Rassegna stampa 28 novembre

 

Giustizia: prima di Natale un Cdm su riforma della giustizia

di Fabrizia Maggi

 

L’Occidentale, 28 novembre 2008

 

Un Consiglio dei ministri sul ddl Alfano prima di Natale per affrontare la questione della riforma della giustizia, cercando una mediazione tra i diversi orientamenti della coalizione. È quanto è stato annunciato dal ministro della Giustizia Angelino Alfano durante la presentazione congiunta di martedì scorso con il ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione Renato Brunetta del protocollo d’intesa sulla riforma della giustizia e l’innovazione.

Nel corso la conferenza Alfano è anche entrato nel merito del Ddl Giustizia, il pacchetto di interventi che, non ancora discusso, ha già aperto le polemiche su più fronti. Il disegno di legge spazia dal problema del sovraffollamento delle carceri, la riforma del processo penale, fino alla condizionale e all’istituto della "messa in prova". Tutti temi che annunciano una dura battaglia politica ideologica.

Innovazione digitale. Nel protocollo d’intesa Brunetta-Alfano, si stabilisce che entro il 2010 gli uffici giudiziari, tribunali e procure comunicheranno attraverso l’utilizzo di tecnologie informatiche con i cittadini, con le imprese, con gli avvocati e con le forze di polizia. L’idea è quella di introdurre l’innovazione digitale nell’apparato della giustizia. Da parte sua, il ministro per la Pubblica amministrazione ha annunciato la realizzazione di una sessantina di convegni che culmineranno nella realizzazione, entro fine anno, del documento "e-government per l’Italia".

Il protocollo si sviluppa attraverso sei progetti che prevedono l’utilizzazione della information technology per semplificare le modalità di svolgimento dei servizi dell’Amministrazione della giustizia ai propri utenti. L’obiettivo è quello di "sconfiggere l’inefficienza del sistema giudiziario", riducendo i costi di funzionamento degli uffici e razionalizzando le infrastrutture e le reti di trasmissione della giustizia. A tal fine, verrà utilizzato il Sistema Pubblico di Connettività (SPC) e la rete privata delle forze di polizia in materia di ordine e sicurezza pubblica.

Ma non è tutto. I nuovi interventi faciliteranno la comunicazione tra professionisti, privati e istituzioni, attraverso un sistema di invio telematico della documentazione relativa ai procedimenti, ad esempio, per registrare gli atti civili presso l’Agenzia delle Entrate, per consultare atti e provvedimenti giudiziari o per richiedere certificati on-line. Ancora: sarà resa molto più veloce la trasmissione delle notizie di reato dalle forze di polizia alle procure della Repubblica. In tal modo, sarà permesso di ricostruire più facilmente il fascicolo del Pubblico Ministero e del giudice delle indagini preliminari.

Carceri. Sulla questione dei centri penitenziari, Alfano ha evidenziato i numeri di crescita della popolazione carceraria: 1.000 detenuti al mese, in tutto 58.462 a fronte di una capienza di 42.562. "È matematico che a febbraio-marzo verrà superato il limite tollerabile di 63mila carcerati", ha detto il ministro della Giustizia.

Il Guardasigilli ha annunciato che, per far fronte all’emergenza sovraffollamento, saranno costruite nuove carceri "anche con il coinvolgimento dei privati per la realizzazione e la costruzione delle nuove strutture penitenziarie" e, forse, la gestione dei servizi diversi dalla vigilanza. La copertura finanziaria è limitata e, nel frattempo, si prevedono "misure tampone". Tra l’altro, l’utilizzazione delle camere di sicurezza delle questure e dei carabinieri per i detenuti in attesa di processo per direttissima o l’apertura di Pianosa e dell’Asinara per il 41 bis. Sul modo in cui sarà realizzato il piano carceri, il ministro Alfano mantiene cautela e preferisce rimettere la decisione al vertice di governo, ma ha assicurato che "la coalizione è unita e compatta".

Condizionale e messa in prova. Argomento particolarmente scottante, rischia di dividere la maggioranza anche se, sulla questione, il Guardasigilli ha assicurato che sarà la coalizione a decidere se portare avanti la misura. Ogni anno, ricorda Alfano nella relazione collegata al ddl, "vengono concesse 50 mila sospensioni condizionali della pena, pari a circa un terzo delle sentenze di condanna". E continua spiegando che in un solo anno "circa 50 mila cittadini incensurati si giocano, dopo la prima condanna, il bonus che ognuno di noi ha fin dalla nascita", cioè la condizionale. Con il ddl Alfano si cambia: il cosiddetto bonus non sarebbe più automatico, ma spetta all’imputato incensurato di chiedere al giudice la sospensione del processo per essere messo in prova. Per ogni giorno di arresto o reclusione previsto, per il computo della pena, si prevede la prestazione di 4 ore di lavoro. Un lavoro da svolgere "in attività socialmente utili, non retribuite ed eseguibili in accordo con gli enti locali o nelle associazioni di volontariato per un minino di 10 giorni e un massimo di due anni".

Conosciuto anche come "probation system", di origine anglosassone, la proposta iniziale del ministro Alfano ne prevedeva l’applicazione solo per gli incensurati condannati con pene fino a 4 anni. Un requisito che comprenderebbe reati come il furto, il falso in bilancio, l’usura, la truffa, ma anche la corruzione di minori. È proprio questo il punto di attrito tra le diverse posizioni della maggioranza. Da una parte il ministro La Russa ha proposto la riduzione del limite della condanna a "due o al massimo tre anni"; dall’altra il ministro degli Interni Maroni che non ha nascosto la sua perplessità (anche perché sotto i 4 anni rientrerebbero reati tipici degli immigrati clandestini).

E, a dirla tutta, il fatto che la proposta era già stata presentata in passato da tredici senatori dipietristi e che ora trova il pieno sostegno dell’Idv, non ha certo aiutato a mettere d’accordo la maggioranza sulla necessità della riforma.

Giustizia: il "vecchio cronista"… e i misteri delle patrie galere

di Igor Man

 

La Stampa, 28 novembre 2008

 

"È una strage", dice Angiolo Marroni. Non si riferisce a Mumbai bensì all’Italia. Meglio: alle carceri italiane. A spingerlo a parlar di "strage" è Emiliano L., 35 anni, morto in cella nel carcere di Viterbo. Un "decesso misterioso" che ha spinto la Procura ad aprire un fascicolo "contro ignoti". Angiolo Marroni è il "garante regionale" dei detenuti. Una funzione certamente nobile, nelle intenzioni. Un pannicello caldo, nei fatti. Vediamo.

Il ministro della Giustizia, Alfano, lo ricorderete, ha proposto di affrontare con realismo e un minimo di pietas l’annoso problema-carceri. Spicca nella bozza del suo ddl la "messa in prova". E cioè: sotto la soglia d’un reato che non superi i 4 anni, si può, se incensurati, scontare la pena fuori dal carcere. Il ddl è parente stretto della probation anglosassone. Ha il pregio di "costringere" chi ha errato a danno del prossimo a cercare una sorta di riabilitazione sociale nel lavoro: sia di concetto, sia manuale. Di più: può in qualche misura sfollare le carceri che letteralmente scoppiano. La popolazione carceraria italiana è in "travolgente crescita": mille detenuti ogni mese. Abbiamo nelle patrie galere 58.426 carcerati a fronte d’una capienza di 42.562. Se il trend è questo, e lo è, nella prossima primavera "verrà superato il limite (tollerabile) di 63 mila detenuti".

La probation è congegnata dall’avvocato Ghedini che tuttavia è visto come un giurista sol preoccupato di evitare leggi che possano "disturbare qualcuno". C’è, poi, a insidiare la probation la "fissa" della Lega che la vede alla stregua di un "favore" agli extracomunitari. Il ministro Maroni, anch’egli contrario, ha tirato fuori l’oramai decrepito "problema delle carceri": occorre un piano edilizio, le carceri scoppiano, eccetera. Anche per La Russa: prima le carceri, poi il resto. Sono pressappoco 60 anni che il Vecchio Cronista sente parlare di carceri da costruire e da ristrutturare. Molte chiacchiere, niente fatti. La settimana scorsa in Palazzo Chigi-bis (la residenza di Berlusconi) il premier ha convocato gli "addetti ai lavori" per discutere del ddl di Alfano. Sappiamo di un intervento cristianamente audace, politicamente lucido di Gianni Letta che potremmo paragonare a una bilancia coi giusti pesi; ci auguriamo che quando questo scritto uscirà, il governo sia evaso dal tunnel.

Al tempo di Tangentopoli il Vecchio Cronista percorse San Vittore dalle 7 del mattino alle 7 della sera. Una ricognizione che mi ha lasciato, dentro, una cicatrice complicata. "Noi responsabili delle carceri - mi disse Pagano, il direttore - insistiamo da anni sulla necessità d’una profonda riforma che sia anche edilizia. Un recluso, innocente o colpevole che sia, è innanzitutto un essere umano ma la civiltà dei consumi se ne accorge solo quando scoppia la rituale sommossa. È ingiusto, incauto comportarsi così". Abito da 57 anni nella vecchia Roma, a un passo da Regina Coeli e sono 57 anni che sento e leggo della sua "prossima" chiusura: per farne addirittura un hotel di lusso. Ma la vecchia galera è sempre lì. Fu costruita nel 1881, ha celle simili a sepolcreti: 17 mattonelle per otto. In tanto angusto spazio che contiene la tazza del cesso, stanno in media due persone.

"Dentro Regina Coeli c’è ‘na campana / possi morì ammazzato chi la sona / La sona ‘n boiaccia de carne umana". Così cantano i carcerati e le loro voci arrivano al Gianicolo, dove bivaccano i famigliari dei prigionieri. I parenti affidano al vento richiami e messaggi. È una tradizione che non s’arrende, un rito amaro, non senza solennità.

Giustizia: Ionta (Dap); l'affollamento delle carceri è fisiologico

 

Redattore Sociale - Dire, 28 novembre 2008

 

Il capo del Dap parla di sovraffollamento e riorganizzazione dei servizi durante il 41° Convegno nazionale del volontariato penitenziario. Interviene anche il sottosegretario Caliendo "La giustizia minorile sarà assorbita dal Dap".

"Il carcere non è così immobile come sembra, molte cose sono cambiate negli ultimi anni ed è comunque sbagliato vedere l’istituzione carceraria come separata dal resto del mondo. Il carcere è un pezzo di mondo e ben venga l’attività del volontariato, ma stiamo attenti a vederlo come una palude". Con queste parole il capo del Dap, Franco Ionta, ha risposto alla relazione con cui la dottoressa Elisabetta Laganà, presidente del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario, ha introdotto oggi il 41° Convegno nazionale, dedicato al tema "i diritti dei detenuti e la Costituzione". Il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha contestato alla presidente del Coordinamento del volontariato una impostazione troppo "depressiva" della questione, troppo statica. La dottoressa Laganà gli ha risposto che la sua relazione - piena di denunce sulla violazione dei diritti dei carcerati - non era affatto depressiva. "Caso mai mi sento disillusa", ha detto Laganà nel batti e risposta con Ionta, il quale a sua volta ha replicato: "Attenzione, la disillusione può essere più rischiosa della depressione, male che comunque si può curare".

Ma a parte lo scambio cortesemente polemico tra i due, dal convegno di oggi è emerso un quadro abbastanza preoccupante del carcere. In ballo ci sono infatti di nuovo questioni scottanti, da emergenza, prima tra tutte il livello di sovraffollamento. Ma anche su questo Ionta ha detto che ormai bisognerà farsene una ragione. "Il livello fisiologico della presenze in carcere in un paese come l’Italia si attesterà sulle 60-70 mila unità. Dobbiamo farcene una ragione e dobbiamo misurare tutta l’organizzazioni su questo dato ineludibile". Ovviamente, ha spiegato sempre Ionta, più si aumentano le pene e i reati e più inevitabilmente aumenteranno i detenuti. "Quindi più che auspicare una speranza un po’ vaga di cambiamento, è meglio fare riferimento alla categoria dell’impegno. E con impegno - ha concluso Ionta - io intendo sia quello delle istituzioni che lavorano per il detenuto, sia però anche quello del detenuto stesso che deve scegliere di uscire dalla sua condizione. E scegliere di uscire dal crimine, in una società come la nostra, oggi non è certo una impresa facile". Quello che è necessario fare intanto è avviare una serie ristrutturazione dei servizi. Molto c’è da fare. Il capo del Dap ha suggerito per esempio un ripensamento sul ruolo della polizia femminile. Anche i poliziotti penitenziari oggi in servizio presso gli istituti minorili quasi vuoti sono risorse sprecate, quando nelle carcere normali manca il personale.

Spunti polemici durante la prima giornata del 41° Convegno Seac sono venuti anche dalle questioni della detenzione alternativa al carcere e del possibile assorbimento (amministrativo) della giustizia minorile nella giustizia generale. È stato il sottosegretario Giacomo Caliendo a rispondere all’obiezione di un sacerdote impegnato in carcere come cappellano. "L’assorbimento della giustizia minorile - ha detto Caliendo - nel dipartimento è solo una questione amministrativa. Il personale che prima dipendeva da certi uffici, poi dipenderà da altri, ma questo non vuol dire che all’interno del Dap non venga conservata una specificità per i temi della devianza minorile".

Da parte sua il Coordinamento degli enti e delle associazioni del volontariato penitenziario ha ribadito che l’unica vera soluzione ai tanti mali del carcere e al nuovo sovraffollamento sta nelle misure alternative che abbassano la recidiva moltissimo. In un documento approvato anche dalla Conferenza stato regioni i volontari del carcere ribadiscono infatti che sarebbe necessario cominciare a spostare più risorse possibile sugli Uepe, ovvero le strutture della detenzione alternativa.

 

La situazione delle carceri è fisiologica?!? (www.radiocarcere.com)

 

"Non credo che sia giusto pensare alle condizioni della popolazione detenuta nelle carceri italiane in termini emergenziali, occorre pensare che sia fisiologico". Ed ancora: "Guardando alle statistiche internazionali quando anche in Italia si raggiungano le 60-70 mila unità popolazione di detenuti si deve parlare di fisiologia del sistema". Lo ha affermato ieri Franco Ionta, magistrato, e Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia.

Un’affermazione grazie alla quale siamo finalmente liberi da quelle assillanti riflessioni su come migliorare il sistema delle pene, l’edilizia penitenziaria, o la vita di quelle persone che oggi in carcere subiscono pene in più non previste in nessuna sentenza di condanna.

Finalmente, grazie al dottor Ionta, scopriamo che è fisiologico che in una piccola cella di 8 mq ci siano ammucchiate 8, 10 o 12 persone detenute. Persone chiuse in quella cella per 22 ore al giorno, tra muffa e scarafaggi. Scopriamo con sorpresa che è fisiologico che in carcere, a causa del degrado determinato dal sovraffollamento, non si riesca ad assicurare un’adeguata assistenza sanitaria per i detenuti. È fisiologico quindi che in carcere un detenuto possa anche morire perché non prontamente curato. Ricordate la morte in cella di Aldo Bianzino? Ecco... è fisiologico!

Insomma, oggi grazie al dottor Ionta riusciamo a capire che è fisiologica l’illegalità, il non rispetto della legge, nella sovraffollate carceri italiane. Istituti dello Stato dove è dunque normale violare anche la dignità della persona detenuta. Oh! E ci voleva tanto? Grazie dottor Ionta. Ora possiamo stare tranquilli. Possiamo iniziare il fine settimana dimenticando la Costituzione, le leggi e quei valori di civiltà che ne sono fondamento. Ma che bella notizia!

Giustizia: le carceri una bomba, Governo con l’acqua alla gola

di Claudia Fusani

 

L’Unità, 28 novembre 2008

 

Ieri Alfano ha promesso: entro fine anno provvedimenti ad hoc anche per certezza della pena e processo penale. L’ostacolo An-Lega. Intanto il sistema è al collasso: timore per il "movimento Ergastolo".

Un numero e una data. Sono cerchiati in rosso sulle agende dei vertici del Dap, il Dipartimento della polizia penitenziaria, e del ministro Angiolino Alfano: per Natale arriveranno a sessantamila i detenuti ristretti nei 205 istituti penitenziari italiani. Quasi ingestibili per il nostro sistema carcerario. Col rischio, alimentato da informative, di agitazioni e astensioni dal vitto dei detenuti organizzate da "movimento Ergastolo" proprio in coincidenza delle vacanze di Natale e Capodanno, con i turni ferie del personale e degli agenti penitenziari.

Ieri mattina il ministro Guardasigilli ha concluso la sua audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera facendo una promessa: prima di Natale ci sarà un Consiglio dei ministri straordinario dedicato a carceri, certezza della pena e processo penale. Di sicuro nel Cdm di stamani il tema non sarà all’ordine del giorno: la "messa alla prova", a cui aveva pensato Alfano (evitare processo e condanna per chi ha commesso reati al di sotto dei quattro di pena e accetti di fare lavori socialmente utili) è stata bocciata dagli alleati di maggioranza. An e Lega hanno detto no a qualcosa che poteva assomigliare troppo a un’amnistia e che potrebbe allarmare la pancia degli elettori.

Fatti due conti a Natale ci saranno 60 mila detenuti e tra febbraio e a marzo si arriverà al punto di non ritorno (63 mila). L’emergenza è già qui. Urge un quasi miracolo. Alfano sta lavorando braccio a braccio con il numero 1 del Dap, l’ex pm antiterrorismo Franco Ionta. Il piano si sviluppa su un doppio binario: nell’immediato urge tamponare l’emergenza; nel più lungo periodo "è fondamentale pensare che questo paese deve attrezzarsi per una media di 60-70 mila detenuti e non più i 50 mila attuali". Prima di tutto l’emergenza che tradotta in cifre significa 10-12 mila posti disponibili in pochi mesi. La risposta? Saranno "un insieme di risposte".

Si va da tre nuove carceri (Gela, Noto e Rieti) disponibili nei primi mesi del 2009 per un totale di 1.300 posti alle ristrutturazioni di vecchi padiglioni carcerari che daranno altri 2.100 posti. È pronta una legge per "limitare del 25% le traduzioni": sono 330 mila l’anno che "libereranno" 600 mila agenti da impegnare in altro ("il carcere di Rieti ad esempio ha difficoltà ad aprire per mancanza di personale").

Così come deve finire il fenomeno delle "porte girevoli": 170 mila detenuti che restano in carcere una media di sei giorni, "uno spreco assurdo di personale, tempi, costi e posti". La soluzione è che "per quei 5-6 giorni siano detenuti nelle caserme e nelle questure come già dice la legge". Si lavora ancora sui braccialetti per gli arresti domiciliari. E sull’estradizione dei detenuti stranieri, il 38% del totale. Poiché ognuno di loro ci costa almeno 250 euro al giorno, liberarsene sarebbe già un bel risultato. Infine sopravvive, nelle intenzioni di via Arenula, la "messa alla prova" portando gli anni da 4 a 3 o addirittura 2. L’impatto sarebbe comunque di "qualche migliaio di detenuti fuori dagli istituti". Perché prima di tutto c’è l’emergenza. Trovare posti nuovi per non far scoppiare le carceri.

Giustizia: la "porta girevole" e... l’ingorgo-rapido dei 170 mila

di Claudia Fusani

 

L’Unità, 28 novembre 2008

 

Dodicimila. Settantamila. Centosettantamila. Cinque. Numeri che raccontano l’emergenza carceri, appena due anni dopo l’indulto che le aveva svuotate nell’estate 2006. Come se nulla fosse successo, due anni dopo le lancette del problema tornano a una parola che leva i sonni ai tecnici del Dap e del ministero della Giustizia: emergenza.

Dodicimila sono i posti letto nelle celle che devono essere recuperati entro marzo-aprile per riuscire ad avere una prospettiva di almeno un anno di lavoro senza ultimatum. Settantamila è, nel lungo periodo, la media annuale di detenuti con cui l’Italia - dicono i tecnici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - dovrà fare normalmente i conti. Centosettantamila sono i detenuti a ferma breve che stanno in carcere non più di 5-6 giorni ma che sottraggono tempo, spazio e risorse. Cinque sono i mesi in cui, a partire da oggi, il governo deve tamponare l’emergenza. A fine aprile, infatti, i detenuti ristretti saranno più di 63 mila.

Oltre, quindi, la soglia massima di tolleranza del nostro sistema penitenziario che fissa il punto di non ritorno a 63.568 posti letto nelle celle dei 205 istituti di pena. Oggi sono 58.462 i detenuti contro 43.262 posti regolari. Crescono con una media di circa 800-mille unità al mese. Per Natale sarà già emergenza.

Conosci il problema e cerca poi la soluzione. Il ministro Alfano ha consegnato alla Commissione Giustizia della Camera la sintesi di 16 pagine di un’analisi elaborata dal Dap diretto da Franco Ionta e suddivisa in tre grandi capitoli: numero di posti, personale e detenuti. Il primo - una scelta forse non casuale per un governo

che aumenta norme, pene e punta sulla repressione - riguarda l’edilizia carceraria. Costruire e ristrutturare, dunque, anche perché il 20 per cento dei nostri penitenziari è stato costruito tra ria e il XII secolo. Al momento il ministero delle Infrastrutture, a cui la legge affida la gestione delle strutture penitenziarie (il ministro lo fa notare con una punta di polemica) ha aperto nove cantieri di cui quattro solo in Sardegna per un totale di 2.025 posti di cui 1.215 sicuri entro il 2009.

Per gli altri servono altri finanziamenti. Grazie, poi, alla ristrutturazione di vecchi istituti entro il 2009 il ministro è convinto di recuperare altri 2.330 posti e altri 2.100 nel triennio. "Senza - precisa Alfano - l’intervento del capitale privato". In un modo o nell’altro questi interventi dovrebbero restituire 3-4 mila posti entro il 2009.

Un altro numero che balza agli occhi nel dossier del Guardasigilli è quello delle porte girevoli, 170 mila persone che in media ogni anno vengono arrestate, portate in carcere e poi rilasciate dopo 5-6 giorni perché l’udienza di convalida non ha confermato l’arresto o c’è stato il giudizio in direttissima con condanne sotto i due anni. Si tratta di reati minori per cui non è previsto il carcere. Trattenere queste persone nelle caserme di carabinieri e guardia di finanza o nelle questure farebbe risparmiare migliaia di posti e qualche migliaio di euro.

Sono poi 30 mila i detenuti in attesa di giudizio. Migliaia di loro, destinati a pene non superiori a 2-3 anni, potrebbero accedere alla "messa alla prova". Lavori utili, come pulire giardini, strade e rive dei fiumi, in cambio di un tempo inutile in carcere. Troppa benevolenza, dicono Lega e An. Allora tutti dentro. Ma dove? E soprattutto, come?

Giustizia: Granducato Toscana 1786; il reo è figlio della società

di Sandro Padula

 

Liberazione, 28 novembre 2008

 

Figlio di Maria Teresa d’Asburgo e dell’imperatore Francesco I di Lorena, Pietro Leopoldo fu Granduca di Toscana dal 1765 al 1790 e da lui venne firmata una riforma che abolì gli ultimi residui giuridici medievali: il reato di lesa maestà, la confisca dei beni, la tortura e la pena di morte.

Il 30 novembre 1786 il Granducato di Toscana fu infatti il primo Stato del mondo ad abolire formalmente la pena capitale e quindi ad applicare i principi espressi da Cesare Beccaria nell’opera intitolata "Dei delitti e delle pene" (1764).

Dal 2000 la Toscana ricorda il giorno della promulgazione del Codice Leopoldino con la "Festa della Toscana". Nulla da eccepire. È giusto ricordare una data così importante della storia dell’umanità, ma il miglior modo per ricordarne il valore rivoluzionario è quello di intendere la memoria storica come una progettualità attiva contro le oppressioni e le ingiustizie presenti.

La riforma del 30 novembre 1786 ebbe per altro diversi elementi culturali che risultano ancora attuali nel XXI secolo.

La riforma stabilita quel giorno riteneva che "la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri delinquenti, invece di accrescere il numero del delitti ha considerevolmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci". Affermava inoltre due punti di grande importanza: fissare "pene proporzionate ai delitti" e considerare il reo "figlio anche esso della società e dello Stato".

Ebbene, dopo 222 anni, sia la questione della proporzionalità delle pene detentive rispetto ai delitti che quella relativa alla considerazione del reo come figlio della società e dello Stato, restano principi non ancora compresi a sufficienza.

La proporzionalità delle pene detentive rispetto ai delitti, se valutata in termini di durata della pena detentiva e portata alle sue conseguenze logiche, implica il superamento non solo della pena di morte ma anche della quotidiana pena di morte costituita dal "fine pena mai" e di tutte le lunghe pene detentive.

Considerare il reo come "figlio della società e dello Stato" presuppone, da parte sua, la consapevolezza delle oggettive responsabilità sociali e statali rispetto a tutti i reati. Non giustifica questi ultimi ma li ritiene prodotto di determinate condizioni sociali e tende a valutarli con spirito equilibrato, storico e non metafisico.

La prevenzione dei reati, la celerità dei processi e la "sicurezza della pena dei veri delinquenti" non sono scopi ma mezzi che, lungi dallo stare nell’orizzonte culturale delle odierne politiche securitarie della "tolleranza zero" e delle permanenti "leggi d’emergenza", coesistono con il fondamentale mezzo della "mitigazione delle pene".

Il senso della riforma del 30 novembre 1786 è dunque rivoluzionario perché, guardando al XXI secolo, apre le porte al discorso del potenziale passaggio da una giustizia penale detentiva, quindi ancora in sé dolorosa e vendicativa da parte dello Stato, a una giustizia riparativa e libertaria.

Se il reo (acclarato) è "figlio anche esso della società e dello Stato", i presupposti politici, sociali e morali del suo reato, compiuti in relazione a passate scelte, esistevano nel passato e, dato che in materia sociale tutto si trasforma, non esistono più quando non esiste più il contesto in cui si era commesso quel reato. Di conseguenza, secondo il parere di diversi giuristi e tanto per fare un esempio, si commetterebbe un grave errore nel pretendere un’abiura da un ergastolano per accedere al beneficio della liberazione condizionale.

Si porterebbe a credere che determinati assetti della società e dello Stato, così come della vita individuale e collettiva, siano identici a quelli dell’epoca dei fatti incriminati. Il ragionamento sarebbe del tutto arretrato perfino rispetto al Codice Leopoldino!

I benefici di legge per i detenuti (permessi, licenze, lavoro esterno, semilibertà, affidamento sociale e libertà condizionale) dovrebbero essere quindi concessi solo sulla base di dati oggettivi relativi ai comportamenti fattivi delle persone prigioniere e non in base alle loro presunte idee del passato, del presente o del futuro. Rendere oggettivo e automatico il diritto ai benefici di legge è un tema di attualità.

Secondo alcuni esperti ed opinionisti, si dovrebbe evitare l’infantilizzazione delle persone ergastolane costrette a inoltrare lettere di perdono ai parenti delle vittime (offese direttamente o indirettamente) per ottenere la libertà condizionale. I parenti delle vittime non hanno bisogno di ricevere lettere di perdono ventisei o trenta anni dopo la tragica scomparsa dei propri cari. In diversi casi le hanno rimandate al mittente perché avevano sentito esplodere di nuovo e dentro di sé vecchi dolori. Mai nella storia della specie umana una lettera di perdono ha fatto resuscitare una persona uccisa.

Giustizia: scambio con privati, le carceri vecchie per le nuove

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2008

 

Ucciardone, Regina Coeli, San Vittore: tre prigioni d’epoca, nel cuore di Palermo, Roma, Milano. Tre simboli del patrimonio penitenziario italiano (205 istituti) rappresentato, per il 60%, da castelli, fortezze, conventi, palazzi antichi e colate di cemento risalenti a più di un secolo fa e, nel 20% dei casi, costruiti addirittura tra il 1200 e il 1500.

Prigioni-sanguisughe, perché succhiano soldi all’Amministrazione penitenziaria nell’inutile tentativo di adattarle agli standard minimi stabiliti da leggi e regolamenti. Prigioni sovraffollate, con alti tassi di autolesionismo e di aggressività. Bisogna "liberarle", dicono da tempo gli addetti ai lavori, e investire su nuove strutture.

Il Governo, allora, rilancia l’idea di cederle a privati, che in cambio potrebbero finanziare la malmessa edilizia penitenziaria con la costruzione di prigioni più moderne o con l’ampliamento di quelle esistenti. Insomma, se l’Ucciardone, Regina Coeli, San Vittore non diventeranno mai carceri a cinque stelle, potrebbero sempre diventare alberghi a cinque stelle.

Al di là di un possibile "scambio", il Governo considera strategico il coinvolgimento dei privati, "non nella gestione - precisa il ministro della Giustizia Angelino Alfano - ma nella costruzione di nuove carceri, che è l’unica soluzione al problema del sovraffollamento". Non ci sono alternative, aggiunge, confermando indirettamente che il Governo non pensa a misure deflattive della popolazione carceraria. Del resto, ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, invitava a non ragionare più in termini di emergenza perché anche in Italia va considerato "fisiologico" un sistema di 60-70mila detenuti.

A questa soglia, però, si potrebbe arrivare già a fine 2009; ben prima, quindi, del tempo necessario per costruire altre prigioni o ampliare quelle esistenti. Peraltro, il nuovo "parco-carceri" potrà funzionare solo se dotato del personale necessario e, tra l’altro, la Finanziaria ha appena ridotto del 30% gli stanziamenti per la macchina penitenziaria.

I ministeri della Giustizia, delle Infrastrutture e dei Beni culturali hanno già avviato consultazioni. Quasi tutte le carceri d’epoca, infatti, sono sottoposte a una serie di vincoli: all’Ucciardone sono tutelati persino gli alberi e le sbarre delle finestre, tant’è che quando si è deciso di utilizzare un’ala del carcere per ampliare la caserma, la Sovrintendenza ha vietato di toglierle.

I vincoli rendono meno appetibili queste prigioni e ne ostacolano la ristrutturazione, tant’è che il Dap, in un rapporto del maggio scorso, dice che "non sono adattabili alle prescrizioni del regolamento penitenziario vigente". Nello stesso rapporto segnala, peraltro, che "solo il 16% dei posti detentivi disponibili" (43.262 a fine 2007) è a norma e che per mettere in regola gli altri occorrono 400 milioni di euro.

Ieri Alfano ha fatto sapere che nelle prossime settimane valuterà con il ministero delle Infrastrutture lo stato dell’arte per decidere "dove intervenire, per fare le scelte più efficaci". Intanto, però, ogni mese entrano in carcere 800 nuovi detenuti e la tensione aumenta: a novembre 2008 si contavano 202 aggressioni nei confronti dei poliziotti (154 nel 2007; 145 nel 2006; 143 nel 2005) e il dato allarma il Governo, in vista della prossima estate. In base ai lavori già avviati (sempre che ci sia la copertura finanziaria per completarli), il Dap prevede che la capienza "tollerabile" (oggi di 63.568 posti) aumenterà di 8mila unità a fine 2010, ma ciò significa che bisognerà anche aumentare di almeno 8mila unità il personale penitenziario. E i soldi non ci sono.

Non a caso, il rapporto concludeva: "Pur essendo indispensabili grossi interventi economici nell’edilizia penitenziaria, il problema del sovraffollamento carcerario non può trovare esclusiva risposta nello sviluppo dell’edilizia penitenziaria" sia perché mancano stanziamenti proporzionati alle esigenze legate al sovraffollamento sia "per i tempi lunghi di esecuzione dei lavori sia, ancora, per le risorse umane (personale) necessarie alla gestione delle nuove strutture".

Giustizia: anche per i malati di mente la risposta è il carcere?

di Adolfo Ceretti (Università degli Studi Milano-Bicocca)

 

L’Opinione, 28 novembre 2008

 

Una vasta letteratura scientifica, centrata sui materiali del Bureau of Justice Statistics degli Stati Uniti d’America, individua nel sistema carcerario americano la principale agenzia di presa in carico della malattia mentale che tra la popolazione detenuta ha infatti una prevalenza assai più alta (anche 2 o 3 volte) rispetto alla popolazione generale.

Il Prof. Bernard Harcourt, in un recente studio ha riletto il fenomeno della de-istituzionalizzazione psichiatrica, aggregando i dati sull’ospedalizzazione psichiatrica con quelli sulla carcerazione nel periodo compreso tra il 1928 e il 2000. La rilettura è stata sintetizzata in una curva che ha preso il suo nome, dove si evidenzia, a partire dagli anni Sessanta, una costante diminuzione dei livelli di istituzionalizzazione - concomitante alla intensa de-ospedalizzazione psichiatrica - e una inversione di tendenza a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, concomitante a una netta crescita dei livelli di carcerizzazione: questi ultimi, tendenzialmente stabili fino a metà degli anni Settanta, nell’arco di un quarto di secolo aumentano di 6 volte, fino a superare i 640 detenuti per 100mila abitanti nel 2000 (il tasso oggi è di circa 740 per 100mila abitanti).

Il carcere, quindi, costituisce oggi negli Usa la principale istituzione totale, con una popolazione che ha largamente superato quella istituzionalizzata negli ospedali psichiatrici negli anni Cinquanta. Viene, dunque, spontaneo chiedersi se il fenomeno della psichiatrizzazione del carcere coinvolge anche il sistema penitenziario italiano.

La nuova centralità del carcere come luogo di neutralizzazione e l’emergere della cultura del controllo impongono una riflessione sulle attuali filosofie e pratiche di gestione della popolazione con problemi di salute mentale. D’altra parte, in uno scenario dominato dal declino delle politiche di welfare, in cui anche la famiglia è troppo sola per il carico della sofferenza mentale (e del relativo stigma), le zone di fragilità istituzionale giungono a configurarsi come sacche di re-istituzionalizzazione e di nuove cronicità.

A distanza di trent’anni dalla riforma Basaglia, insomma, la risposta alla malattia mentale sembra oscillare tra il manicomio diffuso e la carcerizzazione. L’Università di Milano-Bicocca, con il sostegno economico e il contributo scientifico dell’Associazione Saman, ha messo a punto un percorso di ricerca su Salute mentale e controllo sociale, presentato recentemente in un Convegno, promosso dall’Osservatorio "Giordano Dell’Amore" e organizzato dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale in collaborazione con la Fondazione Cariplo.

La ricerca intende affrontare tali questioni, approfondendo alcuni aspetti degli attuali sistemi di controllo e in particolare: il loro funzionamento e l’interconnessione delle pratiche istituzionali; le ricadute dei dispositivi istituzionali sui percorsi di vita delle persone, a partire dai loro diritti alla salute e alla libertà, entrambi tutelati dalla Carta Costituzionale. Al fine di valutare l’articolazione dei modelli istituzionali contemporanei di controllo sociale della popolazione con problemi di salute mentale e le ricadute sui percorsi di vita delle persone s’intende adottare una pluralità di metodi di indagine. In particolare: si analizzeranno i dati empirici disponibili nelle statistiche ufficiali o in ricerche già pubblicate relative ai servizi psichiatrici e al sistema penale; si raccoglieranno e analizzeranno i dati e le informazioni presenti nei diversi luoghi istituzionali del controllo attraverso l’elaborazione di questionari o di griglie di rilevazione elaborate ad hoc; si svolgeranno colloqui con gli operatori del controllo al fine di approfondire le tecniche e le modalità con cui si esplica l’attività di cura e controllo della popolazione con problemi di salute mentale.

Giustizia: Osapp; sì a stop scatolame ma rischio resta elevato

 

Ansa, 28 novembre 2008

 

"Era ora! Avevamo chiesto due mesi fa di vietare la vendita ai detenuti di scatole di metallo o di tutto ciò che può costituire un’arma di aggressione contro gli agenti. Il fatto che il Dap sia arrivato finalmente a tale determinazione dimostra a quale livello di tensione e di rischio si sia giunti negli istituti penitenziari".

Così il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, commenta la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il sindacato esclude che la misura possa essere ritenuta afflittiva nei confronti dei detenuti (esistono le confezioni in tetrapak di pelati e di altri generi alimentari), e anzi reclama ulteriori provvedimenti a tutela degli agenti penitenziari: "quando si verifica che un solo agente debba provvedere a due reparti di 130 detenuti, il divieto di oggetti pericolosi non si traduce in un conseguente aumento di sicurezza.

Servono anche altre misure - dice Beneduci - come, ad esempio, l’introduzione di un reato specifico sul genere di quello previsto per le aggressioni nei confronti dei poliziotti da parte degli ultrà durante le manifestazione sportive. È una richiesta che da tempo facciamo al ministro della Giustizia".

Giustizia: il decreto sicurezza è legge novità su intercettazioni

di Gerardo Ausiello

 

Il Mattino, 28 novembre 2008

 

È legge il decreto sulla sicurezza messo a punto dal governo per contrastare la criminalità organizzata. Il via libera definitivo è arrivato ieri dalla Camera dei deputati: 281 i voti a favore, 204 quelli contrari, 34 gli astenuti. Il provvedimento riguarda da vicino la Campania, autorizzando l’impiego di 500 soldati nei territori maggiormente a rischio della regione: tra questi spicca l’Agro-aversano-domizio, regno dei Casalesi, dove fino al 31 dicembre potranno essere dislocati 400 militari. Si occuperanno di "pattugliamenti a piedi e in moto, posti di controllo e vigilanza fissa agli obiettivi sensibili".

Un’altra misura importante è relativa al fondo per le vittime della mafia, che viene incrementato di 30 milioni di euro. Ma la vera novità riguarda l’accesso a tali risorse: uno speciale comitato, infatti, accerterà che i beneficiari non abbiano procedimenti penali in corso o sentenze di condanna per associazione mafiosa. In questo modo si cercherà di evitare che i capitali sottratti ai boss finiscano nelle tasche di loro familiari o affiliati.

Slitta di un anno (scatterà il 31 marzo 2009), poi, l’entrata in vigore delle disposizioni sulla conservazione di intercettazioni, dati delle chiamate senza risposta e traffico telematico da parte degli operatori telefonici. Infine una misura per giudici onorari di tribunale e viceprocuratori onorari: le loro indennità, in pratica, non saranno più ancorate al minimo delle udienze svolte, ma al tempo. Si passa, dunque, da 98,13 a 196,26 euro quando si superano le cinque ore di attività in udienza.

Il ministro della Difesa Ignazio La Russa è comunque pronto a "estendere l’operazione "Strade sicure", che affianca i militari alle forze di polizia nel controllo del territorio, dalle città metropolitane ai capoluoghi di provincia". La proposta verrà sottoposta ai cittadini mediante 10mila gazebo da allestire a dicembre in tutta Italia: "Ho visto gente applaudire dai balconi e chiedere che prosegua la presenza dei soldati", ha spiegato il ministro. Sono già 31mila le pattuglie miste nelle metropoli, oltre 300 gli arresti effettuati finora.

Giustizia: "specificità" delle polizie, non c’è neanche un euro

di Alessandra Ricciardi

 

Italia Oggi, 28 novembre 2008

 

E una battaglia che dura da tempo. Nel governo la appoggiano in tanti, dall’aennino ministro della difesa, Ignazio La Russa, al leghista ministro dell’interno, Roberto Maroni. E in parlamento accomuna centrosinistra e centrodestra, che in più di un’occasione hanno presentato emendamenti dello stesso tenore. Quella per il riconoscimento della specificità delle forze armate e di polizia gode insomma di consensi ampi e trasversali. Ma ancora una volta non porta a casa neanche un euro. Nel pacchetto anti-crisi, infatti, non ci sarà nessuna misura in aiuto a quanti, tra militari e forze di polizia, lavora per la sicurezza dei cittadini e del territorio, in Italia e all’estero.

Il bonus non andrà ai lavoratori dipendenti e tantomeno a quelli del comparto sicurezza. Ieri il niet del ministro dell’economia, Giulio Tremonti, risuonava grande quanto una casa nella bozza di decreto che sarà approvata oggi dal consiglio dei ministri. E pure, a favore di un intervento che facesse finalmente giustizia delle condizioni di basso reddito di militari, poliziotti e carabinieri, c’era stato anche il gradimento dello stesso premier, Silvio Berlusconi. Ma non c’è stato nulla da fare. Una nuova battuta di arresto per Ignazio La Russa, che si era fatto portabandiera della battaglia e che già con la Finanziaria aveva provato a scucire il via libera alla specificità dei lavoratori del settore rispetto agli altri del pubblico impiego.

In uno dei collegati alla manovra, quello sul lavoro, sembrava quasi fatta: le forze armate e quelle di polizia godranno di uno status speciale rispetto a tutto il resto del pubblico impiego, recitava un emendamento del relatore al provvedimento, Giuliano Cazzola (Pdl). "In futuro questa disposizione avrà effetti sia retributivi che pensionistici", spiegava, quando il ddl andava in approvazione, Cazzola. In futuro, appunto. Perché una delle condizioni che ha consentito di avere il via libera della commissione bilancio di Montecitorio, presieduta da Giancarlo Giorgetti, è stata la precisazione che dalla misura non dovranno discendere nuovi oneri a carico dello stato. Già, perché l’Economia, fino alla fine, non volle indicare una copertura ad hoc. Insomma, tanto La Russa che Maroni (responsabile per le forze di polizia) in quella occasione hanno portato a casa una vittoria di bandiera. In attesa di tempi migliori, quando sul capitolo potranno essere stanziate risorse aggiuntive, si diceva in quei giorni a Montecitorio. Ieri, in commissione difesa del senato, si approvava tra l’altro un ordine del giorno del Pd che appunto impegnava il governo nel riconoscimento tangibile della specificità dei lavoratori della sicurezza pubblica. Del resto, lo stesso ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, era pronto a riconoscerlo. Quando il collega del lavoro, Maurizio Sacconi, aveva portato avanti il progetto per la detassazione degli straordinari a vantaggio dei redditi di lavoro dipendente, Brunetta si era mosso perché la misura fosse estesa anche ai dipendenti pubblici.

Ma avrebbe comportato un costo elevato, visto che la p.a. conta una platea di 3,5 milioni di lavoratori. E che il datore di lavoro è sempre lo Stato. E così, Brunetta aveva ridimensionato il calibro della proposta, limitandola ai soli lavoratori della sicurezza. Proprio in virtù del rischio che il proprio lavoro comporta. Ma non se ne fece niente. Non se ne fece niente ieri come oggi. In attesa di tempi migliori.

Giustizia: a Bolzaneto furono torture, ma in Italia non esiste!

di Marco Preve

 

La Repubblica, 28 novembre 2008

 

A Bolzaneto i detenuti vennero torturati, le testimonianze delle vittime furono circostanziate e addirittura "prudenti", ma i giudici devono condannare in base a condotte criminose per delineate, che non possono essere influenzate dal clima politico. È questa in sostanza, e ad una prima lettura delle 441 pagine, il succo delle motivazioni della sentenza sul processo di Bolzaneto.

La sentenza, quest’estate aveva deluso chi si aspettava condanne esemplari per la vergogna del carcere speciale del G8 bollato come luogo di tortura da Amnesty International. Il tribunale presieduto da Renato De Lucchi pronunciò una sentenza di condanna per 15 persone e 30 assoluzioni, comminando pene variabili fra i 5 mesi e i 5 anni. I reati contestati agli imputati, a vario titolo, erano abuso d’ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso di autorità nei confronti di detenuti o arrestati, violazione dell’ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali .

Nelle motivazioni i giudici spiegano che "la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di tortura ha costretto l’ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali)".

E più avanti sottolineano che "anche in questo processo, quantunque celebrato in un’atmosfera caratterizzata da forti contrapposizioni politico-ideologiche sia sui mezzi di informazione che nell’opinione pubblica, sono stati portati a giudizio non situazioni ambientali o orientamenti ideologici, bensì, ovviamente, singoli imputati per specifiche e ben individuate condotte criminose loro attribuite nei rispettivi capi di imputazione, che costituiscono la via maestra da cui il giudicante non deve mai deviare, pena la violazione dell’altro cardine del nostro sistema di garanzie processuali rappresentato dall’art. 24 della Costituzione".

Giustizia: su Bolzaneto la polizia è colpevole anche di omertà

di Alessandra Pieracci

 

La Stampa, 28 novembre 2008

 

"Comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano e degradante commessi da autori che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica Italiana e alla Carta Costituzionale", causando un danno gravissimo, "oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle Forze della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere". Parole dure quelle usate dai giudici nella motivazione, 451 pagine depositate ieri, della sentenza che nel luglio scorso ha concluso il processo di primo grado per le violenze inferte ai fermati nella caserma di Bolzaneto, durante il summit del G8.

"La mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di "tortura" ha costretto l’ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali) compiute in danno delle parti offese nell’ambito, certamente non del tutto adeguato, dell’abuso di ufficio" si legge nelle motivazioni. E l’elenco dei comportamenti violenti è lungo e dettagliato: insulti e percosse, passaggio in corridoio tra schiaffi, sgambetti, calci e sputi, costrizione in ginocchio per ore, dolorose e umilianti senza risparmiare i feriti, percosse, manganellate, spray urticanti, insulti, minacce di stupro e di morte, inni fascisti e frasi antisemite "intollerabili sulla bocca di appartenenti a Forze di polizia di uno Stato democratico, che pone il ripudio del nazifascismo tra i valori della propria Costituzione", tanto più "ripugnanti e vessatorie in quanto dirette contro persone tutte appartenenti a un’area politico-sociale che si ricollega ai principi del pacifismo, dell'antifascismo e dell’antirazzismo".

Non solo. I magistrati accusano la polizia di "scarsa collaborazione originata, forse, da un malinteso spirito di corpo" durante l’indagine "lunga, laboriosa e attenta" da parte dei pm Patrizia Petruzziello e Ranieri Mimati. Di conseguenza, non è stato possibile accertare e provare le singole responsabilità. È uno dei presupposti che spiega le decisioni del tribunale presieduto da Renato De Lucchi: 15 condanne su 44 richieste, con pene variabili fra i 5 mesi e i 5 anni.

E non è stato possibile attribuire ai "vertici" la responsabilità di quanto avvenuto nella caserma di Bolzaneto perché sarebbe stato necessario raggiungere la prova della loro presenza ai fatti e della "perfetta percezione di quanto stava accadendo", ovvero di un comportamento doloso, quindi con la precisa volontà di procurare un danno.

Il concetto di responsabilità provata è ribadito nelle condanne più pesanti, 5 anni per Biagio Gugliotta, responsabile della sicurezza del sito di Bolzaneto, 2 anni e 4 mesi per i funzionati Alessandro Perugini e Anna Poggi.

Il quadro dipinto dai giudici stigmatizza anche la "così palese e grave carenza logistica da parte dei responsabili di vertice del sito di Bolzaneto", nonché "la pessima organizzazione del servizio di ricezione e gestione dei detenuti realizzata dalle strutture di comando delle Forze di Polizia operanti in occasione del G8".

Giustizia: quando l’ergastolo ha sostituito la pena di morte…

di Ugo Giannangeli (Avvocato)

 

Liberazione, 28 novembre 2008

 

Nel 1944 la pena di morte è stata sostituita dall’ergastolo ma la sostituzione non ha fatto venire meno quell’idea di definitività che la pena capitale porta ontologicamente con sé. La pena di morte elimina fisicamente il "reo"; l’ergastolo lo elimina socialmente (donde la definizione di "morte civile" benché di civile l’ergastolo nulla abbia).

In un certo sentire comune diffuso nella componente "forcaiola" (altro termine in uso evocativo di morte) della società ma esteso a molti magistrati chiamati ad occuparsi a vario titolo degli ergastolani, permane un senso di fastidio rispetto alla sopravvivenza di questi rei che, scampati alla "forca", residuano come zavorra sociale. Il fatto che gli sia consentito di vivere, anche se inteso solo come sopravvivere, dovrebbe, secondo costoro, comportare un eterno debito di gratitudine verso la società a carico dei "graziati".

Quando è stato fatto notare che l’art. 27 della Costituzione afferma che la pena tende alla rieducazione del condannato e che, quindi, una pena infinita non aveva senso ed era in contrasto con il dettato costituzionale, rappresentando un esplicito fallimento e una vanificazione della dichiarata finalità rieducativa, è stato ribattuto che l’ergastolo, perpetuo sulla carta, tale non è nella realtà perché anche l’ergastolano può beneficiare della liberazione condizionale e quindi può vedere estinta la pena dopo un periodo di libertà vigilata (il tutto dopo il periodo non trascurabile di 26 anni di galera).

Al danno della pena perpetua si è così aggiunta la beffa: l’ergastolo è legittimo costituzionalmente perché esiste ed è applicabile l’istituto della liberazione condizionale; se poi la liberazione condizionale, di fatto, non viene applicata, questo non incide sulla costituzionalità (astratta) della pena perpetua. Perché la liberazione condizionale non viene applicata se non in rarissimi casi (i rarissimi casi servono sempre per salvare le apparenze ed evitare che la beffa diventi irridente)?

A monte vi è innanzitutto l’atteggiamento psicologico di cui si è detto, riassumibile rozzamente nell’indicibile "è già tanto se ti lasciamo ancora in vita". Questo atteggiamento, talora, emerge in modo esplicito in alcuni provvedimenti, ispirati da mero sadismo. Recentemente un procuratore generale di Cagliari, dovendo semplicemente aggiornare il fine pena di una ergastolana a seguito della concessione di 45 giorni di liberazione anticipata (sconto di pena per ogni semestre di "buona condotta"), così si è espresso: "Ordine di Scarcerazione... si comunica che la data di fine pena, già fissata al Mai è anticipata al Mai, data in cui dovrà essere scarcerata se non detenuta per altra causa".

È sublime, si rasenta la filosofia e la metafisica (l’eternità anticipata nell’eternità). O, meglio, si sfocia nel sadismo: non si nega il diritto alla scarcerazione (questo termine ricorre più volte); il problema è la data perché "Mai" non compare sul calendario. Quasi che la carcerazione perpetua sia colpa di eventi naturali.

Lo strumento per realizzare lo scopo voluto (disapplicazione della liberazione condizionale) è fornito da una parola inserita nell’art. 176 c.p.: "ravvedimento".

È una condizione essenziale per il beneficio e deve essere "sicuro". Al giudice sembrerebbe richiesta una indagine introspettiva dell’animo del reo. Di solito a questa indagine sono preposti i religiosi (e non è mancato qualche caso di testimonianze - allegate agli atti - di preti e suore sul profondo pentimento del reo, raccolto in confessionale o in colloqui privatissimi).

Il giudice dovrebbe valutare invece dati oggettivi: il comportamento nel corso della esecuzione della pena, l’ottenimento di benefici penitenziari (permessi, lavoro esterno, semilibertà), l’impegno sociale e lavorativo. Questi elementi di valutazione, però, sono stati ritenuti non bastanti.

Poiché l’ergastolano è tale per avere commesso almeno un omicidio (così, almeno, è stato ritenuto in sentenza) l’attenzione è stata rivolta alle vittime e ai loro parenti. La norma sulla liberazione condizionale contiene già un riferimento alle vittime, laddove impone il risarcimento del danno come ulteriore condizione. Poiché, però, non è esigibile il risarcimento da chi non è in condizioni di risarcire (traduci: è facile "farla franca" grazie alla propria indigenza, situazione frequente tra gli ergastolani), si è ritenuto opportuno confondere il risarcimento con il ravvedimento: due condizioni ben separate (anche nel dato testuale e nella struttura dell’art. 176) sono state fuse e confuse in modo del tutto arbitrario.

Rispetto ai detenuti politici (cioè i partecipi al fenomeno di lotta armata degli anni 70 e 80) il problema si complica ulteriormente perché costoro hanno avuto a disposizione una legislazione (c.d. "premiale") che favoriva comportamenti di delazione e di dissociazione. Oggi è ancora in carcere chi non ha ritenuto di percorrere quelle strade.

L’ostilità verso la concessione del beneficio, allora, esplode virulenta: costoro sono "irriducibili" (termine incomprensibile, usato non solo dalla stampa ma anche in provvedimenti giudiziari, con o senza virgolette), cos’altro cercano? E si torna al "è già tanto se sono scampati alla forca".

Qualche magistrato ritiene di chiudere così il discorso, con questa esclusiva motivazione, ignorando bellamente che la norma impone di valutare tutto il percorso detentivo dall’inizio della esecuzione della pena in poi. Altri chiedono prove esteriori di ravvedimento che devono transitare attraverso un rapporto con i familiari delle vittime. La casistica è fantasiosa: emolumento mensile alle varie associazioni di familiari di vittime di terrorismo; lettera o comunque contatto personale con i familiari dell’ucciso; risarcimento del danno anche simbolico, ecc. ecc..

Quando è stato obiettato che appariva evidente l’ipocrisia e la strumentalità della condotta richiesta, intanto perché richiesta e poi perché finalizzata all’ottenimento del beneficio, è intervenuta una risposta agghiacciante e cinica: intanto si tenga questo comportamento, poi valuteremo. In alcuni casi hanno dimostrato, a proprie spese, più sensibilità verso i familiari delle vittime i detenuti che non i magistrati, rifiutando i primi di porre in essere una condotta così platealmente strumentale.

Che dire ancora? Che esiste l’ergastolo aggravato dall’isolamento diurno, così incidendo la pena non solo sulla quantità di carcere ma anche sulla sua qualità (chi ricorda, oggi, quel pretore di Genova che negli anni 70 dopo avere visitato il locale carcere, ha cambiato drasticamente la propria giurisprudenza, infliggendo pene minori di molto?).

Che l’isolamento diurno è spesso stato applicato dopo venti anni dalla sentenza che aveva comminato la pena, con buona pace della funzione "rieducativa" del carcere. Che esiste l’ergastolo aggravato dalle condizioni di segregazione previste dall’art. 41 bis che, col pretesto della sicurezza, mira al crollo psicologico della persona e alla sua collaborazione processuale (carcere come strumento di tortura).

Che, in questo contesto, la pena appare avere esclusivamente la funzione di pubblica vendetta, con buona pace delle scolastiche funzioni retributiva, preventiva ed emenda.

Ma, soprattutto, viene da chiedersi: che senso ha il gran ciarlare di partecipazione all’opera di rieducazione e di reinserimento sociale? La stragrande maggioranza delle carceri o delle sezioni in cui si sconta l’ergastolo non prevede alcun tipo di attività rieducativa o risocializzante ma, soprattutto, quali sono i valori ispiratori della società in cui deve essere reinserito il reo?

Oggi dominano guerra, violenza, sopraffazione, corsa al riarmo, distruzione dell’eco-sistema, corruzione, libero mercato inteso come concorrenza devastante, ambizione, potere, violazione impunita e continuata della legalità internazionale.

Questi sono i principi dominanti. La richiesta di comportamenti ipocriti e strumentali ai detenuti è, forse, allora, una verifica della loro idoneità all’ingresso in questo tipo di società? Chi non accetterà l’offerta sarà libero solo di scegliere dove morire: in carcere se di notte, sul lavoro se di giorno, altrove solo se avrà la fortuna di morire in uno dei 45 giorni annui di permesso.

Lettere: il carcere non può essere discarica degli indesiderati

 

www.socialpress.it, 28 novembre 2008

 

In questi ultimi tempi è solo un susseguirsi di politiche e leggi che rendono il ricorso al carcere come il "rimedio miracolo" per togliere di mezzo dalla società i problemi sociali ai quali non si riesce a dare una risposta. Per ogni problema la risposta è: carcere. La politica che sembra sempre riscuotere il maggior consenso, soprattutto elettorale, è quella del "buttare la chiave!" (questa è la traduzione letterale da fare quando dicono "certezza della pena").

Questo quando la Costituzione, in diversi suoi articoli, sancisce invece che la pena (notare bene, scrive "pena" e non "reclusione" visto che la pena può avere varie forme!) deve avere uno scopo rieducativo e non può andare contro il senso d’umanità.

Noi che abbiamo la sventura di esserci finite in carcere, sia in qualità di condannate che di detenute in attesa di giudizio, ci rendiamo conto ogni giorno di quanto e quante volte quei principi vengano violati.

Noi detenute di Rebibbia vogliamo allargare la protesta del 1° dicembre 2008 contro tutte quelle violazioni. Intendiamo partecipare all’iniziativa con un giorno di protesta pacifica con sciopero del sopravvitto, del lavoro, "battitura", ecc.) da riprendere il mese di marzo aderendo alla calendarizzazione dei promotori della campagna contro l’ergastolo.

Per l’abolizione dell’ergastolo, il "fine pena mai" che è la violazione evidente del principio della possibilità della "rieducazione". Senza farsi ingannare dal falso argomento per cui, in Italia, dopo 26 anni è possibile ottenere la libertà condizionale. Innanzitutto questa non è mai concessa automaticamente ed è di fatto esclusa preventivamente, come gli altri "benefici", per coloro che sono sottoposti all’articolo 4bis nella sua forma più restrittiva.

Contro il 41bis, forma detentiva disumana che si può paragonare a un vero e proprio strumento di tortura. Contro il Disegno di legge Berselli che vorrebbe modificare la Riforma penitenziaria del 1975 e il Codice di Procedura Penale in materia di permessi premio e di misure alternative alla detenzione, peraltro già lasciata alla discrezionalità dei giudici e poco e male applicata. Lo scopo è quello di rendere la detenzione ancora più oppressiva, facendo credere, erroneamente, che un carcere ancora più afflittivo serva a dissuadere dal commettere e reiterare i reati.

Il disegno di legge punta a ridurre i benefici nel suo complesso, incluso i giorni di liberazione anticipata e a togliere la possibilità di andare in semilibertà a tutti gli ergastolani, così come oggi succede per quelli sottoposti alla misura del 41bis.

La possibilità di ottenere permessi verrebbe ulteriormente allontanata, così come quella di usufruire di altri benefici. Per altro già la legge cosiddetta Cirielli ha, di fatto, escluso da questa possibilità tutti i recidivi. Tutto questo, per altro, quando l’isolamento affettivo viene applicato duramente per tutta la detenzione, in modo particolare tra familiari detenuti, per i quali il diritto al colloquio, previsto dall’O.P. non viene quasi mai rispettato.

Contro la presenza di bambini in carcere. C’è qualche forma detentiva più disumana di rinchiudere in un carcere con le loro madri -per quanto si posso tentare di "abbellirlo"- dei bimbi in età da 0 a tre anni? In seguito, quando vengono obbligatoriamente separati dalla madre, acquistando la "libertà" vengono ad aggiungersi a tutti gli altri bambini che separati dai loro genitori vedono, per lungo tempo, ridotto il vitale rapporto affettivo familiare a qualche visita mensile di 1 ora in squallidi parlatori.

La Costituzione dice che bisogna rispettare il senso di umanità: che colpa hanno i bambini delle azioni eventualmente commesse dai loro genitori?

Infine ai bimbi a cui è capitato di essere figli di persone in regime di 41bis, solo 1 ora mensile, attraverso un vetro divisorio, visto che compiendo 12 anni si perde il "diritto" ai 10 minuti mensili concessi senza vetro! Chi deve rispettare le leggi e in primo luogo la costituzione?

 

Le detenute del carcere di Rebibbia

Sicilia: assistenza sanitaria nelle carceri, nessun passo avanti!

di Giovanni Ciancimino

 

La Sicilia, 28 novembre 2008

 

I tempi stringono e per l’assistenza sanitaria nelle carceri non si vede alcun segnale, una via di uscita, un raggio di luce. Con delibera di uno degli ultimi Consigli dei ministri presieduti da Romano Prodi, la competenza è passata dal ministero della Giustizia a quello della Salute e da questo alle Regioni. La Regione Sicilia che fa? Ci si trastulla tra una interpretazione giuridica e l’altra: recepire con decreto amministrativo come le regioni ordinarie o con norma dell’Assemblea regionale? Sta di fatto che fino ad ora si naviga tra le nuvole.

Tutte le opinioni hanno un fondamento giuridico, ma si decida. Se ci si vuole avvalere della norma statutaria che in materia di Sanità conferisce alla Regione siciliana potestà concorrenziale, lo si faccia pure. Come è noto, potrà legiferare nel rispetto della normativa nazionale ed ovviamente della Costituzione. Ma il Parlamento siciliano ancora non è stato neppure investivo dalla presentazione di un apposito ddl con procedura d’urgenza: meglio di iniziativa governativa, ma che si muovano anche i signori deputati con un’iniziativa parlamentare. Siamo quasi a dicembre, la sessione di bilancio assorbirà buona parte del mese. E, mentre si discute sul sesso degli angeli, a gennaio che si farà? Ben 6.800 detenuti non avranno alcuna assistenza, le infermerie carcerarie chiuderanno.

Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Orazio Faramo, sarà costretto a sospendere le prestazioni sanitarie per i detenuti. Dal budget ministeriale gli è stato cassato l’apposito capitolo: 12 milioni di euro l’anno che gli dovrà stornare il ministero della Salute tramite la Regione. Fondi, la cui copertura è prevista già dalla delibera del Consiglio dei ministri datata primo aprile 2008. Compreso il trasferimento del personale e l’assunzione di quanti hanno vinto i concorsi indetti dal ministero della Giustizia per l’assistenza penitenziaria anche psicologica.

Il senatore Salvo Fleres ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per sapere se sia a conoscenza di quanto sta accadendo in Sicilia (E come no? Angelino Alfano è siciliano e dovrebbe conoscere abbastanza bene il dramma della sua terra e segnatamente delle carceri che da queste parti hanno problemi più pressanti ed impellenti rispetto al resto d’Italia) e del Paese in merito alla Sanità penitenziaria; quali iniziative intenda intraprendere al fine di scongiurare l’ipotesi di sospensione della somministrazione delle cure ai ristretti negli istituti delle regioni interessate; se ritenga di dover disporre apposite iniziative ispettive e/o sostitutive in grado di accertare ed assicurare il rispetto dei fondamentali valori della salute e della dignità umana nei luoghi di pena. Risposta: silenzio assordante.

Quale Garante per la Sicilia dei diritti dei detenuti, Fleres ha scritto anche al premier Berlusconi, oltre che ai ministri competenti, ai presidenti di Camera e Senato e ai capigruppo parlamentari di entrambi i rami del Parlamento, per fare il punto della situazione generale delle carceri e del caso particolare dell’assistenza sanitaria ai detenuti.

Nessuna risposta. Tace il ministro della Giustizia, tace il ministro della salute, tale il governo centrale nel suo complesso, tace l’assessore regionale alla Sanità, tace il governo della Regione. Una sorta di complice silenzio, mentre il fuoco cova sotto la cenere delle carceri siciliane.

Sicilia: lunedì relazione sull’attività del Garante dei detenuti

 

Comunicato Stampa, 28 novembre 2008

 

Palermo, Palazzo dei Normanni, Sala Rossa ore 10. Lunedì 1 dicembre 2008 Conferenza stampa di presentazione della relazione sulle attività del Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale.

Il Sen. Salvo Fleres, Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale, presenterà agli organi d’informazione i contenuti della relazione sull’attività svolta quale Garante. La relazione, presentata al Presidente della Regione Siciliana on. Raffaele Lombardo, e al Presidente dell’Ars on. Francesco Cascio, costituisce una puntuale sintesi e riflessione sulla situazione penitenziaria siciliana e sul rispetto dei diritti umani. È altresì previsto un intervento del dirigente dell’Ufficio e segretario generale della Conferenza Nazionale dei Garanti dei detenuti, avv. Lino Buscemi. Alla conferenza stampa sono stati inoltre invitati, le Autorità politiche della Regione, dell’Amministrazione Penitenziaria e delle associazioni dei diritti umani e del volontariato.

Firenze: il Garante; pestaggi e violenze nell’Opg di Montelupo

 

Redattore Sociale - Dire, 28 novembre 2008

 

Sotto accusa gli agenti penitenziari. Disagi per il sovraffollamento e la mancanza, per diversi giorni, di acqua calda e riscaldamento. La denuncia del Garante dei diritti del comune di Firenze.

Pestaggi e violenze fisiche da parte di agenti di polizia penitenziaria su alcuni internati nell’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) di Montelupo Fiorentino (Fi), ma anche disagi a causa del sovraffollamento o della mancanza, per diversi giorni, di acqua calda e riscaldamento. È quanto ha denunciato oggi Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti del comune di Firenze, che ora non esclude l’interessamento della Magistratura ordinaria su questa vicenda e chiede l’intervento della Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’avvio di un’indagine interna. Corleone, che ha anche ribadito la necessità della nomina di un Garante regionale, ha spiegato di avere avuto notizia di questi episodi attraverso due lettere che gli sono state inviate da uno degli internati, in cui le violenze e i disagi venivano raccontati dettagliatamente.

"Ho elementi - ha spiegato - per ritenere che non si tratti di denunce frutto di fantasia. Temo ci sia molta verità. La situazione in generale delle carceri in Italia e in Toscana è al limite del livello di guardia. Credo che ora sia indispensabile un’indagine della Magistratura e della amministrazione penitenziaria". "Quello di Montelupo - ha continuato - è uno dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari presenti oggi in Italia; sopravvissuto alla legge Basaglia, è contemporaneamente carcere e manicomio. Sono strutture che dovrebbero avere anche una funzione terapeutica, ma questa denuncia dimostra che siamo di fronte ad una situazione intollerabile. A Montelupo ci sono circa 200 internati, in una situazione di sovraffollamento terribile".

Lecce: abusi su detenuti minorenni nove agenti sotto processo

 

Lecce Prima, 28 novembre 2008

 

Sono stati rinviati a giudizio nove agenti del carcere minorile di Lecce sulla via per Monteroni. Così ha stabilito il Gup Annalisa De Benedictis in tarda mattinata dopo le arringhe degli avvocati che avevano chiesto il proscioglimento dei loro assistiti. Sotto processo il capo degli agenti, Gianfranco Verri, il suo vice Giovanni Leuzzi, ed altri sette con le accuse di abusi su minori e violenze. Il dibattimento si aprirà il prossimo 19 febbraio davanti ai giudici della seconda sezione penale. Il Gup ha riconosciuto anche le persone offese.

L’indagine prese le mosse dall’allora sottosegretario alla Giustizia Alberto Maritati il quale presentò un esposto in Procura. Sotto processo su richiesta del pm Antonio De Donno quindi, il capo delle guardie, Gianfranco Verri, il suo vice Giovanni Leuzzi e sette dei loro sottoposti: Ettore Delli Noci, Vincenzo Polimeno, Alfredo De Matteis, Emanuele Croce, Antonio Giovanni Leo, Fernando Musca e Fabrizio De Giorgi. Molto pesanti le accuse a cui devono rispondere i neo-imputati. L’ispettore Verri, soprattutto, di aver creato un gruppo di poliziotti che sarebbero stati pronti sopprimere con la violenza qualsiasi cenno di dissenso non solo dei reclusi, ma anche del personale militare e civile dell’amministrazione penitenziaria.

Logiche di potere che si sarebbero tradotte in percosse e abusi di ogni genere sui minorenni, soprattutto extracomunitari, o con particolari problemi di adattamento. Ogni imputato avrebbe commesso reati come tirare schiaffi così forti da "far uscire sangue da entrambe le orecchie", oppure da "spezzare tre denti", o ancora divertirsi a "mettere lo sgambetto" per far cadere il detenuto. Come quando un ragazzo sarebbe rimasto "per un’intera notte completamente nudo a dormire in cella di isolamento senza materasso", o quando ad un altro gli si sarebbe schiacciato "un cuscino sul volto" per non farlo urlare, e altro ancora. Molti episodi descritti nella denuncia di Maritati che ora finiscono in un’aula di Tribunale per l’approfondimento dibattimentale.

Cagliari: Libera; il carcere è un "mondo" che fa ancora paura

 

La Nuova Sardegna, 28 novembre 2008

 

Il carcere tra diffidenza e ignoranza: la casa circondariale cittadina è stata il tema del dibattito svoltosi martedì all’archivio storico, uno degli appuntamenti organizzati dall’associazione Libera in Sardegna. Il carcere è un luogo sconosciuto, ed è un recinto davanti al quale molto spesso anche il volontariato si ferma.

"Nella Casa Circondariale di Iglesias c’è tutto il mondo - ha detto Carla Corona, una delle volontarie della Caritas che da dieci anni assistono i detenuti - ma i cittadini non lo sanno e ancora davanti alla parola "carcere" si reagisce con gesti inconsulti". A dimostrarlo c’era il foglio che pubblicizzava l’incontro staccato dalla parete dell’atrio di un palazzo, dopo essere stato "siglato" con scritte poco qualificanti. In carcere si vive per 22 ore al giorno in "gabbie" di pochi metri quadri, in due o tre per cella a seconda della disponibilità di spazio (e nella casa circondariale di Iglesias oggi i detenuti sono 120 a fronte di una capienza di 59 e un massimo tollerato di 114).

Chiamare casa, sostituire la cerniera di un giubbotto, avere biancheria intima o un paio di scarpe sono traguardi che si raggiungono dopo aver fatto domanda e atteso qualche tempo. Lo raccontano le due volontarie della Caritas attive nella struttura, Corona, appunto, e Caterina Moro. Sul loro quaderno, giorno per giorno, appuntano quello che devono fare e quello che hanno già fatto. "Anni fa - continua Corona - l’unico straniero detenuto nell’istituto cittadino era un cileno. Oggi ci sono marocchini, israeliani, francesi, iracheni, russi, cechi, rumeni. Quando sono liberati finiscono in mezzo alla strada, soli, senza un soldo in tasca e senza un posto in cui andare".

Sui 120 detenuti del carcere cittadino gli stranieri sono una settantina, i sardi sono pochissimi, "nonostante la territorialità degli istituti di pena sia sancita dalla legge", ha aggiunto Vincenzo Alastra, direttore del carcere di Sa Stoia. Proprio per questo aspetto gestire le conseguenze dell’indulto non è stato facile, tra biglietti per partire, il ricovero almeno per una notte, un cambio e un panino a cui provvedere.

I soldi per tutto questo sono arrivati dal Comune e dalla Curia, ma le associazioni in carcere non sono presenti, "un controsenso - ha detto Fernando Nonnis, presidente di Soccorso Iglesias e coordinatore dell’incontro - nell’area della Sardegna con la più alta concentrazione di associazioni di volontariato. Ma evidentemente c’è ancora una soglia davanti alla quale anche il volontariato si ferma". A parte i progetti del Comune con la cooperativa San Lorenzo, anche la risposta del mondo delle imprese è scarsa, come a livello nazionale, e in città sono stati assunti solo 3 detenuti nonostante le agevolazioni per i datori di lavoro.

"Non si pensi che questi godano di particolari libertà - ha spiegato Alastra - sono sempre detenuti e devono rispettare un protocollo rigidissimo che prevede il tragitto da compiere e le persone con cui parlare. Ma per chi sta dentro una cella è comunque una conquista importante che gli permette pian piano di ricostruire la sua scala di valori. E quando un detenuto lavoratore è scarcerato il rischio di recidiva oscilla tra l’uno e il cinque per cento".

Il carcere è un servizio, questo in sintesi il discorso, e dovrebbe essere in grado di rimettere nella società persone riabilitate: ma come si fa in strutture sovraffollate, con poco personale, e con detenuti la cui sorte è ancora incerta? "Non può cominciare un lavoro, studiare, seguire un programma - continua Alastra - chi è imputato ma solo chi è condannato in via definitiva. Ma in Italia il numero di imputati nelle carceri è altissimo, nonostante la legge preveda che debbano stare in strutture a parte".

A Iglesias ad esempio sono meno di 40 i condannati, i soli che possono stare "a pieno titolo" in una casa circondariale, e più di 70 gli imputati: una situazione di incertezza, la loro, che si trascina anche per anni e che ha portato anche ad alcuni clamorosi casi di autolesionismo.

Pordenone: se il carcere chiude tempi delle udienze più lunghi

 

Messaggero Veneto, 28 novembre 2008

 

Se il carcere di Pordenone dovesse essere effettivamente chiuso, il trasferimento dei detenuti in altre strutture penitenziarie comporterebbe notevoli disagi sia sotto il profilo economico, che giudiziario. Basti pensare, per esempio, ai costi del tragitto e al tempo "perso" dalle guardie carcerarie per accompagnare un imputato che deve rendere testimonianza in tribunale a Pordenone e che magari è stato trasferito alla casa circondariale di Udine o Tolmezzo (le sedi più vicine).

"I carceri più vicini - sottolinea il procuratore Luigi Delpino - sono quelli di Udine, Tolmezzo e Treviso. Se i detenuti dovessero essere trasferiti dal carcere di Pordenone, si allungherebbero i tempi delle udienze e questo causerebbe problemi gravissimi. Un modo per "risolvere" questo enorme problema, potrebbe essere il processo a distanza, attraverso la videoconferenza. A Venezia, per esempio, in Corte d’appello, Maniero, detenuto in un altro carcere italiano, fu ascoltato attraverso il sistema di videoconferenza. Ma forse il nostro tribunale non è attrezzato per questo tipo di soluzione. In ogni caso - rimarca Delpino - così non si risolverebbe comunque il problema del carcere, che per Pordenone rappresenta un’esigenza". "La questione del carcere - sottolinea il presidente del tribunale Antonio Lazzaro - è annosa. Se i carcerati dovessero essere trasferiti - aggiunge - il ministero di Grazia e giustizia dovrà affrontare molte spese".

Secondo l’opinione dell’avvocato penalista Pierfrancesco Scatà "è difficilissimo che chiudano il carcere: non ci sono, a mio avviso, problemi di igiene in sé. Ci sono disagi legati alla carenza di spazi. E se poi il sindaco dovesse firmare l’ordinanza di chiusura - aggiunge -, questa sicuramente sarà impugnata dal ministero. Il fatto è che bisogna realizzare un nuovo carcere". Il presidente della Camera penale di Pordenone, l’avvocato Bruno Malattia, evidenzia come il carcere si trovi in queste condizioni "da tempo, anzi, si è trovato anche in condizioni peggiori. Nell’eventualità che venga chiuso - indica ancora - ci saranno inevitabilmente dei disagi, con un dispendio maggiore di tempo e denaro. La colpa è delle amministrazioni pordenonesi precedenti. Il carcere - conclude - genera un indotto sotto il profilo economico, basti pensare alle guardie carcerarie e alla gente in visita che ruotano attorno. E una città capoluogo che rinuncia a questi servizi".

Firenze: convegno nazionale; il palcoscenico è dietro le sbarre

 

Il Tirreno, 28 novembre 2008

 

Di spazio per riflettere ce n’è e la rappresentazione teatrale serve anche a guardare dentro e fuori di sé, a evadere con le armi della cultura, che portano fuori quel che per antonomasia è rinchiuso, sta dentro. Stiamo parlando del teatro in carcere, delle esperienze di grandi registi teatrali con gli attori detenuti. La Toscana è una regione all’avanguardia.

Non a caso si è tenuto a Firenze il convegno nazionale sulle esperienze del teatro in carcere ("A scene chiuse" al Saloncino della Pergola). La Toscana infatti è l’unica regione a sostenere un progetto coordinato "di rete" delle attività di spettacolo all’interno degli istituti penitenziari. Esempi ci sono anche in Puglia, Lazio, Emilia-Romagna, Lombardia, Liguria, Veneto: dal carcere minorile di Milano alla compagnia del Pratello nel carcere minorile di Bologna diretta dal regista Paolo Billi, fino al centro di cultura teatrale di Rebibbia.

Ma la Toscana è l’unica ad aver reso possibile la realizzazione di queste esperienze tramite la stretta collaborazione fra le compagnie teatrali, la progettualità politico-culturale della Regione e degli enti locali, e la volontà delle direzioni degli istituti penitenziari. Esemplare l’esperienza della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra, riconosciuta ed apprezzata a livello internazionale. Ma sono ben quindici i carceri toscani in cui si fa teatro, con laboratori settimanali: Livorno, Pisa, Massa, Porto Azzurro, Pistoia, Volterra, Firenze, Empoli, Massa Marittima, Montelupo Fiorentino, Sollicciano, San Gimignano, Arezzo, Siena e Prato. Se la Volterra di Armando Punzo è l’esperienza più consolidata, Prato è quella più recente, nata appena adesso, con la compagnia Metropopolare che inizierà un laboratorio di teatro al carcere della Dogaia lunedì prossimo.

Ad Arezzo, il regista Gianfranco Pedullà, direttore della compagnia teatrale Mascarà, coordina da sedici anni il progetto teatrale nel carcere della città. All’Isola D’Elba, Manola Scali è coordinatrice del Laboratorio teatrale nel carcere di Porto Azzurro dal 1992. A Firenze Corrado Marcetti è collaboratore dell’architetto Giovanni Michelucci nella redazione del progetto del "Giardino degli Incontri" nel carcere di Sollicciano: "Qualsiasi attività di carattere culturale o formativo venga svolta in carcere - afferma Marcetti - deve saper cogliere i cambiamenti della composizione sociale della popolazione detenuta, che sempre più attinge alla grande area della povertà, all’immigrazione, alla tossicodipendenza, persino al disadattamento sociale e alla malattia mentale".

A questo proposito, l’attività teatrale nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino la racconta lo psichiatra e criminologo Franco Scarpa, dirigente medico dell’amministrazione penitenziaria e responsabile ufficio detenuti, trattamento e sanità del Provveditorato Regionale della Toscana: "L’ apertura verso l’esterno ha permesso al teatro in carcere di diventare anche strumento di riabilitazione per persone con problemi psichici. Chi riesce a fare teatro manifesta una buona integrazione con gli altri e con se stesso".

 

 

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