Rassegna stampa 24 novembre

 

Giustizia: come si fabbrica l’insicurezza e come la si governa

di Ilvo Diamanti

 

La Repubblica, 24 novembre 2008

 

Sono passati un anno, dodici mesi appena, ma l’Italia sembra un’altra. Meno impaurita e meno insicura. Infatti, l’inverno è vicino, ma il clima d’opinione registra un disgelo emotivo evidente. Come testimonia il 2° rapporto - curato da Demos e dall’Osservatorio di Pavia per Unipolis sulla rappresentazione della sicurezza - nella percezione sociale e nei media. Pochi dati, al proposito (d’altronde, ieri Repubblica gli ha dedicato molto spazio).

Nell’ultimo anno, si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità a livello nazionale e soprattutto nel contesto locale. È calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di reati. Da un recentissimo sondaggio di Demos (concluso venerdì scorso) emerge, inoltre, che il problema più urgente per il 31% degli italiani (se ne potevano scegliere due) è la criminalità comune.

Un anno fa era il 40%. Mentre il 21% indica l’immigrazione: 5 punti meno di un anno fa. Gli immigrati, peraltro, sono considerati "un pericolo per la sicurezza" dal 36% degli italiani: quasi 15 punti percentuali meno di un anno fa e 8 rispetto allo scorso maggio. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione che, negli ultimi anni, è apparso inscindibile, agli occhi dei cittadini, oggi sembra essersi allentato. Cosa è successo in quest’ultimo anno, in questi ultimi mesi di così importante, significativo e profondo da aver scongelato il clima d’opinione? L’andamento dei reati, in effetti, rileva un declino che, peraltro, era cominciato a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, si è sviluppato senza variazioni tali da giustificare mutamenti di umore tanto violenti.

Invece, l’immigrazione è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell’interno alla Caritas. Gli sbarchi di clandestini sono anch’essi aumentati. Quasi raddoppiati. Non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. Al contrario: le opinioni si sono separate dai fatti. Per effetto di un complesso di fattori. D’altronde, il clima d’opinione riflette una pluralità di motivi, spesso non prevedibili e, comunque, non controllabili.

In questa fase, in particolare, la crisi economica e finanziaria ha spostato il centro delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Non solo in Italia: anche negli Usa, prima del collasso delle borse, la campagna delle presidenziali era concentrata sull’immigrazione. Poi tutto è cambiato, con grande beneficio per Obama. Tuttavia, la preoccupazione economica, in Italia, è da tempo molto alta. Destinata a deteriorarsi ancora.

Nell’ultimo anno, però, non è peggiorata. Era già pessima. Il profilo delle "persone spaventate" presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l’origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega.

L’analisi dell’Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei Tg di prima serata, peraltro, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell’autunno di un anno fa e un successivo declino - particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, ma soprattutto su Studio Aperto e Canale 5.

Seguiti, per trascinamento, dal Tg 1, il più popolare e autorevole presso il pubblico. Il sondaggio di Demos osserva come l’insicurezza sia molto più alta fra le persone che frequentano prevalentemente le reti e i notiziari Mediaset. Ciò suggerisce che i cicli dell’insicurezza siano favoriti e scoraggiati, in qualche misura, dal circuito fra media e politica. D’altra parte, la sicurezza, l’immigrazione e la criminalità comune sono temi "sensibili" negli orientamenti degli elettori.

"Spostano" i voti degli incerti. Rendono incerti molti cittadini certi. Peraltro, come abbiamo già visto, il tema della sicurezza non è politicamente "neutrale". La maggioranza degli elettori (anche a centrosinistra) ritiene la destra più adatta ad affrontare questi problemi - trasformati in emergenze (Indagine Demos, luglio 2007).

Così, per creare un clima d’opinione favorevole, al centrodestra basta sollevare il tema della sicurezza. Cogliere e rilanciare episodi e argomenti che alimentano l’insicurezza sociale. Farli rimbalzare sui media. Il che avviene senza troppe difficoltà. Non solo perché il suo Cavaliere ha una notevole conoscenza del settore, sul quale esercita un certo grado di influenza. Ma perché la paura è attraente. Fa spettacolo e audience. E perché, inoltre, in campagna elettorale, la tivù costituisce la principale arena di lotta politica, su cui si concentrano l’attenzione dei partiti e la presenza dei leader.

Così, l’insicurezza cresce insieme ai consensi per il centrodestra. Senza che il centrosinistra riesca a opporre una resistenza adeguata. Frenato da divisioni interne, particolarismi e personalismi che non gli permettono di proporre e imporre un solo tema capace di spostare a proprio favore il consenso. Il lavoro, i prezzi, le tasse, l’etica: nel centrosinistra c’è la gara a distinguersi e a smarcarsi. Tutti contro tutti.

La recente campagna elettorale di Veltroni, irenica, tutta protesa a marcare la distanza dal passato (Prodi), non ha scalfito l’insicurezza del presente.

La morsa della sfiducia e dell’insicurezza si è allentata solo dopo le elezioni politiche e le amministrative di Roma. Non a caso. Il risultato, senza equivoci, non lascia scampo alle speranze dell’opposizione: resterà opposizione a lungo. Così, la campagna elettorale, dopo anni e anni, finisce. E il centrodestra si dedica a controllare, in fretta, il clima di insicurezza che aveva contribuito ad alimentare negli anni precedenti.

Propone e approva provvedimenti ad alto valore simbolico: l’impiego dei militari contro la criminalità, l’aumento di vincoli e controlli all’immigrazione. La liberalizzazione delle polizie e delle milizie locali, padane, private. Gli stessi episodi di razzismo hanno prodotto la condanna "pubblica" dell’intolleranza, con l’effetto di inibirne, in qualche misura, il sentimento.

In quanto gli stranieri, percepiti perlopiù come "colpevoli" di reati e violenze, ne diventano "vittime". Così gli immigrati continuano a fluire, i clandestini a sbarcare e il numero dei reati non cambia, ma l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media nei loro confronti si ridimensiona. La paura declina. Un po’ come avvenne nel periodo fra il 1999 e il 2001. Anche allora criminalità e immigrazione divennero priorità nell’agenda delle emergenze degli italiani.

Spaventati da aggressioni e rapine a orefici e tabaccai; dall’invasione degli stranieri. Che conquistavano i titoli dei quotidiani e dei Tg. Poi, l’inquietudine si chetò. Sopita dall’attacco alle Torri Gemelle e dalla vittoria elettorale di Berlusconi. Capace, come nessun altro, di navigare sulle acque dell’Opinione Pubblica. E di domare le tempeste che la turbano dopo averle evocate.

Giustizia: un’eterna emergenza, corsa a ostacoli del Governo

 

Il Messaggero, 24 novembre 2008

 

Che la giustizia italiana dovesse essere considerata una vera emergenza nazionale era chiaro fin dal momento dell’insediamento del nuovo governo Berlusconi. Con i suoi quattro milioni di processi civili pendenti, con una spesa inferiore in Europa solo a quella della Germania, il nostro sistema giudiziario è di gran lunga il più disastrato del continente. E in questa situazione di degrado erano germogliate altre distorsioni incredibili, da quella del ricorso massiccio - e talvolta improprio - alle intercettazioni telefoniche, a quello della eccessiva lunghezza e fallibilità dei processi penali, che oltre a non fornire una adeguata risposta alla naturale istanza di giustizia richiesta da un sistema democratico, hanno costretto l’erario a sborsare centinaia di milioni di euro per gli errori giudiziari e l’eccessiva durata dei giudizi. Ecco perché il Guardasigilli Angelino Alfano ha cominciato la sua corsa contro il tempo.

Lavori socialmente utili emessa in prova per alleggerire i ruoli penali. L’idea è quella di introdurre i lavori socialmente utili come pena accessoria subito dopo la sentenza, da assegnare a chi avrebbe i requisiti per avere la sospensione condizionale della pena, cioè una condanna a meno di due anni di reclusione. Lo stesso principio sarà applicato ai processi in corso, consentendo solo agli indagati incensurati per reati puniti nel massimo a quattro anni, di chiedere la sospensione del processo e svolgere lavori socialmente utili per un periodo deciso dal giudice. Nel testo è chiarito che si tratta di lavori non retribuiti da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, gli enti di assistenza o di volontariato, per una durata settimanale non inferiore alle otto ore e non superiore alle ventiquattro, per un periodo non inferiore ai dieci giorni e non superiore ai due anni. E ancora, i lavori di pubblica utilità dovranno essere obbligatoriamente sospesi nei casi di donne incinte, madri con figli inferiori a un anno, malati di Aids; sospensione solo facoltativa, invece, per chi si trova in condizione di grave infermità fisica o è madre con bimbi di età inferiore ai tre anni. Il ddl del governo arriverà in consiglio dei ministri venerdì prossimo con la messa in prova per gli indagati per reati che prevedono la pena massima al disotto dei quattro anni. Ma dal ministero della Giustizia fanno sapere che c’è la massima apertura a discutere eventuali limature.

Il nodo intercettazioni per garantire la privacy consentire le indagini. Alla fine sarà un emendamento del governo a sbloccare una situazione che sembra rischiare lo stallo. Il ddl sulle intercettazioni, che nelle intenzioni di Palazzo Chigi sarebbe dovuto entrare in vigore in tempi rapidissimi, è uscito di fatto dalla corsia preferenziale del legislatore.

Il ddl è fermo in Commissione Giustizia della Camera, dove la presidente Giulia Bongiorno conta di licenziarlo entro Natale, connotandolo però di una certa carica di definitività, in modo da favorire un passaggio "blindato" in aula a Montecitorio e poi al Senato. L’orientamento è quello di limitare ad una serie ristretta di reati la possibilità di svolgere intercettazioni formali" (criminalità organizzata, corruzione e terrorismo) e di lasciare aperta la porta ai pm di svolgere intercettazioni cosiddette "informative", per acquisire notizie sulle quali poi cercare riscontri probatori con le indagini tradizionali.

Carriere separate e riforma del Csm. Il Guardasigilli Angelino Alfano lo ripete quasi in ogni occasione pubblica: "Questo governo non riterrà compiuta la sua missione prima di aver provveduto ad una separazione netta delle carriere di pm e giudici". La questione è centrale, perché riguarda effettivamente la mancata realizzazione della norma costituzionale sul giusto processo, che prevede l’assoluta parità di avvocati difensori e pubblici ministeri davanti al giudice terzo. La conseguenza diretta di una riforma di questo calibro, però, è la necessità di modificare l’attuale struttura del Consiglio Superiore della Magistratura, prevedendo una sezione Disciplinare distinta per i giudici e per i pubblici ministeri. Si tratta di due modifiche per le quali è necessario ritoccare alcuni articoli della Costituzione; e tuttavia il governo ha in progetto di farlo entro il dicembre 2009.

Testimonianze scritte nelle aule civili e filtro in Cassazione. Il Capodanno 2008 potrebbe segnare l’inizio di una nuova epoca nelle disastrate aule giudiziarie civili: quella dei processi senza testimoni, intesi come presenza fisica. Le deposizioni saranno raccolte con determinate garanzie dai legali interessati, un po’ come è consentito fare ai penalisti nel corso delle indagini difensive. E in questo modo si eviteranno molti rinvii per indisposizione dei testi, per errori di notifica ed altro. Previste anche penalizzazioni per chi comincia una causa pretestuosa e per chi rifiuta proposte di soluzione amichevole della controversia. Le cancellerie della Suprema corte di Cassazione, intasate da decine di migliaia di procedimenti astrusi, potranno respirare grazie ad un filtro di ammissibilità, utile ad eliminare a monte i ricorsi palesemente inammissibili

Testimonianze scritte nelle aule civili e filtro in Cassazione. Il Capodanno 2008 potrebbe segnare l’inizio di una nuova epoca nelle disastrate aule giudiziarie civili: quella dei processi senza testimoni, intesi come presenza fisica. Le deposizioni saranno raccolte con determinate garanzie dai legali interessati, un po’ come è consentito fare ai penalisti nel corso delle indagini difensive. E in questo modo si eviteranno molti rinvii per indisposizione dei testi, per errori di notifica ed altro. Previste anche penalizzazioni per chi comincia una causa pretestuosa e per chi rifiuta proposte di soluzione amichevole della controversia. Le cancellerie della Suprema corte di Cassazione, intasate da decine di migliaia di procedimenti astrusi, potranno respirare grazie ad un filtro di ammissibilità, utile ad eliminare a monte i ricorsi palesemente inammissibili

Giudizi penali più veloci con "discovery" alla fine delle indagini. Un’altra riforma del processo penale dovrebbe essere presentata entro Natale, sotto forma di Ddl governativo. Le nuove norme andranno ad incidere sulla velocità del processo, eliminando alcuni passaggi della fase che caratterizza la fine delle indagini e l’inizio del dibattimento. Già in questa settimana i tecnici di via Arenula si riuniranno per mettere a punto i dettagli di un ddl che potrebbe essere portato in consiglio dei Ministri entro la fine dell’anno.

Una delle modifiche potrebbe riguardare l’articolo 415bis, quello che prevede l’avviso ai difensori del deposito degli atti di indagine da parte del pubblico ministero. Si tratta del momento della cosiddetta "discovery", in cui i difensori degli imputati acquisiscono la cognizione esatta della mole di prove raccolte dalla procura a carico dei loro assistiti. Ed anche il momento in cui cade per definizione la copertura del segreto istruttorio. Il progetto è quello di eliminare questo passaggio (che comporta avvisi da notificare e termini di attesa per fissare l’udienza preliminare davanti al gip) per tutti i processi in cui ci sia stato l’interrogatorio dell’imputato e una sostanziale discovery già nella fase delle indagini preliminari. La norma, che secondo stime del ministero di via Arenula, potrebbe riguardare ben oltre il trenta per cento dei procedimenti pendenti, servirebbe per accelerare i tempi della giustizia penale.

Giustizia: l’iniziativa di Alfano, una riforma buona solo a metà

di Vittorio Grevi

 

Corriere della Sera, 24 novembre 2008

 

Non si sono ancora spente (e anzi torneranno presto a svilupparsi) le discussioni e le polemiche suscitate dall’iniziativa del ministro Alfano diretta a modificare il sistema penale in materia di sospensione condizionale della pena e di sospensione del procedimento per "messa alla prova" dell’imputato.

Un’iniziativa che muove da una premessa giusta (per cui nessun "beneficio" penale deve essere concesso "senza contropartita" da parte di chi ne usufruisca), ma che approda poi, sul terreno del processo, a estensioni assai opinabili. A quanto risulta, una prima importante proposta contenuta nel progetto Alfano riguarda una nuova disciplina della sospensione condizionale della pena, cioè del beneficio che il giudice può concedere tutte le volte in cui pronunci una sentenza di condanna a una pena non superiore ai due anni, sul presupposto che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati.

Un beneficio che oggi viene concesso in modo pressoché automatico, quasi si trattasse di un vero e proprio diritto per ogni condannato a quel tipo di pena (sempreché già non ne abbia goduto), traducendosi perciò in una forma di esenzione "a costo zero" dal carcere o comunque dalla sanzione penale, a favore di tali condannati.

Da tempo si è posta in luce, però, l’esigenza che il provvedimento sospensivo della pena venga accompagnato dalla sottoposizione del condannato a particolari obblighi (per esempio, al risarcimento del danno, che già oggi il giudice può imporgli, anche se accade di rado), i quali rappresentino una sorta di contrappeso rispetto al beneficio in tal modo elargito.

E appunto in questa prospettiva si colloca la proposta di subordinare sempre la sospensione condizionale della pena all’obbligo del condannato di svolgere un lavoro a vantaggio della collettività: così da rendere evidente, non foss’altro sul piano simbolico, che, anche in ipotesi del genere, il reato commesso comporta comunque un qualche "prezzo" a carico del suo autore accertato, sebbene esente da pena. Una idea valida, dunque, e non priva di utili riflessi anche per il messaggio che potrà derivarne all’opinione pubblica.

Purché, naturalmente, esistano strutture e servizi sociali sufficienti per dare concretezza agli obblighi imposti ai condannati, e per controllarne l’osservanza. Diverso è il discorso, invece, con riferimento alla proposta concernente l’allargamento anche agli imputati adulti dell’istituto della sospensione del processo con "messa alla prova", oggi previsto solo nel sistema processuale minorile, ed evidentemente ispirato (nel quadro delle molte peculiarità risocializzanti proprie di questo sistema) all’esigenza di offrire una significativa chance di anticipato recupero sociale al minorenne imputato: attraverso il suo esonero dal giudizio, proiettato fino alla cancellazione del reato, nel caso di positivo adempimento alle prescrizioni di condotta cui sia stato sottoposto.

Tuttavia, ciò che si giustifica nel processo minorile, difficilmente potrebbe ammettersi nel sistema processuale ordinario, dove non si profilano come prioritarie analoghe esigenze socializzanti degli imputati, prima della sentenza di condanna. Sicché un istituto siffatto potrebbe apprezzarsi solo in vista di un risultato di deflazione processuale, cioè di alleggerimento della grande massa dei processi pendenti.

Il tutto, però, sulla base di una rinuncia dello Stato alla funzione tipica della giustizia penale, che consiste, quanto meno, nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Si tratta di una scelta delicata, sulla quale sono emerse divergenti valutazioni. Tanto è vero che una proposta similare - condivisa dall’Associazione Nazionale Magistrati - era già stata avanzata in passato dal ministro Mastella, e oggi risulta ripresa anche in disegni di legge dell’opposizione, sia pure con riferimento agli imputati di un’assai più ristretta cerchia di reati (quelli puniti con pena massima fino a due, ovvero a tre anni, mentre nel progetto Alfano si arriva alla pericolosa soglia dei quattro anni).

Senonché, al di là di questo aspetto - peraltro fondamentale in vista di una scelta legislativa -ciò che lascia soprattutto perplessi è la circostanza che, in certi casi, l’esercizio doveroso dell’azione penale, e quindi della giurisdizione, possa venire sospeso, per il solo fatto che l’imputato chieda di essere "messo alla prova": col risultato di evitare così non solo la pena, ma anche il processo, semplicemente accettando il vincolo di assoggettarsi a determinate prescrizioni, tra cui l’obbligo di un lavoro di pubblica utilità. Davvero un po’ poco, di fronte alla proclamata (e sacrosanta) esigenza di effettività dei processi, di repressione dei reati e di certezza delle pene.

Giustizia: la "messa alla prova", l'ennesimo pasticcio di Alfano

di Mauro Mellini

 

www.giustiziagiusta.info, 24 novembre 2008

 

Una volta tanto, quel po’ di demagogia (ché di questo si tratta, e non delle molte possibili ragioni serie da opporre) che ha spinto An e Lega a tirare la giacca ad Alfano sulla proposta del "lavoro utile" per ottenere l’estinzione di taluni reati, merita la nostra gratitudine.

Intendiamoci bene: contro il progetto di Alfano è la solita demagogia del "no ai colpi di spugna" del sospetto che si "vogliano spalancare le porte delle carceri ai delinquenti" ed altri slogan della stessa solfa. Anche queste tirate demagogiche non sono prive di fondamento. Il problema della effettività della pena c’è.

Ma c’è proprio perché la pena non è effettiva perché non può esserlo. Se le carceri scoppiano, se i Tribunali sono intasati, se i processi vanno in prescrizione, possiamo pure stracciarci le vesti. Ma, se vogliamo semplicemente che tutti quei processi si facciano, che tutti i condannati restino in carcere, che tutti i reati vengano perseguiti, dobbiamo semplicemente accontentarci di una finta. Per non ammettere che ciò è impossibile, dobbiamo andare incontro al verificarsi dell’esatto contrario di ciò che proclamiamo di volere a tutti i costi. I processi finiranno (cioè, sono finiti) per intasare i Tribunali. Ai condannati dovranno essere accordati tutti i "benefici di legge" come se se li fossero meritati; i reati saranno perseguiti solo a caso, cioè quando non avvenga che i processi cui possano dar luogo si perdano negli ingorghi delle Procure e dei Tribunali. Le carceri, poi continueranno ad essere stracolme, i processi aumenteranno sempre di numero (il deprezzamento dell’inflazione impone l’aumento continuo del volume del circolante, così come questo comporta il deprezzamento ulteriore).

Posto in termini di mera efficienza il problema giustizia è senza soluzione. Perché in tali termini è un falso problema. Gli espedienti, per quanto ingegnosi e fantasiosi, non mutano granché i termini di questo maledetto imbroglio. Ha un bel dire e promettere Alfano (laureato in giurisprudenza e specialista di problemi aziendali) che non si consentirà più a nessuno di sfuggire a processi e pene "gratuitamente" e che lo "sfollamento" dei Tribunali e delle carceri non sarà gratuito, come con l’amnistia e l’indulto, ma a condizione che chi vi si voglia sottrarre, presti "lavori utili alla società".

Una volta si chiamava condanna "all’opera pubblica" quella ai lavori forzati. Nella Roma papale i condannati erano mandati "a scopà Roma". Oggi in Italia da scopare c’è Napoli, la Campania, la Calabria ed anche Roma e chi sa quante città. Ma "chi manda chi" a scopà Roma o Napoli o Vattelapesca?

Credo che all’aziendalista fantasioso Alfano, sfugga il fatto che il suo progetto richieda procedure non molto diverse dai processi oggi previsti dal Codice, con problemi, complicazioni, lungaggini non minori. Quanto poi all’"utilità" dei lavori può scommettersi che resterà nei propositi del Ministro.

In altre parole: in attesa che Alfano tiri fuori un improbabile coniglio dal cappello, si è autorizzati a ritenere che il suo proposito comporterebbe, in buona sostanza, di avere due processi al posto di uno: chi sia colpevole e quale pena meriti (non si vorranno mica mandare "all’opera pubblica" indifferentemente innocenti e colpevoli!); e un altro processo, poi, per stabilire se il colpevole può "liberarsi" del pregiudizio penale e della pena andando a lavorare per pubblica utilità. Con ampio ricorso, manco a dirlo, ad una discrezionalità ammantata di "prudente apprezzamento", che, nella migliore delle ipotesi, sarà di mero automatismo sia nell’ammissione al "lavoro utile" (concetto che già evoca, sia pure per sospetta contrapposizione, quello di "lavoro inutile") sia nella valutazione dell’effettiva e proficua prestazione.

Ma nella stessa scelta dei reati da ammettere o meno alla "estinzione per prestazione di lavoro utile", ancora una volta, verrà alla ribalta la questione di una scala di gravità e di proporzione tra reati e sanzioni, scala che ogni giorno diventa più sfasciata ed irrazionale.

Un’oscillazione insensata tra depenalizzazioni (che hanno colpito anche norme penali "di chiusura", con effetti disastrosi in molti settori del diritto e dei rapporti sociali) e inasprimenti di pene per i reati che, di volta in volta vengono alla ribalta con "campagne" mediatico-giudiziarie, per non parlare della frequente invenzione di nuove fattispecie di reato, ha fatto sì che il nostro sistema penale abbia perso ogni carattere di razionalità.

I reati del giorno (si pensi a quelli di mafia) vengono ammanniti, contestati e fatti oggetto di condanne senza limiti di sproporzione di pene e di disinvoltura di prove.

Nel contempo, tutte le discussioni sull’efficienza da restituire alla giustizia, sembrano accuratamente evitare la questione della qualità del prodotto. La qualità della giustizia (che consiste nell’esser "giusta", nel produrre accertamento di verità vere e applicazioni esatte delle leggi) è requisito senza il quale l’efficienza, la rapidità ed ogni altro "pregio" sono nulla o peggio che nulla. Una giustizia ingiusta, capricciosa, obbediente ai furori del momento, schiava dell’esigenza di non contraddire il primo magistrato che ha detto la sua in una questione e di non urtarne la suscettibilità, succube della fregola di non dare l’impressione di "debolezza" (o, al contrario, di eccessiva durezza) etc. etc. spesso si manifesta tale da doversi augurare che sia lenta, inefficiente, impacciata.

Una giustizia simile, oltretutto, proprio come la moneta disprezzata ed inflazionata, si gonfia e si moltiplica. E finisce per intasarsi, perché l’intasamento è prodotto proprio dalle "cause cattive", quelle che si fanno proprio perché si confida nell’incapacità di assicurare certezza del diritto e non dello "storto", con margini di possibilità di successo e di insuccesso per chi a torto tanto quanto per chi ha ragione.

Oramai urge ripensare tutto il sistema penale. Partire dal principio che dare per scontato che la definizione dei procedimenti equivalga a giustizia, senza affrontare il problema fondamentale della capacità, dei magistrati, della loro responsabilità, della repressione dei loro errori (che non è e non può essere o, almeno non può essere più, affidata solo al sistema sgangherato delle impugnazioni). Non si può eludere il problema pretendendo di porre all’abito sdrucito pezze colorate.

Giuseppe Ferrari, il compianto giudice costituzionale, scrisse un libro "La giustizia è il giudice". Pare che tutti vogliano dimenticarlo, magari in nome, nientemeno, dell’indipendenza della magistratura, così che parlano di efficienza "indipendentemente" da quello che la giustizia produce. E si vede.

Giustizia: Alfano; ad inizio 2009 ci saranno novità importanti

 

Ansa, 24 novembre 2008

 

"Abbiamo approvato alla Camera la riforma del processo civile che pone al centro i cittadini perché punta all’accelerazione dei processi: sono oltre quattro milioni quelli pendenti. Speriamo che al Senato il provvedimento proceda speditamente e che nei primi del 2009 il nuovo processo civile possa entrare in funzione".

È questo l’auspicio espresso ieri dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nel corso di un convegno organizzato dalla Camera penale di Palermo. Il Guardasigilli ha inteso in questo modo rispondere alla richiesta del leader del Pd, Walter Veltroni, di realizzare in materia di giustizia "riforme condivise e non imposte". "Veltroni - ha detto Alfano - ci chiede di fare ciò che abbiamo già iniziato a fare".

Replica che però non è servita a placare le preoccupazioni dell’opposizione. "La riforma all’esame del Senato - ha attaccato Michele Vietti, vicepresidente dei deputati dell’Udc - non è il nuovo processo civile, ma una serie di interventi settoriali la cui efficacia sarà tutta da verificare. Finora non c’è stato nessun dialogo e, se Alfano pensa di fare un blitz al Senato per inserire una delega a cambiare i riti senza criteri chiari e discussi prima, ci troverà fermamente contrari".

A Palermo, ieri, il titolare del dicastero di via Arenula è tornato anche a parlare di ordinamento giudiziario ("A chi si preoccupa che la divisione delle carriere sia il primo passo per sottoporre il pm all’Esecutivo, dico che questo andrebbe contro i principi liberali a cui si ispira questo governo") e di carceri ("in risposta al sovraffollamento stiamo lavorando alla costruzione di nuove strutture e ad accordi internazionali per far scontare le pene a chi è straniero nei Paesi di provenienza").

Giustizia: tribunale senza soldi; giudici portano carta igienica

di Marisa Fumagalli

 

Corriere del Sera, 24 novembre 2008

 

Carta cercasi per gli uffici giudiziari di Venezia. Non per i fascicoli: questi sono una montagna, accatastati anche sul pavimento. Quella per le fotocopie non è abbondante, ma c’è. Bisogna passare nelle toilette per capire dove sta la carenza. Manca la carta igienica. Oltre al sapone e agli asciugamani. Insomma, gli articoli di igiene personale. La denuncia arriva dal Gazzettino, che ha raccolto gli sfoghi di impiegati e magistrati. Un genere di fornitura - raccontano - che sarebbe assente da anni, e, nel frattempo, ognuno ha preso l’abitudine di arrangiarsi con dotazioni proprie.

La notizia fa sorridere, certo. Ma è la spia delle condizioni precarie in cui versano i palazzi di Giustizia. "Siamo senza macchine, senza benzina, senza personale. Lo sanno tutti che i tribunali sono al disastro - osserva il procuratore generale Ennio Fortuna -.

Il dettaglio di questo materiale di consumo fa colore, ma non è la cosa più tragica". Il concetto viene ribadito da altri colleghi. Che, alla domanda diretta, "lei si porta o no la carta igienica da casa?", tendono a svicolare. Lasciano intendere, senza ammetterlo esplicitamente. Diamine, non è decoroso parlare di certe cose. Chi, vagamente irritato, lo dice chiaro e tondo, è il procuratore aggiunto Carlo Mastelloni: "Per dignità personale, mi rifiuto di fare dichiarazioni di questo genere. Invece di piangerci addosso, di piegarci al folklore, parliamo piuttosto di cose serie e importanti".

Ok. Il cahier des doléances degli uffici giudiziari, messi a stecchetto, è un altro: mancanza di spazi, organici ridotti all’osso, mezzi di servizio insufficienti, eccetera. Tuttavia, si potrebbe anche raccontare qualcosina sui servizi igienici. O no?

Lo fa il pm Carlo Nordio, trent’anni di servizio presso la Procura veneziana, con un battuta: "Il rotolo? Pazienza se non c’è, meglio il Procuratore Vittorio Borraccetti (alle spalle il pm Luca Marini) critica il taglio dei fondi: "Ci limita anche l’indispensabile. I fazzolettini di carta, sono più igienici". E avanza una considerazione: "È abbastanza normale che i bagni degli uffici pubblici siano sprovvisti di questo materiale. Succede anche perché, nonostante lo scarso valore, è soggetto a furti".

Poi, spezza una lancia a favore del personale delle pulizie del Palazzo di Giustizia di Rialto: "Lavora benissimo, fa il meglio che può". E conclude: "L’igiene del Tribunale è la cosa che funziona meglio, rispetto a tutto il resto". Qui, interviene il procuratore capo Vittorio Borraccetti, per ribadire: "Carta igienica sì o no, che importa? Si può rimediare altrimenti; i problemi veri sono altri. Il taglio dei fondi ci limita anche l’indispensabile. Tre motoscafi di servizio guasti, che non vengono riparati. Idem per le auto. Presentiamo i preventivi e le somme non vengono accreditate. Idem per stampanti e fotocopiatrici. Inoltre, le cataste di fascicoli giudiziari, posate ovunque, sono a rischio sicurezza".

Giustizia: Sappe; 58mila detenuti, è nuova emergenza carceri

 

Il Velino, 24 novembre 2008

 

"Sono settimane, mesi, anni che denunciamo come la mancanza di una strategia d’intervento sul sistema penitenziario nazionale, che avrebbe dovuto essere contestuale al provvedimento d’indulto del luglio 2006, avrebbe riportato in poco tempo le carceri italiane a livello allarmanti di affollamento. Oggi i detenuti presenti sono oltre quota 58mila e gli organici del Corpo di Polizia Penitenziaria carente di ben oltre 4mila unità. È urgente intervenire subito, con provvedimenti straordinari, altrimenti rischiamo l’implosione del sistema". È l’allarme che lancia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe.

"È urgente adottare provvedimenti per deflazionare le strutture penitenziarie del Paese - spiega -. È davvero necessario ricostruire il sistema carcerario del Paese, a cominciare dalle espulsioni dei detenuti stranieri. Ed è noto che da sempre sosteniamo, e per molto tempo lo abbiamo fatto in solitudine, di rendere stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando però a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, potenziando quindi l’area penale esterna e prevedendo per coloro che hanno pene brevi da scontare l’impiego in lavori socialmente utili all’esterno del carcere con l’introduzione del sistema di controllo del braccialetto elettronico in dotazione al Corpo di Polizia penitenziaria. Una nuova politica della pena, che preveda un ripensamento organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria con al centro un nuovo ruolo professionale ed operativo della Polizia penitenziaria, adottando eventualmente anche procedure di controllo mediante dispositivi tecnici come il braccialetto elettronico, è necessaria e indifferibile!".

"Auspichiamo - prosegue il segretario del Sappe - che il ministro Alfano tenga conto che un ampliamento delle misure alternative alla detenzione e dell’area penale esterna con contestuale adozione del braccialetto elettronico di controllo dei soggetti detenuti che vi accedono dovrà necessariamente prevedere un nuovo ruolo della Polizia Penitenziaria, e cioè svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative. Ci auguriamo quindi che il ministro Alfano incontri quanto prima il ministro dell’Interno Roberto Maroni per arrivare a definire quel decreto interministeriale Interno e Giustizia, incomprensibilmente sospeso, finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della Polizia Penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe).

Ci sono già stati diversi incontri tra Amministrazione penitenziaria e Sindacati del Corpo per definire il ruolo della Polizia penitenziaria negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, e cioè svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia proprio la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Non sappiamo perché quel decreto sia stato sospeso, ma è necessario porlo tra le priorità di intervento sul sistema carcerario del Paese.

Il controllo sulle pene eseguite all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere - conclude Capece - potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene".

Giustizia: Osapp; il sistema penitenziario verso la saturazione

 

Apcom, 24 novembre 2008

 

Sono 58.247, ad oggi, i detenuti rinchiusi nelle carceri italiane, e "il nostro Paese è oramai strutturalmente unito nelle vicende carcerarie che vive ogni giorno, da Sud a Nord, con le stesse condizioni di vivibilità e gli stessi problemi che ci vengono segnalati, tanti e ugualmente gravi in ogni parte del territorio nazionale".

Il dato, l’ultimo disponibile, è fornito da Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria (Osapp). Per fare solo degli esempi, a Roma, nel nuovo Complesso di Rebibbia, la conta attuale parla di 1.470 reclusi, "che sono giunti oramai a superare la tollerabilità delle 1.271 presenze e nell’istituto romano si assiste alla consueta pratica della sesta branda, quella cioè che viene allestita in celle dove la capienza massima consentita è di 4 posti letto. Qui non si dorme ancora per terra, ma siamo portati a ritenere che a breve succederà anche questo".

"Al reparto comune, con parte dedicata ad alta sicurezza, e nel reparto isolamento le brande, invece, da 4 sono passate a 7 e per carenza di spazio si continuano ad occupare le sale della socialità e le sale giochi dove normalmente c’è il ping pong. Il presidio medico non esiste, c’è un solo medico di guardia per turni di 12 ore - denuncia l’Osapp - Il personale agenti è carente anche di notte. Siamo infatti arrivati ad avere un solo poliziotto penitenziario per piano che fa il lavoro che dovrebbero fare 4 persone, calcolando che ogni piano del carcere ospita 130 detenuti".

E salendo verso il Nord la situazione non cambia: a S. Vittore, a Milano, al momento sono presenti 1.300 detenuti "a fronte di 1.000 agenti assegnati solo sulla carta, perché 300 distaccati altrove, e 200 agenti destinati al nucleo traduzioni, per una capienza che ha superato quindi i circa 850 reclusi che può contenere l’istituto, che ha due reparti chiusi". Ancora, per i troppi detenuti che escono per esigenze di convalida "non esiste il personale di scorta che possa accompagnarli in Tribunale: il rapporto non è più 1 agente per 2 detenuti, ma 1 agente ogni 5 detenuti. E questo perché anziché pagare gli straordinari, l’amministrazione decide di concedere i riposi compensativi obbligatori. Dimostrazione che il personale manca un po’ dappertutto, e che quello che c’è non ce la fa ad andare avanti".

Se questa è la condizione ordinaria, non più straordinaria, che vive il sistema nonostante quello che promette il Ministro - aggiunge Beneduci - ci domandiamo se basti soltanto annunciare l’apertura di nuovi istituti, o sia più logico in fondo rivedere tutto il complesso delle priorità, puntando su una figura che da troppo tempo è stata relegata al compito istituzionale del tuttofare: il poliziotto penitenziario. È troppo facile rimandare, nell’attesa che si tagli finalmente il nastro. Probabilmente, vista la straordinarietà della condizione, che subisce anche l’operatore, è logico adottare misure estreme di contenimento, e per far ciò non limitarsi ad ascoltare i soliti grilli parlanti. A meno che non vi sia un progetto mirato, che sfrutti il momento per l’adozione di strategie definitive".

Giustizia: nella cella di Provenzano, tra santini e preghiere…

di Paolo Berizzi

 

La Repubblica, 24 novembre 2008

 

Bernardo Provenzano si rigira tra le mani una cartolina di Padre Pio. Gli angoli sono un po’ spiegazzati, ma quando la ripone sul tavolo - con un movimento lento del braccio - l’immagine rimane bene in vista appoggiata alla parete sinistra della cella. Accanto, sempre sullo scrittoio, ci sono due santini della Madonna, dei fogli di carta bianca, e un paio di buste.

Il padrino di Cosa Nostra sorride solo con la bocca, tra il timido e il beffardo; gli occhi restano immobili a scrutare l’ospite. Il fisico asciutto, leggermente smagrito, gli occhiali a montatura grossa. Indossa una tuta grigio chiaro e, - siccome "sono freddoloso" - un giaccone verde con tasche e cerniera. Parla a voce bassa: "Lo vede come si sta qui dentro? Io sento arrivare l’inverno prima degli altri". Indica il finestrone in alto nel muro, ci ha appeso l’accappatoio. Parla degli spifferi. "Lo tengo sempre chiuso, altrimenti si fa corrente".

La cella dove è detenuto "zu Binu" è la numero 4, l’ultima nell’"area riservata" del reparto 41 bis del carcere di Novara. Due sono vuote, l’altra è riadattata a ambulatorio medico. Apposta per lui. Ma forse, nonostante le due operazioni alla prostata (una da latitante a Marsiglia nel 2003) e alla tiroide, e una patologia renale, non ce ne sarebbe bisogno se persino il medico del penitenziario dice: "Alla sua età ha un fisico invidiabile, ed è un salutista".

Per la prima volta da quando è in carcere (11 aprile 2006) il boss di Corleone accetta di incontrare un parlamentare: ad Antonio Misiani, deputato del Pd, Provenzano "apre" le porte della sua stanza tre metri per uno e ottanta, un angolo super blindato dove - fino a un anno fa - abitava il capo della nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo (c’è stato uno scambio di celle, oggi Cutolo è a Terni dove prima c’era "don Bernardo"). Quanto ci faccia è difficile capirlo, ma a 75 anni Binnu u tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici) si presenta con l’aspetto quasi ascetico di chi dice di vivere di fede e di preghiera. Che per uno come lui - 43 anni di latitanza, una sfilza di ergastoli e altri procedimenti in corso - sembra un paradosso. Devoto della Madonna, in effetti Provenzano passa le sue giornate a pregare, a leggere la Bibbia e a scrivere lettere alla moglie Saveria Palazzolo e ai due figli, Angelo e Paolo.

"La fede è tutto" è il concetto che il detenuto più sorvegliato d’Italia consegna al suo interlocutore. "È incredibile, a vederlo così sembra una specie di monaco - racconta Antonio Misiani - mi ha impressionato". Come i pizzini coi quali dava ordini dal suo ultimo rifugio prima che lo arrestassero (la masseria di Montagna dei Cavalli, nella campagna di Corleone), ogni lettera, ogni biglietto, per quanto breve possa essere, termina - riferiscono fonti carcerarie - sempre con la stessa formula: "Vi benedica il Signore e vi protegga".

Identico è sempre l’incipit: "Con l’augurio che la presente vi trovi tutti in ottima salute. Come, grazie a Dio, al momento posso dire di me". Insomma, tutte le missive spedite dal detenuto Provenzano Bernardo si aprono e si chiudono col nome di Dio. Quasi un’ossessione, la religiosità. Come quella per il cibo. Sul lato sinistro della cella, nell’armadio a muro senz’ante dove sono ordinate felpe e maglioni, appoggiata su una mensola ecco la dispensa del "salutista". Sei panini all’olio lasciati seccare - "don Bernardo" li inzuppa a colazione nel latte tiepido - e un cestino di mandaranci. Il vassoio del pranzo gli viene consegnato tra le 11.45 e mezzogiorno.

Un pasto che esce dalle stesse cucine dove si confezionano gli altri 164 vassoi per i detenuti del carcere novarese. "Zu Binu" mangia pochissimo. E sull’alimentazione non sgarra. Un giorno si è scusato con gli agenti spiegando che lui il fritto non lo sfiora nemmeno. Niente alcol, niente caffè, niente sigarette. Acqua naturale, e rigorosamente del rubinetto. Un’autodisciplina ferrea. La stessa che si impone per le sacre letture e per la frenetica attività di scrittura. Su un altro ripiano della cella ci sono la Bibbia, un libro di preghiere e un dizionario della lingua italiana, a quanto pare molto frequentato. Oltre a comunicare con la famiglia e con gli avvocati, il padrino, soprattutto la sera, dedica parecchio tempo alla televisione. L’informazione lo appassiona.

Non si perde i telegiornali e non disdegna qualche programma di approfondimento. Specie quelli che in qualche modo lo riguardano. Quando Misiani gli chiede se è a conoscenza della decisione del governo di inasprire ulteriormente il regime 41 bis, il cosiddetto "carcere duro", Provenzano non sembra essere troppo preoccupato: "Per me è la stessa cosa, lo era prima e lo è adesso". Glaciale, imperturbabile, e proprio per questo, allo stesso tempo, sfrontato. La stessa aria flemmatica di quando lo arrestarono dopo quasi mezzo secolo vissuto da fantasma.

La giornata tipo dell’ex superlatitante inizia alle 6 del mattino. Doccia (in cella), pulizia della stanza, colazione. Detenuto in regime di isolamento, "zu Binu" non ha diritto alla socialità. Per lui è previsto solo il "passeggio", rigorosamente da solo. Due ore al giorno, una la mattina a una al pomeriggio. Per sgranchirsi, controllato dalle telecamere che lo inquadrano 24 ore su 24, dalla cella si sposta nella "voliera", un cortile chiuso da quattro mura e da una griglia di ferro. Alla direzione carceraria e agli agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile) che lo perquisiscono più volte al giorno - le stesse ispezioni vengono eseguite nella cella - il boss non ha mai chiesto nulla e non ha mai protestato. Un atteggiamento diverso da quello di altri carcerati sottoposti al 41 bis. Nell’area riservata è detenuto anche Francesco Bidognetti, detto "Cicciotto ‘e Mezzanotte", boss del clan dei casalesi. Anche lui è sorvegliato dagli uomini del Gom. Il "monaco" Provenzano forse non sa nemmeno chi sia, o forse sì.

Giustizia: l’amarezza di Alfano; non dovete santificare i boss!

 

Asca, 24 novembre 2008

 

"Amarezza e inquietudine". È quanto ha manifestato il ministro della Giustizia Angelino Alfano in una lettera inviata a Repubblica giudicando come un "quadretto agiografico" un articolo dello stesso giornale su Bernardo Provenzano, il boss mafioso detenuto nel carcere di Novara.

"Vederlo oggi descritto tra santini e preghiere, tra un’immaginetta della Madonna e un’altra di Padre Pio mentre afferma senza decenza che per lui la fede è tutto non aiuta certo a capire né la verità delle cose né la realtà nella quale si muove e si dibatte la Sicilia".

Provenzano ha ricevuto nei giorni scorsi la visita del parlamentare del Pd, Antonio Misiani, sul cui racconto si è basato l’articolo pubblicato ieri da Repubblica. Nel rispondere alla lettera del ministro Alfano, l’autore dell’articolo, oltre a rivendicare il diritto di cronaca, sottolinea che l’unico "messaggio" lanciato dal quotidiano ai suoi lettori è stato quello di mettere in evidenza il "paradosso di un boss che ha trasformato la sua cella in una specie di cappella votiva".

Sanremo: carcere modello; ma ci sono 100 detenuti di troppo

 

Secolo XIX, 24 novembre 2008

 

"Qualcosa di molto vicino ad un carcere modello", commenta l’onorevole Roberto Cassinelli al termine della visita alla casa di pena di Sanremo. Ci si arriva attraverso una strada tortuosa che avrebbe bisogno di qualche rettifica ma, sorpresa!, nessuno sa dire a chi tocchi realizzare i lavori.

La Casa Circondariale occupa una vasta area a ridosso della collina sulla quale spiccano le rovine di Bussana Vecchia, rasa al suolo dal terremoto del 1887. Una grande croce dipinta in azzurro, sul tetto dell’edificio principale, rammenta agli uomini dell’aria il divieto di sorvolo. "In Francia le evasioni in elicottero non sono rare come da noi", chiarisce il giovane vicecommissario Sergio Orlandi, comandante del reparto di polizia penitenziaria dell’istituto. Costruito fra il 1984 e il 1996, costato 58 miliardi delle vecchie lire, il carcere di Sanremo è il più moderno in Liguria e il secondo più capiente dopo Marassi. I reclusi sono 312 e superano la capienza tollerata, fissata in 304 unità, e la capienza regolamentare di 209 posti. Il 65% dei detenuti è straniero.

Il carcere di Sanremo è l’epitome della condizione penitenziaria italiana attuale. Il sovraffollamento è tornato la triste realtà, a meno di due anni e mezzo dal varo dell’indulto. "Il ministro Angelino Alfano è tornato in Commissione Giustizia alla Camera e ci ha nuovamente rappresentato la gravità della situazione carceraria - dice Cassinelli -.

È più che mai intenzionato a portare avanti il provvedimento di messa alla prova che consente a chi, accusato di reati che prevedono una condanna inferiore ai quattro anni, può evitare il processo svolgendo lavori socialmente utili. Mi pare una strada saggia che anche l’opposizione dovrebbe sostenere. La norma allarga le occasioni di lavoro esterno sotto sorveglianza, evitando i periodi di ozio in cella, e insegna un mestiere utile alla fine del percorso carcerario".

Il direttore del penitenziario da 12 anni è Michele Frontirrè, un esperto funzionario che condensa così il suo credo di servitore dello Stato: "Visto che siamo qui, cerchiamo di far funzionare le cose al meglio. Senza piagnistei, anche se i tagli al bilancio ci metteranno in seria difficoltà". I lavori realizzati all’interno del carcere sono ridotti a due ore e mezzo al giorno, il regolamento prevede 6 ore e 40 minuti. Calano quindi i compensi che i detenuti percepiscono e si "strozza" il circuito virtuoso pensato per aiutare il reo a recuperare un ruolo compatibile col mondo esterno.

Nella sezione speciale dei sex offenders (coloro che si sono macchiati di odiosi delitti a sfondo sessuale) sono reclusi, tra gli altri, un medico accusato di aver abusato della figlioletta, e un cittadino cinese, accusato di molestie, col quale è difficile comunicare visto che non parla altra lingua oltre la sua. Un blocco separato è riservato ai detenuti in isolamento. Tra loro, il tristemente noto Luca Delfino, assassino della fidanzata Antonietta Multari e Paolo Leoni, un adepto delle Bestie di Satana, condannato all’ergastolo. Specularmente quattro detenuti sono stati ammessi al regime di semilibertà e otto all’articolo 21. Tutti svolgono lavori esterni e tornano a dormire in carcere. Un progetto finanziato dalla cassa delle Ammende consente a cinque di loro di lavorare alla ristrutturazione di un percorso pedonale per portatori di handicap, a San Romolo.

Gli organici della polizia penitenziaria sono pesantemente prosciugati dai distacchi concessi agli agenti, 256 sono in organico, 202 assegnati, appena 165 in servizio effettivo. Il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria più rappresentativo, attraverso il segretario regionale, Michele Lorenzo, ha denunciato che "l’affollamento della struttura carceraria di Sanremo produce negative ricadute su tutto il sistema penitenziario ma in modo particolare sullo stress lavorativo che la polizia penitenziaria di Sanremo e di tutta la Liguria quotidianamente sopporta.

Non ci sono più posti, mancano coperte, piatti, bicchieri, lenzuola. Siamo certi che il numero dei detenuti sarà destinato ad aumentare e il disagio del detenuto si riverserà sul poliziotto di turno". Cassinelli ribadisce che la struttura, moderna e funzionale, è esemplare rispetto a realtà come l’ex convento duecentesco che ospita il carcere di Savona. Campo di calcetto, palestra, sala hobby, aule scolastiche, studio dentistico, infermeria (manca però l’apparecchiatura radiologica), reparto di degenza con celle separate per i tossicodipendenti gravi, teatro, cappella e sala di preghiera per i musulmani. Pochi carceri hanno altrettanto.

Chieti: rissa in carcere, detenuto romeno ricoverato ospedale

 

Agi, 24 novembre 2008

 

È ricoverato nel reparto di otorinolaringoiatria dell’ospedale Renzetti di Lanciano (Chieti) un romeno, detenuto nel carcere di Vasto (Chieti), coinvolto in una rissa accaduta in una cella della casa di reclusione di località Torre Sinello.

L’uomo, che non è grave, ha riportato lesioni al viso, ed è ora affidato agli specialisti del servizio maxillo-facciale del nosocomio lancianese. Il romeno, in carcere per reati contro il patrimonio e per violazione dell’obbligo d’espatrio, si è azzuffato con i tre connazionali con lui in cella ed ha avuto la peggio. A soccorrerlo sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, coordinati dal comandante, il dottor Ettore Tomassi. Nel penitenziario vastese la popolazione carceraria sta di nuovo toccando i livelli di guardia: ci sono attualmente 246 detenuti, appena quattro in meno del massimo consentito. Dopo l’indulto erano scesi a 66. Gli agenti disponibili sono invece 130.

Pavia: sette settimane di carcere per uno scambio di persona

 

La Provincia Pavese, 24 novembre 2008

 

L’errore giudiziario, che ha per protagonista un palestinese, è venuto alla luce in udienza. Parecchio imbarazzo quando il giudice si è trovato di fronte il detenuto: il palestinese non assomigliava affatto all’uomo delle fotografie che, tre anni fa, rapinò una giovane nei pressi del Naviglio e venne per questo condannato.

Aziz Adin Nagib, il detenuto palestinese, non era insomma Jemai Monchef, tunisino. Uno scambio dovuto a un errore di notifica. L’altra mattina il palestinese è stato scarcerato. Una vicenda che ha dell’incredibile, ma che si è risolta tutto sommato in un tempo limitato. In carcere Aziz ci ha passato poche settimane, un periodo comunque sufficiente per chiedere un risarcimento dei danni.

L’avvocato difensore, Raffaella Nofri di Pavia, ha dimostrato ciò che il palestinese ha continuato per giorni a ripetere dietro le sbarre: di non avere niente a che fare con Jemai Monchef, il tunisino ritenuto responsabile di una rapina commessa nel 2005 ai danni di una ragazza. La vittima, in questo caso, aveva riconosciuto, in fase di processo, l’uomo in fotografia.

Dopo alcuni anni dal fatto, Monchef viene condannato. Il giudice emette nei suoi confronti un ordine di carcerazione: poche settimane fa le forze dell’ordine vanno a casa sua per recapitarglielo e per portarlo in carcere. Suonano. Alla porta si presenta uno straniero. Dice di non essere Monchef, bensì Nagib. E di non essere tunisino, ma palestinese. Ma i militari non sono convinti: ritengono che "Monchef" sia solo un alias e che comunque la persona alla porta è, senza dubbio, quella che cercano. La portano in carcere, dove resta per oltre un mese.

Intanto il suo avvocato si dà da fare, per dimostrare la sua innocenza. Pochi giorni fa viene fissata l’udienza per accertare l’identità del detenuto. Il giudice ha a disposizione tutti i documenti, con i rilievi delle impronte digitali e le fotografie del "vero" Jemai. Ma soprattutto ha davanti a sé il detenuto: il palestinese non assomiglia affatto all’uomo delle foto, in precedenza riconosciuto dalla vittima come il rapinatore. Il primo è alto un metro e ottanta, l’altro almeno venti centimetri più basso. Nessun dettaglio fisico sembra accomunarli.

Un po’ di imbarazzo, ma la sentenza, pronunciata in camera di consiglio, non può che essere di accoglimento della richiesta di scarcerazione. Aziz Nagib è stato liberato l’altra mattina. Ma, da quanto è stato possibile apprendere, non sarebbe l’unica vittima di Jemai Monchef. In un altro caso, per effetto degli alias con cui spesso gli stranieri si presentano ai controlli delle forze dell’ordine, a finire nei guai era stato un suo connazionale: non era finito dietro le sbarre, ma era stato costretto a chiarire la sua posizione con la giustizia. Monchef, intanto, continua a restare nell’ombra. E a giudicare dalle persone che lo stanno cercando, forze di polizia e vittime di errori di persona, non ha tutti i torti per rendersi irreperibile.

Roma: telefonino portato a un detenuto, indagati due avvocati

 

Agi, 24 novembre 2008

 

Telefoni cellulari introdotti in carcere e passati ai detenuti. È l’oggetto di un’indagine della procura di Roma che ha chiuso gli accertamenti con il deposito degli atti (passo che prelude solitamente a una richiesta di rinvio a giudizio) addebitando il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità a Gianluca Di Giovanni, detenuto nel reparto G9 di Rebibbia, e ai suoi avvocati di fiducia, Vincenzo C. e Marco R. Secondo la ricostruzione del pm Carlo Lasperanza, titolare dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Maria Cordova, i due legali, "in epoca antecedente al settembre 2008 e il 3 settembre successivo, approfittando della facoltà di effettuare un colloquio con il loro assistito, detenuto presso la casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, illegalmente introducevano all’interno del carcere un telefono cellulare e una sim card e un’altra sim card intestata a Marco R.", proprio uno dei due avvocati.

A segnalare la presenza di almeno tre cellulari nel reparto G9 e l’imminente appuntamento con l’avvocato Vincenzo C. per la consegna del telefonino era stato lo stesso Di Giovanni che in passato ha collaborato con procure di altre città.

All’indagato, dopo il colloquio con il difensore, venne sequestrato il cellulare con il caricabatteria, restituitigli subito dopo per esigenze di indagine. Dalle successive intercettazioni era risultato che l’apparecchio sarebbe stato utilizzato "quasi esclusivamente da Di Giovanni - si legge negli atti - per mantenere vivi interessi affettivi, legali e finanziari". Solo alcune telefonate sarebbero state fatte da un suo compagno di cella. Nulla, però, sarebbe emerso su un presunto coinvolgimento nella vicenda di un agente di polizia penitenziaria chiamato in causa dal detenuto.

Ma quello portato a Di Giovanni non è stato, in effetti, l’unico telefonino usato abusivamente a Rebibbia. Lo stesso nucleo investigativo centrale (presso l’ufficio per l’attività ispettiva e del controllo del Dap) aveva sottoposto all’attenzione della procura le diverse segnalazioni raccolte sulla presenza nel carcere di cellulari, in particolare all’interno del reparto G9, utilizzati da più detenuti.

Proprio in questo reparto, si legge nel rapporto, "è deceduto l’11 novembre 2007 il detenuto Mirko Volpicelli per overdose. Le attività svolte successivamente a tale decesso hanno evidenziato che la sostanza stupefacente che ha provocato l’overdose è stata introdotta durante un colloquio e presumibilmente ordinata mediante l’utilizzo di un telefonino presente nella cella. L’apparecchio è stato gettato nella turca immediatamente dopo il malore di Volpicelli".

È degli inizi di quest’anno la richiesta, avanzata dal nucleo investigativo al pm Lasperanza, di un’autorizzazione a "noleggiare un sistema per la cattura di codici Imsi-Imei delle utenze cellulari eventualmente in uso indebito da parte di detenuti. Appare oggettivamente verosimile - scrive - presupporre l’esistenza di almeno un telefono cellulare all’interno del penitenziario romano che gli stessi detenuti utilizzerebbero, oltre che per contattare le famiglie, anche per effettuare operazioni illecite finalizzate all’introduzione di sostanze stupefacenti".

Le attività tecniche, autorizzate dalla procura, sono state effettuate mediante l’impiego di un rilevatore di identità Gsm 900/1800 Mhz, "un sistema che crea una cella telefonica virtuale che si sostituisce a quelle dei gestori facendo attestare su se stesso tutti i cellulari che operano nelle sue immediate vicinanze (cento metri)".

Un sistema che come "unico inconveniente", si spiega, ha quello di non essere in grado di "rilevare l’identità dei telefoni mentre sono in conversazione, essendo questi agganciati sulla cella Gsm reale del gestore". Inconveniente "di non poco conto se si considera la condizione ambientale di rilevamento (istituto penitenziario) dove il detenuto utilizza l’apparecchio solo per il tempo strettamente necessario per la telefonata e poi lo spegne, sia per risparmiare la batteria sia per evitare di essere rintracciato dal personale di custodia".

Gli accertamenti hanno permesso, tuttavia, di "catturare gli Imei nell’attività espletata al Reparto G12, al piano secondo (alta sicurezza) situato a diverse decine di metri dal muro di cinta, nonché molto distante dalle portinerie principali dove vengono depositati i telefoni cellulari dei visitatori". Le operazioni sono state eseguite nelle ore serali (21-24) "escludendo, quindi, categoricamente ogni presenza in istituto di eventuali visitatori". A sostegno, infine, dell’ipotesi dell’uso di cellulari da parte di detenuti, il ritrovamento, il 26 maggio di quest’anno, nella sala adibita a laboratorio del teatro e al deposito attrezzi, di un apparecchio munito di scheda.

"I locali sono a disposizione dei detenuti che lavorano nel laboratorio teatrale. Da una prima verifica, risultavano chiamate ad utenze telefoniche estere, che, riscontrate con quelle autorizzate per i colloqui telefonici relativi ai detenuti attraverso il centralino del carcere, sono risultate di pertinenza di un detenuto ristretto nel reparto G8".

Rovigo: iniziative Centro francescano d'ascolto per i detenuti

 

Comunicato stampa, 24 novembre 2008

 

I volontari del Centro Francescano di Ascolto, grazie alla donazione fatta dal Centro Sportivo Italiano di Rovigo, hanno fornito ai detenuti della Casa Circondariale 30 palloni da calcio e diverse racchette e palline per il gioco del tennis tavolo. Un gesto di attenzione verso coloro che vivono la penosa esperienza della carcerazione, di cui non è nuovo fare il Csi.

Giovedì 27 novembre, poi, nel primo pomeriggio l’istituto penitenziario di via Verdi ospiterà Roberto Filippetti, studioso d’arte e di letteratura, che porterà all’attenzione delle donne e uomini detenuti la mostra didattica itinerante "La Cappella degli Scrovegni", iniziativa organizzata sempre dal Centro Francescano di Ascolto.

La mostra didattica itinerante La Cappella degli Scrovegni, che riproduce tutti gli affreschi di Giotto nel celeberrimo monumento di Padova, è stata allestita a fine agosto 2001 con la sponsorizzazione della Provincia e del Comune di Padova, al Meeting di Rimini, ove ha avuto più di centomila visitatori. Nel novembre 2002 ne è stata curata una nuova versione, che riproduce integralmente in scala le quattro pareti della Cappella, dopo i restauri, ad altissima definizione.

Roberto Filippetti, è laureato in lettere e vive a Camponogara (Ve). Ha insegnato per venticinque anni nelle Scuole Superiori. Ha collaborato con il Servizio formazione permanente dell’Università Cattolica di Milano; ha tenuto molte lezioni nei corsi d’aggiornamento per docenti e numerosissime conversazioni per maturandi nelle principali città italiane. È stato chiamato a tenere conferenze di arte e letteratura nelle università di Bologna, Venezia, Padova, Bergamo, Milano (Cattolica, Statale e Bocconi), Palermo, Bari, Trieste, Sassari, Torino.

"È un momento molto triste per le persone carcerate - dichiara Livio Ferrari, direttore del Centro Francescano di Ascolto e Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo - perché ai rigori dell’inverno si sommano tutte le problematiche derivanti dal sovraffollamento, con numeri uguali a prima dell’indulto del 2006. Diventa, pertanto, importante far sentire il calore del territorio a chi vive separato dalla quotidianità e privato degli affetti, pur consci che molti di questi soggetti hanno fatto del male. Ma le cose possono cambiare e così anche le persone possono diventare migliori e riscattarsi, ma perché questo possa accadere ci devono essere delle opportunità e dei segnali di riconciliazione che provengano dal mondo libero".

Busto Arsizio: "Fuggi!... Fuggi!" corsa podistica per i detenuti

 

Varese News, 24 novembre 2008

 

La manifestazione sportiva, che si terrà martedì 9 dicembre, si snoderà lungo il perimetro interno delle mura carcerarie con tanto di giudice di gara.

Una corsa podistica all’interno delle mura carcerarie dal titolo ironico "Fuggi!... Fuggi!". È questa la nuova iniziativa che verrà organizzata dall’Unione italiana sport per tutti (Uisp), in collaborazione con la direzione della struttura, il prossimo 9 dicembre. Dopo la musica, la cucina, il giornale "Mezzo Busto", ora, ai detenuti di Busto tocca cimentarsi nello sport con una corsa all’interno del cortile carcerario della casa circondariale di via per Cassano, per promuoverne l’attività fisica. La corsa si terrà dalle 9.30 alle 12.

Tra gli organizzatori c’è Alessandra Pessina della Uisp che descrive l’iniziativa proposta per la prima volta nella struttura detentiva bustese: "Questa prima edizione, se avrà successo, farà da apripista ad altre gare - racconta Alessandra Pessina - magari coinvolgendo anche esterni". Il carcere di Busto Arsizio è noto per la capacità di attirare le associazioni esterne al carcere all’interno, tra i detenuti, proponendo attività sia ricreative che educative e di formazione. L’obiettivo è preparare queste persone, che stanno pagando con la pena detentiva i loro errori, ad un ritorno in società con la possibilità di reintegrarsi.

A partecipare alla corsa saranno una cinquantina di detenuti delle sezioni "comuni" e "tossicodipendenti", non parteciperanno esterni ma ci sarà un giudice di gara che prenderà i tempi. Il percorso si snoda lungo il perimetro interno delle mura che misura 550 metri che verrà ripetuto 10 volte per un totale di 5,5 km di corsa. Tutti i partecipanti verranno premiati con un riconoscimento speciale ai primi tre classificati mentre il giudice di gara prenderà i tempi di tutti. "Pur essendo orientati verso lo sport amatoriale - conclude Alessandra - abbiamo voluto dare un po’ di ufficialità all’iniziativa con la presenza di un giudice ma, per rimanere fedeli alla nostra linea, abbiamo deciso di premiare tutti alla fine della gara".

Livorno: 2 detenuti delle "Sughere" vincono Premio Casalini

 

Il Tirreno, 24 novembre 2008

 

Si è svolta ieri mattina nell’aula magna all’Itc Vespucci la giornata dedicata al "Premio Casalini", concorso letterario per carcerati, giunto quest’anno alla sua settima edizione, iniziativa organizzata insieme alla Provincia di Livorno.

Dopo la presentazione della dirigente dell’ITC Vespucci, Cristina Grieco, l’assessore provinciale Laura Bandini ha portato il saluto del presidente Kutufà, ed è poi intervenuto il presidente della giuria, Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del libro di Torino. Il Premio Casalini, nato 7 anni fa per ricordare colui che fondò l’Università delle Tre Età - Unitre nel penitenziario di Porto Azzurro, è una manifestazione itinerante per le carceri italiane che quest’anno ha interessato la Casa Circondariale "Lo Russo e Cutugno" di Torino, dove alcuni giorni fa si è svolta la premiazione dei vincitori. Le poesie e i racconti migliori scritti dai detenuti sono stati selezionati da una giuria qualificata e raccolti nel volume "L’altra libertà".

Tra i vincitori figurano anche due detenuti delle Sughere di Livorno che sono stati premiati nel pomeriggio di ieri da una delegazione della giuria del concorso: Marcello Dell’Anna che si è aggiudicato il terzo posto per la poesia e Giovanni Tripodi che ha ricevuto una menzione per la prosa con il racconto "Vivo... apparentemente morto".

Mestre: teatro; documentario da "Compagnia della Fortezza"

 

Comunicato stampa, 24 novembre 2008

 

Una fiaba epica e disperata, un’idea di teatro sociale, un luogo complesso come il carcere. Il lavoro della Compagnia della Fortezza, storico gruppo di attori detenuti attivo da vent’anni all’interno del penitenziario di Volterra, viene proposto dalla regista Lavinia Baroni nel documentario Mi Interessa Don Chisciotte, che sarà proiettato martedì 25 novembre alle 21 nella saletta seminariale del Centro Culturale Candiani di Mestre (VE). Il medio-metraggio è inserito nella sezione "I Film / I Video" della stagione di teatro contemporaneo 2008/2009 dell’Aurora di Marghera. L’ingresso è gratuito.

Mi Interessa Don Chisciotte segue passo dopo passo le fasi di lavorazione di "Pinocchio - Lo Spettacolo della Ragione": l’ultimo spettacolo della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. Una messa in scena liberamente ispirata all’opera "Gargantua e Pantagruele" di Rabelais, della quale Punzo scrive: "Del Pinocchio il percorso inverso, fino a ritornare un pezzo di legno e ancor più indietro l’albero da cui proviene, per augurarsi una foresta di alberi". Lavinia Baroni realizza il suo film all’interno del carcere di Volterra tra il 2007 e il 2008: il documentario è dunque il risultato di molti mesi di lavoro a contatto con la realtà della Compagnia della Fortezza, facendo emergere sia la genesi dell’opera, sia l’approccio al teatro di Armando Punzo e la realtà della compagnia stessa.

Il progetto di Laboratorio Teatrale nel Carcere di Volterra nasce nell’agosto del 1988, a cura di Carte Blanche sotto la direzione di Armando Punzo. Da allora la Compagnia della Fortezza, composta dai detenuti-attori del carcere di Volterra, ha prodotto circa ogni anno uno spettacolo nuovo. A partire dal 1993 gli spettacoli della Compagnia della Fortezza sono stati rappresentati fuori dal carcere e sono stati invitati nei principali teatri e festival italiani, e numerosi inviti sono giunti anche dai maggiori festival internazionali. Dal 1997 Carte Blanche ha ottenuto la direzione artistica e organizzativa del Festival Volterrateatro.

Così Armando Punzo sull’esperienza di teatro con i detenuti: "L’ingresso in carcere, il timore di fronte ad un luogo sconosciuto, dove viene di usare parole forti per sostenere lo sguardo, i sentimenti contradditori che fa scaturire, dove il reale si manifesta come reale, forte, negazione di libertà, di umanità doppiamente negata solo immaginato con il sentimento di cercare qualcosa di importante, non ordinario, che cambi il mondo, che trovi riparo, protezione, a un’idea di teatro che ricerca la sua vita, cioè di una vita che sembra sempre più una terra promessa".

 

Informazioni per il pubblico: Questa Nave - Teatro Aurora

Via Padre Egidio Gelain 11, 30175 Marghera

Tel. 041.932421, fax 041.5387142

www.questanave.com, info@questanave.com

Immigrazione: ecco perché il reato di clandestinità è un bluff

di Bruno Tinti (Procuratore aggiunto della Repubblica di Torino)

 

La Stampa, 24 novembre 2008

 

Il 5 novembre le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato si sono riunite in seduta comune. Erano le 20,30 quando hanno cominciato i lavori. Tra le tante cose approvate spicca un emendamento (9.100) all’ennesimo pacchetto sicurezza (il disegno di legge n. 733): si tratta del nuovo reato di ingresso e permanenza illegale nel territorio dello Stato. Non si dovrebbe mai lavorare di notte se non si è abituati; si rischia di fare cose sbagliate; e anche di farle male.

Cominciamo dalle cose sbagliate. Con la nuova legge, se Alì Ben Mohamed viene beccato senza documenti sarà accusato del reato di permanenza illegale nel territorio dello Stato e denunciato alla Procura della Repubblica; questa lo passerà al Giudice di Pace, che dovrebbe condannarlo a una pena variabile tra i 5 mila e i 10 mila euro. In realtà Alì non sarà condannato perché con la denuncia ci sarà l’ordine di espulsione del Questore; e l’espulsione, una volta avvenuta, obbligherà il giudice a emettere sentenza di non doversi procedere. Il che almeno un lato positivo ce l’ha perché ci impedirà di renderci ridicoli cercando di eseguire coattivamente una sentenza di condanna a pena pecuniaria nei confronti di un lavavetri. Siccome con la legge attualmente in vigore tutto si svolge esattamente nello stesso modo (Alì viene beccato senza documenti ed espulso), solo che non c’è un reato punito con quattro soldi, che del resto si prevede non saranno pagati, mi chiedo qual è l’utilità di scaraventare sulle Procure e sui Giudici di Pace centinaia di migliaia di processi.

Pochi lo sanno ma l’espulsione è finta; lo era prima e lo sarà dopo questo capolavoro legislativo. L’accompagnamento coatto alla frontiera a opera della polizia non viene mai eseguito perché non ci sono uomini e mezzi; quindi Alì riceve un pezzo di carta che gli ordina di andarsene; lui ne fa un uso appropriato e poi non se ne va, sicché, quando lo ripescano, ha commesso un reato (questa volta grave: è punito con la reclusione da 1 a 4 anni). Quindi viene arrestato e processato, in genere scarcerato, espulso (per finta) e via così. Poi c’è qualcuno che si chiede perché il processo penale non funziona. In attesa dell’espulsione vera (quella che non c’è quasi mai) Alì viene messo (quando c’è posto) nel Cpt che adesso si chiama Cie; insomma in un campo di concentramento che costa un sacco di soldi e dove si vive come bestie. Anche dopo questa nuova legge sarà così; ma in campo di concentramento ci potrà restare fino a 18 mesi (adesso sono 60 giorni). Un vero monumento alla civiltà: secondo i calcoli del Senato (che non ha proprio un grande interesse a fornire i numeri esatti) nel 2008 costerà 47 milioni di euro, 103 nel 2009, poi 152 nel 2010 e 93 nel 2011. Perché solo 93 nel 2011? Perché, secondo il nostro legislatore, a quel punto il rigore della politica italiana avrà convinto questa gente che scappa dalla morte a smetterla di venire in Italia.

Le cose sbagliate sono state anche fatte male. Infatti è successo che le due inclite commissioni hanno approvato questo emendamento destinato a processare più o meno 800 mila persone (tanti sono i clandestini in Italia e aumentano di 50 mila all’anno: i dati sono sempre del Senato) insieme con una modifica al processo avanti al Giudice di Pace, senza di cui tutto il marchingegno sarebbe crollato: "al procedimento penale per il reato di cui al comma 1, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 20-bis, 20-ter e 32-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274"; si tratta di norme che istituiscono una sorta di processo per direttissima avanti al Giudice di Pace. Capito? 800 mila direttissime, da mettersi a ridere per non piangere. Il problema è che queste norme non esistono; avrebbero dovuto far parte del disegno di legge sottoposto all’attento esame dei nostri legislatori; ma non c’erano, se ne erano dimenticati. E così, tutti d’accordo, hanno approvato una legge che faceva riferimento a un’altra legge che però non esisteva. Si vede che era davvero notte inoltrata.

Ma accogliere gli immigrati, essere felici del loro contributo alla nostra economia e spendere tutti questi soldi per costruire nuove carceri in cui mettere i delinquenti, immigrati e no: questo non sarebbe un modo migliore di affrontare il problema invece di alimentare razzismo, egoismo e stupidità?

Immigrazione: servizio su razzismo, troupe del Tg1 aggredita 

 

La Repubblica, 24 novembre 2008

 

Aggredita una troupe del Tg1 ieri al Trullo, quartiere periferico di Roma, mentre stava girando un servizio sull’aggressione compiuta da ragazzi italiani contro alcuni extra-comunitari. Ieri nell’edizione delle 13,30 il Tg1 ha mandato in onda le immagini. La giornalista, Alessandra Di Tommaso, l’operatore e un tecnico sono stati prima assaliti e spintonati da un ragazzo con il volto coperto da cappuccio e sciarpa. Poi si è avvicinata una donna che ha gettato a terra il microfono della giornalista, insultandola e minacciandola più volte di morte. Per andare via dal Trullo la troupe è stata scortata dai carabinieri. "L’aggressione violenta subita dalla troupe del Tg1 - afferma il comitato di redazione della testata - è la conferma del pesante clima di intimidazione che colpisce chi cerca di fare informazione al servizio dei cittadini. Chiunque abbia a cuore la libertà di stampa non può più tollerare che avvengano simili episodi". Anche la direzione del Tg1 condanna "duramente" l’episodio.

E da più parti la troupe televisiva ha avuto dimostrazioni di solidarietà. Il Presidente del Senato Renato Schifani ha espresso la sua "più sincera solidarietà ai giornalisti della troupe del Tg1 oggetto di un’inaccettabile aggressione. Nel nostro Paese il diritto di cronaca è sacrosanto. Diritto che è e resterà uno dei cardini della nostra democrazia". Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del programma di governo, ha invece sottolineato che "non è più tollerabile una situazione che vede i giornalisti sempre di più nel mirino.

Dopo le aggressioni e i gestì sconcertanti dei giorni scorsi, ieri è toccato ad una troupe del Tg1. Sono atteggiamenti che vanno condannati senza se e senza ma". Mentre l’Usigrai si è soffermato sul fatto che "ancora una volta a farne le spese sono giornalisti e operatori del servizio pubblico. L’aggressione della troupe del Tg1 a Roma ad opera di due persone è l’ennesima spia del clima di intolleranza che si sta facendo strada nel paese e certo non risparmia la capitale".

Guatemala: rivolta in carcere; 7 i morti... 5 detenuti decapitati

 

Asociated Press, 24 novembre 2008

 

Sette detenuti sono morti in una rivolta in un carcere del Guatemala. Lo ha annunciato un portavoce del sistema penitenziario nazionale, Rudy Esquivel, che ha chiarito che cinque vittime sono state decapitate. Le autorità, ha riferito il portavoce, hanno rinvenuto cinque teste dopo la battaglia nella prigione Pavoncito a Guatemala City. Gli altri due detenuti sono deceduti in ospedale per le lesioni da arma da fuoco riportate.

I giornalisti hanno visto un gruppo di carcerati in piedi dietro quattro teste allineate su mucchi di massi in un cortile. La quinta testa era invece adagiata su un palo di legno. A un certo punto, un detenuto con il volto coperto da una maglietta rossa ha sollevato una delle teste come se fosse un trofeo. Esquivel ha spiegato che la battaglia di questa mattina è scoppiata perché i detenuti erano infuriati per il trasferimento di presunti componenti di una banda da un altro penitenziario.

Francia: troppi i suicidi, in carcere condizioni vita inaccettabili

 

Redattore Sociale - Dire, 24 novembre 2008

 

Inaccettabili. È questo l’aggettivo usato dal Commissario per i Diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa per descrivere le condizioni di vita nelle carcere francesi. In un suo nuovo rapporto, pubblicato questa settimana, Thomas Hammarbeg denuncia la sovrappopolazione, la promiscuità, il cattivo stato delle strutture e le deprecabili condizioni d’igiene delle prigioni d’oltralpe. Per il commissario "l’elevato numero di suicidi nelle carceri francesi è un sintomo di queste carenze". Il commissario aveva visitato le strutture a maggio, due anni e mezzo dopo la visita del suo predecessore, Alvaro Gil Robles che in quell’occasione aveva dichiarato di non aver visto una situazione peggiore, eccezion fatta per la Moldavia. E le cose non sembrano essere migliorate. La politica securitaria promossa da Nicolas Sarkozy e la serie di leggi repressive adottate inquietano il commissario.

Particolarmente allarmante secondo Hammarberg è il trattamento ricevuto dalle persone che soffrono di disturbi mentali, sempre più numerose nelle carceri. Preoccupazione anche per la situazione degli immigrati, soprattutto dei minori: nel centro di detenzione amministrativa di Mayotte - anticamera dell’espulsione - vivono insieme agli adulti o sono riaccompagnati alla frontiera senza i loro genitori.

Francia: la ministra Dati; le detenute al lavoro, nei call-center

 

Il Manifesto, 24 novembre 2008

 

È l’ultima idea di Rachida Dati, smascherata dalla Cgt, mentre il ministero della giustizia sperava di renderla operativa quasi di nascosto: aprire dei call center in prigione. Due carceri, il reparto femminile di Rennes e la prigione di Bapaume nel Nord-Pas de Calais, avrebbero dovuto ospitare dal primo gennaio prossimo due centri di chiamata.

Le detenute sarebbero state pagate 350 euro al mese, un affare per gli operatori che però, dopo lo scandalo suscitato dalla rivelazione della notizia, hanno fatto marcia indietro. "Rappresenta una regressione nel settore e dà un’immagine negativa delle imprese" che vi operano, afferma ora l’associazione dei gestori di call-center. L’Ufap, l’Unione federale autonoma penitenziaria, denuncia: "nel momento in cui i call-center liquidano i dipendenti, si recluta in prigione a bassi salari". Per il ministero della giustizia si trattava, invece, di "preparare il reinserimento" dei detenuti, aiutandoli al tempo stesso "a indennizzare le loro vittime", con i guadagni tratti da questo lavoro. I sindacati sottolineano che le società di call-center potrebbero invece partecipare, se vogliono, ai programmi di reinserimento dei carcerati, senza sfruttarli.

Le carceri francesi sono nel mirino delle organizzazioni internazionali. L’ultimo rapporto del commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, pubblicato giovedì scorso, giudica "inaccettabile" la situazione dei detenuti francesi. Thomas Hammarberg non fa che confermare quello che aveva già rilevato il suo predecessore, Alvaro Gil Robles, due anni e mezzo fa, quando aveva giudicato le prigioni francesi le peggiori d’Europa, fatta eccezione "per la Moldavia". Hammarberg denuncia il "sovraffollamento" delle prigioni francesi, la "vetustà delle strutture", "la mancanza di igiene".

Per il commissario, "il numero elevato di suicidi nelle prigioni francesi è un sintomo" di queste "deficienze". Hammarberg mette in evidenza un dramma diffuso: la presenza sempre più numerosa di casi psichiatrici in carcere. Il commissario del Consiglio d’Europa vede la causa dell’aggravamento della situazione anche nelle leggi repressive adottate da quando Sarkozy è presidente e Dati è ministra della giustizia. In particolare, attira l’attenzione la legge dell’arresto per motivi "di sicurezza", che permette ormai di tenere in carcere a tempo indeterminato una persona che ha scontato la pena, se le autorità ritengono che resti pericolosa per la società. Anche le leggi sull’immigrazione sono criticate.

Nei cpt francesi, in particolare a Mayotte, isola dell’Oceano indiano dove sbarcano regolarmente persone provenienti dalle Comore, i minorenni sono imprigionati assieme agli adulti. Succede anche sul territorio metropolitano. Inoltre, Hammarberg denuncia gli arresti di bambini che hanno avuto luogo nelle scuole da quando Sarkozy è all’Eliseo. Le "quote" di espulsioni, imposte dal ministro dell’immigrazione e dell’identità nazionale, Brice Hortefeux, "sollevano serie domande in materia di diritti dell’uomo". Anche la politica repressiva nei confronti dei Rom è nel mirino del commissario, che sottolinea le difficoltà di scolarizzazione dei bambini a causa della vita precaria dei genitori.

Qualche giorno dopo la pubblicazione del rapporto di Hammarberg, quattro magistrati francesi hanno redatto un nuovo rapporto sullo stato delle prigioni che conferma la tragica situazione. Riguarda, in particolare, il più grande carcere francese, quello di Fresnes. Nel maggio scorso, quando i magistrati hanno fatto il sopralluogo, c’erano 2.433 detenuti per 1.418 posti, cioè un tasso di occupazione del 163%.

Sovrappopolazione, domande di lavoro o di partecipazione ad attività sportive o altro che non ricevono mai risposta, difficoltà ad accedere alle cure mediche: così viene descritta la situazione. Il controllore generale degli istituti di restrizione coatta, Jean-Marie Delarue, nominato da poco dal consiglio dei ministri, ha redatto un primo rapporto allarmante su un Cpt amministrativo a Choisy-le-Roi. Il ministro Hortefeux ha dovuto intervenire, per imporre un minimo di "rispetto all’intimità alla quale tutti hanno diritto", come afferma Delarue.

Germania: libero ultimo capo Raf, andrà nel teatro di Brecht

 

Agi, 24 novembre 2008

 

Uscirà di prigione il 3 gennaio prossimo, dopo aver scontato 26 anni di carcere, l’ultimo leader della "Rote Armee Fraktion" ancora detenuto. Christian Klar andrà a lavorare al "Berliner Ensemble" (BE), il mitico teatro fondato da Bertolt Brecht. Il tribunale di Stoccarda ha deciso di rimettere in libertà l’ex terrorista, condannato all’ergastolo per 9 omicidi durante gli anni di piombo, poiché in base ad una perizia psicologica Klar non costituisce più un pericolo per la società. Dopo la morte nel carcere di Stammheim dei fondatori della Raf, Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, avvenuta il 18 ottobre 1977, Klar e Brigitte Mohnhaupt avevano assunto la direzione dell’organizzazione terroristica e avevano compiuto insieme numerosi attentati, tra i quali l’uccisione del presidente della Dresdner Bank, Juergen Ponto, del Procuratore federale Siegfried Buback, e del presidente della Confindustria tedesca, Hanns-Martin Schleyer, rapito per chiedere la liberazione dei tre leader detenuti a Stammheim.

Nel maggio 2007 il presidente della Repubblica, Horst Koehler, aveva respinto la domanda di grazia presentata da Klar, che non ha mai espresso alcun pentimento per le azioni compiute. Dalla primavera scorsa Klar aveva tuttavia usufruito di 14 permessi per lasciare il carcere, sotto la costante sorveglianza di un accompagnatore. Una volta liberato, l’ex terrorista potrà iniziare un corso di formazione come tecnico di scena presso il Berliner Ensemble.

Il direttore del teatro, Claus Peymann, aveva confermato nei giorni scorsi l’intenzione di accoglierlo nella sua troupe. "Vale l’offerta fatta nel 2005? ha spiegato "di compiere un praticantato nel nostro teatro". Di norma questi periodi di formazione durano da tre a sei mesi, ma la portavoce del BE, Laura Diehl, ha spiegato che nel caso di Klar la durata "può essere prolungata: si decide caso per caso. Christian Klar potrebbe lavorare come tecnico di scena".

Santo Domingo: al via VI Incontro della Pastorale Carceraria

 

Radio Vaticana, 24 novembre 2008

 

Si apre oggi a Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana, VI Incontro latinoamericano e caraibico dedicato alla pastorale carceraria, alla luce del documento di Aparecida e nella prospettiva della Missione continentale in corso. I responsabili del dipartimento Giustizia e solidarietà del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), che organizza l’incontro da molti anni, seguono con particolare cura la situazione delle carceri nella regione, quasi tutte sovraffollate, e spesso luogo di gravissime violenze come evidenziano i fatti di poche settimane fa sia in Messico che in Brasile. Durante l’incontro, in primo luogo sarà aggiornato il profilo pastorale alla luce dell’evolversi della rete penitenziaria regionale tenendo conto in particolare delle misure adottate dai Governi per dare risposte ai molteplici problemi esistenti.

In questo contesto gli organizzatori hanno incluso alcune relazioni dedicate all’umanizzazione delle carceri così come al necessario e dovuto rispetto della dignità dei detenuti. Attenzione speciale sarà dedicata anche alla spiritualità nelle carceri, alla missione e alla metodologia di lavoro dei cappellani. L’incontro si concluderà con due dibattiti: il primo sulla violenza nelle carceri e il secondo sulla crescita del fenomeno religioso tra i carcerati.

Secondo i periodici rapporti della Commissione Interamericana per i diritti umani (Cidh) dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) la popolazione carceraria della regione "va considerata fra quelle più vulnerabili e indifese non solo a causa della privazione della libertà, ma soprattutto perché costretta a vivere nelle peggiori condizioni immaginabili". L’incontro di Santo Domingo proseguirà fino al 28 novembre.

 

 

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