Rassegna stampa 15 settembre

 

Giustizia: avanti tutta con la "sicurezza zero" a colpi di slogan

di Gianluca Di Feo

 

L’Espresso, 15 settembre 2008

 

Avanti tutta, a colpi di slogan. Il piano del ministro Angelino Alfano per espellere 3.300 detenuti stranieri? Ottimo. Ma ci vorranno parecchi anni: in tutto il 2007 ne sono stati espatriati solo 282, mentre nel primo semestre 2008 se ne contano 158. Il progetto del Guardasigilli per mandare ai domiciliari quattromila reclusi italiani con il braccialetto elettronico? Interessante. Peccato che si potrà concretizzare dopo il 2010: il governo Sarkozy, evocato come riferimento da Roberto Maroni, punta a metterne in funzione al massimo 2.500 l’anno. E in Francia hanno già completato i test su un apparecchio di ultima generazione, mentre noi dovremmo partire praticamente da zero. Intanto i penitenziari scoppiano, l’effetto dell’indulto è svanito da un pezzo ma esecutivo e legislatori continuano a navigare a vista, tra effetti speciali e operazioni-spot come quella dei soldati nelle strade. Presto sarà inevitabile ricominciare a discutere di un nuovo provvedimento per svuotare le celle, senza essersi nemmeno resi conto di quale sia stato l’effetto delle 25.813 scarcerazioni dell’estate 2006. E di quale sia il reale stato della sicurezza in Italia.

 

La statistica ignorata

 

Eppure oggi ci sono nel nostro paese almeno quattro pool di ricercatori universitari capaci di fornire indicazioni scientifiche: parametri oggettivi per orientare decisioni e investimenti. A Torino, a Sassari, a Napoli, in Lombardia gruppi di analisi studiano i problemi e le possibili risposte con strumenti importati dai paesi anglosassoni. Arrivando a conclusioni sorprendenti sui danni. Il punto di partenza è proprio l’ultimo indulto.

In estrema sintesi? Agli italiani è costato complessivamente tre miliardi di euro. I soli costi sociali per la sicurezza negata, ossia il picco di crimini successivo, sono di due miliardi. Peggio: la detenzione non ha nessun risultato rieducativo e ha anche perso l’ effetto deterrente: più stanno in cella, meno hanno paura di tornarci. Così tre progetti scientifici, condotti da economisti, arrivano all’identico desolante risultato: l’unica soluzione concreta è costruire più prigioni. Quello che stanno facendo, tanto per restare al modello evocato da Maroni, in Francia: 13.200 nuovi posti tra le sbarre.

La situazione appare drammatica. E pare destinata a peggiorare, con la demotivazione delle forze dell’ordine. I dati ufficiali del primo semestre 2008 illustrano un naufragio. Se si considerano gli stranieri, percepiti come i protagonisti dell’allarme sicurezza, le statistiche mostrano il fallimento dell’azione repressiva mentre non esistono iniziative di rieducazione. Dei 6.075 processati per direttissima, la metà è uscita dal carcere entro tre giorni: solo 835 sono rimasti in cella per un mese. Questo significa una sostanziale impunità, senza nessun risultato nel contrasto del crimine, né come deterrente, né come impedimento.

In più c’è la beffa per l’apparato statale. Ogni processo richiede un impegno di due agenti per 12-18 ore, quattro trasferimenti in auto, più le spese del giudizio e quelle della custodia pari a circa 100 euro al giorno. Anche se l’arresto è in flagranza, l’immigrato deve essere condotto nei centri della polizia scientifica - uno in ogni capoluogo di provincia, con inevitabile coda - per l’identificazione delle impronte digitali e poi riportato al commissariato dagli agenti che lo hanno fermato. La mattina dopo i due poliziotti devono anche testimoniare in Tribunale: per loro quell’arresto significa ore di straordinario che non incasseranno mai. Per la collettività quell’arresto è un costo diretto che supera i mille euro. E che viene vanificato in 72 ore. Così anche al più determinato degli investigatori passa la voglia. Non è un caso se, in molti quartieri, le volanti evitano iniziative 60 minuti prima della fine turno: mettere le manette significherebbe buttare via decine di ore e far spendere allo Stato, senza aumentare la sicurezza.

I dati ufficiali sui reclusi fotografano una dinamica impazzita. Limitandosi agli stranieri, da gennaio a giugno novemila sono finiti nelle prigioni: l’85 per cento c’è rimasto meno di sette giorni, un altro 12 per cento è uscito entro sei mesi. In pratica, la detenzione dura più di una settimana solo per chi è accusato di omicidio, rapina, traffico di grandi quantità di droga. Ma soltanto i presunti assassini vengono reclusi a lungo: per tutti gli altri il penitenziario diventa un master di perfezionamento criminale. Con un costo sociale mostruoso. Applicando a queste detenzioni rapide l’analisi dei professori Giovanni Mastrobuoni e Alessandro Barbarino del Collegio Carlo Alberto di Torino, L’espresso è arrivato a ipotizzare un costo sociale di 100 mila euro per ogni rilascio lampo.

 

Il modello americano

 

Mastrobuoni, che si è formato a Princeton, e Barbarino, che dopo gli studi a Chicago è entrato nello staff della Federal Reserve di Washington, sono i giovani economisti che hanno realizzato la ricerca più discussa. Il loro saggio sugli effetti dei duecento provvedimenti di clemenza dal 1865 a oggi è un trattato scientifico con conclusioni spietate. Nell’ultima revisione, pubblicata la scorsa settimana, formulano ‘una stima molto al ribasso dei costi sociali dell’indulto 2006: due miliardi di euro. "È molto al ribasso perché non abbiamo trovato indicatori sull’impatto di alcuni reati fondamentali come quelli legati alla droga", spiega Mastrobuoni. Per ogni detenuto rimesso sulla strada la collettività si è fatta carico in un anno di danni per 146 mila euro mentre tenerlo dentro ne sarebbe costati 46 mila. I due professori sostengono che la popolazione carceraria è sotto il livello necessario: in pratica, le condizioni italiane imporrebbero di tenere più delinquenti in galera. "Meglio quindi costruire più penitenziari", concludono. Un moto forcaiolo? Allo stesso risultato sono arrivati i loro colleghi di Napoli e Sassari: "Non è un attacco ai principi di libertà, ma solo prendere atto delle condizioni in cui ci troviamo", commenta il professore Riccardo Marselli. Il team torinese va oltre. E suggerisce di "ridurre l’impatto dei provvedimenti di clemenza con procedure selettive, non scarcerando chi potrebbe commettere reati più socialmente costosi". Che non sono, come si potrebbe pensare, le rapine in banca - ultime - ma le frodi e le falsificazioni, seguite da omicidi e furti d’auto.

Altri tre giovani studiosi si sono mossi per capire quanto l’indultone abbia influito sulla deterrenza. Francesco Drago della Parthenope di Napoli, Pietro Vertova della Bocconi e Roberto Galbiati, ora emigrato al Cnrs francese, hanno determinato una recidiva del 12 per cento nei primi mesi, salita ora al 33: un terzo dei rilasciati è tornato a delinquere. Ma soprattutto hanno dimostrato che chi rimane più a lungo in galera è anche chi la teme meno. È la morte della rieducazione, il compito assegnato al sistema penitenziario dalla Costituzione: oggi le prigioni servono solo a isolare i criminali.

 

Il prezzario del danno

 

Ci si aspetterebbe che commissioni parlamentari, ministri e sottosegretari facciano a gara per accaparrarsi studi e ricercatori del genere. Invece nulla. Il pool di economisti di Sassari che sta cercando di stimare il costo reale del crimine ha contatti internazionali, ma registra il disinteresse delle istituzioni. "Di fatto ci ignorano. Sono impegnati a inseguire l’emergenza mediatica del momento", ammette il professor Marco Vannini. "Non c’è interesse. Qualche parola di circostanza ma nessuno mostra la coerenza di cercare strategie. Noi possiamo delineare linee razionali, ma affidarsi ai luoghi comuni è più semplice", gli fa eco Marselli dell’ateneo Parthenope. Il suo discorso è semplice: la deterrenza si basa su tre pilastri (forze dell’ordine, magistratura, penitenziari). Come si fa ad intervenire solo su uno? Marselli porta avanti un’impresa titanica: valutare la produttività nel nostro sistema sicurezza. Un lavoro che integrerà la ricerca sassarese per definire un prezzario dei reati.

"Noi cerchiamo di quantificare tutti gli aspetti diretti e indiretti, inclusa la paura", illustra Vannini: "C’è il costo in previsione, spese per antifurto, protezione e l’incidenza del cambiamento delle abitudini. Poi c’è il danno: la razzia e le conseguenze sulla vittima. Infine, le spese in risposta al crimine: indagini, arresto, processo e detenzione". Una mappa rivoluzionaria, che include la distorsione dell’economia: quanti capitali, per esempio, fuggono a causa delle mafie. E cerca di dare forma alla massa di delitti non denunciati.

La ricerca durerà ancora cinque mesi. I primi risultati provvisori, mostrano la morsa del crimine sulla società italiana: 30 miliardi di euro. Sulla bilancia pesa la paura. Ogni rapina in banca frutta mediamente mille euro. Ma la somma degli investimenti in previsione (protezioni e vigilanza) e in conseguenza (indagini, processi, detenzioni) la trasforma in una perdita per la società di 300 mila euro. E ogni colpo nelle case con finestre antiscasso, porte blindate, sirene e tanta angoscia degli inquilini significa 16.400 euro bruciati. Quanto potremo andare avanti così? O forse c’è chi preferisce mantenere viva la paura per farne strumento di governo?

Giustizia: paga dimezzata, pm "onorari" scioperano a oltranza 

 

La Stampa, 15 settembre 2008

 

Scippi, rapine, furti in abitazione, droga, reati dei clandestini, in pratica tutto il pacchetto sicurezza voluto dal governo, da domani potrebbe non valere più nulla. Solo carta. È inutile che polizia e carabinieri si dannino l’anima se poi in tribunale nessuno perseguirà più questi reati. E il rischio è altissimo. I magistrati onorari, che sono quelli che seguono questo genere di reati e che in Italia sono la bellezza di 8.354 (pm e giudici sono 9.073) hanno deciso di proclamare uno sciopero a oltranza. Dal 6 ottobre non varcheranno più la soglia dell’aula.

Lo faranno per cinque giorni e poi andranno avanti fino a quando - dicono - "non riceveremo la retribuzione che la Costituzione riconosce a tutti i lavoratori in proporzione alla quantità e alla qualità del nostro lavoro". La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la circolare del Dipartimento Affari di Giustizia del 4 settembre scorso che ha di fatto dimezzato la loro paga. Non lo stipendio, la paga, perché gli onorari sono lavoratori a cottimo. Ovvero vengono retribuiti a udienza. Non sono dipendenti del ministero della Giustizia, niente malattia, niente ferie, niente maternità. Se uno di loro malauguratamente rimane incinta, op- pure si fa male, viene semplicemente lasciato a casa. Sono laureati, operatori del diritto e sostituiscono pm e giudici. Il tutto per 73 euro a udienza.

Una paga da fame. Eppure sono diventati fondamentali. Se scomparissero, i tribunali si bloccherebbero. Quando ancora era procuratore capo di Torino, Marcello Maddalena aveva addirittura scritto al Capo dello Stato Giorgio Napolitano sostenendo che non solo sono utili, ma fondamentali: perché si occupano della criminalità spicciola, che magari non finisce sui giornali o in televisione ma che coinvolge la moltitudine dei cittadini, ma anche perché "permettono all’Italia di evitare qualcuno delle infinite multe dell’Unione Europea per aver sforato la ragionevole durata dei processi". E migliorata la situazione? Sembra di no, anzi. Quando scriveva il procuratore Maddalena la retribuzione media mensile era di circa 900 euro. Oggi, dopo la circolare, chi lo sa.

Paola Bellone, che è componente nazionale della Federmot, la federazione che raccoglie i precari della giustizia e che ha proclamato lo stato d’agitazione, dice: "È il terzo anno che, al ritorno dalle vacanze, il governo pensa bene di tagliare la nostra busta paga. Ma adesso basta, ci hanno preso in giro per troppo tempo". Non ha tutti i torti. Fino a qualche tempo fa i magistrati onorari percepivano un’indennità di 73 euro per l’attività svolta in udienza e 73 euro per quella fuori (compilazione lista testi, studio dei fascicoli, notizie di reato...). La cifra è la stessa dal 2001, senza che ci sia nemmeno stata la rivalutazione Istat. La media nazionale del ritardo nei pagamenti è di due mesi, ma in alcuni casi si arriva anche a sei. E stato il ministro Bersani, a un certo punto, a stringere i cordoni della borsa: l’attività fuori udienza non doveva più essere retribuita.

Per fortuna un’interpretazione della legge ha permesso ai magistrati onorari di ottenere la cosiddetta doppia indennità in udienza (per intenderci il processo per rito abbreviato pagava 73 euro, a cui se ne aggiungevano altrettanti se finiva con un patteggiamento), ma con un limite di accumulo di una volta al giorno. I magistrati onorari hanno visto in questo la possibilità di chiedere anche gli arretrati. Ma per quanti anni? Il governo ha nicchiato, promettendo chiarezza. E nel frattempo i tribunali, che non potevano restare senza attività fuori udienza dei magistrati onorari, hanno chiesto un gesto di buona volontà: sebbene non retribuito, quel lavoro andava svolto. Gratis. Gli onorari si sono sacrificati, sperando in un occhio di riguardo al momento del conteggio degli arretrati. La questione doveva essere risolta in settembre. E invece è arrivata la doccia fredda: la nuova circolare ha stabilito che non è dovuta nemmeno la doppia indennità.

E a questo punto il sistema è scoppiato. A Torino i magistrati onorari hanno già smesso di compiere attività fuori udienza (non pagata) e non hanno dato la disponibilità a svolgere udienze: "Dobbiamo trovarci un altro lavoro che almeno venga retribuito per riuscire a pagare affitto e bollette".

Dal 6 partirà lo sciopero e si annuncia tempesta. "Vogliamo capire che tipo di Giustizia vuole questo governo dichiara la Bellone - Vuole tutti i pm in aula a occuparsi del romeno che ha dato false generalità e magari tralascia l’inchiesta di mafia? E dove sta il giusto processo, la parità tra accusa e difesa? Il magistrato onorario percepisce 73 euro a udienza, magari con 20 fascicoli. In quella stessa udienza magari lo Stato paga il gratuito patrocinio a tre avvocati che hanno solo un fascicolo: 210 euro a testa".

Giustizia: su riforma, riflessioni e proposte da "Radio Carcere"

 

www.radiocarcere.com, 15 settembre 2008

 

Nel 2007 sono state pronunciate 144.000 sentenze che hanno dichiarato la prescrizione. Le riparazioni per ingiusta detenzione (custodia cautelare illegittimamente disposta) sono costate allo Stato, nel 2007, 29 milioni di euro. I detenuti in stato di custodia cautelare sono 29.500. Le intercettazioni di comunicazione sono state nel 2007: 124.845 e sono costate 224 milioni e 300 mila euro.

La durata media di un processo è di sei anni. I processi più complessi durano addirittura decine di anni. Dati inequivocabili. Dati che dimostrano il non funzionamento del processo penale.

L’irragionevole durata ha portato alla sostituzione della pena con la misura cautelare, che è divenuta una vera e propria condanna. La scelta della misura cautelare è solitamente fatta in ragione della gravità del reato o della fondatezza dell’accusa e non in ragione delle esigenze cautelari da soddisfare.

I numeri delle presenze in carcere e la lettura dei provvedimenti che dedicano ampio spazio ai gravi indizi, alla colpevolezza e poche righe all’esigenze, non lasciano spazi alla discussione. Processo cautelare al posto del processo ordinario. Diritti costituzionali, quali presunzione di non colpevolezza e libertà personale, violati. Errori giudiziari necessariamente moltiplicati. Processo prima del processo che, riversato sugli organi di stampa dimenticando la presunzione di non colpevolezza, realizza una presunzione di colpevolezza che neanche una pronuncia di proscioglimento nel merito riesce a superare.

Presunzione di colpevolezza rafforzata dalla pubblicazione del materiale accusatorio tra cui le intercettazioni di comunicazioni, le quali in questo modo vengono utilizzate per finalità estranee al accertamento processuale, unico motivo che giustifica la limitazione del diritto alla riservatezza. Intercettazioni i numeri delle quali fanno dubitare circa un corretto utilizzo. Due i presupposti: gravi indizi di reato e assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini.

La realtà giudiziaria ci consegna un uso dello strumento investigativo finalizzato non a proseguire le indagini, ma alla ricerca di nuove notizie di reato. L’investigatore le utilizza come una rete da pesca, nella speranza che dall’ascolto emerga qualcosa d’illecito a prescindere dal reato su cui s’indaga. Le intercettazioni proprio in ragione di ciò durano anni invece che i quindici giorni stabiliti dal codice. La riforma della giustizia penale appare improcrastinabile. Deve essere però una riforma che prescinda da ideologie e discussioni astratte. Deve essere una riforma pragmatica, che individuati i problemi e la cause, introduca cambiamenti idonei a risolverli.

L’esecutività della sentenza di primo grado in tutti quei casi in cui il fatto è certo è forse l’unica riforma idonea ad attuare il principio costituzionale della durata ragionevole del processo. Arresto in flagranza o confessione rendono inutile aspettare tre gradi di giudizio per eseguire la sentenza. L’anticipazione dell’esecuzione determinerebbe una riduzione dei tempi processuali. Impugnazioni dilatorie verrebbero a cessare. L’applicazione dei giudizi speciali aumenterebbe. L’esecutività della sentenza dopo il primo grado di giudizio paradossalmente per il condannato potrebbe costituire un elemento favorevole. I processi aventi ad oggetto reati di rilevante gravità e con un’evidenza probatoria sono infatti caratterizzati dal fatto che l’imputato è solitamente detenuto in virtù di un provvedimento cautelare. L’esecutività della sentenza di condanna non muterebbe lo status quo, comportando solamente un mutamento del titolo giustificativo della detenzione. Fatto che metterebbe fine all’ipocrita finzione cautelare e determinerebbe la possibilità di godere dei benefici penitenziari.

Un giudizio orale effettivamente garantito che conduca ad una giusta decisione deve essere la condizione senza la quale l’esecutività della sentenza di primo grado non può essere neanche pensata. Gli inutili formalismi devono essere necessariamente eliminati. Il giudizio deve offrire garanzie effettive idonee per raggiungere la giusta decisione. È da rivedere l’intero sistema delle notificazioni eliminando l’istituto della contumacia, un unicum presente solo nel nostro sistema processuale.

L’appello, un controllo che deve essere necessariamente mantenuto. Ovviamente deve essere ripensato. Non è razionale un sistema nel quale ad un primo grado orale consegue un secondo grado cartolare. Non è razionale un sistema dove la decisione di seconda istanza non offra garanzie umane e giuridiche che sia migliore rispetto a quella impugnata.

L’appello avverso una sentenza di proscioglimento deve essere eliminato perché irrazionale. La condanna può essere pronunciata se non vi sia un ragionevole dubbio. Una sentenza di assoluzione pronunciata da un giudice o da un tribunale concretizza un ragionevole dubbio che nessun altro giudice potrà mai superare.

Custodia cautelare, intercettazioni ed erronea applicazione della legge. La normativa relativa a custodia cautelare ed intercettazioni non necessita di una modifica legislativa. La realtà giudiziaria ci consegna una utilizzazione di questi strumenti processuali che non può essere condivisa. La modifica delle norme che disciplinano la loro utilizzazione non produrrebbe però risultati positivi. Le norme relative alla custodia cautelare ed intercettazioni dettano una disciplina più che valida. Disciplina la cui applicazione deve essere assicurata. Il risultato negativo che ci consegna l’esperienza giudiziaria è infatti il frutto di una errata applicazione della normativa. È necessario pertanto trovare lo strumento idoneo ad evitare l’errata applicazione del dato giuridico. Risultato che si ottiene modificando il sistema giudiziario. Si deve curare la scelta e la selezione dei giudici che controllano l’applicazione della legge i così detti giudici delle impugnazioni. La cassazione deve tornare ad essere giudice di qualità e non di quantità, giudice che controlla l’esatta applicazione del diritto. L’errore nell’applicazione della legge deve avere una rilevanza.

L’ordinamento giudiziario deve essere modificato. L’intervento legislativo non è risolutivo in tutti quei casi in cui il non funzionamento è generato dalla erronea applicazione della legge. L’errore non può non produrre effetti e soprattutto non può non essere oggetto di valutazione. Non necessariamente l’errore deve essere il frutto di un illecito disciplinare. Un assoluzione certifica un errato rinvio a giudizio, un annullamento una decisione sbagliata. La valutazione dell’errore deve avere un rilevanza nella selezione, soprattutto in quella che determina avanzamenti in carriera e la scelta dei capi ufficio. Errore che deve avere una rilevanza pure relativamente alla verifica attitudinale, la quale peraltro non può avere cadenza quadriennale e deve avere come basi non, o non solo, le relazioni astratte dei capi ufficio, ma il concreto lavoro svolto. Diverse devono essere le valutazioni di due pubblici ministeri che hanno formulato un numero x di rinvii a giudizio, dei quali in un caso hanno prodotto una maggioranza di condanne e in un caso hanno prodotto una maggioranza di proscioglimento. Ovviamente la valutazione non deve essere solo di tipo quantitativo-statistico, ma pure qualitativo, nel senso di non premiare quel magistrato che abbia scelto solo procedimenti semplici abbandonando quelli complicati. L’ufficio inoltre dovrebbe essere organizzato gerarchicamente. Il dirigente, il capo dovrebbe avere i necessari poteri e la conseguente responsabilità. L’esperienza insegna che vi sono uffici giudiziari organizzati ed efficienti, diretti egregiamente a fronte di uffici radicati nel caos. Gerarchicamente si dovrebbe organizzare l’ufficio del pubblico ministero, dove il sostituto risponderebbe al procuratore della repubblica e questo al procuratore generale.

L’obbligatorietà dell’azione penale. I numeri relativi ai processi che si concludono con dichiarazioni di prescrizione dimostrano come l’obbligatorietà dell’azione penale non sia più presente nel nostro sistema. Non si deve pertanto eliminarla, ma prendere atto che non esiste più. Occorre allora scegliere quali reati perseguire e chi deve operare questa scelta. Sembra ovvio che questa scelta non debba essere fatta a seconda della categoria del reato. Gravità del reato e probabilità di raggiungere una condanna potrebbero essere i parametri su cui orientare la scelta.

La separazione delle carriere. Una riforma che conduca ad una dipendenza dell’ufficio del pubblico ministero dal potere esecutivo non sarebbe sicuramente auspicabile. La separazione delle carriere non deve avere però necessariamente queste caratteristiche. Ed in questo caso si deve discutere circa il risultato di una separazione dell’organo dell’accusa dall’organo giudicante. La discussione deve avere come obbiettivo la verifica del se questa riforma conduca ad un processo più giusto. La domanda è relativa al se è preferibile un pubblico ministero che provenga dai ranghi della giurisdizione o un pubblico ministero che provenga da un’autonoma carriera. Astrattamente non sarebbe neanche utile discutere. È ovvio che un pubblico ministero formatosi da giudice dovrebbe offrire più garanzie. La verifica pragmatica, l’esperienza dimostra però che il pubblico ministero è allo stato un parte orientata al solo risultato di una condanna, nonostante abbia avuto formazione comune all’organo giudicante. Difficile allora giudicare negativamente una eventuale separazione delle carriere che rafforzi la terzietà del giudice rispetto alle parti. Non necessario appare però istituire un secondo Csm.

L’organo di autogoverno della magistratura la cui composizione andrebbe necessariamente rivista potrebbe amministrare entrambi pubblici ministeri e giudici, preservando la loro autonomia ed indipendenza dal potere esecutivo. È necessario però strappare la gestione del Csm alle correnti dei magistrati. Il maggior ostacolo alla realizzazione di un sistema meritocratico è stato costituito proprio dal Csm. Le scelte di quest’organo sono state formate in ragione di logiche clientelari-correntizie e non meritocratiche.

Il dirigente di un importante ufficio è sino ad oggi stato selezionato in base alla corrente di appartenenza e non in ragione delle capacità attitudinale. L’eliminazione delle correnti, la riduzione del loro potere passa attraverso il cambiamento di composizione e del sistema elettorale dell’organo di autogoverno. Si potrebbe pensare ad un sistema maggioritario a base uninominale con preferenza unica con un corpo elettorale composto da magistrati, pubblici ministeri e avvocati. Eleggibili sarebbero giudici, pubblici ministeri, avvocati, professori universitari. Ovviamente si deve trovare un sistema per cui il numero di votanti di ciascuna categoria sia equivalente all’altro. Si potrebbe pensare che ogni categoria sempre con un sistema maggioritario a base uninominale con preferenza unica elegga i delegati all’elezione dei componenti del Csm.

Il processo mediatico. Una barbarie perpetrata in nome del diritto di cronaca, dimenticando che questo non può non avere dei limiti e soprattutto non può portare alla soccombenza di altri diritti costituzionalmente garantiti, quali quello della riservatezza, del diritto alla difesa, del diritto ad un giusto processo e soprattutto del diritto ad essere presunto non colpevole. Il codice penale, proprio i ragione di quanto affermato, sanziona la pubblicazione degli atti d’indagine. Sanzione che di fatto rimane inapplicata. Il reato infatti è di fatto impunito, come impunita è la rivelazione del segreto d’ufficio. Nei rari casi in cui il reato è perseguito viene comminata una multa di poche centinaia di euro grazie al beneficio dell’oblazione. Una reale persecuzione del reato porterebbe portare peraltro al risultato dell’applicazione di pena più severa visto che l’oblazione è un beneficio che il giudice deve autorizzare. Peraltro il processo mediatico potrebbe essere facilmente eliminato sostituendo la sanzione penale con una sanzione amministrativa a carico dell’editore.

Giustizia: riforma necessaria e urgente, non solo nel "penale"

 

L’Arena di Verona, 15 settembre 2008

 

Si parla sempre della giustizia penale. Ogni governo che si succede pone all’ordine del giorno il problema sicurezza. Si è parlato ieri dell’indulto e delle sue conseguenze, dell’effettività della pena; si parla oggi di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, dell’obbligatorietà o meno dell’esercizio dell’azione penale, del ricorso alle intercettazioni, strumento pacificamente essenziale per l’accertamento dei reati, e dei limiti alla divulgazione delle stesse al fine di tutelare la privacy dei soggetti estranei.

Le questioni della giustizia penale piacciono, in particolare ai media, attratti dal luccichio di tutto ciò che la riguarda: grandi avvocati, indagini investigative, ricostruzione in Tv dei delitti più efferati, con criminologi, psicologi, tuttologi, politici.

Ma la giustizia penale riguarda un numero relativamente limitato di persone: essenzialmente chi delinque, e chi è vittima dell’altrui delinquenza. Mentre il cittadino non è in grado di valutare problematiche che presuppongono specifiche esperienze e cognizioni tecniche; basti pensare alla separazione delle carriere, o delle funzioni, tra giudici e pubblici ministeri, oppure all’adeguatezza dei termini prescrizionali o ancora all’obbligatorietà dell’azione penale.

Politici e media agitano quotidianamente la questione della crisi della giustizia italiana, spesso per attribuirne la responsabilità ai magistrati quale espressione di una "casta" coalizzata in molte sue componenti a esercitare azioni persecutorie più che ad amministrare con imparzialità e serenità la giustizia; il riferimento comunque è sempre e solo alla giustizia penale.

E la giustizia civile? La giustizia civile non luccica, non fa audience. Anzi, paradossalmente, della giustizia civile si parla solo per dire... che non se ne parla. Ma la giustizia civile può toccare in qualsiasi momento ciascuno di noi cittadini. È la giustizia civile che si occupa di regolare la fine dei matrimoni, le liti tra datori di lavoro e lavoratori, le liti fra condomini, quelle fra familiari per questioni di eredità, quelle per inadempimento dei contratti, quelle per risarcimento dei danni a seguito di incidente stradale o dell’errore di un medico o di altro professionista, quelle delle piccole o medie imprese che debbono recuperare crediti essenziali per la loro sopravvivenza e quindi anche per la conservazione dei posti di lavoro di tante persone.

Dunque la giustizia civile ha una penetrazione importante nella vita della società, delle famiglie, dei cittadini. Ma allora, se è così determinante, ci si aspetterebbe che ci fosse nei suoi confronti una grande attenzione alla ricerca costante degli strumenti idonei per farla funzionare.

Niente di tutto questo. I governi che si sono via via succeduti hanno cercato riforme a costo zero, perché il bilancio della giustizia è sempre in rosso, e hanno puntato costantemente sul cambiamento del modello processuale. Qual è il principale problema della giustizia civile? Viene subito da rispondere: la durata dei processi. Ed è così certamente. E allora si è pensato di tagliare i tempi del processo civile e soprattutto di applicare, per esigenze particolari, riti differenziati. Per cui una causa di separazione, una causa di società, una causa di locazione, una causa agraria, e così via, oggi non sono definite con lo stesso modello processuale. Ma quanto conta il modello processuale nel determinare la insopportabile durata del processo civile?

Poco, davvero poco. Basti pensare al processo del lavoro, nato per essere svolto in un’unica udienza ma che ormai dura quanto un processo ordinario. Questo per dire che, se al buon funzionamento della giustizia sono utili anche le modifiche delle norme processuali, altre sono le urgenze del sistema; in particolare: 1) il numero dei giudici togati e il loro carico. Se i giudici sono pochi, e il loro carico è elevato, non ci sono riforme processuali, anche tecnicamente perfette, che possano consentire miglioramenti effettivi; 2) i giudici onorari, dei quali si fa molto uso. Occorre però ridefinire tutto (reclutamento, status, durata, formazione) perché diano garanzia di indipendenza, terzietà e professionalità, perché i principi del giusto processo valgono anche davanti a loro; 3) la geografia giudiziaria, perché è impensabile che a 100 km di distanza ci siano tribunali in cui i giudici hanno il ruolo sovraccarico e altri sostanzialmente inoperosi.

Quindi i problemi prioritari per il buon funzionamento della giustizia civile sono problemi di risorse, di strutture, di organizzazione. Il nuovo governo ha promesso per il periodo post-feriale sostanziali riforme del sistema giustizia. Si può davvero credere a una reale ed effettiva volontà politica di procedere a una seria riforma, che offra finalmente adeguata risposta alle legittime esigenze di tutti?

In realtà c’è da dubitarne, se si esamina il testo della manovra finanziaria portata il 18 giugno in Consiglio dei Ministri da Giulio Tremonti e approvata, a dire dello stesso con singolare orgoglio, "in 9 minuti e mezzo".

L’attuale testo impone infatti un taglio annuale "ai consumi intermedi" del 22% nel 2009, del 30% nel 2010 e del 40% nel 2011. Sui vari organici ministeriali il decreto Tremonti prevede una nuova riduzione del 10%. I magistrati oggi sono sotto organico di 1.034 unità; i cancellieri sono già diminuiti di circa 3.000 negli ultimi anni. Gli operatori nel settore giustizia, e in particolare gli avvocati, avvertono un eccessivo carico di lavoro per ciascun magistrato e il personale ausiliario, e la conseguente necessità di nuove assunzioni. Perplessità e preoccupazione sono quindi d’obbligo.

Anche se meno appariscenti della legge sblocca-processi e di quella sull’immunità per le cariche istituzionali, "l’impatto indiretto di queste norme finanziarie - ha rilevato un osservatore - rischia di dare il colpo del ko a una macchina giudiziaria che già oggi, con l’attuale sottodotazione, boccheggia". Conclusione: una seria riforma, sia per la giustizia civile che per quella penale, presuppone razionalità, analisi pacata, coinvolgimento di tutte le componenti interessate; con i tagli e con i proclami nulla si ottiene di concreto; si creano soltanto illusioni e si alimenta uno stato di tensione tra poteri dello Stato da cui i cittadini non possono trarre alcun beneficio.

Giustizia: il carcere uccide detenuti e personale penitenziario

di Barbara D’Amico

 

www.rivistaonline.com, 15 settembre 2008

 

Quella penitenziaria è una realtà fatta di turni, ore d’aria, visite controllate. E storie che spesso non finiscono sulle prime pagine dei giornali. Come i tanti suicidi che ogni anno si consumano dietro le sbarre, fenomeno in crescita e preoccupante poiché a morire per mano propria non sono solo i condannati ma anche i componenti della polizia carceraria. Secondo i dati pubblicati dal Ministero di Grazia e Giustizia, al 30 giugno 2008 la popolazione carceraria italiana ammonta a circa 55 mila unità su tutto il territorio nazionale - in aumento costante ogni anno - e la penuria di strutture è tale da aver costretto il Governo a proporre, come l’ultimo escamotage, il disegno di legge sui braccialetti anti-fuga: attraverso il controllo a distanza i detenuti potrebbero scontare la pena domiciliarmene o in altre strutture, scongiurando il sovraffollamento negli istituti detentivi, tra le prime cause di suicidio. Prima ancora, nel 2007, l’introduzione dell’indulto aveva permesso una drastica riduzione del numero di detenuti che dai 61 mila del 2006 erano scesi a circa 44 mila: ma gli effetti sono stati precari e l’alto tasso di recidiva, tra chi aveva beneficiato del provvedimento, è coinciso con un rapido ripopolamento di case circondariali e strutture di sicurezza.

Scorrendo i dati e le statistiche annuali stilate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal Consiglio d’Europa e dal Ministero di Giustizia, emerge il volto del detenuto medio italiano. Più della metà della popolazione carceraria è composta da uomini in età compresa tra i 20 e i 50 anni; il numero di donne, in proporzione, resta basso e per ogni 17 mila detenuti uomini si possono contare circa 1000 detenute donne. Dei 55 mila in carcere, circa 39 mila sono stranieri e il 40% delle condanne ha avuto come causa reati contro la persona o il patrimonio. Giovane età, diversità culturale, incidenza di reati violenti: senza strutture adeguate questo mix potrebbe spiegare perché, solo nel 2007, si siano registrati 45 suicidi e come mai dal 1980 se ne contino ben 1.365, con una punta massima nel 2001 (69 casi) e una punta minima nel 1990 (23 casi).

A rivelarlo è una ricerca condotta dal quotidiano del carcere di Padova "Ristretti Orizzonti" sulla base di dati europei ed italiani e trasfusa nel dossier Morire di carcere: documento scottante, mai reso pubblico dagli organi statali e balzato fuori su pressione del partito dei Radicali. I numeri sono tutt’altro che bassi: in Irlanda, nel 2005, si registrarono 4 suicidi mentre da noi ne venivano accertati 57 e lo stesso può dirsi confrontando i dati con Grecia, Ungheria, Polonia e altri paesi europei. Solo la Francia sembra avvicinarsi alle statistiche nostrane.

Ma il dato più interessante riguarda il tasso di suicidio tra i componenti della polizia penitenziaria. Dal 1997 sono ben 67 i suicidi accertati (7 solo lo scorso anno) con una media percentuale di morti dell’1.32% per ogni 10 mila componenti del corpo di polizia. Del fenomeno se ne parla poco, o affatto. Tanto è sconosciuto da non essere ancora entrato tra gli ordini del giorno dei lavori parlamentari. Difficile accertare i motivi delle morti, non essendovi al momento ricerche che provino il nesso di causalità con le condizioni di lavoro.

Inoltre, sia il dossier che i dati relativi alla popolazione carceraria non tengono conto dei centri di permanenza temporanea (Cpt), spesso trasformati in vere e proprie carceri. È possibile, allora, immaginare una carenza di strumenti e strutture tali da gravare la condizione degli impiegati dell’amministrazione detentiva: ascolto psicologico, incentivi economici, diversificazione delle mansioni non sembrano poter contare su investimenti adeguati. E, infatti, sempre in base ai dati del Ministero, il costo annuo dell’impianto penitenziario italiano ammonta a 2.869 milioni di euro: una cifra contenuta, e che purtroppo incontra difficoltà nell’essere soddisfatta annualmente in Finanziaria.

Giustizia: 50 milioni di € spesi per 400 "braccialetti" fantasma

di Andrea Scaglia

 

Libero, 15 settembre 2008

 

Braccialetto sì, braccialetto no. E mica è questione di stile, qui si tratta di sicurezza. Il discorso è quello sul dispositivo elettronico utile per controllare a distanza i condannati agli arresti domiciliari o all’obbligo di dimora. Recentemente, il ministro della Giustizia Alfano ha dichiarato che po’ di spazio vitale nelle prigioni al collasso. Progetto interessante che, come si dice, è allo studio. Di certo c’è che la legge che ne prevede l’uso esiste. E anche braccialetti e apparecchiature sono lì, a disposizione. E i contratti con le aziende incaricate di gestire l’operazione pure. Tanto che, da quando nel 2001 è stata avviata la sperimentazione, che però ha riguardato poche decine di casi, lo Stato ha già speso 50 milioni di euro. Cinquanta milioni! Una storia che vale la pena di raccontare.

 

Legge e sperimentazione

 

La vicenda comincia a fine 2000. Elezioni politiche alle porte, l’Ulivo deve arginare l’avanzata del Cavaliere. Così, il governo presieduto da Giuliano Amato emana il decreto 341/2000, convertito in legge nel gennaio 2001, che appunto prevede l’uso del braccialetto: otto mesi di sperimentazione "e poi si vedrà". E allora, via alla distribuzione: 75 braccialetti - 34 ai Carabinieri, altrettanti alla Polizia e 7 alla Finanza - per ognuna delle cinque città campione (Milano, Torino, Roma, Napoli, Catania). Trecentocinquanta apparecchi in tutto. A ognuna delle cinque società private da cui il Viminale affitta dispositivi e relative centraline vanno 870 milioni di vecchie lire, dunque la spesa complessiva è di circa 2 milioni di euro.

La prima applicazione avviene a Milano, il 20 aprile 2001. Tra fotografie interviste, il peruviano Augusto Cesar Tena Albirena - 5 anni e 8 mesi di condanna per traffico di droga - dichiara che ha deciso di accettare il braccialetto (la legge prevede il benestare del detenuto) perché "è un po’ umiliante, ma piuttosto che il carcere ne avrei portato uno anche al collo". Nelle settimane successive ne vengono "accesi" altri 50 (dunque 51 su 350). Per la cronaca, Augusto Cesar evade il 26 giugno, quando al governo è passato il centro-destra. "Sembrava una buona soluzione - commenta il ministro della Giustizia Roberto Castelli -, ma evidentemente qualcosa non va".

 

Circolari e contenziosi

 

Si arriva al dicembre 2001, scadenza della fase sperimentale. Nonostante le perplessità, e anche perché alcuni impianti sono ancora in funzione, braccialetti e centraline restano a disposizione delle forze dell’ordine. E le imprese fornitrici continuano a emettere fatture. A metà maggio 2002, il Viminale informa le aziende che, "in merito al pagamento dei braccialetti ancora in uso... è stato chiesto... di comunicare al ministero della Giustizia l’improrogabile necessità di sospendere tutte le misure cautelari in corso". Circolare che cade nel vuoto: il 27 luglio l’ergastolano mafioso Antonino De Luca fugge dall’ospedale milanese Sacco dove si trovava sotto controllo elettronico. Viene ripreso il 29 ottobre. Ma il pasticcio continua.

Nel febbraio 2003, il ministero indirizza un’altra circolare a Polizia, Carabinieri e Finanza delle cinque città-campione. Si dice di far presente all’autorità giudiziaria che i braccialetti non bisogna più usarli. E poi: "Al fine di dirimere il contenzioso insorto, è in stato di approfondimento l’esame dei rapporti con le ditte fornitrici". D’altro canto, nel marzo 2003 un giudice milanese ordina l’applicazione di un braccialetto. La società chiamata in causa fa presente che non viene pagata da tempo, ma il rischio è che possa essere citata per interruzione di pubblico servizio. Lo stesso a Catania: il giudice dispone il controllo elettronico, la polizia risponde che di braccialetti non ne ha. Un caos.

 

L’ingresso di Telecom

 

In ogni caso, i contenziosi con le società vengono risolti. Ma la telenovela prosegue. L’idea è di organizzare una struttura degna di questo nome, per applicare la legge senza altri problemi. Viene firmato un contratto con Telecom, che si prende in carico la gestione su tutto il territorio nazionale - centrale unica di controllo a Roma e centraline in ogni provincia italiana - appoggiandosi a tre società specializzate per la fornitura degli apparecchi. Costo: circa undici milioni di euro all’anno fino al 2011. La fase di rodaggio di questa seconda (falsa) partenza sarebbe finita nel 2005. Per quanto riguarda il suo utilizzo, poco o niente.

Ed eccoci al 2006. Prodi torna al governo. E la convenzione con Telecom viene confermata. Ma, di fatto, il braccialetto elettronico resta un oggetto-fantasma. Mentre i costi no, quelli sono reali: gli apparecchi ci sono, anche se non vengono usati. E comunque, due milioni per la prima sperimentazione, poi undici milioni all’anno dal 2003. I termini del contratto non vengono resi noti, ma il calcolo non è difficile: a fine 2007, il costo dell’operazione raggiunge i 50 milioni di euro. Attualmente, secondo il Viminale ci sono sei braccialetti in funzione. Sei.

 

Favorevoli e dubbiosi

 

Ora, come detto, la questione è tornata in auge. E c’è chi spera che sia la volta buona. Il Sappe, sindacato della Polizia penitenziaria, è fra questi: "A fine anno le carceri supereranno i 63mila detenuti, una situazione insostenibile. Il braccialetto elettronico permetterebbe poi di liberare molti agenti da mansioni di sorveglianza domiciliare. E le nuove tecnologie permettono di superare i problemi di un tempo". D’altra parte, il sottosegretario all’Interno Mantovano conferma che "in sé è utile e oggi può funzionare tecnicamente".

Aggiungendo però qualche controindicazione: "I magistrati di sorveglianza restano un po’ di scettici", e poi "ne abbiamo a disposizione 400, se si vuole arrivare all’utilizzo di cui si è parlato [circa 4mila detenuti, ndr] bisognerà comprarne molti altri: c’è sproporzione fra disponibilità e obiettivi. Senza contare che una spesa del genere non può gravare sul ministero dell’Interno, tra l’altro in un momento in cui c’è da risolvere il problema degli straordinari delle forze dell’ordine". E quindi? "E quindi, il contratto con Telecom esiste e va onorato. Ci vuole una soluzione che faccia fruttare i soldi spesi, ma che non aggiunga spreco a spreco". Bene, purché si faccia in fretta. Perché, nel frattempo, il tassametro continua a correre. Con o senza braccialetto.

Giustizia: Maroni; un piano per rimpatriare i detenuti stranieri

 

Ansa, 15 settembre 2008

 

"La prossima iniziativa che prenderemo sarà il piano per ridurre la presenza di detenuti in carcere", annuncia a Venezia il ministro dell’interno Roberto Maroni, suscitando un forte applauso dalla folla leghista alla Festa dei popoli padani. "Per noi c’è solo un modo: rimandare a casa i detenuti, i romeni in Romania, i tunisini in Tunisia, gli egiziani in Egitto. Questo - ha ribadito Maroni - è l’unico piano svuota carceri che vogliamo. Proprio con la Romania, paese di provenienza della maggior parte dei detenuti delle nostre carceri, c’è un accordo, mai attuato, fatto dal ministro Castelli nel 2003 che prevede il rimpatrio: vogliamo attuarlo subito". Maroni ha inoltre annunciato che ai primi di ottobre si recherà in Libia a porre le condizioni per il rispetto dell’accordo per il controllo delle coste "affinché non ci mandino più clandestini a Lampedusa".

Giustizia: Osapp; dal Governo schizofrenica politica di annunci

 

Apcom, 15 settembre 2008

 

"Contrariamente a quanto sostenuto dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quest’oggi, la Giustizia è il tema centrale della nostra sopravvivenza, è il pallino con il quale dobbiamo confrontarci ogni santo giorno, soprattutto quando a tener testa nel dibattito politico sono altre le questioni adesso, e soprattutto quando il problema del carcere è affrontato dal ministro Alfano solo come fatto episodico di richiamo mediatico".

È quanto afferma il segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci, che richiama quanto affermato dal Presidente Berlusconi nel corso dell’inaugurazione della Fiera del Levante a Bari stamattina. "Le iniziative prese ultimamente dal Consiglio dei ministri - prosegue Beneduci - dimostrano come le questioni legate al sovraffollamento dei detenuti, tanto care al Ministro della Giustizia due settimane fa, passino in secondo piano con l’approvazione di provvedimenti come quello sulla prostituzione".

"Un disegno di legge - spiega il segretario generale - che non tiene assolutamente in considerazione i rischi di un incremento degli ingressi negli istituti di pena. Con una popolazione carceraria arrivata ormai a quota 56.150, aumentata rispetto al solo giorno precedente di 60 unità, c’interroghiamo sulle scelte carcerarie di un Governo che sul fronte dell’emergenza rimane ancora ai titoli, ma nessuna rassicurazione fornisce in merito alle vere politiche da compiere".

Per il segretario dell’Osapp c’è una politica schizofrenica sulla giustizia. "Si vuole imputare il fenomeno esclusivamente agli effetti dell’immigrazione, e non si comprende come in alcune regioni, apparentemente non afflitte da particolari problemi di criminalità, avvengano gli ingressi maggiori (Toscana, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia)".

"Sul braccialetto elettronico da applicare ai detenuti il dibattito si è fatalmente arenato, e il silenzio assordante che suscitano le recenti morti in cella, nonché i richiami dell’associazione "Ristretti" sulla grave realtà dei suicidi, dimostrano - aggiunge Beneduci - come poi i temi, e i problemi reali, rimangono sostanzialmente in superficie".

"Il Governo si dia una mossa allora - conclude Beneduci -, il Presidente Berlusconi conservi l’idea della Giustizia quale centrale per la sua sopravvivenza politica, perché a breve, entro la fine dell’anno e non tra 12 mesi, con questi flussi ci ritroveremo ancora a parlare di sovraffollamento con una capienza arrivata tragicamente a 63.000 presenze".

Giustizia: Sappe; soddisfazione per piano Governo sulle carceri

 

Apcom, 15 settembre 2008

 

Approva il piano del Governo per deflazionare le carceri il Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione dei Baschi Azzurri.

Accogliamo molto favorevolmente gli interventi che il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, di concerto con il Capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta, intende adottare per risolvere il problema del sovraffollamento delle strutture penitenziarie del Paese. È davvero necessario ricostruire il sistema carcerario del Paese, a cominciare dalle espulsioni dei detenuti stranieri. Ed è noto che da sempre sosteniamo, e per molto tempo lo abbiamo fatto in solitudine, di rendere stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando però a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, potenziando quindi l’area penale esterna e prevedendo per coloro che hanno pene brevi da scontare l’impiego in lavori socialmente utili all’esterno del carcere con l’introduzione del sistema di controllo del braccialetto elettronico in dotazione al Corpo di Polizia penitenziaria.

Una nuova politica della pena, che preveda un ripensamento organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria con al centro un nuovo ruolo professionale ed operativo della Polizia penitenziaria, adottando anche procedure di controllo mediante dispositivi tecnici come il braccialetto elettronico, è necessaria e indifferibile. Sarà quindi massima la nostra collaborazione al Ministro Guardasigilli Alfano e il Capo Dap Ionta per realizzare una nuova politica penitenziaria del Paese.

Soddisfazione per il piano del Governo sul sistema penitenziario nazionale la esprime Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria che da tempo chiede a gran voce l’adozione del braccialetto elettronico per il controllo dei detenuti con pene brevi da scontare.

Aggiunge Capece: Auspichiamo che il ministro Alfano tenga conto che un ampliamento delle misure alternative alla detenzione e dell’area penale esterna con contestuale adozione del braccialetto elettronico di controllo dei soggetti detenuti che vi accedono dovrà necessariamente prevedere un nuovo ruolo della Polizia Penitenziaria, e cioè svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative. Ci auguriamo quindi che il ministro Alfano incontri quanto prima il Ministro dell’Interno Roberto Maroni per arrivare a definire quel decreto interministeriale Interno e Giustizia, incomprensibilmente sospeso, finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della Polizia Penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe).

Ci sono già stati diversi incontri tra Amministrazione penitenziaria e Sindacati del Corpo per definire il ruolo della Polizia penitenziaria negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, e cioè svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia proprio la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Non sappiamo perché quel decreto sia stato sospeso, ma è necessario porlo tra le priorità di intervento sul sistema carcerario del Paese.

Il controllo sulle pene eseguite all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene.

Giustizia: è nato il sito web dei "nuovi educatori penitenziari"...

 

www.educatoripenitenziari.it, 15 settembre 2008

 

Editoriale, di Dario Scognamiglio. La scelta di realizzare un sito, di offrire uno spazio virtuale al comitato "I nuovi Educatori Penitenziari" trova la sua ratio in un’esigenza di visibilità, e nella duplice finalità della costruzione di questo gruppo di lavoro: la volontà di attivarsi ai fini di una rapida conclusione di questo iter concorsuale, attraverso l’immissione in servizio dei 397 vincitori; l’intenzione e la speranza di riuscire a sensibilizzare e sensibilizzarci reciprocamente sulla questione dell’istituzione carcere, della funzione rieducativa della pena ed il ruolo degli educatori penitenziari. Nostro auspicio sarebbe vedere il nostro impegno tradursi, completate le assunzioni dei vincitori, in un’estensione della graduatoria agli idonei, considerata l’annosa carenza di personale dell’area educativa nei nostri penitenziari.

La questione sicurezza riempie gli spazi televisivi e le prime pagine dei giornali, ma il dibattito è svuotato dei suoi significati profondi; naviga in superficie seguendo la corrente, il tumulto emotivo delle paure, le insicurezze, la legittima inquietudine del cittadino. La ricerca di un porto sicuro conduce in acque ancora più turbolente: più carcere, pene più severe, più controllo del territorio; quella repressiva, appare sempre più come l’unica risposta possibile. Coerentemente con la sostanza della normativa in vigore, noi sosteniamo al contrario l’importanza del momento rieducativo e risocializzativo, e l’impossibilità di prescindere da esso. In quest’ottica, intendiamo attivarci al fine di poter esercitare, in tempi rapidi, il nostro diritto a portare il nostro contributo.

www.educatoripenitenziari.it è il sito ufficiale del comitato "I nuovi educatori penitenziari" che si propone come obiettivo principale l’assunzione in tempi brevi degli educatori penitenziari, posizione C1, vincitori e idonei del concorso per 397 posti bandito nel 2003 e non ancora giunto a termine,oltre a questo i fini del comitato sono tali e tanti da non poter essere elencati brevemente, potete comunque trovare tante informazioni su di noi nelle altre sezioni. Qui dobbiamo lasciare spazio ad una notizia importante, con cui inauguriamo il sito.

I soli fondi disponibili per le assunzioni al Dap sono quelli stanziati dal governo prodi per il 2009 e il 2010, riguardano tutti i profili messi a concorso. Lo riferisce il Sottosegretario alla Giustizia, Sen. Caliendo, al presidente del comitato "I nuovi educatori penitenziari".

A seguito dei ripetuti contatti presi dal nostro comitato con i membri del Parlamento e del Governo s’è avuto un riscontro importante da parte del Sottosegretario alla Giustizia con delega al personale, il senatore Caliendo. Caliendo ha convocato a Roma per l’11 settembre il presidente del nostro comitato, la dott.ssa Lina Marra , e la Dott.ssa Daniela Turella segretario tesoriere.

Le richieste fatte al sottosegretario sono state le seguenti: 1) assunzione in blocco dei 397 vincitori del concorso e scorrimento della graduatoria fino al suo completo esaurimento; 2) Stanziamento di ulteriori fondi per il 2009 in modo da pervenire al più presto alle assunzioni; 3) Impegno da parte del governo a tutelare la situazione dei vincitori/idonei di questo concorso soprattutto perché trattasi di un concorso bandito nel 2003 dallo stesso governo Berlusconi; 4) La valutazione degli ulteriori costi che l’amministrazione dovrà affrontare qualora le assunzioni avvenissero a contingenti diluiti nel tempo, stante le spese aggiuntive connesse ai diversi corsi di formazione da effettuarsi per ciascun contingente.

Il Sottosegretario Caliendo ha riferito alla presidente Marra e alla segretaria Daniela Turella che i fondi a disposizione per le assunzioni, non solo degli educatori ma di tutti i profili messi a concorso dal DAP, ammontano a 5 milioni di euro per il 2009 e a 10 milioni per il 2010, in pratica quelli già stanziati dal governo Prodi nella finanziaria scorsa e di cui eravamo già tutti a conoscenza. Particolare ,quest’ultimo, più volte evidenziato nel corso dell’incontro.

Non si prevedono ulteriori stanziamenti e le prime assunzioni non avverranno prima del 2009; non è chiaro se le stesse avverranno all’inizio del 2009 ovvero negli ultimi mesi del prossimo anno.

L’impegno preso dal sottosegretario Caliendo nel corso dell’incontro è quello di garantire che gli attuali stanziamenti finanziari non vengano deviati verso altri comparti della stessa o di altre amministrazioni.

Il sottosegretario Caliendo, prendendo atto che le nostre richieste non sono state soddisfatte nonché della ferma volontà di voler continuare la nostra battaglia, soprattutto in sede parlamentare e nel rapporto con l’opinione pubblica, ha rimandato tutta la questione ad un successivo incontro dicendo: "vediamo quello che si può fare".

La battaglia, come tutti sapevamo ormai da tempo, è difficile e piena di ostacoli. Siamo decisi a proseguire ad oltranza utilizzando tutti gli strumenti previsti in un moderno Stato di diritto.

Lettere: da Livorno; Alfredo, lotta per abolizione dell'ergastolo

 

Lettera alla Redazione, 15 settembre 2008

 

La vita passa senza assumere reale significato. Scorre così in fretta che non ci accorgiamo neppure che stiamo invecchiando. Noi aspettiamo, che alla fine qualcuno si accorga di noi, non solo per le cose negative che hanno segnato il nostro passato e il presente e inevitabilmente segneranno il futuro, ma anche attendendo che noti la nostra maniera d’essere oggi. Per quanto tempo ancora dobbiamo aspettare perché questo avvenga?

Venti, trenta, quaranta anni di carcere, o l’ergastolo, possono forse porre rimedio a ciò che è stato?

Non possiamo fare niente per cambiare il nostro passato. Possiamo invece migliorare il nostro futuro. Ma è proprio questo che c’è negato: la speranza di avere un futuro! Dobbiamo combattere per la vita! Non possiamo chiuderci in un assordante silenzio e aspettare che il tempo scorra nella speranza che avvenga un"miracolo". Se non siamo noi stessi a dire "Basta!", come possiamo pensare che lo faccia qualcun altro per noi?

Se avessimo una catena alla caviglia, saremmo capaci di staccarci l’intera gamba a morsi pur di ritrovare la libertà, ma le catene che ci legano sono invisibili e per questo più pericolose, perché ci portano verso l’illusione autodistruttiva. Non possiamo arrenderci ad una legge ingiusta. Non possiamo accettare di farci ammazzare lentamente. Non importa se toglieranno mia l’ergastolo. Avremo combattuto. Non l’avremo accettato.

Se tacciamo, è come se divenissimo complici dei nostri carnefici. Quanti di noi hanno già trascorso in carcere più di diciotto anni? Quanti di noi erano classificati al momento del loro arresto come "giovani adulti"? Io mi ricordo che l’amministrazione penitenziaria, in virtù di questo mi passava le marmellate e i formaggini. La mia dieta doveva prevedere qualcosa di più di quella degli "adulti": calorie in più. Cos’è, si stavano preoccupando di farmi crescere bene per tenermi più a lungo in carcere?

Non dobbiamo più accettare di essere l’arma nelle mani dei politici, qualcosa da tirar fuori ogni qualvolta qualcuno tra loro desidera mettersi in mostra! Sarà dura "disarmarli", ma possiamo provarci! È l’unico modo che abbiamo è di far sentire la nostra voce. Diciamo basta all’oppressione continua, diciamo basta alla galera a vita! Anche se a volte noi stessi lo dimentichiamo, siamo esseri umani anche noi. Come esseri umani abbiamo diritto alla vita. Diritto alla libertà e all’amore. Abbiamo il diritto di essere considerati parte integrante della società e non alla stregua di scorie radioattive da isolare in contenitori di piombo e seppellire per l’eternità.

Mi rivolgo a tutti i miei compagni ergastolani ma anche a tutte le persone libere che credono nella seconda possibilità. Le mie parole vorrebbero però raggiungere anche chi vuole la nostra morte sociale. Non si uccide necessariamente premendo il grilletto di un’arma. Non è il solo modo di assumere la responsabilità di un omicidio! Siamo tutti responsabili d’ogni suicidio che avviene nelle carceri a causa dell’indifferenza e del convincimento che c’è che un uomo debba pagare tutta l’esistenza per un reato commesso. Non illudiamoci che se uno muore in carcere è un problema suo. Si assume colpevolezza sostenendo una politica di stato che afferma che i colpevoli di reati gravi non devono mai più uscire dal carcere. Anche se non è condannabile sul piano penale, l’indifferenza rende colpevoli ed è un reato nei confronti dell’umanità e di Dio.

Si potrà obbiettare che quello che scrivo è solo il delirio di un ergastolano condannato a lenta morte da uno Stato che si ritiene essere discendente diretto della più antica e grande civiltà dopo la greca. Forse perché nonostante tutto credo in questo paese e nel suo grado di civiltà, mi viene da chiedere "Dimostrate che è vero!". Dimostrate che viviamo in un paese autenticamente civile! Aiutateci a combattere per l’abolizione dell’ergastolo!

Potremmo essere ricordati come la generazione che ha sfidato lo stato delle cose e ha vinto!

Potremmo divenire coloro che si sono uniti per cambiare le sorti di un paese almeno per quel che riguarda il suo modo di amministrare giustizia. Assaporare una vittoria data dall’unione, potrebbe aiutarci tutti a comprendere che quell’unione genera la possibilità di cambiare ciò che non piace.

 

Alfredo Sole, per gli Ergastolani in Lotta di Livorno

Genova: detenuto aggredisce 2 agenti di Polizia Penitenziaria

 

Comunicato stampa, 15 settembre 2008

 

Il tutto è successo questa mattina alle ore 10.30: un detenuto senegalese ha aggredito un agente di polizia penitenziaria addetto alla vigilanza dei passeggi, colpendolo a volto con un pugno. In suo soccorso è sopragiunto un altro agente anch’egli aggredito. Entrambi sono stati sottoposti alle cure sanitarie e giudicati guaribili in 10 giorni. Solo l’intervento di altri agenti ha evitato il peggio in quanto altri detenuti stavano per inveire contro il personale.

Il senegalese già dal mattino aveva avuto una discussione con il personale sanitario del carcere.

Non è la prima volta che la Polizia Penitenziaria subisce aggressioni da parte dei detenuti- commenta il segretario regionale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) ma l’amministrazione non vuole porre rimedio all’enorme carenza d’organico che non ci consente di operare come dovremmo, posso assicurare che la Polizia Penitenziaria di marassi riesce a fronteggiare comunque a questa emergenza, ma non so fino a quando. Ormai sono quotidiane le aggressione subite dal personale, per questo rilanciamo, per l’ennesima volta la necessità di dotare la Polizia Penitenziaria di idonei e legali mezzi di difesa, come deterrente alle quotidiane aggressioni. Sarebbe auspicabile che il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, si rendesse conto di quanto sta accadendo a Marassi.

Come Sappe proponiamo periodici aggiornamenti delle tecniche di difesa personale. Materia questa prevista solo nella fase di assunzione del personale di polizia e mai più ripresa negli anni a seguire.

Riteniamo che vi è la necessità di rivedete tutto il sistema detentivo, la popolazione detenuta in Liguria aumenta mediamente di circa 80 detenuti al mese e la Polizia Penitenziaria soffre di una fortissima carenza d’organico e non si sta facendo niente per porre rimedio all’emergenza in atto. Riteniamo quando mai utile l’impiego del braccialetto elettronico; strumento necessario per decongestionare la popolazione detenuta nelle carceri liguri, quindi, aumentare il livello di sicurezza interna.

 

Michele Lorenzo

Segretario Regionale Sappe Liguria

Milano: 19enne, nero, ucciso perché aveva rubato dei biscotti

 

Corriere della Sera, 15 settembre 2008

 

Un furto di dolciumi per pochi euro, in un bar da parte di tre giovani di colore. L’inseguimento dei proprietari a bordo del loro chiosco mobile. Gli insulti da una parte e dall’altra. "Ladri, negri di merda" urlano gli inseguitori. Poi la colluttazione e sprangate al corpo e al capo di uno dei giovani.

È morto così Abdul Salam Guibre, 19 anni, con cittadinanza italiana ma originario del Burkina Faso, saltuariamente metalmeccanico. Con i due amici era stato in un locale in zona Porta Romana e, a bordo dei mezzi pubblici, erano andati alla Stazione Centrale di Milano per avviarsi, a piedi, verso il centro sociale Leoncavallo, distante alcuni chilometri.

Lungo il tragitto la sosta nel bar di Fausto e del figlio Daniele Cristofoli, 51 e 31 anni. Stando ai due titolari dell’esercizio pubblico, i tre avrebbero arraffato dei dolciumi senza pagarli, per poi allontanarsi. Padre e figlio allora sono saliti a bordo del loro chiosco mobile e li hanno inseguiti. Poi, dalle parole grosse, si è passati alle mani: i tre ragazzi con un bastone raccolto per terra, i Cristofoli con un altro bastone e una spranga. Ad avere la peggio è stato Abdul, colpito al corpo, ma soprattutto alla testa. All’ospedale Fatebenefratelli hanno cercato di salvargli la vita, ma il giovane non ce l’ha fatta. È morto nel primo pomeriggio. Fuori dall’ospedale si sono subito radunati parenti e amici, quasi tutti vestiti alla moda dei rapper americani. "Abdul era un ragazzo semplice, cresciuto in una famiglia sana che si era trasferita in Italia poco dopo la sua nascita - raccontano - Era socievole ed estroverso".

"Abba", come era soprannominato, aveva frequentato le superiori a Gorgonzola (Milano) e bazzicava spesso i locali di Milano con gli amici. Questi lo descrivono come poco incline agli eccessi. Amava la musica e ballare, divertirsi senza pensare a nulla. Aveva deciso l’estate scorsa di non continuare a studiare e lavorava per certi periodi come metalmeccanico. Gli agenti della Squadra mobile hanno impiegato poche ore per identificare i proprietari del chiosco mobile del quale gli amici di Abdul avevano annotato parzialmente il numero di targa. Li hanno quindi fermati e la loro posizione sarà al vaglio già domani del pm di turno Roberta Brera. gli amici della vittima sono stati interrogati dagli agenti. Avrebbero ammesso la lite e raccontato degli insulti: "Negri di merda".

Anche la loro posizione è valutata in queste ore. Nel frattempo l’episodio ha causato le reazioni del mondo della politica: c’é chi parla apertamente di un episodio di razzismo, come il segretario dei Ds Piero Fassino oppure il sindaco di Milano, Letizia Moratti che invita a isolare "sempre e comunque ogni forma di violenza". Altri, come invece l’assessore alla Sicurezza della Provincia, Massimo Grancini, puntano il dito contro un "sistema di giustizia fai da te, tollerato da diverse parti, che deve cessare".

Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha telefonato al questore di Milano, Vincenzo Indolfi, al quale ha espresso il suo "apprezzamento per la tempestiva risposta con cui la Squadra Mobile della Questura, in poche ore, ha assicurato alla giustizia i presunti responsabili del brutale assassinio di Abdul William Guibre". "Sconcerto" e "indignazione" da parte del presidente del Senato Renato Schifani.

"Questi episodi di odio così violenti - ha detto - non appartengono alla cultura della corretta convivenza civile e del rispetto della legalità. Ecco perché devono essere isolati senza indugio e condannati duramente senza alibi alcuno". Alla famiglia di Abdul è giunta la solidarietà del presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, e del vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato.

 

Maroni: il razzismo non c’entra. Veltroni: c’è un clima di odio

 

Che li abbiano già presi, i presunti assassini razzisti, dà ragione a chi, da destra e dal governo, invoca la tolleranza zero e il pugno di ferro. Non a caso il ministro dell’Interno, Maroni, ha subito telefonato al questore di Milano e alla polizia per complimentarsi dell’azione fulminea.

Maroni s’è detto convinto che l’omicidio del giovarne italiano di colore sia solo un episodio di cronaca nera e nulla più. Le frecciate che arrivano dall’opposizione lo hanno indispettito, convinto che si tratti della solita "strumentalizzazione".

Ma che sia stato ammazzato un italiano nato in Burkina Faso, dunque di pelle scura, e invece perla sinistra un bruttissimo segno dei tempi: tempi in cui l’immigrato, anche quello regolarissimo e integrato, è giudicato con pregiudizio, vittima di una miscela pericolosa fatta di prevenzione, odio e razzismo, che lascia mal sperare. Clima del quale sarebbe direttamente e indirettamente responsabile la destra leghista e populista autrice dell’offensiva contro i clandestini ma che, di fatto, finisce per ghettizzare tutti gli immigrati. anche quelli cresciuti qui e che pagano le tasse.

È questo il terreno in cui germoglia lo scontro politico tra destra e sinistra, non certo nuovo, dopo l’omicidio a Milano. Il sindaco Moratti non tentenna: "Milano condanna fermamente questi episodi di intolleranza e razzismo". La morte di Abdul Guibre è "atto di vile crudeltà" e "non appartiene ai milanesi e alla nostra comunità, per storia e vocazione aperta invece alla tolleranza, alla accoglienza e alla convivenza civile". L’impegno è "non abbassare la guardia per isolare sempre e comunque ogni forma di violenza". Il presidente della Regione, Formigoni, esprime solidarietà alla famiglia "per un omicidio che non ha giustificazione né ragioni". Il ministro Rotondi annuncia che "è l’ora del pugno di ferro contro gli assassini", "lo Stato saprà mostrare tutta la sua forza di fronte a questi feroci assassini indegni dell’Italia e, soprattutto, di Milano".

Viste dall’opposizione le cose sono meno lineari. "L’assassinio di un ragazzo a colpi di spranga, gli insulti per il colore della sua pelle sono il frutto di un clima pesante, di odio, di una tragedia insopportabile per chiunque abbia a cuore il rispetto per le persone e la tolleranza". Veltroni, leader del Pd, giudica questo clima come frutto di "indifferenza, egoismo. di culture che hanno al centro la soddisfazione di desideri individuali, di paure seminate a piene mani verso l’altro da noi che hanno contribuito a formare".

Non serve dunque solo la polizia, ma una "grande e appassionata battaglia culturale e di umanità perché episodi come questo non debbano ripetersi", Fassino incalza: "Riflettano coloro che ogni giorno alimentano un’isterica fobia contro gli immigrati, e si rendano conto di quale tremenda responsabilità si assume chi rappresenta ogni immigrato come un pericolo e un nemico, creando così un clima di intolleranza e di odio in cui ogni orrore può accadere".

Il senatore Pd, Di Giovan Paolo, si appella a Maroni: "Vorremmo un ministro dell’Interno più dialogante, più di mediazione, che stemperasse i toni", invece di quello che arringa la folla leghista sull’immigrazione a Venezia. Chiude il leader di Rifondazione, Ferrero, accusando: "La Lega la deve smettere, con le sue campagne xenofobe e razziste. Fatti terribili come questi sono, temo, anche il frutto di un clima avvelenato costruito da forze politiche come la Lega, che additano gli immigrati a fonte di tutti i mali". Il centrista Baccini dissente: "Questo episodio può essere sintomo solo di un diffuso malessere sociale, ma non di un’ondata di xenofobia vera e propria che investe il nostro Paese".

 

Penati: solo spot, irrisolti i problemi della sicurezza

 

Premessa: "Le colpe della società e della politica non possono costituire un alibi alle responsabilità individuali". Affondo: "Milano ha comunque il dovere di mostrare che la propria natura è civile e tollerante. Per questo chiedo al sindaco Moratti di chiamare la città in piazza a testimoniare questo spirito. Se lo farà, io sarò al suo fianco". Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, è cauto nel parlare di "episodio razzista" ma insiste sulla necessità di "dare la giusta attenzione ai temi della sicurezza che ancora gravano sulla vita dei cittadini".

 

Ancora allarme sicurezza, presidente?

"I problemi non sono stati risolti. In compenso, una certa politica che a fini elettorali continua a soffiare sul fuoco della paura contribuisce ad aumentare il senso di insicurezza che spesso può degenerare".

 

Come in questo caso?

"Aspettiamo che la magistratura e le forze dell’ordine chiariscano i contorni della vicenda. Dico che, a prescindere da tutto, la giusta attenzione ai temi della sicurezza non deve mai sconfinare in un clima di odio, né legittimare forme di azione dove ci si fa giustizia da sé. La filosofia delle ronde padane, per intenderci, dello Stato assente "e quindi faccio tutto da solo", deve essere stroncata con forza da chi ha ruoli politici e amministrativi".

 

Una filosofia che invece vince, qui a Milano?

"A Milano negli ultimi anni le forze di destra hanno indubbiamente soffiato sul fuoco della paura e hanno creato attese che in realtà si riducono ad una politica di annunci e non di fatti concreti".

 

Allude alla manifestazione per la sicurezza voluta un anno e mezzo fa dal sindaco Moratti?

"Quella manifestazione aveva soltanto diviso la città. Per questo dico che oggi, se c’è qualche segnale della possibilità del germogliare di un seme xenofobo, dobbiamo scendere in piazza tutti insieme e in fretta".

 

Il nuovo governo si è occupato del pacchetto sicurezza. Risultati?

"Al limite dello zero. Hanno mandato a Milano 300 militari che si sono già dispersi. Non c’è, oggettivamente, un segnale della loro presenza e la gente, come vediamo, muore ancora. Non c’è un’azione coerente di maggiore presidio del territorio e l’unica cosa certa è che la Finanziaria di questo governo taglia i fondi destinati alle forze dell’ordine".

 

Rischio xenofobia?

"Faccio una considerazione: quando tutto il problema sicurezza si riconduce solo ai rom, passa il messaggio che il problema è quello del contrasto con chi è di un’altra nazione o di un’altra cultura. Ma non è colpendo il diverso che si conquista sicurezza e la paura non si controlla minando il tema della convivenza civile".

 

Che fare, invece?

"Non sottovalutare i dati del ministero degli Interni, secondo cui la maggior parte dei reati sono commessi da immigrati clandestini: quindi, perseguiamo chi è fuori dalle regole senza dimenticare politiche di integrazione rivolte ai molti immigrati che fanno la loro parte per lo sviluppo del nostro Paese".

 

Molti commentano questo omicidio rimandando alle colpe della società. Che ne pensa?

"Ripeto la mia premessa. Un’analisi corretta non può prescindere dalle responsabilità individuali: qui ci sono due persone che rincorrono tre ragazzi per un panino o una scatola di biscotti, che poi prendono in mano una sbarra di ferro e uccidono. Non è stata neppure una lite degenerata e mi chiedo, da padre, che padre sia questo che trascina il figlio in una rissa del genere con un finale così tragico".

Bologna: tre detenuti vanno al lavoro nel maneggio dei cavalli

 

Il Resto del Carlino, 15 settembre 2008

 

Lasciano il carcere per raggiungere il maneggio. Ogni giorno accudiscono i cavalli, studiano, imparano un mestiere e ad avere fiducia. Tre detenuti della Casa Circondariale della Dozza "incontrano" il mondo dell’equitazione. Lo fanno grazie al corso "Diritti di cittadinanza, sport e inclusione sociale: la formazione dei grooms", promosso dal Misp (Master in international studies in philanthropy and social entrepreneurship) dell’università di Bologna in collaborazione con enti e associazioni pubbliche e private. Il progetto, rivolto ai carcerati, è cominciato a maggio e terminerà a fine mese. L’obiettivo dell’iniziativa lo spiega Giuliana Gemelli, direttore del master. "È un’occasione per imparare e trovare lavoro e nello stesso tempo un’occupazione che può aprire spazi per un nuovo inserimento nella società ma anche una cultura della piena cittadinanza.

Abbiamo chiesto la partecipazione della Federazione italiana sport equestri. Speriamo che presto ci dia segnali positivi". Teoria e pratica. I partecipanti seguono anche lezioni di veterinaria (anatomia fisiologia e patologia equina), nutrizione, etica e comportamento, lingua italiana ed educazione civica di legislazione del lavoro. "Per la casa circondariale - prosegue - l’iniziativa potrebbe rappresentare la possibilità di avviare un processo di professionalizzazione unico".

Il corso si svolge al maneggio di Matteo Calzolari a Savigno. "I detenuti sono seguiti da istruttori, ma anche da sportivi, come l’olimpionico Mauro Checcoli - conclude Gemelli - Uno dei risultati attesi è la creazione di un network a cui facciano riferimento i centri più qualificati, in modo che possano essere evidenziate le best practices operative, culturali e di gestione, e il sistema di valori che la formazione al grooming è in grado di comunicare".

Venezia: aperto, per un giorno, l’orto coltivato dalle detenute

 

Redattore Sociale - Dire, 15 settembre 2008

 

Iniziativa del carcere femminile della Giudecca, a Venezia. L’obiettivo: far conoscere l’attività di produzione di frutta, verdura e di un’intera linea di cosmesi.

Sorge all’interno di un ex convento veneziano quattrocentesco un orto del tutto particolare, definito non a caso "Orto delle meraviglie". Fagioli, asparagi, verdure di vario tipo vengono qui curate quotidianamente da un gruppo di donne che hanno una particolarità: sono tutte detenute. L’esperienza, infatti, rientra nelle attività che la cooperativa "Rio Terà dei pensieri" conduce regolarmente all’interno del carcere femminile della Giudecca, a Venezia, dal quale escono ogni settimana ortaggi destinati alla vendita e un’intera linea di cosmesi. Nel corso dell’annuale incontro di presentazione delle iniziative, avvenuto sabato scorso a Venezia, l’ex convento è stato aperto al pubblico per far conoscere da vicino questa singolare realtà.

Con l’aiuto di agronomi e volontari, le detenute con il tempo hanno riportato in vita l’antico orto del convento, nel quale si coltivano gli ortaggi seguendo i metodi naturali. Il banco che garantisce la vendita dei prodotti viene allestito ogni giovedì mattina in Fondamenta delle Convertite, sull’isola della Giudecca, in prossimità del carcere. Ma oltre a frutta e verdura l’orto garantisce le materie prime necessarie a realizzare la linea di cosmetica, con due linee di prodotti all’attivo e una distribuzione che va dalle forniture per alberghi alla vendita al dettaglio. "È con grande piacere che di anno in anno ci apriamo all’esterno per condividere con altri questo percorso - ha affermato la direttrice del carcere, Gabriella Straffi -. Questo è un risultato importante per le persone che sono qui dentro, che raccolgono così il frutto del loro lavoro". Oltre a queste esperienze, poi, è attivo un laboratorio di legatoria che contribuisce a sua volta a perpetuare un’antica tradizione artigianale, riscoprendo le tecniche veneziane di lavorazione della carta, usate per confezionare contenitori, quaderni, cornici.

Tutto questo avviene in una struttura che, però, avverte su di sé il peso dei suoi anni. Tanto che la direttrice, approfittando della presenza del sindaco Massimo Cacciari, lancia la richiesta di una ristrutturazione. Richiesta che non viene raccolta per "mancanza di risorse" come sottolinea senza mezzi termini il primo cittadino che però, insieme all’assessore alle Politiche sociali della Provicnia Rita Zanutel, loda apertamente l’esperienza veneziana, l’attività delle cooperative sociali che vi si dedicano e il direttore della struttura per rendere possibile tutto questo. Per informazioni sulle attività e sui punti vendita: tel. 041.2960658; mail: riotera@libero.it.

Opera: primo giorno scuola per i detenuti aspiranti ragionieri

 

Redattore Sociale - Dire, 15 settembre 2008

 

Una quarantina di detenuti dell’Alta Sicurezza ha fatto ritorno sui banchi. Inaugurato anche il primo anno di corso per i detenuti della cosiddetta categoria "protetti", fra i quali i condannati per reati di natura sessuale

Primo giorno di scuola stamane per gli studenti del corso di ragioneria interno al carcere di Opera. Una quarantina di detenuti dell’"alta sicurezza" ha fatto ritorno sui banchi. Ma da quest’anno è stato inaugurato anche il primo anno di corso per i detenuti della cosiddetta categoria "protetti", fra i quali i condannati per reati di natura sessuale.

"È un passo in avanti - commenta Giorgio Bertazzini, garante dei detenuti della Provincia di Milano - non solo perché si implementa il diritto allo studio, ma anche perché i "protetti" potranno lasciare la propria sezione per frequentare l’area pedagogica, la stessa utilizzata dagli altri detenuti. E questo è fondamentale, per una categoria di detenuti considerati spesso dei negletti".

A frequentare il primo anno della nuova classe saranno in diciotto. Come gli altri iscritti studieranno storia, italiano, lingua, economia politica e le altre materie del corso per ragionieri. Venticinque ore settimanali. I docenti che insegneranno sono dell’istituto "Vincenzo Benini" di Melegnano, che ha una sezione associata interna alla casa di reclusione. All’inaugurazione dell’anno scolastico erano presenti, oltre al Garante, anche il direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano, e la dirigente del "Benini", Adriana Abriani.

"La nascita della classe dei protetti è importante perché è la categoria di detenuti che, per ragioni di incolumità e per la mancanza di spazi autonomi, in passato ha potuto svolgere meno attività - dice il direttore di Opera, Giacinto Siciliano-. Per questo stiamo cercando di potenziare agli spazi ad hoc per lo studio". Nella prossima settimana partirà il corso di scuola media. In tutto i "detenuti-studenti" di Opera sono circa un centinaio.

Carrara: terapia per curare i detenuti alcolisti? vino "a scalare"

 

La Nazione, 26 agosto 2008

 

Sconcerto all’Asl per l’insolita decisione di un medico, che ha ordinato nella casa circondariale una partita di vino per curare gli alcolisti reclusi. Questo metodo d’intervento è piuttosto datato: veniva usato quando ancora non esistevano quei farmaci oggi comunemente impiegati nella cura delle tossicodipendenze.

I rimedi di una volta sembrano essere ancora i migliori. Così avrà pensato quel medico del carcere che per intervenire sui detenuti alcolisti ha ordinato alla direzione della casa circondariale una partita di vino, motivando la richiesta con la necessità di curare i soggetti alcol dipendenti. Un sistema in uso una volta, quando ancora non si era scoperto che benzodiazepine e psicofarmaci potessero essere di aiuto per la dipendenza dall’alcol, e si usava il vino stesso in una terapia a scalare che secondo gli addetti ai lavori adesso lascia il tempo che trova.

Immediato lo sbigottimento della direzione del carcere che alla lettura della strana ordinazione ha rigirato la richiesta del medico alla direzione dell’Asl, essendo i tossicodipendenti adesso di competenza non più del ministero degli Interni, ma del ministero della Salute. All’Asl la notizia ha seminato profondo sconcerto dal momento che chi lavora sulle dipendenze non usa certo le terapie a scalare, ma si avvale, specialmente per i pazienti alcolisti, di terapie a base di psicofarmaci, valium, benzodiazepine. Sostanze che nulla hanno a che vedere con il vino, terapia antiquata e ormai in disuso, specialmente nella nostra Asl dove il dipartimento per le tossicodipendenze utilizza metodi e terapie all’avanguardia del settore.

Libri: "Patrie galere. Cronache dall’Oltrelegge", di V. Morucci

 

Comunicato stampa, 15 settembre 2008

 

"Patrie galere. Cronache dall’Oltrelegge", di Valerio Morucci. Edizioni Ponte alle Grazie.

Con una scrittura godibile e uno stile personale, Valerio Morucci ripercorre gli anni passati nelle carceri di massima sicurezza del nostro Paese. La prospettiva "dall’interno" ci offre un punto di vista privilegiato sui detenuti eccezionali e sulla realtà del carcere, un luogo che segue le regole complesse, rigide e punitive, della liturgia malavitosa, e in cui non esistono i buoni e i cattivi, ma una logica di controllo reciproco ed efferata crudeltà.

Il sistema carcerario, visto anche come uno dei simboli più potenti della nostra società, è raccontato con lucidità, così come gli scontri tra i detenuti e la rivolta nel carcere di Nuoro nel 1980 (Morucci fu tra i capi). Le dinamiche all’interno di un carcere tra terroristi, mafiosi, pericolosi detenuti comuni e secondini; le interazioni tra questi personaggi, per lo più molto diverse da come sarebbero fuori dal carcere; i conflitti politici nati dalla vicinanza di brigatisti dissociati e brigatisti che non hanno mai rinnegato: tutte queste esperienze sono state vissute da Morucci e vengono qui raccontate in un libro-documento, che è anche una forte denuncia del carcere e della società.

 

Valerio Morucci

 

Romano, 59 anni, partecipa al movimento del ‘68. Aderisce successivamente a Potere Operaio e, dopo lo scioglimento del gruppo nel 1973, tenta con altri un rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria attraverso la formazione di organizzazioni politico-militari. Fallito anche questo tentativo aderisce nel 1976 alle Brigate Rosse che lascerà agli inizi del 1979. Arrestato nella primavera successiva ha finito di scontare la sua pena nel 1994.

Ha pubblicato libri di rivisitazione e analisi del fenomeno terroristico: L’idea fissa (Lerici 1985); A guerra finita (Manifesto Libri 1994); Ritratto di un terrorista da giovane (Piemme 1999); La peggio gioventù (Rizzoli 2004). E due romanzi: Klagenfurt 3021 (Fahrenheit 451, 2005) e Il caso e l’inganno (Bevivino Editore, 2006).

 

Ufficio stampa Ponte alle Grazie

Libri: "Bolzaneto, mattanza della democrazia", di M. Calandri

 

La Repubblica, 15 settembre 2008

 

Bolzaneto. La mattanza della democrazia", di Massimo Calandri (Derive Approdi, pp. 256, euro 15). Un libro sui fatti del G8: il dolore e le umiliazioni nel racconto delle vittime dei pestaggi: un lavoro su documenti inediti. L’85 per cento delle 252 vittime di Bolzaneto non andava neppure fermato. E chissà se i ragazzi torturati - che ci sia stata tortura lo dice la recente sentenza - sono stati solo 252: dagli interrogatori e dalle interviste ne spuntano altri, finora sconosciuti.

Primo libro "vero" sul massacro nella caserma di Genova-Bolzaneto durante il G8 del 2001. Vero perché parte dalla sentenza del luglio scorso. Vero perché l’autore, Massimo Calandri di Repubblica, ha raccolto atti in gran parte inediti e ha aggiunto col suo lavoro, ricostruzioni, interviste e racconti. Una documentatissima prefazione di Giuseppe D’Avanzo rende perfettamente il clima e spiega i retroscena. Un lungo filo rosso per capire come mai, oggi, in Italia, possano esistere torturatori e torturati.

Ecco, di seguito, un estratto del secondo capitolo. "Quando mi hanno presa per un braccio. È in quel momento che tutto ha avuto inizio. Una mano mi ha afferrata forte, poco sotto la spalla. In realtà non ho sentito vero dolore. Cioè, niente che poi abbia lasciato lividi, o graffi, un qualche arrossamento della pelle. Nessun segno, davvero. Però una sensazione precisa e strana. Qualcosa di buio. Un male profondo. Come l’alito d’una bestia crudele. Come una scossa elettrica. Come una puntura velenosa. È cominciato esattamente allora, mi ricordo bene. Non un minuto prima. Non quando mi hanno legato le mani dietro la schiena. Neppure quando la poliziotta mi ha colpita con un pugno. Mi si è avvicinata e credevo sorridesse, ho pensato: finalmente, una donna. Lei capirà, mi porterà via. Invece le orecchie hanno cominciato a ronzare. Il sapore ferroso del sangue in bocca. Non è stato quando mi hanno portata via, in quell’auto senza sedili. La testa che sbatteva da una curva all’altra. L’aria che mancava. Ma non è stato allora. Posso giurarlo. Perché il male è arrivato dopo. Dopo, quando la macchina è arrivata a Bolzaneto. Dopo, quando mi hanno presa per un braccio.

Valérie Vie è stata la prima a violare la Zona Rossa. La prima ad essere arrestata. La prima a venire accompagnata nel carcere provvisorio genovese. Caserma Nino Bixio, Bolzaneto. Era in cucina, stava preparando una torta al cioccolato per i figli, guardava la televisione. Ha visto quelle grate assurde. E tre giorni più tardi, alle 15.30 di venerdì 20 luglio 2001, una mano l’afferra forte.

Qualcuno che mi prende, che mi trascina fuori dall’auto della polizia. Siamo arrivati, è chiaro. Attraverso i vetri ho intravisto un piazzale e quella che mi sembrava una piccola folla. Ero confusa, spaventata. Si è aperta la portiera. Quella sulla destra. E mi hanno afferrato. Era una splendida giornata di sole, il riverbero mi ha costretto a chiudere gli occhi. Non so quando sia durato, quanto dura di solito? Un paio di secondi. Uno, due. Buio. Luce. Intorno a me vedo solo uomini. Immobili. Come una folla dipinta in una piazza dipinta. In borghese, in divisa. Intorno alla macchina, sui gradini di un edificio poco lontano. Potrebbero essere cinquanta, o forse mille. Vorrei contarli ma non ci riesco. Mi guardano tutti, nessuno apre bocca. Non arrivano segnali e allora provo io a pensare, ad essere razionale. E quello che mi viene in mente è paradossale. Perché razionalmente vedo dei manichini. Quei guerrieri di terracotta cinesi, è chiaro di cosa sto parlando? Non umani. Senz’anima. È una situazione assurda, mi dico. E la cosa più assurda è proprio quel silenzio. È un film, è un palcoscenico, è una presa in giro? Perché quegli uomini mi guardano così? Scarto subito l’idea di essere diventata sorda.

Nelle orecchie mi è rimasta l’eco della portiera della macchina che si chiude. Vedo delle aiuole poco lontano, e con tutto quel sole per una frazione di secondo immagino di ascoltare le cicale. Magari il canto di un uccellino. Invece no. Solo il silenzio. Gli sguardi su di me. Manichini, statue. E quella mano che mi tiene stretta. Che si impadronisce di me. L’inquietudine arriva così, mi sembra di sentire addosso l’odore del pericolo. Io sento che sta per cominciare qualcosa di pericoloso.

Valérie non sa di essere il primo prigioniero del G8. Valérie non sa nulla. È un alieno, per tutti quegli agenti che l’attendevano. E che ora la scrutano, l’annusano. Sospettosi, ancora prudenti ma avidi di capire. Ci vorrebbe un bastone, per toccarla. Meglio una lunga canna. Per irretirla, ed osservarne la reazione. Come si fa con un animale sconosciuto. Con un nemico. I tre lunghi giorni di Bolzaneto stanno per cominciare.

La poliziotta e il suo collega, quelli che mi avevano portato fino lì, sembrano spariti. Forse la macchina è già andata via, io ormai sono entrata in un’altra galassia. E c’è questo agente grande e grosso. Che mi tiene forte. Che naturalmente non parla. Mi spinge in direzione di un edificio di fronte a me. La sensazione di paura sembra salire, e allora mi ripeto di stare calma. Adesso arriverà un ufficiale, recito mentalmente. Mi chiederà i documenti e gli spiegherò tutto. Speriamo sia una persona giovane, speriamo che capisca. Lo scoprirò subito, mi dico, me ne accorgerò dalla sua espressione. Ma capirà, ne sono certa. E fra dieci minuti sarò fuori di qui. Mezz’ora, al massimo.

Ecco, è entrata. Ma nessuno le rivolge la parola. Nessuno rompe quel silenzio assurdo. Valérie adesso è in cella, il volto contro il muro.

E allora aspettiamo, dico. Forse dovranno parlare con quelli che mi hanno fermato, forse stanno cercando un interprete. O magari l’ufficiale sta riposando. Con questo caldo... Sicuro, dev’essere così: stava riposando. Ora hanno bussato alla sua stanza, lui si riveste e scende. Scende fino alla cella, mi stringe la mano e mi chiede: cosa è successo, madame? Passano i minuti. Silenzio. Silenzio. Silenzio.

Sono così immersa nei miei pensieri. Così immersa, distante. Rifletto su quanto sia grottesca questa situazione. Perché la ragione ancora prevale. Sono così immersa - dico - che neppure mi accorgo che nella cella adesso c’è un’altra persona. È una ragazza. Giovane, meno di trent’anni. Bionda, forse tedesca. Mi dà le spalle. Sembra sussultare. Ma cosa fa, piange? Piange, singhiozza. Provo a comunicare in inglese, che ti è successo? Appoggia la fronte al muro, e piange.

Non fare così, non siamo nel Medioevo. Trema. Avanti, staccati da quel muro, va tutto bene. Va tutto bene, non avere paura. No. No, mi risponde. Non va tutto bene. Lasciami così, ti supplico. Mi hanno ordinato di stare così. Faccia contro il muro, gambe divaricate, faccia contro il muro. Ti hanno ordinato? E fai attenzione, bisbiglia: mettiti così anche tu, altrimenti saranno guai. Vorrei rispondere a questa ragazza, vorrei spiegarle che non c’è motivo di preoccuparsi.

Vorrei prometterle che non siamo in pericolo, vorrei abbracciarla. Ma non muovo un muscolo. Ma non mi esce una sola parola di bocca. Anche io, adesso, sto in silenzio. Paralizzata. Perché temo di aver compreso. Perché adesso sono consapevole che la situazione è molto più grave di quanto avessi immaginato. Perché qualche minuto dopo arriva e mi prende, senza nessun motivo. Il terrore.

Da dove dovrei cominciare? Dalla stretta al braccio, d’accordo. Perché quello è l’inizio di tutto. Ma dopo, dico. Devo raccontare le manganellate. Oppure gli schiaffi, i calci. L’umiliazione di spogliarsi davanti a uomini e donne che ridono di te. Che ti guardano, che scrutano ogni centimetro del tuo corpo, che ti penetrano con i loro occhi. Tu sei nuda, e ti senti così fragile. Sola. E tutto intorno a te è sporco, corrotto, nero. Appoggi i piedi sul pavimento e ti fa schifo, ti spingono da una parte all’altra e ti fa schifo, ti dicono alza braccia, e girati, e allarga le gambe, e accucciati e ti fa schifo. Vorresti solo gettarti a terra, perdere conoscenza. Dormire. E scoprire che era tutto un sogno. Forse potrei parlare di uno, che era finito lì dentro solo per essere identificato. Voleva il suo nome, tutto qui. L’hanno picchiato, l’hanno umiliato. E poi: scusa tanto, è tutto a posto. Puoi andare. Quella è l’uscita. E lui è andato fuori, e non sapeva che fare.

Era buio, non c’erano indicazioni. È tornato indietro. Gli hanno detto: tranquillo, vai a destra e cammina per un paio di chilometri. Troverai il centro. Naturalmente, era dall’altra parte che doveva andare. O devo dire del sangue, di ragazzi grandi e grossi che piangono e tremano, che obbediscono terrorizzati - come automi - ad ogni ordine. Della notte passata abbracciati, a darci un po’ di coraggio. E quei mostri che trascinano i loro caschi contro le sbarre delle celle, o s’affacciano all’improvviso alla finestra e cominciano ad urlare. A fare versi di animali. A grugnire come maiali. E a ridere.

No, forse è meglio tornare ancora indietro. Scappare via con l’orologio del tempo. Facciamo che siamo ancora all’inizio del pomeriggio di venerdì. Che non mi hanno portato a Bolzaneto. Che sono in piazza Dante, insieme ai francesi di Attac e a centinaia di persone che protestano. Davanti a noi, quelle stupide grate.

L’obiettivo lo sapete. Volevamo ritrovarci, e dire che un altro mondo è possibile. Volevamo entrare, oltre la Zona Rossa, volevamo spiegare a tutti i politici che non è vero quello che dicono. Non è vero che non ci sono alternative. Perché loro si giustificano così: purtroppo non possiamo fare altro, amici, compagni, sarebbe bello cambiare - siamo tutti d’accordo, miei cari: chi non vorrebbe un mondo migliore - ma disgraziatamente non ci sono alternative. Invece no.

Si può cambiare, eccome. E loro lo sanno benissimo. Dunque, volevamo entrare. Abbiamo cominciato a spingere, a spingere. Come è successo che sono stata la prima? Beh, è abbastanza semplice da raccontare. Avete presente un barattolo di quelli sotto vuoto? Marmellata, verdure sott’olio, conserva di pomodoro.

Fa lo stesso. Allora: c’è questo barattolo, e naturalmente non si apre. Chiami tuo marito, che prova a svitarlo. Non ce la fa, s’arrabbia. Chiede uno straccio da avvolgere, perché scivola. Ci riprova. Bestemmia. Niente da fare. Arriva un altro uomo. Il nonno. Svita, svita. Niente. Ma dove ce l’hai la forza, ma lascia fare a me, ma passami questo barattolo. Arriva il figlio maggiore, il fratello. Insomma. Uomini, uomini, uomini. Quando il più intelligente di loro - sconfitto, esasperato - propone di prendere le pinze o peggio ancora un martello, sai che tocca a te. Che ci devi riprovare tu. E il barattolo - tlac! - magicamente si apre. Bastava ancora una piccola pressione. Ecco, quel pomeriggio è andata così. Che hanno spinto in quattrocento per più di un’ora. E ad un certo mi sono trovata lì, davanti a tutti. Ho appoggiato le mani e la grata di è aperta. Tlac. Come un barattolo di marmellata.

A Bolzaneto sono arrivata venerdì pomeriggio. Me ne sono andata domenica notte. Mi hanno fatto male. Male dentro. E perché? Perché avevo fatto un passo in avanti, a braccia alzate. Ho visto un ragazzo per terra in un corridoio. Privo di conoscenza. Era a faccia in giù, in una posizione così innaturale - come disarticolato - che ho pensato: questo è ubriaco fradicio. Lo so che è una sciocchezza, però ho pensato che fosse sbronzo. E poi ho scorto il sangue che gli usciva dalle orecchie. Fuori dalla cella ne ho visto pestare uno di brutto. Pugni, calci, bastonate.

Sembrava un fantoccio, ad un certo punto ha smesso persino di provare a ripararsi dai colpi con le braccia. Uno dei poliziotti ha sentito che qualcuno li stava osservando. Ha alzato lo sguardo, ha incrociato il mio. È entrato in cella come una furia, mi ha preso per il collo, mi ha sbattuto con la faccia al muro. ‘Ti ho detto che devi stare ferma!’, ha ringhiato. Ho pianto. Ho pianto perché avevo vergogna di me stessa. Perché quando sono entrata in quella prigione ho guardato con stupore quella ragazza che mi diceva di stare zitta e buona. L’ho giudicata. Qui non siamo nel Medioevo, tu sei un essere umano, dov’è la tua dignità? Ma mezz’ora più tardi ero come lei. Stavo zitta, e pensavo solo a sopravvivere. E questo è il male più grande che mi hanno fatto, perché quel rimorso me lo porto dentro. Ce lo portiamo dentro tutti.

Dove ero rimasta? La griglia che si apre di mezzo metro. Giusto lo spazio per infilarmi. Diciamo che è stato come essere a teatro. Le tende che si aprono, il palcoscenico. S’accendono le luci. Tutti hanno fatto un passo indietro, ma qualcuno doveva entrare in scena. È toccato a me. Ho pensato che avevamo vinto. Che bastava fare ancora un piccolo passo per smascherare questa parodia. Ho capito che era l’istante da vivere. È stato come quando vedi dei bambini che attraversano la strada. E tu fai un passo in avanti, istintivamente.

Ero a fianco di Joseph Bové, dietro di me c’era una delle madri di Plaza de Mayo. Ho fatto un passo ed ero felice. Nell’altro mondo. Nella Zona Rossa. Non so quanto tempo sia passato. Qualche secondo, credo. Sono arrivati degli uomini in divisa, con i caschi e le maschere anti-gas. Mi hanno portato lontano, io ho alzato le braccia perché tutti mi vedessero. Perché tutti mi seguissero. È fatta, mi sono detta. Adesso anche gli altri entreranno da nuovi varchi. Adesso gli abbiamo dimostrato come erano ridicoli, con queste barriere, con le loro assurde gabbie. Adesso ci riceveranno i rappresentanti degli Otto. Parleremo, parleremo, parleremo. Capiranno l’assurdità di questo isolamento. Adesso succederà tutto questo. Invece no.

È alta, sottile, ha modi gentili e pacati. Valérie avuto un’infanzia difficile, dice. Oggi ha quarant’anni, tre figli. Vive non lontano da Avignone, fa la giornalista. Nella sua famiglia ci sono stati molti poliziotti, conosce bene i meccanismi di chi veste la divisa.

Me ne ricordo uno, a Bolzaneto. Credo sia quello che ha avuto la condanna più pesante. Aveva una faccia da brav’uomo. Gli occhi chiari, lo sguardo fermo. Robusto, calvo. Sapeva un po' di francese. Uno con cui si potrebbe parlare a lungo. Ma lontano da quella caserma. Là dentro mi ha preso il passaporto, lo ha sfogliato. Mi ha mostrato le fotografie dei bambini. ‘Li vuoi davvero rivedere? Allora firma questo verbale.

Altrimenti gli puoi dire addio. Così mi ha detto, quel brav’uomo. Voleva farcela pagare, ecco. Non mi chiedete perché. Voleva punirci. Lui, gli altri. Dicevano: i rossi li trattiamo così, in Italia. Chiedevi un avvocato e si mettevano a ridere. Devi firmare, mi diceva. Con quegli occhi dolci. Quel sorriso paterno.

Non lo sapevo di essere la sola, dentro la Zona Rossa. Non lo sapevo che avevano subito chiuso il varco, che li avevano ricacciati indietro. Non lo sapevo che mi avrebbero portato a Bolzaneto. Non lo sapevo ed ero tranquilla. Anche se mi guardavano male, anche se mi spintonavano lontano da lì. Mi hanno consegnato a degli agenti in borghese, poi è arrivata quella strana macchina. E la poliziotta. Che mi ha tirato un bel pugno in bocca, senza motivo. Mi hanno legato le mani dietro la schiena, e sono finita in macchina, Una strana vettura, senza sedili, con dei vetri scuri. Avevo la sensazione di soffocare, ma un secondo agente, quello che si è messo al volante, mi ha fatto segno che sul pavimento c’erano dei buchi per l’aria. Abbiamo attraversato la città, ho scorto il centro storico e il porto di Genova. Mi sono commossa, mi è sembrata una città bellissima e ho pensato come sarebbe stato bello venirci per un gita. Forse era esattamente questo, che i poliziotti avrebbero voluto dirmi: qui non ci dovevi venire, per manifestare. Sei venuto, e ora ti meriti tutto ciò. La prossima volta vieni per visitare la città, sarà meglio.

Immigrazione; Fortress Europe; ad agosto almeno 270 i morti

 

Fortress Europe, 15 settembre 2008

 

Più sbarchi, più stragi. Raddoppiano le vittime dell’immigrazione nel Canale di Sicilia, di pari passo con l’aumento degli arrivi. Sempre più grave il bollettino dalle frontiere europee. I migranti e rifugiati morti ad agosto alle porte dell’Ue sono almeno 270, secondo le notizie censite sulla stampa, 179 dei quali tra la Libia, Malta e l’Italia. È il bilancio più grave dall’inizio dell’anno. Vittime anche tra l’Algeria e la Sardegna (14), in Spagna (45) e Iran (30), dove si è rovesciato un camion carico di rifugiati afgani diretto in Turchia. Una vittima anche nell’Egeo, al largo della città turca di Didimi; e un’altra sulla frontiera tra Egitto e Israele, uccisa dalla polizia egiziana. Continua il viaggio di Fortress Europe attraverso il Mediterraneo. Dopo i reportage su Grecia, Israele e Turchia, dedichiamo questo rapporto mensile alla grave e poco conosciuta situazione di Cipro.

Nicosia - La guerra civile in Sierra Leone, tra il 1991 e il 2001, si lasciò alle spalle almeno 50.000 morti e centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati. Outhman era uno di loro. Fuggì nel 2000, verso il Senegal, dove riuscì a comprare un passaporto con un visto per il Libano. Un anno dopo approdava con altre 23 persone sulle coste nord dell’isola di Cipro. Outhman è uno dei circa 11.000 richiedenti asilo politico che vivono a Cipro. In trappola. Lo aveva intervistato nel 2006 Sergio Serraino, riuscendo ad entrare nel braccio della prigione centrale di Nicosia dedicata alla detenzione amministrativa dei migranti senza documenti, il famigerato Block 10. A due anni di distanza, siamo riusciti a incontrato nel cortile dell’associazione per i rifugiati Kisa, nella zona greca della capitale cipriota. Dal Block 10 è uscito a maggio 2008. Dopo 39 mesi di detenzione e tre tentativi di rimpatrio non riusciti. La sua domanda d’asilo ha avuto una prima risposta negativa. Il caso pende adesso davanti alla Corte europea dei diritti umani. Lo hanno rimesso in libertà una settimana prima della visita al carcere del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio europeo. Con lui sono usciti tutti quelli che erano dentro il Block 10 da oltre sei mesi. Potrebbe essere il segnale di un cambiamento in uno Stato dove la detenzione amministrativa dei migranti non ha limiti di tempo. Ma intanto Outhman non è più lo stesso.

Gli chiedo di ricordare, ma fa fatica. La memoria ha rimosso gran parte di quei tre anni che lo Stato cipriota gli ha sequestrato alla vita. Anni spersonalizzanti, dolorosi, e interminabili. Poi, man mano che parliamo, la mente ritorna al passato. Outhman dice di aver visto deportare molti potenziali rifugiati. Un congolese della Rdc, nel 2006, di cui ad oggi la famiglia non ha più notizie. Una famiglia di kurdi turchi, padre, madre e cinque figli. E uno srilankese, rimpatriato nonostante la moglie vivesse regolarmente a Cipro. Un capitolo a parte è quello della salute mentale dei detenuti. Outhman ci ritorna più volte. Ne ha visti di uomini piangere come bambini, e perdersi d’animo. Lui stesso più volte ha tentato il suicidio. Dopotutto era l’unico modo per scappare. L’altra opzione era impazzire. Ali l’iraniano, era lucidissimo quando lo arrestarono. Quando, un anno dopo, la famiglia venne a visitarlo, passava il giorno a delirare e a lavarsi le mani, di continuo. Morì un mese dopo il rimpatrio. Un altro iraniano, Sajjad, soffriva di paranoia. Vedeva ovunque complotti contro la sua persona. Era irascibile. Lo portarono all’ospedale psichiatrico di Athalassa, a Nicosia. Non se ne è più saputo niente. Anche Khalid il palestinese, fu ricoverato. Girava nudo per il corridoio e veniva alle mani per la minima ragione. Adesso è stato rilasciato, pare stia meglio. Un altro ragazzo palestinese invece, Mohamed, approfittava di ogni occasione per tagliarsi i polsi. Diceva che non voleva più vivere. Viveva a Cipro sin da ragazzo, senza documenti.

Block 10 è una sezione della prigione centrale di Nicosia. Mi ci reco l’indomani mattina. Riesco ad entrare facilmente, spacciandomi per un amico di C., uno dei detenuti con cui Outhman mi ha messo in contatto telefonicamente. La polizia non fa storie. Entro insieme a un georgiano in visita a un parente. Le celle sono disposte sui lati di un lungo corridoio, chiuso da una porta blindata. Nel corridoio c’è un televisore, i tavoli per la mensa e l’aria condizionata. Le celle sono di due metri per due metri e cinquanta. Con un unico letto a castello. I due materassi distano meno di un metro uno dall’altro. Nelle celle non c’è aria condizionata né riscaldamento. I detenuti sono una cinquantina. Sono liberi di uscire nello stretto corridoio. Nel cortile invece vengono lasciati andare solo una volta al giorno. Per l’ora d’aria. Ogni tanto ricevono visite da Teofani, una suora della parrocchia di Saint Joseph a Larnaca. Porta loro vestiti e recita preghiere insieme ai cristiani. Più raramente passano anche i funzionari dell’Unhcr. Nel Block 10 non si fa niente dalla mattina alla sera.

I poliziotti sono incuriositi dalla mia visita. C. infatti da due settimane rifiuta di incontrare la moglie e i bambini. In segno di protesta. È al Block 10 da sette mesi. Viene dalla Nigeria, e vive a Cipro dal 2001. La sua richiesta d’asilo è stata rigettata lo scorso 16 maggio e adesso non ha i soldi per pagare un avvocato per il ricorso. Ma non è per questo che è arrabbiato col mondo. C. è sposato con una donna filippina che vive qui a Nicosia. Hanno due figli di 5 e 3 anni. E il più grande, due settimane fa, gli ha chiesto perché? Perché sta in prigione? È un uomo cattivo? Oppure è perché non vuole più bene alla mamma? C. non gli ha ancora saputo rispondere.

Cipro dista 70 km dalla Turchia, e 100 km dalla Siria. L’isola è occupata per circa i due terzi della superficie dalla Repubblica di Cipro, che dal primo maggio 2004 fa parte dell’Unione Europea. Il restante territorio, a nord, è occupato dalla Repubblica Turca di Cipro Nord proclamata dopo l’intervento militare turco nel 1974. Sull’isola vivono circa 800.000 abitanti e 170.000 immigrati. Circa 30.000 sono cittadini Ue, 60.000 non comunitari (filippini, pakistani, srilankesi) impiegati nei lavori domestici e nella ristorazione, 20.000 greci del caucaso e circa 50.000 senza documenti, soprattutto siriani e turchi. I richiedenti asilo sono circa 11.000. Sono soprattutto siriani, srilankesi, indiani, pakistani, bangladesi, irakeni, palestinesi, iraniani, georgiani. Una cifra esigua, che però fa di Cipro il primo Paese nell’Ue per l’incidenza del numero di richiedenti asilo sul numero di abitanti. Ad oggi i rifugiati riconosciuti sono circa 500, il 95% dei quali iracheni e palestinesi. Nel 2007 il tasso di riconoscimento dei rifugiati è stato dell’1,25%. Uno dei più bassi in Europa. E le espulsioni circa 2.500 l’anno. A snocciolarmi i dati è Cristina Palmas, dell’Unhcr. La incontro sotto un sole cocente, nell’head quarter della Unficyp, la missione dell’Onu presente a Cipro dal 1964.

La legge sull’asilo risale al 2000. Dal 2002 l’Unhcr ha trasferito tutti i casi al ministero dell’Interno. La legge è buona - sostiene Palmas - ma tuttavia non viene applicata. Il welfare prevede un’assistenza di 500 euro mensili ai richiedenti asilo, ma nel 2007 ne usufruivano soltanto 300 persone su 11.000. I tempi di attesa per il riconoscimento dello status sono di alcuni anni. Nel frattempo i richiedenti asilo possono lavorare soltanto nell’agricoltura. Ogni altro impiego è considerato illegale. Peccato che il settore dell’agricoltura sia in crisi e non necessiti di nuova forza lavoro. I contratti nazionali del settore inoltre non superano i 300 euro mensili, meno dell’assegno sociale, in un paese dove un caffè costa tre euro. Palmas mi fa inoltre notare che, a fronte di 11.000 richiedenti asilo, c’è un unico centro di accoglienza con 43 posti letto, dedicato a donne e nuclei familiari. Il giorno dopo mi reco a visitarlo.

Il centro si trova a quattro chilometri da Kophinou, una novantina di kilometri a sud di Nicosia. Aperto nel 1997 per i gitani, dal 2003 è dedicato all’accoglienza di richiedenti asilo. Due file di container disposti sopra una gittata di cemento in mezzo alle montagne. Il tutto circondato da una recinzione. Ogni container conta tre stanze doppie, ma le strutture sono semivuote. In molti se ne sono andati. All’isolamento di Kophinou preferiscono la precarietà della capitale. Rachel invece è rimasta al campo. È camerunese. Aspetta da due anni una risposta alla sua richiesta d’asilo. Passa le sue giornate in chat, nella sala internet. Lo Stato le paga 80 euro al mese. Le è proibito lavorare, a parte in campagna. A Kophinou mi ha accompagnato Jonathan, in macchina. Prima di andare via mi chiede di fargli una foto contro la recinzione. Siamo in gabbia, scherza. Quattro anni di limbo non gli hanno ancora fatto perdere l’ironia.

Jonathan è uno dei fantasmi di una generazione scomparsa dal Kivu, in Congo (Rdc). Chi non è stato ammazzato se ne è andato, dice. Lui è dovuto fuggire con tutta la famiglia. Lavorava in una ong locale e scriveva come giornalista. La sua discesa agli inferi inizia il 30 ottobre del 1996, nella sua città natale di Goma. L’esercito dei Banyamulenge bombarda i campi profughi a Uvira-Goma -Bukavu. È l’inizio della prima guerra del Congo. Da una parte i militari zairesi dall’altra i ribelli. Lungo l’asse Bukavu-Goma scoppia l’inferno. Il primo giorno di combattimenti, provoca nella sola città di Goma migliaia di vittime. Vengono sepolte in un’unica fossa comune. Jonathan scappa. Prima in Uganda, poi in Kenya. Nel 2004, da Nairobi decolla per la Siria. Da lì, via Hatay, arriva clandestinamente a Istanbul. Inizialmente aveva pensato alla Grecia. Ma poi si convince per Cipro, che è appena entrata nell’Ue. Compra un passaporto con un visto turistico turco ancora valido e prende un aereo per Erçan, l’aeroporto nel nord dell’isola occupata dalla Turchia. Pochi giorni dopo, in quattro, attraversano a piedi, in piena notte, la green line che divide in due Nicosia. La polizia li ferma. Jonathan zoppica. Si è storto la caviglia saltando il muro che separa la zona turca da quella greca. Uno dei poliziotti lo picchia ripetutamente con il manganello sulla caviglia già gonfia e dolorante. Sono immediatamente riaccompagnati dal lato turco della green line e lì abbandonati. Jonathan non riesce a camminare. Decidono di separarsi. Trascinandosi la gamba ferita, qualche ora dopo, riesce lo stesso a scavalcare i rotoli di filo spinato dietro i campetti di calcio. Un connazionale lo incontra per strada, per caso, e lo ospita a casa propria, per un mese, finché non ritorna a camminare e si presenta alla polizia per chiedere asilo.

Sono passati quattro anni da allora. E ancora non è arrivata nessuna risposta. Se almeno mi avessero detto di no, dice Jonathan, mi sarei potuto organizzare diversamente. E invece eccolo qua, sequestrato a se stesso, nel limbo dell’attesa. Vive grazie all’assegno del welfare. L’anno scorso ha fatto arrivare la moglie con un visto per motivi di studio. Ora aspettano un bambino. Un figlio sarà come una cima lanciata ad un naufrago dalla scialuppa di salvataggio, una corda a cui stringersi per andare verso il futuro ed uscire dal vortice del tempo presente. Per non fare la fine di Joao, anche lui congolese, che anche oggi chiede dei suoi documenti, al commesso dell’internet point dell’associazione Kisa. Indossa stivali di gomma verde in piena estate. E la ragione deve averla persa tra le sbarre del Block 10. Finisco di scrivere l’articolo. Di fronte a me, dietro lo schermo di un Pc, Durjan sorride. Ha finalmente spedito in Nepal alcune sue foto, per mail. È bloccato a Cipro dal 2003. Suo figlio ha nove anni. Vive con la madre a Katmandu. E da un po’ di tempo chiedeva con insistenza di avere delle sue foto. Perché, diceva, dopo cinque anni, non ricordava più faccia avesse suo padre.

Droghe: Siena; ragazza di vent'anni muore dopo un rave-party

 

Corriere della Sera, 15 agosto 2008

 

A trovarla è stata la sorella maggiore. Era svenuta, sotto la pioggia, fuori da un capanno per cacciatori, ostello improvvisato per cinquanta ragazzi che avevano partecipato a un rave party. Eleonora, 20 anni, commessa in un supermercato di Siena, era supina, rantolava, i vestiti ricoperti dal fango. La sorella, Valentina, 24 anni, ha cercato di soccorrerla; respirazione bocca a bocca, un abbozzo di massaggio cardiaco. Poi, urlando, ha svegliato gli amici. "Aiutatemi, Eleonora sta morendo, fate qualcosa".

Una telefonata al 118. Tutto inutile. Eleonora non è arrivata viva al policlinico Le Scotte di Siena: è morta sull’ambulanza durante il trasporto. Probabilmente l’ha uccisa un cocktail micidiale di droga, alcol e stress. "A provocare la morte potrebbe essere stata una droga sintetica, forse l’ecstasy - dicono i carabinieri del nucleo operativo radiomobile di Siena -; probabilmente si è sentita male durante la notte e nessuno degli amici se n’è accorto".

È accaduto ieri mattina a Fuserna, una località boschiva nel comune di Sovicille, una ventina di chilometri a sud di Siena. Qui un gruppo di "punkabbestia" toscani si era ritrovato sabato notte per un rave party. Avevano scelto un capanno di cacciatori, della dimensione di venti metri per cinque, nel quale avevano installato le casse acustiche e l’amplificatore insieme a un piccolo generatore autonomo di corrente a gasolio. Una festa durato sino alle cinque del mattino, tra balli, fiumi di birra e vino, droga. Una festa simile si era svolta la settimana precedente nelle campagne della vicina Colle Val d’Elsa, ma in quella occasione gli organizzatori avevano comunicato a questura e carabinieri l’evento e tutto era filato liscio. Fino a tarda notte i carabinieri di Siena hanno interrogato i partecipanti al rave party e hanno perquisito alcune delle case degli organizzatori a Firenze, Siena, Arezzo e Grosseto. Pare sia stata sequestrata anche droga.

 

Giovane morta al rave party, due arresti (Adnkronos)

 

Sarebbe stata l’assunzione di una dose massiccia di ketamina a causare la morte di Eleonora L., la studentessa senese di 20 anni deceduta ieri mattina, dopo aver trascorso il sabato sera a un rave party organizzato da gruppi di punkabbestia in un capanno di caccia nel territorio comunale di Sovicille (Si). I carabinieri hanno arrestato, in nottata, M.P., 27 anni, di Chiusi, accusato di essere la persona che ha ceduto la droga alla 20enne. Il ragazzo, interrogato nel corso della notte dal sostituto procuratore di Siena Nicola Marini, ha ammesso in parte le sue responsabilità. Nella sua abitazione di Chianciano sono stati trovati 7 grammi di hashish e un bilancino di precisione. Anche a casa della madre del 27enne è stata rinvenuta della droga, in particolare 89 grammi di hashish, occultati in camera da letto: la donna, D.C., 49 anni, maestra elementare a Chiusi, è stata arrestata per spaccio di stupefacenti e portata nel carcere di Perugia. Il figlio, invece, è stato trasferito nel penitenziario di Siena.

Sarà in ogni caso l’autopsia a chiarire definitivamente le cause della morte di Eleonora. I risultati degli esami dovrebbero essere resi noti in giornata. La studentessa si è sentita male intorno alle 8 di ieri mattina, quando si trovava ancora nel capanno dove era stata organizzata la festa. Soccorsa, è stata portata al Policlinico Le Scotte di Siena, dove è morta alle 9.30 per arresto cardiocircolatorio. Il rave era stato organizzato tramite una catena di sms, e vi hanno preso parte una quarantina di giovani. Quando i carabinieri sono arrivati sul luogo in cui si era tenuto il rave party non autorizzato, le sostanze illecite erano sparite, ma i militari sono convinti che alla festa si sia fatto un abbondante uso di droga. Una quindicina i ragazzi interrogati. Il rave era stato organizzato tramite una catena di sms e vi hanno preso parte giovani di Siena, Arezzo e Grosseto.

 

 

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