indagini di questi anni è emerso uno spaccato inquietante dei rapporti mafia - politica nel reggino, delle infiltrazioni criminali nella sanità e in tante attività amministrative di quel territorio, nonché di rapporti ambigui con apparati dello Stato. Basti ricordare, proprio in relazione ai punti ancora oscuri, il suicidio di uno dei collaboratori di giustizia, Bruno Piccolo, decisivo per l’inchiesta ed il successivo processo conclusosi ieri o il ruolo di Francesco Chiefari, a suo dire confidente dei servizi segreti, fermato per aver collocato successivamente al delitto due ordigni esplosivi negli ospedali di Siderno e Locri accompagnati da lettere di minaccia nei confronti dei familiari di Fortugno.

C’è il trasversalismo e il cambio di casacca di Domenico Crea dell’Udc, con il centro destra prima del 2005, con la Margherita nelle ultime elezioni regionali e primo dei non eletti, subentrato a Fortugno dopo la sua morte, amico dei Marcianò e con interessi nella sanità privata, e ripassato poi di nuovo con il centrodestra. C’è lo stato dell’Azienda Sanitaria di Locri, sciolta per infiltrazioni mafiose dopo il delitto, territorio di scorribande per le cosche della ‘ndrangheta, per la distribuzione di danaro, potere e favori che ne derivava, a scapito della salute e dei soldi dei cittadini.

Come ha sottolineato la commissione parlamentare antimafia nella passata legislatura, nella relazione sulla ‘ndrangheta, proprio esaminando l’omicidio Fortugno: "Anche all’interno di questa complessa vicenda emerge un dato di fondo, quasi strutturale, relativo alla natura dei partiti e alle classi dirigenti. In vista di ogni elezione, notabili politici detentori di pacchetti di voti e preferenze si offrono sul mercato del consenso.

Si cambia così schieramento portando in dote voti ma anche interessi materiali e clientelari. I bisogni della gente vengono ricondotti in un sistema di favori clientelari che per rigenerarsi deve essere alimentato con soldi pubblici e affari. Per questo il buco del bilancio della sanità è diventato un pozzo senza fondo. La politica si privatizza e le cosche che controllano il territorio trattano con essa, la condizionano, offrono i loro pacchetti di voti o entrano direttamente nelle liste con propri uomini.

Purtroppo questo meccanismo vede come protagonisti passivi anche i cittadini che, in assenza di diritti esigibili da rivendicare in modo trasparente, affidano i propri problemi a chi promette, anche con mezzi corrotti e illegali, di offrirgli una risposta percepita da loro stessi come l’unica possibile. Questa è la politica debole che in Calabria dà forza alla ‘ndrangheta."

La sentenza di ieri fa giustizia del delitto, ma non risolve, ne potrebbe risolvere, il contesto in cui esso è maturato. Questo spetta ai cittadini e alla politica calabrese in primo luogo, ed al complesso delle istituzioni del nostro Paese, se si ritiene che la democrazia abbia un senso anche in Calabria, se non ci si rassegna a considerare questa terra una zona franca per la criminalità ed il malaffare.

Giustizia: Ceretti; il carcere non basta, portiamoli dalle vittime

di Chiara Beria Di Argentine

 

La Stampa, 4 febbraio 2009

 

"Il branco che usa il fuoco purificatore proprio come avveniva nei linciaggi dei neri in America, lo stupro predatorio del branco per affermare il dominio sul più debole sono due facce della stessa violenza. Violenza come attacco al corpo, come annientamento dell’altro a prescindere dal soggetto. Perché l’altro - sia un extracomunitario, un clochard o una donna - è il nemico, una cosa da dominare, annientare senza nessun problema morale".

Né facili sociologismi né altrettanto facili slogan sulla tolleranza zero. Adolfo Ceretti, ordinario di criminologia alla facoltà di Giurisprudenza dell’università Milano-Bicocca propone, forte di un’esperienza non solo accademica, un’analisi ben più complessa di questa drammatica spirale di violenza. In veste di perito o di giudice onorario Ceretti si è occupato di molti, terribili fatti di sangue, dalla strage di Novi Ligure compiuta da Erika e Omar al massacro delle suore a Chiavenna. Coordinatore scientifico del Centro per la mediazione penale di Milano, ha finito di scrivere con Lorenzo Natali un saggio in uscita a maggio dall’editore Cortina intitolato "Cosmologie violente, percorsi di vite criminali", con le testimonianze di 7 colpevoli di omicidi e violenze sessuali.

 

Banalizzazione del male, perdita dei valori, xenofobia, disprezzo del debole. Condivide, professore, le analisi formulate in questi giorni su questi tragici episodi?

"Solo in parte. In tutti i commenti non ho mai letto due parole -"contaminazione", "immunizzazione" - che ritengo chiave per capire cosa sta succedendo. La nostra società è ormai affetta dal virus del senso d’insicurezza, tanto che alla politica si chiede la protezione dal contagio. In questa visione del mondo fondata sul codice binario amico/nemico l’altro diventa una presenza oscura, terrificante, sporca. Da eliminare per salvaguardare la purezza del proprio territorio. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha colto bene gli indizi di questa spirale terrificante, vorrei abbracciarlo! Ed invece immettere nel linguaggio politico termini autoritari come quelli usati dal ministro Maroni è davvero pericoloso: un conto è neutralizzare i singoli individui altro è costruire intere classi di persone pericolose".

 

Insisto, professor Ceretti, perché questi giovani sono così violenti e crudeli?

"Non chiamateli mostri! Sono soggetti attivi di una società schizofrenica dove regna una gran confusione tra le ragioni del bene e del male e dove la politica non riesce più a governare neanche le paure. L’alcol e la droga? Certo, contribuiscono a non contenere l’aggressività ma sono solo elementi di sottofondo. Dietro questi fatti che, per gravità e mancanza di provocazione ci appaiono incomprensibili, c’è qualcosa di davvero drammatico. Queste persone, per una serie di cause e ragioni (relazioni familiari o di gruppo, modelli recepiti dai film e dai media) e non necessariamente per essere entrati in diretto contatto con gruppi violenti hanno interiorizzato una comunità fantasma violenta".

 

Che cosa significa?

"Che i loro comportamenti violenti sono in totale sintonia con quello che hanno interiorizzato. Comunità fantasma violente che si rafforzano quando scatta il meccanismo del branco, la sfida a chi è "più brutale. Così poiché non percepisco l’altro come una persona ma come una cosa da annientare la stupro, la sevizio, la brucio tanto per divertirmi, per assistere allo spettacolo".

 

Quali punizioni per i colpevoli, spesso minorenni? E perché lei punta sulla mediazione penale?

"Il nostro sistema penale minorile è ottimo, spetta alla sapienza del giudice valutare - caso per caso - quale strada imboccare. Il carcere, si è visto con Erika e Omar, è assolutamente necessario ma un carnefice non capirà mai fino in fondo il dolore che ha inflitto se, in un contesto gestito da esperti, non incontrerà in carne e ossa la sua vittima. Solo così potrà arrivare a sentirsi responsabile dello strazio che ha provocato".

Giustizia: 2.700 i detenuti romeni, costo 400mila euro al giorno

di Enza Cusmai

 

Il Giornale, 4 febbraio 2009

 

Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva lanciato l’idea subito dopo lo stupro di Guidonia: "Che vadano a scontare la pena nel loro Paese". Aggiungendo subito dopo: "Sarebbe vera solidarietà europea se la Romania accettasse che i connazionali scontassero la pena nelle loro carceri".

Il condizionale è stato utilizzato in modo appropriato. Già, perché se la collaborazione della Romania si misura con gli sparuti drappelli di poliziotti inviati in Italia per arginare i criminali della loro terra natia, allora non aspettiamoci nulla di più che parole di cordoglio a ogni crimine efferato commesso da membri di quella nazionalità.

I delinquenti romeni resteranno nelle nostre carceri, che costano alla collettività come degli hotel a quattro stelle. I numeri lo confermano. Per ognuno dei 58mila detenuti attualmente presenti nelle carceri italiane si spendono di media 144 euro al giorno. I romeni ospitati nelle nostre patrie galere sono attualmente 2.723. Una semplice moltiplicazione ci dice che la comunità criminale romena acciuffata e spedita in cella costa circa 400mila euro al giorno. I numeri sono scandalosi ma terribilmente reali.

Questo conteggio è stato fatto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulla base dell’ultimo bilancio per le spese generali che riguardano la gestione dell’intero settore carcerario. In realtà, dicono al Dipartimento, il vitto di un detenuto costa solo 3,13 euro più Iva al giorno. Il resto del costo di un detenuto va spalmato sulle mille voci che interessano il settore: agenti di polizia penitenziaria (più di 42 mila), amministrativi, edifici, controlli, trasferimenti, isolamenti.

Insomma i costi fissi, dicono al Dipartimento, rimarrebbero anche senza i romeni. Però si ridurrebbero in maniera significativa. Una delle nazionalità più "pesanti" da un punto di vista finanziario, infatti, è proprio quella romena, preceduta soltanto dalla marocchina.

Ma i reati commessi da questi ultimi sono di gran lunga meno sostanziosi da un punto di vista delle detenzione. I marocchini sono dediti al furto, al piccolo spaccio. I romeni ormai sono i primi in fatto di violenze sessuali, omicidi, rapine. I reati più odiosi da un punto di vista sociale che prevedono, dunque, sanzioni di lunga durata.

Prendiamo il caso giudiziario di Nicolae Romolus Mailat, il criminale che ha violentato e ucciso Giovanna Reggiani. Per lui pende sulla testa una pena di 29 anni. Facendo due conti, questo signore costerà alla collettività italiana un milione e mezzo di euro. E purtroppo le speranze che Mailat possa essere spedito in Romania a scontare la sua pena, sono irrisorie. È vero che esiste la Convenzione internazionale sul trasferimento delle persone condannate del 21/03/1983 ratificata sia dall’Italia sia dalla Romania. Ma l’articolo 3 precisa che questa eventualità vada concordata con il rappresentante legale della persona condannata. Insomma, solo se Mailat lo vorrà, dopo la sentenza definitiva, potrà spostarsi dal civilissimo carcere di Pesaro dove ora è rinchiuso, rinunciare a tutte le comodità che in questo momento gli offrono, per essere spedito in un luogo di detenzione romeno.

 

Teniamoli, là si rischia che restino impuniti

 

Mantenere i romeni che delinquono costa all’Italia, come documentato dall’inchiesta che pubblichiamo, quattrocentomila euro al giorno. Una cifra che, consistente in ogni caso, lo diventa ancor più in tempi calamitosi per l’economia. Acquista allora ragionevolezza l’idea di rispedire questi trasgressori della legge al loro Paese: sempre che il loro Paese s’impegni a far espiare in luogo le pene inflitte dalla magistratura italiana.

Non mi sogno nemmeno d’addentrarmi nei problemi di diritto nazionale e internazionale che da un accordo del genere potrebbero derivare,e che di sicuro indurrebbero gli esperti a stappare lo champagne. I casi complessi sono, per i dottori sottili, una manna: basta ripensare al tortuoso itinerario geografico e giuridico di Cesare Battisti. Quella di lavarsi le mani della grana rappresentata dalla criminalità romena è, per un’Italia già afflitta dai guai d’una giustizia indecente, una grossa tentazione. Io credo che alla tentazione sia opportuno resistere.

Per dirla in soldoni, qui si confrontano due aspetti della stessa questione. Da una parte una praticità sbrigativa e attenta al soldo consiglia di liberarsi degli stranieri indesiderabili, se i reati da loro commessi non sono della massima gravità, così decongestionando le cancellerie di Tribunali sommersi dai faldoni. Dall’altra parte sta l’esigenza di far capire, a stranieri e a italiani, che il crimine non paga, e che se uno viola la legge e viene identificato e arrestato, deve rimanere in galera per un tempo congruo.

Si potrà obbiettare che in galera ci rimarrebbe egualmente, ma in Romania. Non voglio aver l’aria d’anteporre la giustizia italiana - della quale penso tutto il male possibile - alla giustizia romena. Ma non stiamo parlando d’un Paese immune dalla corruzione e dal lassismo, presumibilmente accresciuti se si tratta di tenere in cella un connazionale che ha infranto la legge, ma fuori dai confini. Già lamentiamo le troppe scarcerazioni italiane, alcune delle quali gridano vendetta al cielo.

Temo che ne dovremmo registrare di ancor più scandalose - e senza che le nostre proteste avessero il minimo effetto - qualora i delinquenti fossero affidati alle autorità romene. Anche se l’espulsione dei criminali fosse in teoria limitata a reati cosiddetti minori, personalmente non mi sentirei tranquillo. Lo stupro - per il quale sono trovate mille scusanti, a cominciare da droga e ubriachezza - è minore o maggiore, e lo scippo in danno di anziani, e i furti nelle ville, e lo spaccio?

Lo so, sorvegliare i romeni, alloggiarli, sfamarli - in carceri che sempre scoppiano - impone alti costi e anche un maggior disagio per gli altri detenuti. Non c’è in questa circostanza un bene contrapposto al male. Ci sono due mali. Bisogna scegliere e, se toccasse a me, sceglierei la gestione in Italia dei condannati romeni. Che da questa prospettiva, visto l’andazzo nazionale, non sarebbero impauriti più che tanto.

Giustizia: la Lega ammorbidisce la "linea dura" contro i writers

 

Redattore Sociale - Dire, 4 febbraio 2009

 

Meno dure le sanzioni per i graffittari previste nel ddl sicurezza. La Lega ha ottenuto che il carcere sia previsto solo per chi imbratta cose di interesse storico o artistico. Negli altri casi ci sarà solo una sanzione pecuniaria.

Saranno meno dure le sanzioni per i writer (i graffittari) previste nel ddl sicurezza all’esame del Senato. Dopo settimane di mediazione con il governo, la Lega infatti ha ottenuto che il ‘pugno durò (cioè il carcere) sia previsto solo per chi imbratta o deturpa cose di interesse storico o artistico mentre in tutti gli altri casi ci sarà solo una sanzione pecuniaria. La questione in realtà non è però del tutto chiusa. Il Carroccio infatti è ancora in ‘pressing’ affinché nell’emendamento di riformulazione sull’articolo anti-writer (che era stato accantonato in attesa dell’accordo nella maggioranza) il governo, all’ultimo minuto, decida di non prevedere il carcere neanche per chi scrive sui monumenti o sulle pareti dei palazzi storici.

"Su questo stiamo ancora mediando- spiega il capogruppo della Lega in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Lorenzo Bodega - per noi il carcere è eccessivo. Comunque per ora abbiamo ottenuto che non sia previsto per chi scrive su un qualsiasi muro o sui ponti".

L’ultimo nodo da sciogliere per il governo rimane quindi se accettare in toto le richieste del partito di Umberto Bossi, che chiede solo sanzioni pecuniarie anche per chi imbratta monumenti (ovviamente in questo caso le pene pecuniarie sarebbero molto più pensanti di quelle stabilite per chi scrive su qualunque altra superficie cittadina che non abbia rilevanza storica o artistica). Il testo attuale dell’articolo anti-graffittari (che era stato fortemente voluto da Silvio Berlusconi) contenuto nel ddl sicurezza stabilisce: "Chi imbratta muri e mezzi di trasporto pubblici e privati rischia il carcere da uno a sei mesi e una multa da 300 a mille euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico la sanzione pecuniaria sale fino a un massimo di 3 mila euro e il carcere fino a un anno. Per i recidivi il carcere può arrivare a due anni e la multa fino a 10 mila euro".

Giustizia: Confsal-Unsa; per i lavoratori, una riforma condivisa 

 

Il Velino, 4 febbraio 2009

 

Si è svolto oggi, presso la Sala Verde del ministero della Giustizia, un incontro con il ministro Angelino Alfano sulle problematiche relative al personale del comparto ministeri facente capo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Il sindacato Confsal-Unsa è stato presente, oltre che con i suoi responsabili del Dap, anche con il segretario nazionale Massimo Battaglia, il quale ha evidenziato le difficoltà dei lavoratori dell’amministrazione penitenziaria che operano presso gli Istituti di pena per adulti e per minori. Inoltre il segretario nazionale ha sottolineato la atipicità di tutti i lavoratori penitenziari, che, con sacrificio e abnegazione, operano all’interno di tali strutture.

Allo stesso modo ha con forza messo in luce la grave situazione degli oltre 40 mila lavoratori giudiziari, che ormai da troppo tempo aspettano che, nei loro confronti, ci sia più attenzione sia sotto l’aspetto di una migliore condizione lavorativa, professionale, formativa e di sviluppo della loro carriera, ferma ormai da oltre 20 anni. Il segretario, congiuntamente ai responsabili della Cisl-Fp, ha anche chiesto al ministro la convocazione di un tavolo identico a quello odierno per i lavoratori dell’organizzazione giudiziaria, auspicando che l’amministrazione voglia procedere, in collaborazione con le organizzazioni sindacali, al varo di una seria riforma condivisa, che comprenda tutti i lavoratori.

Confsal-Unsa ha anche chiesto l’immediata ripresa della trattativa per il contratto integrativo, ancora al palo. Nella replica, dopo aver ascoltato tutti gli altri rappresentanti delle parti sociali, il ministro ha immediatamente chiesto al capo di gabinetto l’immediata convocazione, per la prossima settimana, di un tavolo per le questioni che riguardano i lavoratori della organizzazione giudiziaria.

Il segretario ha apprezzato le parole di grande apertura e di dialogo con le organizzazioni sindacali del ministro Alfano. "Riteniamo questo primo risultato molto importante - ha aggiunto il sindacato - per avere il ministro condiviso le nostre linee programmatiche, il metodo e il modo della nostra organizzazione sindacale. Confsal-Unsa si augura che alle intenzioni espresse dal ministro della Giustizia seguano concretamente i fatti, per poter addivenire alla soluzione delle annose problematiche che coinvolgono tutti i dipendenti del ministero della Giustizia".

Giustizia: Sappe; caso Olindo Romano è solo punta dell'iceberg

 

Il Velino, 4 febbraio 2009

 

Nei mesi scorsi il Sappe, sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, aveva dato i numeri sulla drammatica situazione di violenza che si consumava nelle carceri nazionali e pugliesi, senza che nessuno si preoccupasse più di tanto. "È bastato poi che il detenuto responsabile della strage di Erba aggredisse un poliziotto penitenziario nel carcere di Piacenza - dichiara in una nota il segretario regionale della Puglia Federico Pilagatti -, che subito si sono riaccesi i riflettori sulla drammatica situazione di violenza che si vive nelle carceri.

Purtroppo l’ordinarietà è qualcosa di molto più terribile, poiché racconta di episodi di protesta, di violenza, di sopraffazione giornaliera, che la Polizia Penitenziaria con coraggio, professionalità e sacrificio riesce ad arginare con fatica, mettendo a rischio la propria vita così come accaduto a Lecce (più volte), Bari, Foggia, Taranto, Trani e non risparmiando nemmeno gli istituti minori come Lucera e Turi per parlare solo dei casi accaduti e che accadono in Puglia. Il Sappe non può che ringraziare i poliziotti penitenziari che in questo bollettino di guerra riescono a garantire il rispetto delle leggi nonché mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno delle carceri garantendo nel contempo quei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione Italiana nonostante le gravi conseguenze causate dal sovraffollamento ormai prossimo alle 60 mila unità e con la Puglia che ha superato di parecchio le 3.600 presenze, a fronte di 2.300 posti disponibili".

"Tanto malessere - afferma ancora Pilagatti - è determinato dalla crisi della Giustizia che non risponde alle necessità di chi attende processi rapidi, al record di presenza di detenuti compresi gli stranieri (22 mila su una popolazione di 59 mila detenuti) a cui si contrappone una carenza di organici di Poliziotti Penitenziari che solo in Puglia è di oltre 500 unità; dalle gravi condizioni strutturali e igienico-sanitarie di cui è affetta la stragrande maggioranza dei penitenziari. La tensione è palpabile nelle carceri pugliesi dove il più delle volte i Poliziotti Penitenziari da soli nelle sezioni detentive con oltre 70, 80 detenuti cercano di contrastare tali fenomeni con coraggio e professionalità.

Purtroppo il più delle volte gli autori di tali episodi non vengono prontamente puniti come invece accaduto nel caso del detenuto famoso, e ciò alimenta nella popolazione detenuta animata da istinti polemici e violenti, la consapevolezza di poterla (tranquillamente) farla franca, istigando peraltro ulteriori atti di odio e violenza all’interno delle carceri. Ciò accade perché la macchina amministrative nelle carceri è lenta e farraginosa con la commissione interna di disciplina che il più delle volte si riunisce con ritardo (per una serie di motivi), con il risultato di far scadere, in molti casi, i termini per l’irrorazione di sanzioni ai detenuti colpevoli.

Il Sappe ritiene invece che la risposta in questi casi deve essere pronta, ferma, decisa, per questo chiede al ministro della Giustizia e al capo del Dap di porre un freno a questa inefficienza amministrativa che incoraggia gli atti di violenza contro il personale di Polizia Penitenziaria o contro gli altri detenuti disponendo a titolo precauzionale, l’applicazione automatica dell’art.14 bis dell’ordinamento penitenziario che prevede l’isolamento immediato, la restrizione dei colloqui, della corrispondenza, il trasferimento immediato ecc.

Il Sappe - conclude la nota - ritiene che il momento sia drammatico e quindi si evitino proclami poiché vi è la necessità di lavorare affinché la legalità e il rispetto delle regole siano le priorità altrimenti il sistema penitenziario esplode con conseguenze nefaste per tutti".

Giustizia: carceri minorili senza soldi e lo Stato paga solo il vitto

 

Redattore Sociale - Dire, 4 febbraio 2009

 

L’allarme del segretario dell’Associazione Magistrati per i Minorenni di Piemonte e Valle d’Aosta. Le carceri per i minori sono senza soldi. In futuro sarà garantito soltanto il vitto.

I tagli alle spese stanno creando gravi problemi agli istituti penali minorili. L’allarme viene dal segretario dell’Associazione Italiana Magistrati per i Minorenni e le Famiglie (Aimmf) di Piemonte e Valle d’Aosta, il magistrato Emma Avezzù.

"A fronte di una popolazione carceraria che, nel 2008, è stata per il 93% formata da ragazzi stranieri, i tagli - osserva il magistrato - non consentiranno di pagare i mediatori culturali che operano in carcere, e la cui presenza consente un minimo di comunicazione, anche linguistica, altrimenti impossibile". Infatti, le attività di aggiornamento professionale e quelle ricreative sono praticate solo grazie "all’intervento degli Enti locali; in sostanza, il Ministero può garantire solo il vitto dei giovani detenuti".

Tant’è, che le difficoltà della popolazione carceraria minorile sono già emerse in diverse circostanze nell’anno appena trascorso e proprio al Ferrante Aporti di Torino. "Mi chiedo come il Governo pensi di poter recuperare i minori senza ricorrere agli operatori culturali la cui presenza negli istituti è fondamentale per una comunicazione con i detenuti - ha detto, intervenendo sul tema, Andrea Buquicchio consigliere regionale dell’Idv -. Se già le attività ricreative sono a carico degli Enti locali, quali sono le competenze del Ministero? È evidente che con un impegno economico ridotto è impensabile mettere in pratica qualsiasi percorso di "umanizzazione" delle nostre carceri".

Lettere: carceri in condizioni incivili, governo abbia più coraggio

di Bernardo Aiello (Messina)

 

www.agoravox.it, 4 febbraio 2009

 

Sul problema delle carceri dobbiamo rilevare una novità assoluta: per la prima volta il governo ha parlato con franchezza del problema.

Ci è stato detto che le attuali strutture carcerarie sono fatiscenti ed insufficienti, ossia che servono nuove carceri che siano anche carceri nuove; perché non si possono porre i detenuti in condizioni lesive della dignità della persona. Ed ancora che parlare di indulto è senza senso: è evidente che l’indulto è una atto di clemenza dello Stato, mentre le iniziative per ovviare alle problematiche delle carceri sono atti dovuti. Insomma, nel Paese del Melodramma e della Sceneggiata, per la prima volta non si è fatta una "messa in scena"; e credo che tutti ci auspichiamo che la cosa si estenda per il futuro a tutta la vita politica nazionale.

Nel merito desideravo portare una testimonianza. Ho avuto modo di conoscere la Casa Circondariale della nostra città per avervi eseguito lavori di manutenzione edile con l’Impresa da me amministrata. Abbiamo lavorato prevalentemente nella sezione "cellulari", dove si trovano ristretti i detenuti più pericolosi, posti in due in ogni cella, ciascuna delle quali è stata sicuramente prevista per una sola persona. Fra intonaci cadenti e tubazioni marce, i letti a castello e i televisori portatili, i servizi igienici erano una semplice tazza ed un lavandino attaccati al muro; e sovente, mentre un detenuto mangiava da un lato, l’altro li utilizzava dall’altro.

Questo succede ancora mentre io scrivo al computer; e succederà anche quando quello che scrivo sarà letto. Forse il governo avrebbe dovuto avere più coraggio; e porsi un obiettivo da raggiungere a breve, quello di far pareggiare capienza e presenze; imitando per analogia quello che ha fatto Obama per risolvere il problema "Guantanamo".

Non credo debba essere molto difficile: esistono anche, e credo siano anche molto utilizzati, gli arresti domiciliari; magari con i braccialetti elettronici. Non vedo difficoltà insormontabili per gestire al meglio il non breve periodo necessario per la realizzazione di nuove carceri. E poi, dove è scritto che l’unica forma di pena debba essere la reclusione nelle carceri?

Milano: nasce un'agenzia per aiutare i detenuti a trovare lavoro

 

Il Cittadino, 4 febbraio 2009

 

Li abbiamo visti spalare neve a quintali in giro per Milano all’inizio di gennaio, forse gli unici felici, fra tante proteste, di aver messo mano a vanghe e badili. L’ immagine dei detenuti di Opera che liberano dalla coltre bianca le strade ha colpito davvero l’immaginazione, anche per contrasto con le molte immagini di segno inverso che non mancano mai.

Eppure da anni l’idea che i detenuti lavorino non rappresenta più un fatto così fuori norma: il binomio carcere-lavoro è un obiettivo stabile del sistema penitenziario italiano, che non può e non deve (lo dice la Costituzione, non il buonsenso) puntare tutto sulla repressione. E da ieri c’è anche l’Agenzia regionale lombarda per il lavoro penitenziario, patrocinata da regione, Unione delle province lombarde, Unioncamere, Anci regionale e dal Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria.

Il suo nome? Articolo 27, dal passo della Costituzione che impedisce alla reclusione di essere solo punitiva. Il nuovo ente non è differente, nella sostanza, dall’Agenzia per il lavoro ordinaria del Pirellone. Cambiano i compiti, che in questo caso saranno di formare un grande database con i nomi dei detenuti potenzialmente occupabili (8.252 quelli nella regione); e cercare occupazioni esterne o interne alle mura.

L’Agenzia, sia pur sperimentale, è unica in Italia e fra sei mesi si valuteranno i primi risultati. Articolo 27 è stata presentata ieri a San Vittore da Franco Ionta, presidente del Provveditorato regionale; Luigi Pagano, ex direttore dell’istituto milanese; Antonella Maiolo, sottosegretario alla presidenza della Lombardia. "Il lavoro dei detenuti rappresenta uno degli antidoti più forti alla recidività, al crimine "per mestiere" - hanno osservato le autorità - e se riducessimo grazie al lavoro l’1 per cento dei ritorni in carcere, risparmieremmo 51 milioni di euro all’anno in spese di ogni genere".

"Il lavoro, inteso anche come formazione in vista di un’occupazione, è sicuramente uno dei fattori che concorrono all’"umanizzazione" degli istituti di pena - commenta Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale di Lodi, che conta 95 detenuti e corsi di formazione interni per parrucchiere, carpentiere, muratore e addetto alle pulizie - anche se non è l’unico: accanto alla capacità, sicuramente, di saper fare qualcosa e disporre di un’autonomia economica potenziale, nel profilo psicologico del recupero sono estremamente importanti altri due aspetti. Il primo è il "sapersi muovere" nella società, in altri termini il senso di cittadinanza del detenuto prossimo alla fine pena. Ma soprattutto la ricostruzione degli affetti".

Roma: Bernardini; i pestaggi ai violentatori stanno continuando

 

Iris, 4 febbraio 2009

 

"Ho notizie che mi dicono che anche dopo la mia visita ispettiva a Rebibbia, i pestaggi ai danni dei responsabili della violenza di Guidonia stanno continuando".

Lo ha dichiarato Rita Bernardini, deputata radicale eletta nel Partito Democratico, intervistata da Aldo Torchiaro per Red Tv, a proposito dei presunti pestaggi in carcere ai quattro romeni arrestati per lo stupro avvenuto a Guidonia ai danni di una ragazza.

"La nostra visita di sindacato ispettivo - ha aggiunto Bernardini - non ha avuto alcun carattere solidaristico nei confronti degli autori del barbaro gesto di violenza di Guidonia, che ovviamente condanno nel modo più assoluto. Ma avere detenuti pestati, forse da altri detenuti, non è proprio di nessun Paese civile, ed è diritto-dovere dei parlamentari compiere ispezioni in materia". Alla domanda sulle responsabilità del caso Rita Bernardini ha risposto: "Esprimo soltanto un appello al direttore del carcere di Rebibbia, che è persona che stimo molto, affinché si faccia garante dei diritti di ciascuno".

Torino: presunti pestaggi; audizione Buffa in Consiglio regionale

 

Asca, 4 febbraio 2009

 

Nella seduta di oggi la vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte, Mariangela Cotto, ed il presidente della IV Commissione Sanità, Elio Rostagno, hanno preso la parola per segnalare la gravità delle notizie, uscite in mattinata sul maggiore quotidiano torinese, relative a violenze perpetrate ai detenuti della Casa circondariale Lorusso e Cotugno nella zona Vallette di Torino. Tali notizie hanno suscitato forte allarme e preoccupazione.

Per questo motivo si è svolta - durante la pausa tra le sessioni antimeridiana e pomeridiana dei lavori d’Aula - una breve riunione della IV Commissione che ha stabilito di convocare, con urgenza, una audizione con il direttore dell’istituto penitenziario torinese, Pietro Buffa, e con la Garante per i diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, Maria Pia Brunato.

Lo sconcerto dell’Aula è anche dovuto al fatto che la Commissione, soltanto pochi giorni prima, il 30 gennaio, aveva effettuato un sopralluogo al carcere delle Vallette dove era stata rilevata una situazione, non certo ottimale, ma migliore, rispetto a quella della media di analoghe strutture del resto d’Italia.

Crotone: interrogazione parlamentare sull'operato di direzione

 

Giornale di Calabria, 4 febbraio 2009

 

Angela Napoli, deputato del Pdl, ha presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per chiedere un’ispezione nel carcere di Crotone. "Nel mese di luglio del 2008 - è scritto nel testo - il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha diramato la circolare relativa alla "Remunerazione del lavoro straordinario al personale del Corpo di polizia penitenziaria", esercizio finanziario 2008.

La circolare, nel definire l’attribuzione del monte ore di lavoro straordinario per il 2008, richiama il personale dipendente "sulla programmazione e osservanza dell’orario di servizio settimanale, sulla necessità che il lavoro straordinario sia effettuato per comprovate ed inderogabili esigenze finalizzate al ripristino dell’ordine e della sicurezza, al rispetto della cadenza mensile di presentazione del prospetto analitico dei nominativi del personale e del numero delle ore prestate e da retribuire, con gli eventuali turni di riposo compensativi fruiti".

Per l’on. Napoli "nella Casa circondariale di Crotone ci sarebbe personale di Polizia penitenziaria, quale quello addetto alla manutenzione ordinaria fabbricata, sala regia, serre e laboratori vari, che effettua sistematicamente prestazioni di lavoro straordinario; ad esempio, nel mese di settembre 2008, vi é stato personale di Polizia penitenziaria, addetto a servizi non connessi alla sicurezza, che ha espletato ben 65 ore di prestazioni di lavoro straordinario. A seguito di ricorso ex art.28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, presentato da Ugl di Crotone, la direzione della Casa circondariale di quella città, in data 22 dicembre 2005, è stata condannata dal Tribunale per comportamento antisindacale; a seguito di ulteriore ricorso ex art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sempre presentato da Ugl di Crotone, in data 26 giugno 2007 la direzione della stessa Casa circondariale è stata nuovamente condannata per comportamento antisindacale".

"Nonostante le citate due ordinanze di condanna, emesse dal Tribunale di Crotone, e trasmesse al Ministero della Giustizia - prosegue l’interrogazione - la direzione della casa circondariale non ha modificato il comportamento antisindacale e non ha ricevuto alcuna sanzione; la direzione della casa circondariale di Crotone continua a negare alcuni diritti: programmazione turni di lavoro mensili, sistematico ricorso a prestazioni di lavoro straordinario, pur con una presenza di circa 60 detenuti, contro una presenza effettiva di personale di Polizia Penitenziaria di circa 90 unità. Appare, altresì, inspiegabile il numero delle unità di Polizia penitenziaria impiegata presso gli uffici e distolta dai compiti d’Istituto, sempre presso la Casa Circondariale di Crotone".

L’on. Napoli chiede al ministro "se non ritenga necessario ed urgente disporre un’adeguata ispezione nella Casa circondariale di Crotone al fine di accertare quanto sopra denunciato dall’interrogante e comprovato dalle ordinanze emesse dal Tribunale della città" e "quali urgenti iniziative intenda attuare nei confronti degli eventuali responsabili della gestione del personale di Polizia penitenziaria nella Casa circondariale di Crotone".

Teramo: detenuto con la Tbc; la direzione del carcere si difende

 

Il Centro, 4 febbraio 2009

 

La direzione del carcere di Castrogno risponde al Sappe sul caso di tubercolosi nell’istituto. Il sindacato si era lamentato del fatto che il detenuto romano ammalato sia stato messo in isolamento troppo tardi, causando pericolo di contagio per gli agenti di polizia penitenziaria e per il reclusi stessi.

Il direttore ricorda che il servizio sanitario ai detenuti è esclusiva di competenza della Asl. "Ogni detenuto all’atto dell’ingresso, sia dallo stato di libertà che da altro istituto, prima di ubicarlo nelle sezioni detentive, viene sottoposto a visita medica", scrive il direttore del carcere di Castrogno Gian Battista Giammaria.

Se il medico di turno - spiega il direttore - riscontra che il detenuto non può essere sistemato nelle sezioni detentive, ne richiede il ricovero in un idoneo luogo di cura. Nel caso segnalato dal sindacato Sappe il direttore osserva che il servizio medico svolto nell’istituto dalla Asl "ha disposto in via precauzionale che un detenuto venisse sottoposto ad isolamento sanitario, per effettuare una determinata terapia".

Il medico ha consigliato che il personale che prestava servizio a stretto contatto col detenuto indossasse la mascherina. E la direzione ha provveduto subito a fornirle al personale. In definitiva, dunque, la nota del direttore del carcere sottolinea l’"esclusiva" competenza della Asl nella diagnosi e nella cura dei reclusi, respingendo qualsiasi responsabilità in eventuali ritardi.

Nuoro: 120 detenuti tra i banchi della scuola, molti i diplomati

di Luciano Piras

 

La Nuova Sardegna, 4 febbraio 2009

 

I detenuti della prima sezione "usciranno" presto con una raccolta di racconti e fiabe per bambini. Cercano un editore disposto a scommettere su di loro e sui loro scritti. E forse lo troveranno. Certo è che il volume, a Badu ‘e Carros, si farà comunque. Soprattutto ora che dietro le sbarre cominciano a prenderci gusto con i libri, i quaderni e le penne.

Soprattutto adesso che i 120 "studenti" della Casa circondariale cominciano a capire che la scuola è una seconda opportunità da non perdere. Un treno che passa due volte. Del resto è proprio questa la filosofia del Ctp, il Centro territoriale per l’educazione permanente degli adulti: dare a tutti una seconda possibilità.

Dentro le carceri, come pure fuori. Il Ctp, infatti, è una struttura a disposizione di chiunque (italiano o straniero che sia) non ha assolto all’obbligo scolastico. La struttura, insomma, è rivolta a tutti coloro che, per un motivo o per un altro, hanno perso il primo treno. Il Ctp, poi, apre le porte anche a chi ha comunque voglia di allargare i propri orizzonti culturali. Unica condizione: essere adulti. Per potersi iscrivere al Centro e frequentarne le lezioni, bisogna perciò aver compiuto i 16 anni.

Ecco perché tra i banchi della scuola media "Maccioni", a cui fa capo l’istituzione, è facile trovare, nelle ore serali, ragazzotti che stanno per diventare maggiorenni, casalinghe sempre indaffarate, badanti romene che ce la mettono tutta pur di coniugare nel modo giusto i verbi, operai in cerca di un futuro migliore, muratori a caccia di una rivincita, vù cumprà alle prese con la grammatica, negozianti cinesi che continuano a ripetere "calo, tloppo calo" anche quando vorrebbero dire "caro, troppo caro".

A Nuoro sono 37 gli studenti del Ctp, 25 sono stranieri, con tanta voglia di conoscere la lingua e la civiltà italiane. Hanno un’età che va dai 17 ai 50 e passa anni, frequentano i corsi di alfabetizzazione primaria e le medie. Pluriclassi, in genere, dove non solo si "impara", ma si "cresce" anche, soprattutto all’insegna dell’integrazione multietnica. Una trentina, invece, sono gli studenti che frequentano le sedi di Siniscola e Irgoli.

È sul fronte del carcere, tuttavia, che il Centro territoriale di Nuoro registra i numeri più alti. A Badu ‘e Carros sono 40 gli alunni delle medie, 47 seguono i corsi di alfabetizzazione primaria e approfondimento culturale, altri 20 i corsi di idoneità. Nella Colonia penale di Mamone, invece, il totale degli studenti è di trenta, mentre nel carcere di Macomer sono 17. Uno di questi è laureato, in Lettere e filosofia. Molti dei detenuti-studenti sono già diplomati.

Eppure non sono soltanto rose e fiori quelle che spuntato nella scuola del carcere. A Badu ‘e Carros, per esempio, delle 22 donne detenute, 16 frequentavano le lezioni: per loro, tuttavia, i corsi sono stati bloccati. Causa: sovraffollamento del penitenziario.

A Mamone, invece, ogni settimana si fa un solo giorno di scuola anziché sei. Il corpo docente del Ctp, poi, non vanta certo grandi numeri. L’organigramma è composto da appena 13 insegnanti di ruolo (tre in meno rispetto all’anno scorso), tutti con esperienza pluriennale nell’educazione degli adulti e con competenze specifiche nell’insegnamento dell’italiano per stranieri. Nove sono docenti della scuola secondaria di primo grado, quattro della scuola primaria. A questi vanno aggiunti i volontari che prestano servizio nella Casa circondariale di Nuoro e che preparano i detenuti ad affrontare l’idoneità alle varie classi delle scuole superiori. -

Pordenone: nuovo carcere, per realizzarlo servono 20 milioni!

di Loris Del Frate

 

Il Gazzettino, 4 febbraio 2009

 

Si era mosso, insieme al collega Franco Dal Mas, per il nuovo ospedale di Pordenone. Oggi il consigliere regionale del Pdl, Antonio Pedicini, sarà a Udine dove farà sedere allo stesso tavolo l’assessore Vanni Lenna, il sindaco Sergio Bolzonello e il presidente della Provincia, Alessandro Ciriani. Motivo dell’incontro cercare un fronte comune per la realizzazione del nuovo carcere del capoluogo visti i tempi stretti nei quali si muoverà il commissario straordinario nominato dal Governo, Franco Ionta, che il compito di realizzare il piano per la costruzione dei nuovi istituti di pena necessari a fronteggiare l’emergenza carceri.

Due mesi per predisporre la mappa e individuare le modalità di finanziamento. Ecco, quindi, che l’incontro di oggi in Regione diventa fondamentale per capire se da Trieste arriverà un contributo (ovviamente si parla di accendere un mutuo) indispensabile per poter far fronte alla carenza di soldi pubblici. In pratica il Comune capoluogo e la Provincia si sono espressi in maniera chiara: entrambi gli enti sono disponibili a mettere mano al portafoglio. Un contributo che potrebbe arrivare a due milioni e mezzo.

Uno sforzo sostanzioso per i due Enti, ma certo non sufficiente a coprire le necessità. Lo Stato potrebbe mettere a disposizione circa 24 milioni di euro, gli stessi soldi che in un precedente incontro erano stati indicati per la riqualificazione della caserma di San Vito, dopo che gran parte della copertura era stata dirottata dall’allora ministro Clemente Mastella nel beneventano.

Come dire che la Regione dovrà fare la sua parte. In termini economici stiamo parlando di circa 18 milioni di euro. Anche in questo caso non mancano i problemi perché il presidente Renzo Tondo in più occasioni si era espresso chiaramente. In pratica il Governatore aveva spiegato che la Regione non può sostituirsi allo Stato e quindi le strade per reperire i finanziamenti dovevano essere altre. In ogni caso Tondo si era però detto disponibile a un confronto nel caso in cui tutti i soggetti interessati avessero fatto la loro parte.

L’incontro con l’assessore Lenna, quindi, diventa quasi una sorta di ultima spiaggia per il nuovo carcere di Pordenone. Difficile pensare, però, che l’esponente regionale possa esporsi con cifre, ma sarà comunque determinante capire se la Regione ha intenzione di impegnarsi direttamente. In ogni caso se Pordenone non sarà inserito nella lista che sta predisponendo il commissario Ionta potrà dire definitivamente addio a una nuova struttura e in quel caso il sindaco non potrà far altro se non rendere operativa l’ordinanza di chiusura dopo la richiesta dell’accurata ispezione da parte dei tecnici dell’Asl 6 eseguita nei mesi scorsi.

C’è però anche la possibilità che il nuovo carcere possa essere realizzato, così come l’ospedale, con la Finanza di progetto, coinvolgendo quindi i privati. Una formula che il ministro Angelino Alfano, aveva indicato come perseguibile. Ma c’è dell’altro. L’incontro di oggi diventa fondamentale anche perché il 10 febbraio, anche se la data non è stata ancora confermata, la delegazione pordenonese potrebbe essere convocata a Roma per l’iter sul nuovo carcere.

Sulmona: carcere in emergenza, Provincia chiede aiuto ministro

 

Il Centro, 4 febbraio 2009

 

All’allarme lanciato ieri dai sindacati sullo stato di emergenza al carcere di Sulmona, rispondono la Presidente della Provincia Stefania Pezzopane e l’assessore provinciale Teresa Nannarone, che chiedono un intervento immediato da parte del ministro della giustizia Angelino Alfano. "Scriveremo immediatamente al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per chiedere un intervento del Governo - si legge in una nota congiunta - per risolvere il problema della carenza di personale dell’istituto di pena di Sulmona".

"C’è un altro problema che va però necessariamente affrontato, quello dell’alta percentuale di detenuti con disagi psichici assegnata al carcere di via Lamaccio e che si riflette, quindi, anche sulla condizione di lavoro del personale penitenziario e sanitario in forza all’istituto di pena - proseguono - un problema, questo, da sempre all’attenzione della Provincia.

Nel 2005, infatti, l’Amministrazione provinciale, partecipò e cofinanziò anche la costituzione di un Osservatorio di esperti per studiare il profilo dei detenuti ed individuare il relativo percorso clinico e psicologico. Il carcere rappresenta un’importante realtà, parte integrante di questo territorio, con la quale abbiamo sempre collaborato ininterrottamente e continueremo a collaborare, anche in questo delicato momento. "Come in precedenza - aggiunge l’assessore Nannarone - sono a disposizione, anche con fondi del mio assessorato, per urgenze o emergenze che i sindacati vogliano evidenziare".

L’Aquila: 6 anni di carcere da innocente, ora non mi risarciscono

di Vittorio Perfetto

 

Il Centro, 4 febbraio 2009

 

Ha scontato quasi sei anni di carcere preventivo, dal 1980 al 1986, con l’accusa, poi caduta, di associazione di banda armata legata all’attività delle Br Giulio Petrilli, di Ortona dei Marsi, ma aquilano di adozione, oggi 50enne, sta conducendo una battaglia per essere risarcito.

Giulio Petrilli ha inviato una lettera al presidente della Commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli al presidente della stessa Commissione alla Camera, l’onorevole Giulia Bongiorno, e per conoscenza al presidente del Consiglio, Berlusconi, e al ministro di Grazia e giustizia, Angelino Alfano, chiedendo la retroattività della legge sul risarcimento per ingiusta detenzione. Petrilli ha scontato 5 anni e 8 mesi per la condanna in primo grado emessa dal tribunale di Milano nel 1980 e ha girato molte carceri italiane, tra cui alcune a regime speciale (San Vittore, Trani, Fossombrone - nelle Marche -, Ascoli Piceno), dove c’erano sezioni di isolamento, che oggi corrispondono al 41-bis, regime di carcere duro. Petrilli è stato assolto con formula piena nel processo d’Appello e in Cassazione, dove non è stata riconosciuta l’accusa di banda armata.

Ora Giulio Petrilli, ex Rifondazione comunista, che ora si riconosce in una "Sinistra garantista", ha intrapreso una battaglia legale perché la quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano, non gli ha riconosciuto il risarcimento per ingiusta detenzione, perché la legge è entrata in vigore tre mesi dopo l’emissione della sentenza definitiva (a luglio 1989 e la legge è dell’ottobre successivo).

"Chi ha subìto un’ingiusta detenzione con una sentenza emessa prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale, non può richiedere il risarcimento. È una norma che va cambiata", sostiene Petrilli, "estendendo il risarcimento anche a chi ha subìto l’ingiusta detenzione prima dell’entrata in vigore della legge, perché il carcere produce danni irreversibili e permanenti. Mi ha già risposto l’ufficio del ministro Alfano, dicendomi che prenderanno in esame il caso. Oltre a questo mio, ce ne sono altri", conclude Petrilli. La richiesta di risarcimento si basa sul massimale previsto dalla legge, ovvero 500 mila euro.

Cinema: "Mary per sempre", 20 anni dopo; intervista al regista

di Maria Corbi

 

www.innocentievasioni.net, 4 febbraio 2009

 

"Mery per sempre": sono passati vent’anni dall’uscita di quel film eppure basta inserire il dvd nel videoregistratore e guardare le prime scene per avere la sensazione netta che nulla è cambiato. E che se oggi si dovesse fare un altro film sulla realtà delle carceri minorili non ci sarebbe molto da cambiare nella sceneggiatura, nei caratteri, nel ritratto di quelle anime infelici che non trovano alcuna occasione di speranza sia dentro che fuori dalle sbarre.

Un film che non è stato possibile girare dentro al Malaspina nonostante il sì del direttore del carcere. Ma il rifiuto di un burocrate ministeriale ha prevalso perché "non si doveva disturbare troppo i ragazzi". Oggi Marco Risi, che sta girando "Forte Apache" un film sugli ultimi 4 mesi di Giancarlo Siani, il giovane giornalista ucciso dalla camorra, celebra con un po’ di distacco, come quello che ci si impone per pezzi di vita molto amati e sofferti, questo anniversario .

 

Allora, torniamo a vent’anni fa.

"Mery per sempre uscì a maggio con nostra grande preoccupazione perché erano gli anni delle commedie facili, del disimpegno. Il primo weekend andò molto male ma poi accadde qualcosa, un passaparola che riempì i cinema".

 

Come è nata l’idea?

"Mi hanno sempre interessato quei luoghi dove si vive in cattività. E poi sono intervenute una serie di coincidenze. Michele Placido lesse una recensione del libro di Aurelio Grimaldi sulla sua esperienza di insegnante al Malaspina di Palermo e ne parlò a varie persone, tra le quali Nanni Moretti, e infine Claudio Bonivento. Ma non era facile trovare i soldi per fare il film. Io intanto avevo letto il libro e scalpitavo, volevo farlo. Alla fine si stornarono un po’ di soldi dalla produzione tv "I ragazzi della terza C". Col risultato che Bonivento, che aveva comprato i diritti del libro, lo produsse da solo e fece anche un ottimo affare: con i successivi passaggi televisivi incassò molti soldi".

 

Che ricordo hai dell’atmosfera del Malaspina?

"Noi non riuscimmo a girare dentro la struttura anche se feci i sopralluoghi e individuammo un’ ala abbandonata che sarebbe stata un set perfetto. Avremmo così approfittato anche dei ragazzi come comparse. Il direttore e il sindaco Leoluca Orlando erano dalla nostra parte ma poi un funzionario del ministero decise che era meglio di no. Perché questo è un paese in cui è sempre meglio di no.

Molti degli attori erano comunque ragazzi di strada che avevano avuto esperienza di carcere.

Fu una battaglia. Per la parte di Pietro io non volevo Amendola ma lui era determinato, così venne con me a Palermo per fare i provini, si impegnò, prese lezioni di siciliano e alla fine ha avuto la parte. Il complimento più bello glielo ha fatto mio padre. Gli chiesi se gli era piaciuto Claudio e lui mi rispose: Quale era?. Era riuscito a integrarsi nel gruppo dei ragazzi siciliani".

 

Come furono i provini?

"Uno dei miei ricordi più belli. C’erano Francesco Benigno, Alessandra Di Sanzo, Roberto Mariano che, come il suo personaggio, aveva avuto un figlio quando era al Malaspina e quando c’era anche Aurelio Grimaldi come insegnante".

 

Mariano oggi non c’è più...

"È morto sull’aereo Milano-Zurigo proprio nei giorni in cui io giravo "Il Muro di Gomma" a Punta Raisi dove avevo tra le comparse la sua nuova compagna".

 

È cambiata la tua idea sul carcere da allora?

"In realtà continuo a credere che non serva per il recupero ma solo come pena, punizione. Il recupero è un’utopia anche perché quando uno esce dovrebbe trovare una possibilità. Invece spesso l’unica è quella di continuare a delinquere. Quando mia moglie Francesca D’Aloia girava "Piccoli ergastoli" a Rebibbia conobbi Nazareno, un detenuto che stava per uscire e che aveva passato tutta la sua vita in carcere. Lui mi raccontò della differenza tra il carcere italiano e quello olandese dove anche era capitato. Ad Amsterdam aveva trovato una psicologa bravissima che lo aveva aiutato molto. Sono le persone che fanno la differenza. E mi è rimasto impresso quello che Nazareno mi disse: che una delle differenze è nei rumori che, nelle carceri italiane, sono carichi di tensione, di dolore, di rabbia".

Teatro: Roma; i detenuti sul palco... per riflettere su San Paolo

 

Roma Sette, 4 febbraio 2009

 

"Non sono io forse libero?" è il titolo dell’opera portata in scena dalla compagnia "Il Ponte magico", formata da attori del carcere di Velletri. I costumi realizzati nel penitenziario femminile di Latina di Paolo Pegoraro

Ci sono ancora spettacoli che, pur nella loro povertà, riescono a scuotere con la nuda forza delle parole. Uno di questi è "Non sono io forse libero?", andato in scena nelle ultime settimane presso il Santuario Regina degli Apostoli e nella parrocchia dei Martiri Canadesi. Interpretazioni amatoriali, coreografia ridotta all’osso, elementari i costumi e la scenografia.

Eppure basta sapere che gli interpreti sono detenuti del carcere di Velletri per cominciare a guardarlo con altri occhi. Se poi si aggiunge che il copione è centrato sull’esperienza della prigionia vissuta da San Paolo, ci si rende conto di trovarsi davanti a qualcosa di davvero unico. Il testo è nato dalla riflessione dei detenuti che partecipano a un laboratorio teatrale su alcuni brani dell’epistolario paolino.

Molti si sono chiesti perché il Signore scelse proprio Saulo, un persecutore e un violento. Ma i temi affrontati dallo spettacolo sono tanti. Il credere nella possibilità di un cambiamento radicale. La sfida del pentimento, autentico o di comodo. Il giudicare gli altri. L’essere interiormente liberi anche in situazioni limitanti. Il significato della sofferenza o di una pena da scontare.

Il regista Antonio Lauritano conduce laboratori teatrali con detenuti dal 1993, ma solo nel 2006 è riuscito a fondare la compagnia "Il Ponte magico" presso il penitenziario di Velletri. "Ma l’obiettivo finale - racconta - è quello di poter avere, un giorno, una compagnia regionale delle carceri. Fondata sulla cooperazione. Con una parte attoriale a Velletri, una sezione costumi a Latina, un reparto scenotecnico a Latina, un laboratorio scenografico a Civitavecchia.

Perché troppe volte c’è una specie di chiusura nella chiusura, e ogni penitenziario pensa solo alle proprie attività. Ecco perché la nostra compagnia si chiama "Il Ponte magico": cerchiamo di far collaborare realtà apparentemente difficili da unire".

Un primo obiettivo lo hanno già raggiunto: i costumi sono stati realizzati dalle detenute del carcere femminile di massima sicurezza di Latina. Amalia Di Giorgio, educatrice, ci spiega poi quali sono i vantaggi pedagogici dell’attività teatrale: "In sezione il detenuto deve sopravvivere, quindi è facile che adotti delle strategie prevaricatrici.

Il teatro, invece, è un’esperienza aggregante, che fa cadere le sovrastrutture dei detenuti e fa nascere uno spirito di collaborazione. Ed è anche un’attività che insegna a rispettare delle regole - c’è il copione, ci sono dei ruoli - senza sopraffare l’altro. Insegna a sostituire leadership negative - se ci proviene dal crimine organizzato - con il rispetto per un’autorità positiva. Fa nascere l’apprezzamento per il lavoro dell’altro. E poi il teatro ti fa essere protagonista positivo quando invece, fino a poco fa, eri sempre stato l’eroe negativo. Scopri di essere capace di fare altro".

"Tutti istituti di pena che hanno al loro interno laboratori teatrali godono una migliore qualità della vita - ci assicura Giuseppe Makovec, direttore del carcere di Velletri -. Perché il teatro libera, mette in gioco, sviluppa la fantasia e la comunicazione. Fa riflettere sui grandi temi della vita. E questo ha un effetto a cascata non solo su chi partecipa attivamente alle attività teatrali, ma su tutto l’istituto".

Le prossime date dello spettacolo? Il 7 febbraio a Moricone e il 20 giugno a Terni. "Ma credo proprio che ce ne chiederanno altre", aggiunge Lauritano, con un tono che è qualcosa di più di una semplice speranza.

Diritti: campagna residenza anagrafica persone senza dimora

 

Asca, 4 febbraio 2009

 

Diritti, non schedature. La Fio.Psd lancia una campagna per il diritto alla residenza anagrafica delle persone senza dimora.

Tra poche settimane la vita delle persone senza dimora in Italia potrebbe essere ancora più difficile. Con la più che probabile approvazione del disegno di legge n.733, in discussione domani al Senato (ed entro 15 giorni alla Camera), verrebbe di fatto modificata la legge anagrafica del 1954 e ciò complicherebbe i percorsi di inclusione sociale delle persone gravemente svantaggiate.

In particolare, l’articolo 36 del decreto legislativo legherebbe il diritto alla residenza alla verifica, da parte degli uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui si intende fissare la residenza stessa. Oltre a creare seri problemi alle amministrazioni pubbliche, questo provvedimento renderebbe ancora più difficile per le persone in stato di grave emarginazione ottenere e mantenere la residenza anagrafica, di fatto escludendole dai più importanti diritti civili riconosciuti dalla Costituzione, tra cui l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale e l’accesso ai servizi sociali.

Non è tutto: l’articolo 44 prevede l’istituzione, presso il ministero degli Interni, di un registro nazionale per le persone senza dimora. Oltre a far intuire finalità di controllo, più che di reinserimento sociale, delle persone gravemente emarginate e senza dimora, il registro rischierebbe di separare l’iscrizione anagrafica dagli abituali luoghi di vita, con effetti imprevedibili sul reale accesso ai servizi da parte delle persone senza dimora. Un esempio? Se una persona senza dimora di Palermo dovesse avere qualsiasi tipo di problema, dovrà rivolgersi ai servizi sociali della sua città o direttamente a Roma?

"Nel caso delle persone senza dimora e in condizioni di emarginazione - dice il presidente di Fio.Psd, Paolo Pezzana -, tali provvedimenti costituirebbero un ulteriore grave ostacolo all’attivazione e alla realizzazione di percorsi di aiuto ed inclusione sociale, per i quali la residenza anagrafica è condizione necessaria, e rappresenterebbero, nei fatti più che nelle intenzioni, una volontà politica che loro (e chi di loro si occupa) vivrebbero certamente come persecutoria".

"Siamo consapevoli - prosegue Pezzana - che la legge anagrafica del 1954 necessita di una rivisitazione che sappia cogliere le nuove esigenze delle comunità e dei territori e della vita delle persone, e garantire sicurezza, trasparenza e prevenzione degli abusi. Proprio perché questi obiettivi, a cui tutti teniamo, siano raggiunti, deve trattarsi di una riforma organica, non di una mutilazione progressiva e non coordinata".

Alla luce di queste disposizioni, che stanno per essere tradotte in legge, la Federazione italiana organismi Persone senza dimora (Fio.Psd) lancia un appello al Parlamento affinché venga presa in considerazione l’ipotesi di stralciare gli articoli 36 e 44 del disegno di legge n. 733. L’appello è sottoscritto anche dalla rete dei giornali di strada italiani: Piazza Grande (Bologna), Scarp de’ Tenis (Milano), Terre di mezzo (Milano), Shaker pensieri senza dimora (Roma), Foglio di via (Foggia). Avvocato di strada Onlus partecipa alla campagna, e invita tutte le associazioni di volontariato che si occupano di persone senza dimora e di esclusione sociale, e tutti i privati cittadini, a unirsi e collaborare.

Per aderire: Fio.Psd. Vico San Luca 4/14. 14124 Genova (GE). tel. e fax + 39 010 246 10 96. mail: fiopsd@fiopsd.org.

Immigrazione: Cnca; le parole di Maroni sono gravi e pericolose

 

Redattore Sociale - Dire, 4 febbraio 2009

 

Secondo il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza "la Lega Nord, e l’intero Governo, sono incapaci di affrontare la sfida dell’immigrazione. L’Italia non ha elaborato, né sta elaborando, alcuna politica dell’immigrazione".

Il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) considera "gravi e pericolose" le affermazioni fatte ieri dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, secondo cui "per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge". Per il ministro "questi (gli immigrati) vengono perché è facile arrivare e nessuno li caccia. Ma proprio per questo abbiamo deciso di cambiare musica".

Afferma il Cnca: "Stupisce il fatto che tali, bellicose, affermazioni siano pronunciate proprio mentre una persona di nazionalità indiana è stata data alle fiamme da un gruppo di giovani italiani, restando ancora oggi sospesa tra la vita e la morte. Stupisce che questo modo ‘cattivò di contrapporsi a persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, cercano solo di sbarcare il lunario e non rappresentano un pericolo sociale sia espresso dall’esponente della Lega Nord che è responsabile, per incarico istituzionale, proprio del mantenimento dell’ordine pubblico".

"Al ministro Maroni vorremmo far presente alcune cose - afferma Lucio Babolin, presidente del Cnca -. È la Lega Nord che continua a equiparare clandestino e criminale, dimenticando oltretutto che i regolari e gli irregolari non sono due categorie rigidamente distinte, visto che è continuo il passaggio all’uno all’altro gruppo. È la Lega Nord che dimentica che è quasi impossibile entrare legalmente nel nostro Paese. È la Lega Nord che ha chiesto di non accogliere più immigrati regolari nel nostro Paese per la crisi economica in atto. È la Lega Nord che pretende che medici e infermieri dei pronto soccorso si trasformino in spie denunciando i clandestini alla polizia.

È la Lega Nord, e questo Governo, che hanno sottoscritto un patto con Gheddafi che, in cambio di cinque miliardi di dollari, dovrebbe fermare, con qualsiasi mezzo le autorità libiche riterranno opportuno, l’arrivo dei migranti in Italia da quel territorio". "La verità - conclude Babolin - è che l’Italia non ha elaborato, né sta elaborando, alcuna politica dell’immigrazione, come giustamente ha notato Beppe Pisanu nella lettera al Corriere della Sera. Un errore madornale che è contrario non solo ai nostri principi giuridici e morali più alti - la nostra culturale, di cui spesso si blatera a destra - ma anche allo stesso interesse economico del Paese.

Pattugliare il Mediterraneo d’accordo con un Governo che non rispettata i più elementari diritti umani, schierare l’esercito, eliminare panchine, portare maiali sui terreni dove dovrebbero sorgere moschee non ci aiuterà ad affrontare una delle sfide più importanti che hanno di fronte i Paesi occidentali. Ma certo renderà peggiori la qualità della nostra democrazia, il clima che si respira nel Paese, noi stessi".

Immigrazione: punti salienti trattato ratificato tra Italia e Libia 

 

Redattore Sociale - Dire, 4 febbraio 2009

 

Il Senato ha dato il via libera definitivo ieri al disegno di legge di ratifica del Trattato firmato a Bengasi il 30 agosto 2008. Previsto un sistema di pattugliamento e controllo dei confini terrestri della Libia da parte dell’Italia.

L’aula del Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge di ratifica del Trattato di cooperazione tra Italia e Libia, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il leader libico Gheddafi. Si chiude così un contenzioso che risale all’epoca coloniale. I sì sono stati 232, i no 22, gli astenuti 12. A favore hanno votato Pdl, Lega, Pd ed Mpa. Contrari Udc, Idv e i senatori radicali eletti nelle liste del Pd. Ecco i punti principali dell’accordo che si compone di un preambolo e di 23 articoli.

Preambolo. Con la sottoscrizione dell’intesa si chiude definitivamente "il capitolo del passato" per il quale l’Italia esprime rammarico "per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione". Inoltre, Roma e Tripoli si impegnano a non usare il proprio territorio per attività ostili nei confronti dell’altra parte, al rispetto dei diritti umani e alla soluzione pacifica di ogni controversia.

Infrastrutture, iniziative speciali ed esuli. L’Italia si impegna a realizzare in Libia progetti infrastrutturali per una cifra complessiva massima di 5 miliardi di dollari nell’arco di venti anni. I fondi, che saranno gestiti dall’Italia e con l’intervento di aziende italiane per la realizzazione dei progetti, prevedono la costruzione di 200 abitazioni (i terreni saranno forniti dalla Libia), e una serie di iniziative speciali, tra cui, l’assegnazione di 100 borse di studio universitari e post-universitarie a studenti libici, cure presso istituti italiani di vittime dello scoppio di mine in Libia, il ripristino del pagamento delle pensioni di guerra a titolari libici (civili, militari e loro eredi), la restituzione di manoscritti o reperti archeologici trasferiti in Italia durante l’epoca coloniale. Dal canto suo, la Libia si impegna a concedere i visti di ingresso a quei cittadini italiani espulsi in passato (prima del 1971) dal proprio territorio e che intendono rientrare per motivi di turismo, lavoro o altre finalità. Verrà costituito un fondo sociale per finanziare alcune delle iniziative speciali.

Indennizzo per gli esuli. Per il triennio 2009-2011, il governo italiano si impegna a pagare 150 milioni ai cittadini o enti italiani espulsi dalla Libia prima del 1971.

Partenariato bilaterale. Sarà un partenariato bilaterale ad adottare tutti quei provvedimenti necessari all’attuazione di quanto previsto nel Trattato. I due Paesi si impegnano a intensificare la cooperazione scientifica, culturale, economica ed industriale, medica, universitaria ed energetica. Previste consultazioni politiche con riunioni annuali tra Capi di governo e ministri degli Esteri.

Immigrazione clandestina, terrorismo. Il contrasto all’immigrazione clandestina prevede un sistema di pattugliamento e controllo dei confini terrestri della Libia da parte dell’Italia. Il costo di questa operazione sarà per metà italiana mentre per l’altra metà verrà chiesto un contributo all’Unione europea. Italia e Libia si impegnano anche a intensificare la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti. C’è l’impegno a sviluppare la collaborazione anche nel settore della Difesa tra le rispettive Forze armate.

Giornata amicizia italo-libica. A partire da quest’anno il 30 agosto, giorno della firma del Trattato di Bengasi, viene considerato nei due Paesi la "Giornata dell’amicizia italo-libica".

Immigrazione: Fortress Europe; sono almeno 28 i "centri" in Libia

 

Redattore Sociale - Dire, 4 febbraio 2009

 

Le condizioni sono pessime: scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. E non mancano i decessi, dovuti per lo più all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri tardivi.

Quanti sono i centri di detenzione degli immigrati in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, l’osservatorio Fortress Europe ne ha contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi.

Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah, prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti.

Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata sostituita dal Twaisha, un’altra prigione vicino all’aeroporto.

Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro e ha pensato all’Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora l’hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti alla chiesa di San Francesco, a Tripoli.

Come ogni venerdì, una cinquantina di migranti africani aspetta l’apertura dello sportello sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se gli fu dato un avvocato d’ufficio. Sorride scuotendo la testa. La risposta è negativa.

Niente di strano, sostiene l’avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell’ordine degli avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza nessuna base legale dunque, ma solo sull’onda dell’emergenza. Anche in Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un mandato d’arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.

Spagna: metà dei Centri per "minori a rischio" sono come lager!

 

Ansa, 4 febbraio 2009

 

Celle di isolamento "realmente atroci", buchi dalle pareti nere e senza finestre, per detenzioni "a tempo indeterminato". Contenzioni fisiche "varie volte al giorno" con "un’aggressività sproporzionata". Perquisizioni "con nudi integrali ingiustificati".

"Atrocità pseudoscientifiche di esperti che giustificano l’uso di celle medievali" per annullare la resistenza del detenuto. Non è un rapporto da Guantanamo ma della realtà quotidiana in almeno la metà dei centri per minori a rischio spagnoli ispezionati dal Difensore del Minore, Enrique Mugica.

L’agghiacciante dossier, presentato da Mugica, che ha visitato 28 dei 58 istituti esistenti in Spagna, ha shoccato il paese, fatto insorgere l’Unicef e indotto il governo a ordinare un’indagine a livello nazionale. Intanto, alcune comunità autonome come quella di Valencia, hanno aperto in fretta e furia inchieste nei centri "incriminati", in gran parte gestiti da istituzioni private sovvenzionate.

È il caso della Fondazione "O Belen", che gestisce 8 dei 28 centri ispezionati, descritti dal Difensore del minore come autentici lager. Il recente suicidio di un ragazzino marocchino di 13 anni e il tentato suicidio di un 12enne hanno portato alla luce la situazione. Il ministro dell’educazione ha annunciato che porterà il rapporto a conoscenza della Procura generale dello Stato perché apra un’inchiesta generale.

Birmania: graziato un italiano condannato a 25 anni per droga

 

Ansa, 4 febbraio 2009

 

Per il sospetto di aver detenuto quindici grammi di eroina era stato condannato a quindici anni di carcere e cinque di lavori forzati da un Tribunale del Myanmar, l’ex Birmania; poiché non aveva il visto su passaporto, aveva avuto un’altra condanna a cinque anni con altrettanti di lavori forzati.

La disavventura è capitata a un comasco di 34 anni che, nei mesi scorsi, è stato "graziato" dai giudici birmani, a condizione che fosse espulso, ed è potuto tornare a casa. Claudio F. era stato arrestato il 2 febbraio del 2007 in un hotel con altre due persone ed era stato condannato al termine di due processi che i suoi genitori non esitano a definire piuttosto sommari. Attraverso i canali diplomatici suo madre e suo padre hanno quindi ottenuto che fosse graziato ed è potuto tornare a casa dopo alcuni mesi di carcere.

Nel frattempo, però, era stato avviato dalla giustizia della Birmania l’iter per il riconoscimento delle due sentenze e, nelle settimane scorse, il Ministero della Giustizia italiano ha trasmesso alla Procura generale di Milano i due provvedimenti affinché, poi, la Corte d’appello valutasse la loro efficacia. Un iter il cui proseguimento, probabilmente, non sarà più necessario.

 

 

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