Rassegna stampa 28 ottobre

 

Giustizia: "populismo penale"... ovvero la strategia della paura

Intervista a Luigi Ferrajoli, a cura di Roberto Ciccarelli

 

Il Manifesto, 28 ottobre 2008

 

Il populismo penale che presiede le politiche della tolleranza zero in nome della sicurezza offusca la costruzione in atto di un sistema giuridico che risponde a una visione classista della giustizia. Anche se diminuiscono i crimini commessi, l’ostilità verso i migranti e la piccola criminalità viene alimentata dai media e dai partiti conservatori per costruire il consenso alle norme securitarie.

Un populismo penale che promuove il diritto minimo per i ricchi e i potenti, e un diritto repressivo per i poveri, i marginali e i "devianti", con l’aggravante delle leggi razziste che colpiscono migranti irregolari e rom. È severo e indignato il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli quando commenta le decisioni prese dal governo Berlusconi sulla sicurezza ispirati alla "tolleranza zero". "Per la prima volta nella storia della Repubblica - afferma - la stigmatizzazione penale non colpisce solo singoli individui sulla base dei reati da essi compiuti, ma intere classi di persone sulla base della loro identità etnica".

Un giudizio che non sorprende, quello del massimo teorico del garantismo penale, che ha sempre legato agli studi di diritto, di logica e di metodologia della scienza giuridica, una tensione etica verso l’effettività del diritto sul piano storico e su quello politico. Già magistrato dal 1967 al 1975, anni in cui partecipò alla fondazione di "Magistratura Democratica", Ferrajoli che oggi insegna Filosofia del Diritto alla Terza Università di Roma, ha intrapreso un’opera che ha conosciuto capolavori come Diritto e Ragione del 1989, per giungere al libro della vita, i tre volumi di Principia Iuris, pubblicati quest’anno.

 

L’omicidio di Giovanna Reggiani avvenuto un anno fa a Roma sembra avere impresso una "svolta punitiva" alla politica italiana. Prima il "pacchetto sicurezza" del Governo Prodi, poi le misure che sanzionano pesantemente la criminalità di strada, l’immigrazione irregolare e i rom del Governo Berlusconi, ricorrendo anche all’esercito. Il tutto in nome dell’insicurezza crescente. Ma quanto è reale questa paura?

Si tratta di una paura in gran parte costruita dal sistema politica e dai media. Secondo le analisi del Centro d’ascolto del Partito Radicale, lo spazio dedicato dai telegiornali alle notizie di cronaca nera è passato dal 10,4% nel 2003 al 23,7% nel 2007, con un incremento del 233,4% nel biennio 2006-2007. Questi dati sono cresciuti in corrispondenza della campagna elettorale. La destra ha cavalcato senza ritegno la politica della paura che ritengo non abbia alcuna giustificazione. Se guardiamo le statistiche storiche, vediamo che in Italia il numero degli omicidi è sceso l’anno scorso a 601, rispetto ai 5 mila nella seconda metà dell’Ottocento. Le lesioni volontarie, le violenze sessuali, sono diminuite di circa due terzi. Lo stesso per i furti e le rapine.

 

Lei ha definito questo uso demagogico della paura nei termini di "populismo penale". In cosa consiste?

Con questa espressione il giurista francese Denis Salas e quello domenicano Eduardo Jorge Prats definivano una strategia diretta ad ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità di strada. Si afferma così un uso congiunturale del diritto penale in senso repressivo ed antigarantista che è totalmente inefficace rispetto alle intenzioni di prevenire i crimini.

 

Per quale ragione?

Prenda, ad esempio, la proposta di introdurre il reato di immigrazione clandestina. Questo nuovo reato assegnerà a chiunque entra nel territorio nazionale, o vi si intrattiene illegalmente, la condizione di delinquente. Questo significa che in un colpo solo 700 mila immigrati clandestini residenti dovranno essere incarcerati. Senza contare che è impossibile incarcerare centinaia di migliaia di persone. Oppure il reato di prostituzione e adescamento in strada, come proposto dal ministro Mara Carfagna: decine di migliaia di prostitute dovrebbero essere arrestate e processate insieme ai loro clienti. Ovviamente è impensabile che queste norme possano essere seriamente applicate. Ma proprio questo ne conferma il carattere demagogico. Quello che è importante è la valenza simbolica di questi annunci, non la loro applicabilità.

 

Queste misure sono state giustificate in nome della "tolleranza zero"...

"Tolleranza zero" è un’espressione assurda che esprime un’utopia reazionaria. L’eliminazione dei delitti, cioè la loro riduzione a zero, è impossibile senza un’involuzione totalitaria del sistema politico. La "tolleranza zero" potrebbe essere forse raggiunta solo in una società panottica di tipo poliziesco, che sopprimesse preventivamente le libertà di tutti, mettendo un poliziotto alle spalle di ogni cittadino e i carri armati nelle strade. Il costo sarebbe insomma la trasformazione delle nostre società in regimi disciplinari e illiberali sottoposti alla vigilanza capillare e pervasiva della polizia.

 

Ma è sulla base di questa parola d’ordine che è avvenuta negli ultimi vent’anni la crescita, non solo in Italia, della carcerazione penale. Se è dunque così inefficace, perché la "tolleranza zero" continua ad essere applicata?

Il fenomeno a cui lei accenna è di dimensioni gigantesche, in tutti i paesi occidentali si è prodotta una vera esplosione delle carceri. In Italia, la popolazione carceraria è raddoppiata, arrivando a 50 mila persone detenute; negli Stati Uniti è addirittura decuplicata, 2 milioni di persone, senza contare i 4 milioni sottoposti alle misure della probation o della parole. Bisogna anche ricordare che in questo paese il numero degli omicidi ha raggiunto quota 30 mila all’anno, dieci volte in più dell’Italia, nonostante le mafie e le camorre. Si tratta di una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, totalmente scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale, alimentata da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza i poveri, gli emarginati, i diversi come lo straniero, l’islamico, il clandestino, all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza.

 

Esiste un rapporto tra questo uso della giustizia penale e il cosiddetto Lodo Alfano che tutela le alte cariche dello Stato?

È la duplicazione del diritto penale: un diritto mite per i ricchi e i potenti e un diritto massimo per i poveri e gli emarginati. In questa duplicazione, le misure draconiane contro la delinquenza di strada convivono con l’edificazione di un intero corpus iuris ad personam finalizzato a paralizzare i vari processi contro il presidente del Consiglio, con l’annessa campagna di denigrazione dei giudici accusati di fare politica, anche se interpretano il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. È la prova che oggi la giustizia è sostanzialmente impotente nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi, mentre è severissima nei confronti della delinquenza di strada. Si pensi agli aumenti massicci di pena per i recidivi previsti dalla legge Cirielli, sull’esempio degli Stati Uniti, simultaneamente alla riduzione dei termini di prescrizione per i delitti societari, destinati così alla prescrizione. E si pensi, invece, alle pene durissime introdotte dal decreto sulla sicurezza: espulsione dello straniero condannato a più di due anni, reclusione da 1 a 5 anni per avere dichiarato false generalità, aumento della pena fino a un terzo nel caso in cui lo straniero sia clandestino.

 

Sta dicendo che il diritto penale viene ormai usato come strumento di discriminazione?

Tutte queste misure violano una serie di principi di civiltà giuridica, ma soprattutto la sostanza del principio di legalità, cioè il divieto in materia penale di associare una pena ad una condizione, o ad un’identità personale, tanto più se è etnica. È il meccanismo della demagogia populista: si costruisce un potenziale nemico, l’immigrato, e lo si addita come possibile delinquente, o soggetto pericoloso, esponendolo alla violenza omicida come abbiamo visto nelle ultime settimane con l’assassinio di Abdoul Guiebré a Milano, con la strage dei sei lavoratori africani a Castel Volturno, con gli incendi dei campi rom a Napoli e molti altri episodi purtroppo giornalieri. Ma l’aspetto più grave di queste leggi, più ancora della violazione dei principi garantisti, è il veleno razzista che iniettano nel senso comune. Queste leggi non si limitano ad assecondare il razzismo diffuso nella società, ma esse stesse sono leggi razziste, a distanza di settant’anni di quelle di Mussolini, delle quali i nostri governanti dovrebbero vergognarsi.

 

In che cosa consisterebbe, invece, l’uso garantista del diritto penale?

In una politica razionale, e non demagogica, che abbia a cuore la prevenzione dei delitti, insieme alla garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e che consideri la giustizia penale come un’extrema ratio. La vera prevenzione della delinquenza è una prevenzione pre-penale, prima ancora che penale.

 

Non si può dire che la sinistra non abbia ceduto alle tentazioni dell’ideologia sicuritaria negli ultimi anni, penso alle misure contro i lavavetri e l’accattonaggio adottate da alcuni suoi sindaci. In che modo è possibile impostare una diversa politica della prevenzione?

Con lo sviluppo dell’istruzione di base, con la soddisfazione dei minimi vitali, in altre parole con la costruzione dell’intero sistema di garanzie dal quale dipende l’effettività della democrazia. Ma la prevenzione passa soprattutto dallo sviluppo del senso civico, della solidarietà sociale, della tolleranza per i diversi, insomma dalle virtù civili e politiche che sono esattamente opposte alla paura e al sospetto di tutti verso tutti, alimentati dalla legislazione emergenziale sulla sicurezza.

 

Sta dicendo che le politiche sociali dovrebbero limitare al massimo il ricorso alle politiche penali?

È proprio sul terreno delle politiche sociali che matura la convergenza tra garantismo liberale e garantismo sociale, tra garanzie penali e processuali e garanzie dei diritti sociali, tra sicurezza penale e sicurezza sociale. È l’assenza di garanzie per l’occupazione e per la sussistenza a creare ciò che chiamo "delinquenza di sussistenza". Queste politiche sociali richiedono lo sviluppo effettivo di garanzie del lavoro, dell’istruzione, della previdenza, in generale politiche che assicurino a ciascuno, come ha detto Marx, lo spazio sociale per l’estrinsecazione della propria vita.

Giustizia: il "diritto alla sicurezza" e la "sicurezza dei diritti"

di Anna Grosso (Presidente Crvg Liguria)

 

www.riforma.it, 28 ottobre 2008

 

Mentre da parte degli italiani sembra farsi strada una sempre crescente richiesta di sicurezza, chi lavora nell’ambiente carcerario e della giustizia scopre che quella della reclusione è una risposta spesso inadeguata. Finito l’effetto indulto le carceri sono infatti tornate ad affollarsi mentre la gente (specie i giovani) vuole più carcere, la riforma del Codice penale giace in un cassetto. Esiste anche da parte evangelica un’azione di volontariato, vediamo il caso di Genova.

Due anni fa, il 31 luglio 2006 il Parlamento a grande maggioranza varò l’indulto come risposta d’emergenza al sovraffollamento delle carceri diventate invivibili e ingestibili. Questa misura - altamente impopolare - aveva portato un temporaneo sollievo al sistema penitenziario italiano, riavvicinando il numero dei detenuti presenti negli istituti di pena alla capienza regolamentare degli stessi. Avrebbe potuto essere il momento buono per intervenire con provvedimenti strutturali sul sistema penitenziario per attuare finalmente quanto previsto dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario, che assegnano alla pena una funzione rieducativa. Così non è stato. Oggi, a poco più di due anni di distanza, i segnali di una nuova emergenza carcere si moltiplicano: l’allarme degli operatori penitenziari incomincia a trovare spazio anche sui media, che denunciano l’avvicinarsi del livello di guardia: il numero dei detenuti sta aumentando al ritmo di 1000 nuovi ingressi al mese, ed è facile prevedere che a fine anno la situazione sarà come prima dell’indulto; mentre in diversi istituti è già stata superata. Tutto questo fra la disattenzione dell’opinione pubblica, assai poco interessata a quanto avviene in carcere; la mentalità del "chiudiamoli dentro e buttiamo via le chiavi" domina.

Un recente studio di R. Manheimer mostra che 2 italiani su 3 chiedono "più carcere". I due terzi dei nostri concittadini (percentuale in netto aumento rispetto al 2005) sono fautori di una linea sempre più dura nei confronti della criminalità. Tanto che, a esempio, la maggioranza (66%, con un’accentuazione tra i più giovani) si dichiara decisamente in disaccordo con il vecchio principio "meglio un colpevole libero che un innocente in galera", preferendo al contrario rinchiudere in prigione quanti più criminali - veri o potenziali - possibile.

 

Misure improvvisate

 

Certo, il comune cittadino può anche permettersi di essere "giustizialista" senza preoccuparsi delle ricadute sul sistema penitenziario; ma la politica no, non può permetterselo. Non può ignorare la bomba a orologeria pronta a esplodere non appena il sovraffollamento nelle carceri avrà di nuovo raggiunto il livello di guardia. Ma al tempo stesso è ben consapevole che un altro indulto sarebbe improponibile di fronte all’opinione pubblica. E allora cerca di destreggiarsi proponendo misure a grande effetto annuncio ma frutto di improvvisazione, che si rivelano nella pratica inattuabili. Si veda a esempio la prima proposta dell’attuale governo, "costruiamo più carceri", che è stata subito accantonata: richiederebbe tempi lunghi e fondi ingenti che non ci sono.

Alla stessa sorte sembrano avviate le successive proposte, quella del braccialetto elettronico (quanti agenti sarebbero necessari per garantirne un controllo effettivo, e con quali costi?) e quella del rinvio all’estero dei detenuti stranieri (mancano le convenzioni con i paesi che dovrebbero farsi carico di accoglierli). Già si sollevano le obiezioni di chi vede in queste misure, qualora fossero adottate senza adeguate misure applicative, un indulto mascherato.

 

Leggi criminogene

 

Quello che invece colpisce è il silenzio assordante della politica sul perché del drammatico sovraffollamento carcerario: come mai la media dei nuovi ingressi in carcere, che negli anni ‘90 si attestava sui 1.000 all’anno, è passata a circa 1.000 al mese negli ultimi anni?

Da tempo gli operatori del settore - magistrati e direttori di carcere, avvocati e associazioni di volontariato - denunciano le pesanti ricadute sul sistema penitenziario di una serie di leggi criminogene (come la ex-Cirielli sulle recidive, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini sull’immigrazione, fino al recente pacchetto sicurezza) che trasformano in reato punibile con la galera una semplice infrazione amministrativa, e rendono sempre più pesanti le pene detentive per chi è tossicodipendente e/o recidivo. Il carcere reclamato come unica risposta all’allarme sicurezza diventa in pratica il carcere come risposta al disagio sociale. Lo confermano i dati: oggi il 40% dei ristretti è in carcere per reati "bagatellari" (quelli che comportano pene inferiori ai tre anni) tipici delle fasce deboli; la maggioranza della popolazione carceraria è composta da immigrati e tossicodipendenti, e negli ultimi mesi gli stranieri rappresentano il 90% dei nuovi ingressi in diverse regioni del Nord.

Destano pure preoccupazione i recenti disegni di legge Berselli e Valditara che si propongono di modificare pesantemente, fin quasi a svuotarla, la legge Gozzini sulle misure alternative, una legge che da anni contribuisce proprio a creare sicurezza. I dati infatti parlano chiaro: tra chi si fa la galera fino alla fine, il 69% torna a commettere reati negli anni successivi, e tra chi invece esce prima, ma gradualmente con le misure alternative la recidiva è del 19%.

 

Affrontare il problema alla radice

 

Oggi i problemi della giustizia sono sotto gli occhi di tutti: dall’allarme sicurezza alla certezza della pena, dalla lentezza dei processi alle carceri sovraffollate; ed è viva l’esigenza di uscire dalla logica dei provvedimenti tampone per affrontare il problema giustizia alla radice, in modo organico. In questo senso si sono mosse le 13 Commissioni per la riforma del Codice Penale che si sono succedute negli ultimi decenni per elaborare una riforma complessiva del Cp (emanato 77 anni fa in epoca fascista) per renderlo rispondente alle istanze di una società che è cambiata.

L’ultima in ordine di tempo, la Commissione Pisapia istituita nella precedente legislatura, in linea con le commissioni che l’hanno preceduta ha presentato una proposta di riforma del Cp che ha come ossatura la diversificazione del sistema sanzionatorio, e come linea guida l’esigenza di uscire dalla logica che vede il carcere come unica e indiscriminata risposta al reato. Essa prevede infatti un ventaglio di sanzioni non detentive quali la rivalutazione delle pene pecuniarie, le sanzioni prescrittive (condotte riparative), le sanzioni interdittive, la messa alla prova: misure che avrebbero l’effetto non solo di decongestionare carceri e tribunali, ma anche e soprattutto di dare alla pena una funzione di prevenzione e di rieducazione e, ultimo ma non meno importante, di sanzionare anche i reati dei "colletti bianchi" che generalmente sfuggono dalle maglie del carcere.

Purtroppo anche la proposta di riforma della Commissione Pisapia è finita in un cassetto, come le altre che l’hanno preceduta. Perché una legge passi, non basta che sia una buona legge; occorre anche che trovi un certo consenso nell’opinione pubblica. E oggi questo consenso, abbiamo visto, è alquanto debole.

Occorre che come cittadini riflettiamo su che cosa vogliamo veramente: diminuire il numero di reati e di recidive, o semplicemente punire? l’effettività della pena - o l’efficacia della pena? Non sempre le due cose vanno assieme. Oggi la gente chiede che le pene siano effettive, cioè che chi ha commesso reati vada in carcere e sia punito: ma non si chiede fino a che punto il carcere sia efficace sotto l’aspetto della prevenzione e della rieducazione. È importante che l’opinione pubblica sappia che il mantenere la sanzione penale centrata esclusivamente sulla pena detentiva è uno dei fattori principali della ineffettività e inefficienza della pena, mentre fuori ci sarà sempre chi è pronto a cavalcare le richieste della piazza in nome di un diritto alla sicurezza che nega la sicurezza dei diritti.

Giustizia: il ministro Brunetta indica le "soluzioni miracolose"

di Carlo Podda (Segretario Generale Fp Cgil)

 

Aprile on-line, 28 ottobre 2008

 

Non mancano le risorse per i servizi di fono-registrazione delle udienze e per quelle di assistenza informatica, la cui carenza provocherà il progressivo blocco dei tribunali, non mancano persino i fondi per la benzina delle auto e per gli straordinari delle scorte dei magistrati, non mancano oltre 7.000 addetti all’amministrazione: bastava pensare ai tornelli per i magistrati ed ecco fatto risolto anche questo problema.

Pensiamo con soddisfazione, come credo ogni cittadino, al terrore dal quale saranno pervasi i boss del clan dei Casalesi, della Camorra e della Mafia alla notizia che il quasi santo, per sua stessa ammissione, Ministro Brunetta ha impresso la vera svolta alla macchina della Giustizia italiana. E più in generale consideriamo che ognuno di noi si sentirà più tutelato da ogni forma di delinquenza, di corruzione di commistione tra politica e affari, grazie a questa semplice e tuttavia geniale trovata del Ministro per la riforma della P.A.

Non mancano infatti risorse per i servizi di fono-registrazione delle udienze e per quelle di assistenza informatica, la cui carenza provocherà il progressivo blocco dei tribunali, non mancano persino i fondi per la benzina delle auto e per gli straordinari delle scorte dei magistrati, non mancano oltre 7.000 addetti all’amministrazione: bastava pensare ai tornelli per i magistrati ed ecco fatto risolto anche questo problema.

Dopo la trasparenza (peccato quel mancato aggiornamento del sito rimasto miseramente fermo al trattamento contrattuale dei dirigenti del suo ministero senza tener conto degli incarichi e soprattutto senza una notizia che riguardi un’altra amministrazione), dopo aver battuto l’assenteismo come dimostrano gli "incontestabili" dati offerti dal ministero basati su un poderoso campione che riguarda niente popodimeno che il 7% delle amministrazioni italiane (peccato per quelle critiche del sito info.lavoce e per quelle della Columbia University e della incorreggibile Cgil) ora sono state risolte anche le inefficienze della Giustizia italiana.

Da parte loro, le famiglie dei magistrati ringraziano anch’esse il Ministro, infatti finalmente dopo otto ore di lavoro i magistrati torneranno a casa e forse avranno anche un mese di ferie.

Aspettiamo con ansia di sapere, magari in occasione del prossimo G20 come si può risolvere la crisi finanziaria globale e sconfiggere la recessione che aggredisce l’economia reale dell’Europa e del Nord America.

Più seriamente, all’Associazione Nazionale Magistrati, ed ai magistrati tutti và la nostra gratitudine e solidarietà per le condizioni nelle quali sono costretti a lavorare e chiediamo loro di non deflettere dall’impegno che ogni giorno profondono per il bene del Paese.

Alle lavoratrici ed ai lavoratori della Giustizia il cui impegno quotidiano noi personalmente conosciamo ed apprezziamo, e le cui condizioni di lavoro sono almeno altrettanto disagiate quanto quelle dei magistrati ricordiamo le date del nostro sciopero: 3 novembre per il centro Italia; 7 novembre per il nord Italia; 14 novembre per il sud ed isole. Partecipare a questa lotta, è un nostro diritto ed un nostro dovere per noi e per gli altri.

Giustizia: Brunetta; colpa è dei magistrati, che lavorano poco

 

Il Messaggero, 28 ottobre 2008

 

"Non ho nulla contro i magistrati, mi sono anche simpatici", tuttavia "la giustizia è cosa troppo seria per lasciarla ai magistrati". Così il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, torna a spiegare la sua proposta di introdurre i tornelli negli uffici giudiziari.

Intervenendo a Porta a porta, alla quale ha partecipato anche il presidente dell’Anm, Luca Palamara, Brunetta ha spiegato: "I tornelli servono ad una organizzazione scientifica del lavoro, così da misurare la produttività e l’efficienza. È noto che i magistrati lavorano poco. Nei tribunali ci sono caos, confusione e ritardi".

Immediata la replica di Palamara: "Quando si parla dei temi della giustizia si forniscono messaggi di disinformazione. Brunetta non conosce la realtà: non può dire che il magistrato lavora solo 2 o 3 giorni alla settimana. Dopo le udienze le decisioni vanno scritte".

Brunetta: tornelli vuol dire giustizia. "Non ce l’ho con i magistrati, ma non possono esistere della aree protette dalla trasparenza e dalla produttività. Meno che mai dove ci si occupa dei diritti dei cittadini - dice Brunetta in una lettera pubblicata dalla Stampa - La fine dell’anarchia giudiziaria, dal punto di vista dell’organizzazione degli uffici è solo un primo passo perché i costi della giustizia che non funziona sono insopportabili, sia in termini di spesa pubblica, sia di civiltà collettiva. Non vedo proprio perché qualcuno debba sentirsi sminuito se si controllano le entrate e le uscite dal lavoro al fine di evitare i tanti deserti pomeridiani nei nostri tribunali. Ci guadagneranno quelli che lavorano tanto, i cittadini e l’economia del Paese".

Anm: Brunetta getta discredito sulle toghe. "Se si passa l’idea che i magistrati lavorano due o tre giorni a settimana si dice una cosa falsa e si getta discredito sulla categoria - controbatte il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara - È vero che la giustizia è in una situazione di emergenza, ma questa tematica va affrontata in maniera più serena, senza fare crociate. Sono gli stessi magistrati ad essere vittime di un sistema che non funziona, anche se non diciamo che siamo immuni da colpe e difetti".

"Le colpe non sono dei magistrati". Dopo aver puntato il dito contro i tagli dell’ultima finanziaria che, nel settore giustizia, ha decurtato i fondi, nel triennio, dal 20 al 40%, Palamara ribadisce che negli uffici giudiziari molti magistrati non hanno né aule né uffici dove poter scrivere le sentenze, e per questo sono costretti a lavorare a casa. "Siamo noi per primi a volere una razionalizzazione dei costi, ma i responsabili - ribatte il presidente del sindacato delle "toghe" - non sono i magistrati".

Palamara ha inoltre rimproverato a Brunetta di non conoscere i contenuti dell’ultima riforma dell’ordinamento giudiziario varata dall’ex ministro della Giustizia, Castelli, e in parte modificata dall’ex Guardasigilli Mastella: in base a quelle norme, "ogni quattro anni viene valutata la professionalità del magistrato, e la progressione in carriera "non avviene più per anzianità, ma sull’attitudine e sul merito".

Casellati: i tornelli non risolvono i problemi. Elisabetta Casellati, sottosegretario alla Giustizia, si dichiara scettica sulla proposta dei tornelli avanzata dal ministro Brunetta. "Non credo che i tornelli possano risolvere i problemi di una giustizia in affanno - dice Casellati - Brunetta, però, ha posto un problema: ci sono sicuramente magistrati che lavorano con alti livelli di produttività e altri che tirano a campare".

Giustizia: Anm; governo risolva vere cause malfunzionamenti

 

Asca, 28 ottobre 2008

 

Il Governo deve affrontare le reali cause del mal funzionamento della giustizia. Questa la posizione espressa da Giuseppe Cascini, segretario dell’Anm, associazione dei magistrati, durante la trasmissione "Viva Voce", su Radio24, in merito agli annunci fatti dal ministro dell’Innovazione, Renato Brunetta, sui tornelli per i magistrati. "Le cause reali del cattivo funzionamento della giustizia e dei ritardi - spiega Cascini - sono l’eccesso di contenzioso, il numero di riti, la mancanza di investimenti sull’informatica, che rimandano alla responsabilità del Governo che dovrebbero aggredire queste cause reali del malfunzionamento. Poi noi siamo disponibili a discutere anche come fare per migliorare i controlli di professionalità dei magistrati".

Il modo per misurare il lavoro dei magistrati, aggiunge Cascini, "è misurare quanto producono, ma non in numero di ore in cui sono presenti in ufficio perché, forse il ministro Brunetta non lo sa, ma i magistrati non hanno un ufficio, i giudici civili dividono una stanza in quattro e il giorno che uno di questi fa udienza gli altri stanno a casa. Questa è la situazione della giustizia in Italia".

E in merito a questo oggi lo stesso ministro della Pubblica Amministrazione e della Funziona Pubblica, in una lettera a "La Stampa", ha sottolineato: "I magistrati dicono: ci portiamo il lavoro a casa. Ma mica voglio una giustizia amministrata nel tinello!".

E Cascini gli risponde: "Diventa una provocazione, chi è che deve garantire le stanze degli uffici giudiziari?", gli uffici, spiega Cascini, "sono aperti fino alle 14 perché il personale amministrativo fa l’orario 8-14 e tutti le circolari ministeriali vietano di fare straordinari. Siamo noi che dobbiamo venire con la calce e i mattoni per costruirci le stanze?"

Giustizia: Pd; prevedere strutture ad hoc per detenute madri

 

Asca, 28 ottobre 2008

 

È iniziato ieri alla Casa Circondariale di Bellizzi un viaggio nelle carceri della Campania della senatrice del Pd Anna Maria Carloni insieme a tante associazioni di volontariato, a partire dalla Comunità di S’Egidio, sulle problematiche della detenzione femminile.

"L’obiettivo - ha spiegato la Sen. Carloni - è quello di monitorare la condizione delle detenute, in particolare delle detenute madri, e verificare la costruzione di un iter legislativo per consentire la realizzazione di strutture familiari protette con l’utilizzo degli asili nido comunali gestite dagli enti locali e dai Comuni nelle quali far scontare la pena, garantendo sia il diritto ad un’infanzia piena, sia il diritto al rapporto tra le madri detenute e i figli."

"Ieri mattina - racconta Anna Maria Carloni - ci siamo recati al carcere di Bellizzi, diretto dalla Dott.ssa Mallardo, l’unico istituto penitenziario in tutto il Sud ad avere un asilo nido interno. Ero stata in quella struttura prima dell’indulto e già allora mi avevano colpito i volti di bambini piccolissimi che, senza alcuna colpa da espiare, vivevano con le loro madri dietro le sbarre e così percepivano e filtravano la realtà che li circonda. Oggi sono tornata, le detenute erano 16, ho incontrato in cella una sola bambina dolcissima, africana, detenuta insieme alla madre.

L’altra volta i bambini erano di più e questo - sottolinea Carloni - è già un fatto positivo; l’indulto ha facilitato l’applicazione della legge Finocchiaro n. 40 del 2001 che prevede giustamente misure alternative al carcere per madri detenute ordinarie e i loro figli. Ma è evidente che non basta per salvaguardare l’infanzia, il diritto al sorriso di bambini innocenti e al rapporto con la madre, così come è previsto dalle convenzioni internazionali".

Per questo - conclude la senatrice Carloni - condurrò una battaglia, insieme alle associazioni di volontariato che operano nel settore, per definire e presentare un disegno di legge che preveda in questi casi la realizzazione di strutture familiari protette con l’utilizzo degli asili nido comunali per le madri detenute e per i bambini gestite dagli enti locali".

Lettere: dagli ergastolani in lotta; i mass media e l’in-giustizia

 

Lettera alla Redazione, 28 ottobre 2008

 

Un gruppo d’ergastolani in lotta per la vita dal carcere di Spoleto vuole rispondere a quell’indegna gazzarra organizzata domenica da lei su Rai uno,per commentare il caso Maso.

A costoro,di destra e di sinistra,fa poca differenza,vorremmo innanzitutto dire che per certi versi ci hanno fatto sentire migliori di loro,perché noi abbiamo bisogno di continuare a credere nella Costituzione e nello Stato di diritto,mentre loro non sanno nemmeno cosa significano questi termini. Maso non ha ottenuto la semilibertà perché è stato simpatico a qualcuno, l’ha ottenuta perché la Costituzione prevede che la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento del reo e perché c’è una legge specifica che, a determinate condizioni, favorisce questo.

È stata concessa, dopo 24 anni di pena scontata, perché qualcuno che ha rispetto della Costituzione e della legge, ha ritenuto che Maso potesse, nei cinque anni effettivi che gli restano da scontare, avviarsi verso un graduale reinserimento nella società.

A coloro che nella sua trasmissione hanno recitato persino la commedia della democrazia,diciamo che la parola Giustizia se pronunziata dalle loro bocche assume un significato grottesco e di scherno, perché è per effetto di discorsi simili a quelli fatti nelle sua trasmissione che questo paese che veniva definito "Culla del diritto" è stato trasformato nella "Fogna del diritto".

Un termine usato non da noi,ma da gente qualificata. Per effetto di parole simili a quelli si è insinuata nella mente della gente l’idea che in galera non va più nessuno e che persino che l’ergastolano dopo pochi anni può uscire dal carcere, invece la realtà è ben diversa.

Sappiano "lor signori" che, in tutti gli altri paesi europei l’ergastolo si materializza in un fine pena chiaro e preciso che va dai sette anni dell’Irlanda ai venti di Cipro, mentre in Italia l’ergastolano è destinato a morire in carcere e non perché lo dice la legge o la Costituzione, ma per colpa di quanti continuano a fare scempio del dolore di chi sta vite intere all’interno di un carcere.

Coloro che si sono presentati in trasmissioni come la sua, a fare i discorsi che hanno fatto, sono gli stessi che insultavano trionfanti gli altri in trasmissioni varie,quando è stata approvata la moratoria contro la pena di morte. E sono gli stessi che quando la giustizia sfiora i loro commensali e i loro reggicoda, si scagliano contro la giustizia, con la stessa foga con cui si rivolgono oggi accusatori nei confronti di coloro che, applicano la legge, concedendo un beneficio penitenziario.

Lo fanno perché sono abituati a vivere in un paese dove gli individui sono tutti uguali davanti alla legge, ma alcuni sono più uguali di altri, diversamente non avrebbero detto le cose che hanno detto. Provassero solo ad immaginare quanto sono lunghi 10\20\30\40\ anni di carcere, come oggi avviene di scontare, e immaginare a cosa serve continuare a tenere in carcere una persona che crede fermamente di essere in grado di abbandonare definitivamente i percorsi sbagliati del passato.

Provassero solo ad immaginare di poter definire ancora un paese civile quello dove vengono rigettate le istanze di differimento della pena nei confronti di novantenni affetti da demenza senile.

E se un paese di questo genere ancora gli sta bene, perché non rimuovono o fanno abrogare l’art. 27 della Costituzione e fanno ripristinare la penna di morte, sarebbero di meno crudeli e più coerenti con se stessi.

Per il condannato la pena di morte sarebbe meno odiosa e meno infame della pena dell’ergastolo, che è la più infame di tutte le pene, così come si sconta in Italia, perché in Italia c’è uno stillicidio sapiente di tortura, ricatti e violenze psicologiche e umiliazioni inferte al detenuto per una vita intera.

In fondo, la morte fa parte della vita e può essere accettata, ciò che non può essere accettato è che la morte e il dolore dei detenuti siano trattati in un’oscena atmosfera di spettacolo continuo, dove nessuno osa affermare che tentare il reinserimento lo prevede la legge dello Stato, non lo pretende il condannato. E se il reinserimento lo prevede la legge dello Stato, deve valere per tutti e non, come avviene oggi, che gli ergastolani siano esclusi da ogni diritto ed ogni uguaglianza di giustizia. Il diritto di sperare deve essere possibilità concreta per tutti, perché lo impone l’articolo tre della Costituzione,che recita che la legge è uguale per tutti.

Per concludere, è facile prendere una notizia e trasformarla in uno spettacolo mediatico, ma la giustizia, che è un affare complicato e serio, diventa qualcosa difficile di cui parlare, quando la si guarda con un occhio solo.

 

Carmelo Musumeci

Giovanni Spada

Padova: due carceri; situazioni diverse, affollamento comune

di Simone Girardin

 

La Padania, 28 ottobre 2008

 

Padova, via Due Palazzi. Due, ironia della sorte, come le carceri che sembrano guardarsi in faccia: una, quella di reclusione, la più grande del Nord del Paese, dove dietro le sbarre trovi i condannati in via definitiva. L’altra, la circondariale: qui duecento detenuti attendono di conoscere la loro sorte. Li separa cento metri di asfalto malconcio. Una distanza che divori in una manciata di secondi a piedi. Due mondi diversi affacciati sulla stessa strada. Eppure alla fine del viaggio ci si accorge che di cose in comune ne hanno parecchie: dalla carenza del personale al sovraffollamento nelle celle fino a una presenza massiccia di cittadini stranieri.

Per capirlo basterebbe farsi un giro all’esterno della Casa Circondariale: ore 11 di un normale mercoledì mattina di visita. Famigliari e amici si accalcano sotto una specie di fermata dell’autobus in disuso davanti all’ingresso del carcere diretto da Antonella Reale. Sono in fila per consegnare i documenti così da poter varcare il portone blindato: e sono tutti stranieri.

"In questo momento gli extracomunitari rappresentano poco più dell’80 per cento dei detenuti" ci spiega la direttrice che ha il proprio ufficio in una palazzina adiacente. Nei mesi scorsi si sono toccate punte del 90%. Eccola la Casa Circondariale di Padova in via Due Palazzi al 25/a: ha il record nazionale per il più alto numero di immigrati dietro le sbarre.

In tutto la struttura potrebbe ospitare "dai 95 ai 100 detenuti". È la sua capienza. Lo dice il regolamento. E invece? "Siamo ai limiti. Ne abbiamo oltre 200". Il doppio. Una soglia oltre la quale c’è il collasso del penitenziario. "Facciamo di necessità virtù" - spiega Reale - che benedice l’ultimo indulto capace di svuotargli mezza struttura nel giro di poche settimane. Ci ha fatto respirare per qualche mese poi la situazione è tornata quella di oggi". Tradotto: al limite sopportabile.

Così le celle da quattro sono diventate da sette. Un’emergenza quotidiana. Lo è dal 2002, da quando Reale è stata trasferita in Veneto a dirigere la casa circondariale padovana. "Per stare tranquilli dovremo avere una struttura con un capienza da 400 posti. Pensi che abbiamo una via vai di detenuti che sfiora le 15 persone a settimana".

In ballo c’era un progetto di ristrutturazione per un carcere costruito negli anni Sessanta che ha visto la luce a metà del 2007 migliorando solo in parte la situazione. L’edificio penitenziario viene sovrautilizzata ogni giorno a fronte di una carenza fisiologica dell’organico operante.

Secondo la direzione mancherebbe in organico almeno una trentina di agenti. Il numero attuale si ferma a quota 120. Il problema principale - fa capire reale - è rappresentato "da continui trasferimenti per avvicinamento al luogo di origine, soprattutto verso il Sud Italia". A mettere ancora più nei guai i direttori il fatto che le carenze d’organico non possono più venire sanate con il servizio di leva: quello obbligatorio non esiste più. Una cronicità che investe in particolare le strutture del Nord. Ma non solo: scarseggiano anche gli educatori. Così c’è meno tempo e spazio a disposizione per attivare corsi e lavori interni.

Così la Casa Circondariale di Padova vive ogni giorno in piena emergenza: carenza di personale, sovraffollamento e tanti, troppi stranieri che potrebbero scontare la pena nel loro paese d’origine, fa capire Reale che poi precisa: "Non spetta a noi questo compito. Bisognerebbe che lo Stato si attivi per una collaborazione con gli altri Governi sulla detenzione". Cosa non facile: solo nel carcere diretto dalla Reale ci sono detenuti stranieri provenienti da 21 nazioni diverse. Sono soprattutto marocchini, nigeriani e tunisini ma anche comunitari come i rumeni.

Un aiuto - spiega Reale - potrebbe arrivare dalle cosiddette pene alternative. "Sarebbe un modo per liberare di posti. Anche perché per costruire nuovi penitenziari ci vuole tempo e l’emergenza è adesso".

Di sicuro se i detenuti stranieri scontassero la pena nel paese d’origine si alleggerirebbero le casse dello Stato: su 57 mila detenuti, 20 mila sono extracomunitari e comunitari con un costo di 200 euro al giorno per detenuto. I conti si fanno in fretta: se solo la metà finisse la pena nel proprio paese avremmo un risparmio di 2 milioni di euro al giorno.

Questione di cifre, di numeri come quelli che separano i due istituti di pena di Padova. Perché centro metri più in là, c’è l’altra "Casa": quella di Reclusione. Qui trovi i detenuti che devono scontare pene definitive. E piuttosto lunghe. Storie di omicidi, rapine finite nel sangue, mafiosi, grossi trafficanti di droga. Ad accoglierci questa volta c’è Salvatore Pirruccio: dopo aver diretto il carcere di Tolmezzo l’hanno piazzato qui a Padova, nella struttura penitenziaria più grande del Nord Italia insieme a quella di Milano-Opera.

Per i padovani, per chi passa di lì per andare al lavoro uscendo dall’autostrada è "il bunker". Eppure da fuori sembra una struttura tutto sommato moderna. Ricorda molto i caseggiati di Quarto Oggiaro a Milano, o di qualche zona popolare nella periferia di una grande città. Non è certo un hotel da cinque stelle ma non è nemmeno un edificio che ti dovrebbe ricordare come lì dentro ci siano settecento detenuti che insieme devono scontare circa 14 mila anni di carcere.

Il viaggio nella casa di reclusione inizia tra fax al Ministero di Roma, documenti da esibire e porte blindate color rosso che si aprono e chiudono ogni dieci metri. Il direttore ci attende nel suo ufficio al secondo piano. Sul tavolo fogli pieni di numeri che confermano, se ce ne fosse stato bisogno, il costante problema di sovraffollamento dei detenuti e di carenza nell’organico degli agenti di custodia. "Al momento ospitiamo 700 persone contro una capienza ottimale di 400". Un sovraffollamento che non sembra preoccupare più di tanto Pirruccio, a Padova dal 2002: "L’istituto può sopportare bene un numero doppio di detenuti rispetto al previsto", il motivo? semplice: basta mettere due detenuti in celle progettate per uno (12 mq), "con il vantaggio per i detenuti di non essere da soli".

Con l’indulto ne erano usciti 250. Ma anche qui, nel giro di un anno, la situazione è ritornata quella di sempre: una sofferenza cronica. Sul totale dei detenuti la percentuale di extracomunitari è invece in linea con la media nazionale, attestandosi sul 40%.

Non così per l’organico in servizio. Su questo punto il direttore è fin troppo chiaro: "H numero degli effettivi è di 350 ma ne servirebbero almeno altri sessanta". ma non tutto è da buttare. la casa di reclusione di Padova offre diverse possibilità di studio e di lavoro ai propri detenuti.

di fatto il "direttore offre alcuni locali ad uso gratuito a delle cooperative esterne che hanno assunto circa un centinaio di detenuti. Si occupano dell’assemblaggio dei gioielli Morellato alle valigerie Roncato fino alla produzione e vendita di prodotti alimentari di pasticceria: si va dai panettoni fino ai pandori. Un vero e proprio flore all’occhiello quest’ultimo con i pasticceri-carcerati invitati all’ultimo Meeting ciellino di Rimini.

E ancora: via internet si possono seguire le lezioni di docenti universitari per chi cerca di conseguire una laurea. "Qualche risultato l’abbiamo ottenuto - ci dice soddisfatto il direttore -: oggi abbiamo due laureati". Sono anche presenti tre livelli di scolarizzazione che prevedono un corso di alfabetizzazione, uno di scuola media e uno di ragioneria. "Sono tutte occasioni - spiega Pirruccio - per dare un futuro a queste persone una volta tornate in libertà".

Come dire: il carcere non deve essere una discarica sociale o un dimenticatoio quanto un passaggio di punizione per essere restituiti alla libertà. Il problema non sono tanto gli obiettivi ma gli strumenti: carceri sovraffollate e carenza di agenti non aiutano.

Milano: Alfano visita San Vittore... la "cittadella" entro il 2015

 

www.corriere.it, 28 ottobre 2008

 

Il guardasigilli ha incontrato i vertici degli uffici giudiziari milanesi Alfano: una cittadella della giustizia nel 2015 Il ministro in visita al carcere di San Vittore: un piano in tre tappe per far fronte alle difficoltà dell’amministrazione penitenziaria

È il 2015, la stessa data in cui si terrà l’Expo, quella fissata per la realizzazione della cittadella della giustizia di Milano. Lo ha spiegato il ministro Angelino Alfano, che oggi ha visitato il carcere milanese di San Vittore. "Ho visto i detenuti, i loro volti, le difficoltà in cui opera il personale dell’amministrazione penitenziaria", ha detto Alfano il quale ha spiegato che "il primo obiettivo, nell’immediato, è il trasferimento di parte dei detenuti di San Vittore in altre carceri; il secondo è assicurare la piena agibilità al carcere di Bollate; il terzo è appunto la realizzazione della cittadella della giustizia la quale, una volta attiva, sostituirà San Vittore che avrà un’altra destinazione".

Prima della visita all’istituto penitenziario, il guardasigilli aveva avuto un incontro con i vertici degli uffici giudiziari milanesi nel provveditorato regionale alle carceri, che si trova poco distante dall’istituto di pena. Il ministro, in quello che lui stesso ha definito "un utile briefing", ha incontrato il presidente della Corte d’appello Giuseppe Grechi, il presidente del tribunale Livia Pomodoro, il procuratore generale Mario Blandini e il procuratore della repubblica Manlio Minale oltre al provveditore regionale alle carceri Luigi Pagano.

Aosta: il direttore; puntare tutto sul lavoro e sul reinserimento

 

www.aostasera.it, 28 ottobre 2008

 

L’Istituto penitenziario ospita 161 detenuti, 115 sono stranieri. Celebrati a Chatillon i 191 anni dalla Fondazione del corpo di Polizia penitenziaria. Evidenziato il senso di responsabilità del personale penitenziario e la sinergia con enti e Regione.

Il ruolo degli agenti di polizia penitenziaria è cambiato negli anni. Oggi, sono agenti sempre più preparati e professionali. Questa mattina, martedì 28 ottobre, si sono svolte al castello Baron Gamba le celebrazioni per i 191 anni di fondazione del corpo. Alle celebrazioni hanno preso parte le autorità militari e civili delle regione.

Il presidente della Regione, Augusto Rollandin, ha sottolineato la professionalità degli agenti, ma soprattutto le difficoltà in cui devono operare. "L’amministrazione regionale ha sempre dato e continuerà a dare la massima collaborazione per il buon funzionamento dell’istituto penitenziario di Brissogne", ha spiegato Rollandin durante il suo discorso.

Gli agenti di polizia penitenziaria, con grande professionalità, ma al tempo stesso umanità, vigilano su di una popolazione carceraria in Italia, di 57.187 detenuti, quando i 205 istituti di pena, dovrebbero ospitate al massimo 43.262. Ben diversa la situazione del carcere di Brissogne, dove, ad oggi, sono presenti 161 detenuti, mentre la capienza massima è di 188. "Sicuramente l’istituto di Brissogne - commenta il direttore del carcere, Giorgio Leggieri - vive una situazione privilegiata rispetto alle altre strutture, dove vi è un forte sovraffollamento. Gli agenti operano con grande senso di responsabilità e cercano di fare il loro lavoro sempre al meglio. Un lavoro difficile, in quando, quotidianamente vivono a stretto contatto con situazioni umane difficili, di grande disagio. I nostri agenti mettono al centro di tutto la persona e la sua rieducazione. A loro va tutto il mio riconoscimento, perché da loro imparo tutti i giorni".

Dei 161 detenuti presso il carcere di Brissogne, 115 sono stranieri, un dato in incremento. "Sono alla direzione di questo istituto da un anno - continua Leggieri - e ho puntato tutto sull’incrementare le possibilità di lavoro all’interno dell’istituto. E questo lo si è potuto fare grazie agli enti e all’Amministrazione regionale. Abbiamo cercato di creare opportunità di lavoro, no fine a se stesse, ma con la possibilità di un reale reinserimento nel tessuto sociale". Al termine della cerimonia sono stati premiati l’ispettore capo Antonino Arcodia, l’agente Virgilio Mura e l’agente scelto Angelo Cambieri.

Nuoro: mancato ricovero detenuto cardiopatico, rischia morte

 

Adnkronos, 28 ottobre 2008

 

"Un pericolo di vita che poteva essere evitato se l’uomo, le cui condizioni di salute si erano aggravate al punto che il cardiologo aveva sconsigliato la permanenza in carcere, fosse stato ricoverato come aveva più volte richiesto non ottenendo risposte dalla Direzione sanitaria".

"Ha rischiato di morire Osvaldo Contu, un detenuto cardiopatico, ristretto a Nuoro nel carcere di Baddu e Carros, che è stato ricoverato d’urgenza nell’Ospedale San Francesco per un infarto. A salvarlo sono stati gli Agenti di Polizia Penitenziaria allertati dai compagni di cella. Un pericolo di vita che poteva essere evitato se l’uomo, le cui condizioni di salute si erano aggravate al punto che il cardiologo aveva sconsigliato la permanenza in carcere, fosse stato ricoverato come aveva più volte richiesto non ottenendo risposte dalla Direzione sanitaria".

Lo sostiene il consigliere regionale socialista Maria Grazia Caligaris, componente della Commissione "Diritti Civili", facendo osservare che "non è la prima volta, purtroppo, che i detenuti di Bad’e Carros sollecitano il ricovero per gravi patologie e non lo ottengono in quanto le loro condizioni, nonostante la gravità, vengono considerate compatibili con la permanenza nell’infermeria dell’istituto di pena. Da chi ha la responsabilità sanitaria dell’Istituto".

"Osvaldo Contu, cinquantenne, superata la fase acuta della crisi cardiaca, è attualmente ricoverato in un’apposita stanza-cella dell’ospedale San Francesco piantonato da due Agenti della Polizia Penitenziaria. È indispensabile che non si arrivi a situazioni di emergenza prima di disporre il ricovero nella struttura ospedaliera di persone che si trovano in carcere per scontare la pena in attesa di essere reinseriti, come prevede la Costituzione, nella società. Per questo - conclude Caligaris - esiste anche una norma di legge che, inattuata da 15 anni, prevede l’istituzione di un mini-reparto per detenuti negli ospedale dove hanno sede le Case Circondariali".

Cagliari: appello per detenuto di 260 kg, affetto da elefantiasi

 

Ansa, 28 ottobre 2008

 

Trasferito a Cagliari dal carcere di Secondigliano circa tre mesi fa, un detenuto avellinese di 40 anni affetto da elefantiasi è stato sistemato in una cella del piano terra del centro clinico ma le sue condizioni peggiorano.

Lo denuncia la consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris, componente della commissione Diritti civili, sottolineando che "né l’istituto penitenziario cagliaritano per il tipo di struttura, il numero di detenuti e l’insufficienza degli agenti, né il centro clinico sono in grado di assicurare cure adeguate a una persona che pesa 260 chili e deve fare i conti anche con il diabete e le ricorrenti apnee notturne".

"Il Gip campano - aggiunge l’esponente socialista - ha ritenuto infondate le osservazioni dei medici di Buoncammino circa l’inadeguatezza dell’istituto confermando la permanenza a Cagliari del detenuto in regime di alta sicurezza. Di qui l’appello affinché la magistratura metta mano ad un dispositivo alternativo per evitare che la situazione possa degenerare creando - avverte Caligaris condizioni di pericolo per la vita del malato".

Roma: dopo dimissioni Spadaccia manca Garante dei detenuti

 

Ansa, 28 ottobre 2008

 

Dopo le dimissioni di Gianfranco Spadaccia, nel maggio scorso, all’indomani della elezione di Gianni Alemanno a sindaco di Roma, il Comune non ha nominato ancora un Garante dei Diritti dei Detenuti. Lo scrive, in una lettera al sindaco, il consigliere provinciale della Sinistra Arcobaleno, Gianluca Peciola, secondo il quale anche negli uffici del Dipartimento XIV del Comune, a cui il Garante fa riferimento, non c’è alcuna persona che ricopra quella carica.

Peciola ha ricordato che Roma è stata la prima città italiana ad istituire la figura del Garante dei Diritti dei detenuti, aprendo la strada a molte altre esperienze in tutta Italia. Secondo il consigliere, Spadaccia al termine del suo incarico qualche settimana prima delle dimissioni, aveva inviato al Consiglio comunale una relazione dettagliata sullo stato delle carceri romane.

Mi auguro - ha concluso Peciola - che al più presto venga colmato questo vuoto e allo stesso tempo garantita, con tutte le misure esistenti, ed anche con il Garante, la più totale trasparenza sullo stato dei diritti dei detenuti del nostro territorio.

Lecce: nuova rissa in carcere tra detenuti leccesi e marocchini

 

Ansa, 28 ottobre 2008

 

Fratture alle vertebre per uno dei nordafricani. Pare non rientrare l’emergenza legata al carcere di Borgo San Nicola, dove sabato scorso si sarebbe verificata l’ennesima aggressione. Sebbene sia sempre elevata l’attenzione degli agenti di polizia penitenziaria, quotidianamente impegnati a tenere la situazione sotto controllo, i casi di violenza dietro le sbarre non accennerebbero a diminuire. Come dimostra l’ultimo spiacevole episodio, che ha visto protagonisti un gruppo di leccesi con alcuni rivali di nazionalità marocchina.

Ad innescare la scintilla, durante l’ora d’aria in cui i detenuti si riversano negli spazi comuni, una serie di vecchi rancori. Secondo quanto emerso, sembra che cinque salentini volessero rimproverare il gruppo di extracomunitari, responsabili di aver abusato con l’alcool, di essere sempre ubriachi, e di dare quindi fastidio al resto dei detenuti. Prima sarebbe scoppiata un furibondo diverbio fatto di offese e insulti, ma dopo un po’ si sarebbe passati alle vie di fatto. Per circa dieci minuti, le due compagini se le sarebbero date di santa ragione fino all’arrivo di alcune guardie carcerarie che sono riuscite a scongiurare il peggio, separando i gruppi e riportando la situazione alla normalità.

Un marocchino, però, colpito violentemente alla schiena, pare sia dovuto ricorrere alle cure dei sanitari. Ne avrà per 25 giorni: i medici, infatti, gli avrebbero diagnosticato diverse fratture alle vertebre.

Perugia: Prc; positiva riapertura indagini su morte di Bianzino

 

Asca, 28 ottobre 2008

 

Il presidente di Prc-Se in Consiglio regionale dell’Umbria, Stefano Vinti, ha espresso piena soddisfazione per la decisione del Gip Massimo Ricciarelli del Tribunale di Perugia di non archiviare l’inchiesta sulla morte di Aldo Bianzino, il 44enne falegname di Pietralunga avvenuta un anno fa nel carcere perugino di Capanne. All’archiviazione c’erano state l’opposizione dei legali dei famigliari di Branzino e le manifestazioni di giovani che chiedevano "ulteriori accurate indagini". Il Gip ora ha disposto un approfondimento, con ulteriori accertamenti medico legali e nuovi accertamenti per risentire sia i medici del carcere, gli agenti di custodia in servizio, così i detenuti vicini di cella. La morte di Branzino risale a poco più di un anno fa; ci fu una inchiesta con ipotesi di omicidio volontario a carico di ignoti.

A giudizio di Vinti (parla anche a nome di Rifondazione comunista dell’Umbria - ha spiegato) la riapertura delle indagini voluta sia dal pubblico ministero Petrazzini che dai familiari della vittima potrà finalmente fare piena chiarezza sul caso. "Ci sono tanti aspetti ancora oscuri dietro la morte del falegname di Pietralunga: omissioni nelle indagini, mancanza di accuratezza nel sentire tutti i testimoni - ha concluso Vinti - trascuratezza nell’analisi della causa della morte che rendono difficile spiegare come una morte per aneurisma abbia potuto causare lo spappolamento del fegato". "Ci auguriamo che un surplus investigativo nelle indagini possa portare finalmente chiarezza e spiegare come sia potuta avvenire nel carcere di Capanne, la morte di un detenuto".

Genova: morì in carcere; richiesta Commissione parlamentare

 

Secolo XIX, 28 ottobre 2008

 

Manuel Eliantonio, di 22 anni, è morto lo scorso 25 luglio. La Regione chiede al Governo di fare chiarezza sulle cause del decesso. Fu il nonno a denunciare che il nipote non poteva essere morto per suicidio o ingestione di un gas usato come droga. Ora la Regione Liguria chiederà al Governo e al Parlamento di avviare una commissione parlamentare di inchiesta "per fare chiarezza" sulle cause della morte nel carcere di Marassi di Manuel Eliantonio, di 22 anni, deceduto lo scorso 25 luglio. Nell’ordine del giorno, approvato all’unanimità dal Consiglio, si chiede di verificare "eventuali responsabilità delle strutture circondariali".

Il giovane, che era stato condannato a 5 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, venne fotografato sul tavolo dell’obitorio con diverse ecchimosi e ferite su tutto il corpo "che non avrebbe potuto procurarsi da solo".

Savona: un progetto da 20 mila euro per i mediatori culturali

 

Secolo XIX, 28 ottobre 2008

 

Un progetto da 20 mila euro in parte finanziato dalla Regione Liguria con collaborazione di Comune, Arci e della casa circondariale Sant’Agostino per mediatori culturali. Partirà a breve a Savona e interesserà in particolare l’accoglienza degli stranieri nella casa circondariale savonese e le famiglie di recente immigrazione che hanno problemi di inserimento sul territorio. Due le mediatrici, una magrebina e l’altra albanese, che si occuperanno di collaborare con medici e psicologi già in servizio nel carcere per l’accoglienza dei detenuti delle rispettive comunità di riferimento.

"In carcere ci sono 70 persone in questo momento e i fondi a disposizione non sono mai sufficienti per affrontare tutte le incombenze aperte e tra queste anche la realizzazione di una nuova casa circondariale che è ancora tutta da definire - spiega il direttore del penitenziario, Isabelle De Gennaro - . In carcere ci sono soggetti di nazionalità diversa che vanno seguiti e interpretati nei loro bisogni, specie in momenti delicati come quelli del loro inserimento nella struttura carceraria. Spesso sono persone che dopo la convalida escono e devono reinserirsi in un contesto sociale. L’iniziativa sviluppata a Savona ha proprio questo obiettivo".

Roma: al Festival il documentario "L’ora d’amore"... a Rebibbia

 

La Repubblica, 28 ottobre 2008

 

In un Festival ricco di storie d’amore è in arrivo un film che parte da un interrogativo: si può amare in una condizione di assenza di libertà? Cerca di rispondere "L’ora d’amore", il documentario di Andrea Appetito e Christian Carmosino, per la sezione "L’altro cinema" in programma oggi alle 17.30 al Teatro Studio dell’Auditorium.

Il film, girato nel carcere di Rebibbia e prodotto dal Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’ Università Roma 3, ormai un laboratorio produttivo, racconta le storie d’ amore di tre detenuti. Mauro e la sua compagna si incontrano una volta alla settimana insieme alla loro bambina e anche lei finisce per sentirsi reclusa. Fatima ama un detenuto del suo stesso carcere, ma, nonostante la vicinanza fisica, è come se fossero ancora più lontani.

Angelo è un omosessuale che ha vissuto una tenera storia d’ amore con un altro carcerato che tornato in libertà ha rinnegato il passato e si è messo con una donna. Per lui l’amore gay era normale solo dietro le sbarre. Girare un film nel carcere, dovendo rispettare regole e divieti non è stato semplice.

"Nonostante la disponibilità delle autorità di Rebibbia - raccontano gli autori - ci siamo mossi in uno spazio ristretto; le interviste avvenivano sotto lo sguardo delle guardie, il che spingeva i detenuti a recitare. Nel film abbiamo cercato di ricreare questa atmosfera e per questo le emozioni sono raffreddate e spesso troncate, come lo sono nella vita dietro le sbarre. Ma certe dinamiche amorose sono universali. Il carcere impedendo l’espressione della sessualità e negando il contatto fisico non fa che accentuare la paura che l’ altro non provi ciò che provi tu".

Livorno: due squadre di calcio dei detenuti in campionato Uisp

 

Il Tirreno, 28 ottobre 2008

 

Troppo facile parlare di partita rubata. O di gol di rapina. Stereotipi, luoghi comuni del calcio, che tuttavia niente hanno a che fare con queste sfide inedite per la città di Livorno, non semplici da spiegare per via della diversa condizione dei partecipanti, gare in cui a trionfare non è chi mette più palloni in rete, ma soltanto il più alto concetto di integrazione sociale e recupero civile.

Immaginate i detenuti del carcere labronico delle Sughere in campo in un torneo ufficiale contro formazioni composte da operai, artigiani, professionisti e studenti. Possibile? Da ieri mattina sì. Da quando la dottoressa Morgana Fantozzi (comandante del reparto di polizia penitenziaria della casa circondariale) ha dato il calcio d’avvio alla partita S.o.s.Pesi contro Fc Solar.

Per una intera stagione ogni domenica mattina due formazioni appartenenti al campionato di calcio a 8 della Uisp varcheranno il confine delle Sughere per sfidare le due squadre dei carcerati, i S.o.s.Pesi e i Belli Dentro, come una qualsiasi delle centinaia di partite disputate settimanalmente fra i vari enti di promozione sportiva. Come Roma e Milano.

Una pazza idea, nata in estate nell’ufficio del presidente della Uisp livornese Michele Barzagli. Irrealizzabile per molti, folle per i più: in pochi pensavano che il progetto diventasse realtà in così breve tempo. "Siamo stati fortunati - racconta Barzagli - perché le nostre proposte hanno trovato il parere favorevole e il concreto impegno della direttrice delle Sughere Anna Carnineo e della comandante Fantozzi, oltre che il fondamentale ausilio dell’educatore Lucio Coronelli.

Io ho solo ripreso un protocollo d’intesa nazionale fra la Uisp e il ministero di Grazia e Giustizia, riadattandolo alle nostre esigenze". Un veloce giro di telefonate, per capire che iniziative simili in Italia erano state avviate soltanto al carcere milanese di Opera e a Rebibbia (Roma), dove addirittura ai detenuti viene concesso il beneficio di uscire dalle strette mura della giustizia per giocare in esterna le proprie partite.

Ma come sono stati scelti alle Sughere i "fortunati" partecipanti al campionato? Prima dell’adesione alla Uisp, i detenuti avevano svolto un torneo interno alle nove sezioni della casa circondariale. Ci sono state così selezioni sulla base della forma fisica, del talento, e ovviamente chi non rispettava le regole della buona condotta è stato escluso a priori. I medici dell’Asl livornese venerdì scorso sono entrati alle Sughere per sottoporre a regolare visita medica gli atleti, lavorando di buona lena fino a tarda serata. Esatto, atleti. Giusta definizione.

Perché i detenuti hanno sottoscritto la tessera della Uisp, e le loro squadre agli effetti di legge sono come comuni associazioni sportive dilettantistiche con tanto di atto costitutivo, presidente e segretario. Per la cronaca nella prima giornata i S.o.s.pesi hanno perso 3-1 contro il Fc Solar, mentre - stanchi ma felici - i Belli Dentro pareggiato 1-1 contro il Bar Tramezzino. Sostanziale la differenza fra i due team: all’interno dei S.o.s.Pesi giocano i carcerati in alta sicurezza, condannati per reati di tipo associativo e sottoposti ad una sorveglianza più stretta, nei Belli Dentro invece figurano gli ospiti delle cinque sezioni di media sicurezza, i cosiddetti detenuti comuni che hanno da scontare pene più lievi.

"Far parte di questo progetto per noi ha un valore incalcolabile - spiega il detenuto Fulvio Rizzo, nominato presidente dei S.o.s.Pesi - non conta chi vince, queste sono manifestazioni di sollievo per l’essere umano. In campo diamo un calcio al pallone ed un altro al pregiudizio. Ci voleva coraggio a organizzare una cosa del genere, e ringraziamo la sensibilità delle dottoresse Fantozzi e Carnimeo che hanno permesso la nostra partecipazione".

Un’occasione di riabilitazione, una seconda possibilità. "C’è anche questo e molto di più nel campionato a cui partecipiamo - racconta Andrea Calloni, che dei Belli Dentro è il capitano e in un nemmeno lontano passato ha pure giocato nel Livorno ai tempi di Papadopulo - è un’opportunità per riempire le nostre giornate, e un’opportunità per non sfigurare. Il carcere è duro, da fuori lo sembra ancora di più, ma con il buon senso possiamo renderlo più lieve".

Bologna: Fiori di Strada onlus presenta "Si tratta di persone"

 

Comunicato stampa, 28 ottobre 2008

 

Fiori di Strada Onlus presenta la campagna "Si Tratta di persone". 29 ottobre 2008, ore 12.00. Sala conferenze Quartiere Santo Stefano, Via Santo Stefano 119, Bologna. Tre spot Tv per il sociale su reti nazionali e locali, video-documentario sulla tratta, banchetti e materiale informativo in piazze, negozi e pubblici esercizi.

Negli ultimi anni forse mai come in questo periodo in Italia si è parlato tanto di prostituzione. Nei primi mesi dall’insediamento dell’attuale governo il dibattito è iniziato con la "vecchia" proposta di restaurare le case chiuse e di creare quartieri a luci rosse. Poi è proseguito con le ordinanze dei sindaci e con il Ddl Carfagna che proibisce la prostituzione in strada e, di fatto, intende murare vive le vittime della tratta.

In molti hanno espresso opinioni e provato a indicare soluzioni, ma a nostro modo di vedere pochi sembrano averlo fatto con piena cognizione di causa e tenendo a mente che quello della prostituzione è un mondo che nasconde schiavitù, sfruttamento e violenze inenarrabili. Mentre si continua a dibattere di misure penalizzanti solamente per i più deboli, il fenomeno della tratta continua a coinvolgere migliaia di persone e la fabbrica del dolore continua a produrre.

Per questo motivo Fiori di Strada Onlus lancia la campagna di comunicazione e informazione "Si Tratta di persone" dedicata alla sensibilizzazione di cittadinanza e istituzioni pubbliche.

La campagna che svilupperà nei prossimi mesi prevede le seguenti iniziative:

Tv sociale: campagna di sensibilizzazione in Tv su Rai e private di 3 spot televisivi realizzati gratuitamente per Fiori di Strada Onlus dall’Associazione Sequence e curati da Nelson Bova, giornalista della Rai Emilia Romagna.

"Lavoravo a strada": video-documentario, durata 25 minuti. "Lavoravo a strada" racconta, la storia personale di quattro ragazze di provenienza diversa (Ucraina, Moldavia, Romania, Nigeria) che all’arrivo in Italia hanno avuto un destino comune: la prostituzione in strada. La promessa di una vita diversa lontano da fame e miseria. L’inganno. Il marciapiede. Poi la riconquista di una libertà che ha il sapore della rinascita, che non cancella tuttavia le cicatrici di un’esperienza che le aveva rese schiave. Il documentario è stato realizzato da Alessandra Marolla, giovane filmaker indipendente, con la collaborazione al montaggio di Alessandra Soldati e grazie a Fiori di Strada onlus, che ha aiutato le ragazze intervistate a lasciare la strada. Verrà divulgato nelle sale di proiezione a circuito indipendente e sarà utilizzato come strumento di sensibilizzazione, conoscenza e riflessione sul tema affrontato.

Qui tutto va a puttane: pubblicazione del libro "Qui tutto va a puttane", Gingko Edizioni. Un’antologia di racconti sulla prostituzione nel nostro paese, corredata dalle autentiche denunce ai loro sfruttatori rilasciate dalle giovani prostitute straniere agli organi di polizia e due saggi sul fenomeno della prostituzione straniera in Italia, la schiavitù e la moderna tratta degli esseri. I proventi del libro verranno devoluti interamente all’Associazione Fiori di Strada Onlus.

"Bella chi si ribella": distribuzione delle locandine "Bella chi si ribella" alla rete di locali, negozi e pubblici esercizi aderenti all’iniziativa.

"Un sacco di libertà": distribuzione delle buste della spesa "Un sacco di libertà" alla rete di locali e negozi aderenti all’iniziativa.

Materiale informativo: distribuzione di materiale attraverso iniziative pubbliche e banchetti informativi organizzati dall’Associazione.

 

Antonio Dercenno - Cell. 3929008002 - info@fioridistrada.it

Giappone: due detenuti giustiziati, è record di condanne a morte

 

Ansa, 28 ottobre 2008

 

A distanza di un mese e mezzo dall’ultima serie di impiccagioni, in Giappone sono stati giustiziati altri due detenuti, portando così a 15 il numero di condanne a morte eseguite dall’ inizio dell’anno. A finire sul patibolo all’alba sono stati Michitoshi Kuma, un uomo di 70 anni condannato alla pena capitale per il rapimento e l’uccisione di due ragazze di 7 anni nel 1992, e Masahiro Takashio, 55 anni, colpevole di aver accoltellato e ucciso nella prefettura di Fukushima un’anziana e sua figlia nel 2004 durante un tentativo di rapina.

Quelle di stamani sono le prime esecuzioni autorizzate dal ministro della Giustizia Eisuke Mori, entrato in carica alla fine di settembre con il varo del governo del premier Taro Aso. "Farò applicare la legge in maniera esemplare - aveva detto Mori durante la sua prima conferenza stampa - seguendo scrupolosamente quanto indicato dalle sentenze dei tribunali".

I 15 detenuti messi a morte da inizio 2008 sono il livello più alto dal 1999, anno in cui il governo ha cominciato a rendere noti nomi e numero delle esecuzioni. La pena capitale viene applicata in Giappone per gli omicidi plurimi ed efferati, con particolari aggravanti come violenza sessuale, incendi o danneggiamenti di luoghi pubblici.

Il condannato ignora la data dell’impiccagione fino alla mattina dell’esecuzione e i familiari vengono avvertiti solo a sentenza eseguita. È il ministro della Giustizia a dare l’ultimo assenso alla condanna, emanata dai giudici della Corte Suprema.

Turchia: recluso morto per torture, vietata diffusione di notizie

 

Agr, 28 ottobre 2008

 

Al diffondersi delle notizie sulla violazione dei diritti umani, la Turchia risponde imponendo l’embargo. La Corte penale di Bakirkoy ha ordinato ieri di interrompere la diffusione di qualsiasi informazione in merito al caso di Engin Ceber, detenuto morto lo scorso 7 ottobre, in seguito alle torture subite nel carcere Metris di Istanbul. Il clamore sollevato aveva da allora costretto alle scuse pubbliche il Ministro della giustizia e portato al rinvio a giudizio di 19 guardie carcerarie.

Svizzera: evaso un detenuto albanese, era in attesa di rimpatrio

 

Ansa, 28 ottobre 2008

 

Un detenuto dello Stampino è riuscito a far perdere le proprie tracce. La conferma è arrivata dal Dipartimento delle Istituzioni che spiega che all’uomo, un cittadino albanese collocato presso la Sezione aperta (Stampino), era stato concesso un congedo da parte della preposta autorità del Cantone Ginevra, competente per il detenuto in questione, secondo le condizioni e la prassi abituale. Il prigioniero però l’11 ottobre non è rientrato dal congedo di sei ore ed ora nei suoi confronti è stato emesso un ordine di arresto. L’uomo era in attesa di essere espulso dal territorio ed in patria deve ancora scontare una condanna. Sulla fuga è stata aperta un’inchiesta per ricostruire l’accaduto e le modalità per l’ottenimento del congedo che è servito al detenuto per scappare.

 

 

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