Rassegna stampa 20 marzo

 

Giustizia: carceri strapiene... pur con tutto l’indulto possibile

di Paolo Brama

 

www.dazebao.org, 20 marzo 2008

 

Correva l’anno 2002, quando gli esperti in materia giudiziaria vivevano nell’illusione che la stagione in questione, con 56.000 detenuti - circa 13 mila in più di quelli previsti da regolamento - avrebbe rappresentato l’annus horribilis della giustizia italiana, superato il quale non ci sarebbe stato che da risalire.

La risalita arrivò puntuale, ma in un altro, amarissimo senso: il numero di detenuti, grazie anche a qualche legge scriteriata in materia di immigrazione (Bossi-Fini su tutte) sarebbe cresciuto esponenzialmente, fino a oltrepassare l’incredibile e disumana quota 60.000 nel 2006. Il rimedio a tale stato di cose sarebbe arrivato nel luglio dello stesso anno, non cercando di correggere - come eticamente e logicamente auspicabile - qualche obbrobrio in essere in forma di legge, bensì con il tanto discusso e vituperato indulto, fortemente a trasversalmente voluto dal quasi intero arco costituzionale: se ne dissociarono An e Lega.

Oggi, dopo circa un anno e mezzo di somme tirate, emerge in tutta la sua avvilente miseria il fallimento di tale soluzione. I numeri innanzitutto: dei 26.722 detenuti beneficiari dell’intervento nel luglio 2006 - cifre che avevano più che dimezzato la popolazione carceraria -, 6.049 avevano esperito tale misura come una sorta d’ora d’aria prolungata, facendo ritorno al carcere già nel settembre successivo: cruda e lampante dimostrazione di come una simile misura non si possa mettere in atto senza creare le adeguate condizioni per il reintegro dei beneficiari nella società civile.

Reintegro che quasi sempre si mostra particolarmente difficile, considerato che la carenza assoluta di strutture deputate al reinserimento sociale e al recupero (se ne contano poche e spesso inadeguate, tra cui quelle gestite da ex detenuti che rischiano di diventare una sorta di ghetto) s’accompagna ai pregiudizi e alla chiusura della popolazione nei confronti degli ex detenuti.

Tali condizioni, unite alla cecità assoluta con cui è stato varato il provvedimento del luglio 2006, hanno fatto sì che a un anno esatto di distanza dallo stesso il 23,8% dei beneficiari d’indulto sia tornato direttamente in cella. A questi s’è poi aggiunta una percentuale di nuovi ingressi che ha portato, a settembre 2007, a superare quota 45.000; in parole povere, dodici mesi più tardi la popolazione carceraria era nuovamente in esubero - duemila unità - sulla soglia massima prevista da regolamento. Tutto ciò per quanto concerne l’inefficacia del provvedimento e le sue carenza strutturale.

Tornando invece al tema degli obbrobri giudiziari, va segnalata l’attuale normativa in merito all’immigrazione che ha colpito una massa ragguardevole di cittadini extracomunitari per reati legati a questa, riversando di fatto nelle carceri un numero impressionate di stranieri che per via della legge Bossi-Fini si trovano impossibilitati a vivere in condizioni dignitose. Le cifre attuali, a riguardo, parlano del 37% della popolazione carceraria composta da cittadini stranieri - non a caso più che raddoppiata rispetto agli anni Novanta - provenienti da 144 Paesi.

A questo s’aggiungono i tempi fisiologicamente biblici della giustizia, la non trascurabile porzione di detenuti in attesa di giudizio e la lungaggine dei processi penali, a sovraccaricare una situazione già di per sé penosa. Le ultime soluzioni proposte dall’ex ministro Mastella parlavano di una nuova frontiera di lotta al sovraffollamento.

Riconosciuto il clamoroso fallimento dell’indulto, si è proposto di agire sulla vera causa del fenomeno, partendo stavolta con l’abbattere le carenza strutturali: i posti letto sono pochi, quindi aumentiamoli. L’obiettivo era di costruirne ex novo oltre 5.800, ai quali aggiungerne altri mille circa nel corso del 2008. A tale progetto ha fatto eco l’ex ministro delle Infrastrutture Antonio di Pietro, che ha parlato di ampliamento di strutture penitenziarie al fine di recuperare 3.300 posti letto per l’immediato e ulteriori 4.000 entro il 2009.

A oggi e a seguito della caduta del governo Prodi, nessuno immagina o sa a quali fondi attingere - si parla di settanta milioni di euro circa - per finanziare tali provvedimenti infrastrutturali e soprattutto con quali danari pagare il nuovo personale da assumere per gestire i nuovi spazi. Ad avere occhi per guardare, tutto lascerebbe pensare a una bella soluzione all’italiana, una patata bollente da lasciare in dote al nuovo esecutivo che s’insedierà nella prossima primavera. E chissà che chi si accinge a governare non stia già pensando a una qualche nuova forma di amnistia.

Giustizia: il coraggio di Veltroni diventa una corsa ad ostacoli

 

Il Riformista, 20 marzo 2008

 

Visto che il programma sulla giustizia rappresenta forse la miglior cartina di tornasole per valutare la "vocazione riformista" dei competitor alle elezioni, bisogna prestare molta attenzione alle risposte che Walter Veltroni ha inviato ieri al nostro inserto Radio Carcere.

Mettendo tra i suoi desiderata anche il tema dell’uniformità dell’azione penale sull’intero territorio nazionale, il segretario del Partito Democratico ha - nell’ordine - rotto un tabù, fatto una scelta coraggiosa e declinato nei fatti l’auspicio di una giustizia che esca dalle secche della lentezza e dell’inefficienza. "Riteniamo - ha scritto Veltroni - che l’effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale richiede uniformità d’azione delle Procure della Repubblica (...).

E ciò può essere garantito, a differenza di quanto avviene oggi dove il meccanismo è affidato solo ad iniziativa dei Procuratori della Repubblica, attraverso un procedimento che veda la partecipazione di Parlamento, Csm e Procuratori della Repubblica nella fissazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale".

Il tema di come coniugare l’obbligatorietà dell’azione penale con un sistema giudiziario sempre più paralizzato da milioni di procedimenti, in realtà, non è una questione medita. Nel quinquennio dei governi di centrosinistra (1996-2001), era stato uno dei cavalli di battaglia di Luciano Violante, allora presidente della Camera. Per non parlare della prassi, introdotta a Torino dal procuratore Marcello Maddalena, secondo cui molti "capi" danno ai pm una scala di priorità sui reati da perseguire. Ma Veltroni ha fatto un passo in più.

Individuato un obiettivo, ha fornito un’indicazione chiara su come raggiungerlo. Stabilire priorità sui reati da perseguire significa impedire che procedimenti "minori" - o addirittura quelli per cui la parte lesa non chiede di agire - vadano a ingolfare ulteriormente un motore che sembra già in panne. E questo dovrebbe capirlo anche Antonio Di Pietro, che i palazzi di Giustizia ha avuto modo di frequentarli.

Il Segretario dei Democratici rompe il tabù dell’obbligatorietà, chiede una nuova disciplina della intercettazioni. E - mostrando le sue prime, vere, carte sul tema "giustizia" - provoca un altro cortocircuito con il "fedele alleato" Antonio Di Pietro.

"Non dico mezza parola, non so niente di questa storia. Veltroni non mi ha detto niente, non mi fate litigare con lui...", dice il leader italvalorista contattato dal Riformista. L’ex Pm non intende rilasciare commenti ma giura che metterà nero su bianco il suo disappunto: "Quello che penso di questa proposta, se c’è davvero, lo troverete presto sul mio blog". Vale anche per le dichiarazioni su Bolzaneto? "Che ha detto Veltroni su Bolzaneto?". Che bisogna accertare se vi siano state responsabilità politiche. "Risponderò anche a questo", replica l’ex pm. Clic.

Non è tutto. Dentro il "partito-giustizia" che alberga nel Pd, le proposte di Veltroni vengono accolte con un mix di approvazione (nel merito) e cautela (nel metodo). Così Felice Casson, (ex) magistrato e senatore del Pd in odor di rielezione, afferma: "Per me il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non è un dogma intoccabile. Discutiamone pure ma valutiamo bene i pro e i contro".

E tra i contro individuati da Casson ce n’è uno che assomiglia molto a un semaforo giallo: "Dobbiamo fare molta attenzione ai criteri da seguire. Per la Costituzione, la magistratura è un organo autonomo e indipendente da ogni altro potere. Quindi, ha delle prerogative che vanno salvate". Traduzione: secondo il ragionamento del senatore, per perseguire gli obiettivi prefissati da Veltroni non basta la road map indicata dal segretario. "Serve una modifica alla Costituzione. Di conseguenza, anche se vincessimo, sarebbe necessario trovare un accordo che anche con le altre forze politiche".

Per Gerardo D’Ambrosio, le soluzioni normative che vanno nella direzione di una giustizia più rapida ed efficiente sono diventate una mission. Sull’indicazione di priorità nazionali in merito all’azione penale - "che rimane obbligatoria", sottolinea l’ex capo della Procura di Milano dice: "Di fatto, una tendenza del genere già esiste: visto che ci sono circa cinque milioni di processi pendenti, va da sé che un procuratore intelligente, se si trova di fronte un’accusa da quattro soldi, opta per l’archiviazione.

D’altronde, anche le Procure sono costrette a fare delle scelte: meglio concentrarsi sui reati gravi che perder tempo con le liti di condominio, no?". Nel meccanismo indicato da Veltroni, D’Ambrosio individua almeno un difetto: "Coinvolgere il Parlamento mi sembra francamente un po’ eccessivo. C’è già un terzo dei membri del Csm che viene eletto dalle Camere". Luciano Violante sorride perché "il dibattito sull’uniformità dell’azione penale lo sollevai anch’io, da presidente della Camera". E Guido Calvi aggiunge una nota a margine: "Il punto di partenza deve essere riformare le circoscrizioni. Se pensiamo che soltanto attorno a Torino gravitano ben 17 Tribunali...".

Al di fuori della disputa restano due interrogativi. Chi sono i consiglieri di fiducia di Walter sulla giustizia? A chi potrebbe corrispondere l’identikit del Guardasigilli preferito dal loft? Una possibile risposta passa dal lavoro sul programma. Anche nel capitolo giustizia, ci sono molte tracce delle idee storiche dei liberal di Enrico Morando, oltre al lavoro di istruttoria svolto da Lanfranco Tenaglia (incaricato da Veltroni di seguire il dossier).

Ma il "mister X" che ha fornito gli spunti più importanti al Pd in materia di giustizia è stato Giovanni Salvi. Proprio lui, fratello dell’ex ds Cesare, che è stato Pm alla procura di Roma, poi membro del Csm (con Magistratura Democratica), prima di approdare alla procura generale della Cassazione.

Giustizia: Pecorella (Fi); Veltroni? stia attento ai magistrati…

 

Ansa, 20 marzo 2008

 

"Walter Veltroni, parlando dell’obbligatorietà dell’azione penale, ha scoperto l’acqua calda, e cioè che c’è una priorità nella scelta dei processi: i magistrati lo fanno da sempre e il Procuratore della Repubblica di Torino lo ha persino scritto in una sua circolare".

Lo afferma Gaetano Pecorella, capogruppo di Forza Italia nella Commissione Giustizia della Camera, a proposito dell’intervento sulla Giustizia pubblicato oggi sulla pagina di Radio Carcere del Riformista. "Ma quel che è peggio - insiste Pecorella - è che Veltroni ancora una volta ha copiato l’idea della Casa delle Libertà che era già stata trasformata in legge con la riforma dell’ordinamento giudiziario".

"La scelta di un indirizzo di politica criminale da parte del Parlamento era ed è l’obiettivo delle comunicazioni del Ministro all’inizio dell’anno giudiziario e del successivo dibattito parlamentare - aggiunge - peccato che a Mastella proprio i magistrati abbiano impedito di farlo incriminandolo il giorno in cui questo dibattito avrebbe dovuto avere luogo. Stia attento Veltroni a copiare le idee della Casa delle Libertà perché i magistrati potrebbero risentirsi".

Giustizia: Pera (Fi); non sappiamo più cosa siano le "regole"

di Marino Collacciani

 

Il Tempo, 20 marzo 2008

 

"C’è un abbassamento evidente e incontrollato del senso civico". L’ex Presidente del Senato, Marcello Pera, ci spiega in un’intervista come a suo modo di vedere stia cambiando l’utilizzo dell’autonomia di giudizio in Italia rispetto alle morti provocate da automobilisti ubriachi. "Un modo di interpretare una sorta di "corporativismo" - sostiene Pera - sia da parte di chi viola le regole e la legge sia da parte di chi dovrebbe farle rispettare".

 

Senatore Pera, quanto sta accadendo in Italia ha "parentele" con altri fenomeni sociali?

"Sì, mi viene subito in mente il bullismo. Un fenomeno per nulla distante dai pirati al volante che, cifre alla mano, crescono a livello esponenziale. Il giovane uomo che ha investito e ucciso a Roma le due ragazze irlandesi si è comportato alla stregua di chi non rispetta le regole, anzi le ignora perché nessuno le fa rispettare. Un po’ come succede spesso nelle scuole italiane. È come se non si avvertisse più un senso del dovere".

 

Come definirebbe oggi il termine "regola" in Italia?

"Un impaccio".

 

Ci spieghi meglio.

"L’allarme sociale che si avverte in Italia sta proprio nella mancanza di certezze, una disgregazione del senso civico che non sfugge a chi entra nel nostro Paese: nel vedere questi esempi, l’extracomunitario avverte la stessa percezione. Per cui gli sembrerà assolutamente normale e consentito scorrazzare sul Lungotevere a Roma o tra i portici a Bologna, rigorosamente ubriaco".

 

Di chi è la responsabilità?

"Certamente di ciascuno di noi, ma a mio parere anche della magistratura italiana che dà l’impressione di aver perduto il senso della gravità sociale dei reati".

 

Dove manca l’apporto dei magistrati?

"Non sappiamo più cosa sia una pena. I sentimenti diffusi della gente non entrano e non incidono all’interno di un mondo giuridico che è troppo distante dal mondo sociale. L’autonomia è importante, ma non si può vivere in un mondo proprio. Occorre avere anche la giusta duttilità nel discernere i diversi casi. La legge va interpretata serenamente e quando necessario deve essere anche dura, creare precedenti che costituiscano giurisprudenza reale".

Giustizia: il "caso Gravina" e i magistrati che parlano troppo

di Gioacchino Romeo (Magistrato)

 

www.radiocarcere.com, 20 marzo 2008

 

Pare che le difese da certi inveterati "vizi" diffusi nella magistratura siano sempre più labili. E di sicuro non poteva bastare una nuova legge sugli illeciti disciplinari a ricondurre nei binari di condotte irreprensibili certe intemperanze, quando era noto che mancava (come tuttora manca) la consapevolezza, in una parte non propriamente esigua (ma non propriamente rappresentativa) della magistratura, di quel che è e di quel che non è deontologicamente corretto, specie per quanto riguarda le esternazioni delle opinioni. Il che può indurre a porsi il legittimo interrogativo sull’effettiva capacità delle leggi - al di là del fattore deterrente che la sanzione dovrebbe esercitare sul destinatario del comando - di stroncare certe abitudini pur largamente riprovate dalla collettività.

Veniamo al dunque, perché si stenterebbe a credere che il fatto sia accaduto, se non fosse che è il più autorevole quotidiano italiano a raccogliere dichiarazioni che hanno dell’incredibile. Nel Corriere della sera dell’8 marzo 2008 viene pubblicato il testo di un’intervista rilasciata dal presidente del tribunale del riesame di Bari su un episodio del quale si sta occupando da tempo la stampa nazionale e che calamita l’attenzione dell’opinione pubblica (la scomparsa di due fratellini di Gravina di Puglia con l’accusa al padre di omicidio, sequestro di persona e altri minori reati e la sua restrizione in carcere).

Quel che vi si legge supera ogni immaginazione. Non tanto, o non soltanto, per il contenuto (quantunque molte affermazioni siano discutibili), quanto per la qualità del soggetto che rende le dichiarazioni e per le circostanze in cui esse vengono rese (qui, in pendenza dell’esame, da parte del giudice per le indagini preliminari, di domanda di scarcerazione della persona accusata).

Si tratta di un magistrato e basterebbe questo per rendere censurabile il rilascio dell’intervista. Non va dimenticato che l’art. 3, lett. f), d. lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, prevede come illecito, tra quelli commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni, "la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso, quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo".

Testi inequivocabili, ma ignorati. L’intervistata che - si badi - ha già interloquito, nell’esercizio delle sue funzioni, sulla vicenda dei fratellini, dichiara di non dormire e di piangere ogni volta che pensa ad essi e ai loro corpi morti ritrovati, che sarebbero il tassello mancante alla quadratura del cerchio accusatorio. Aggiunge che "quando la difesa riuscirà a scalfire l’impianto dell’accusa […], saranno possibili altre valutazioni. È omicidio anche se si vede cadere qualcuno o se si sa che è in pericolo di vita e non si fa nulla" e ancora: "Ci sono molte cose che restano inspiegate e che lui (cioè l’accusato) dovrebbe spiegare".

Dunque, se non si è frainteso, è sull’accusato che grava l’onere della prova della sua innocenza, non sulla pubblica accusa quello della colpevolezza dell’imputato.

L’affermazione, fatta dall’uomo della strada, sarebbe strabiliante; fatta da un magistrato è inaudita. L’unica speranza è che il giornalista abbia travisato il pensiero dell’intervistata. In caso contrario c’è da sperare che il ministro Guardasigilli, persona sensibile e attenta, prenda in esame il caso per le eventuali valutazioni di ordine disciplinare.

Tiriamo le somme. C’è più di un motivo per essere preoccupati. Soprattutto per il persistente straparlare dei magistrati. Quel costume del riserbo, che è richiesto a chi esercita una funzione così delicata come quella del giudicare gli altri, continua a non essere patrimonio di tutti i magistrati e l’abbacinante luce della ribalta mediatica non risparmia, ahimè!, neanche essi, che dovrebbero parlare esclusivamente attraverso i loro atti.

Infine, nel caso in questione si fatica a capire il perché di un’esternazione gratuita e potenzialmente condizionante la decisione imminente di un giudice, oltre che pregiudicante rispetto a propri futuri interventi.

Giustizia: Castelli (Lega); a Bolzaneto episodi isolati, da punire

di Liana Milella

 

La Repubblica, 20 marzo 2008

 

Veltroni? "Sono d’accordo con lui, scopriamo se ci sono state responsabilità politiche, ma facciamolo a 360 gradi e vediamo pure se a Genova qualcuno ha scatenato i manifestanti visto che la città è stata messa a ferro e a fuoco".

Il leghista Roberto Castelli, Guardasigilli fresco di nomina ai tempi delle torture di Bolzaneto, contesta i pm che avrebbero sposato "la tesi dello Stato - Spectre che sospende i diritti e colpisce cittadini inerti". Per lui ci furono "solo episodi isolati frenati dagli stessi colleghi". Comunque "da condannare e punire".

 

Come giudica la requisitoria dei Pm di Genova?

"C’è un equivoco di fondo. Su Bolzaneto si scontrano due tesi: nella prima c’è il black-out della democrazia e l’Italia trasformata nel Cile di Pinochet; nella seconda, in cui credo e che corrisponde a risultati della commissione d’inchiesta del Dap, la stragrande maggioranza della polizia penitenziaria ha fatto il suo dovere, ma ci sono stati singoli abusi repressi dai presenti".

 

Non è una tesi minimalista?

"E perché? Dico che un abuso c’è stato. Ma leggendo alcune frasi dei pm si capisce che in loro c’è la missione salvifica per far trionfare lo stato dei diritti. Questo li ha portati fuori strada perché confondono singoli episodi e li interpretano come il frutto di un disegno preordinato non si sa chi. Con una contraddizione: perché non hanno chiamato in giudizio i responsabili del Dap? Perché sono i primi a non crederci".

 

Invece di criticare i violenti attacca i Pm?

"La storia italiana è piena di Pm che sostengono tesi rivelatesi fasulle. Il loro non è oro colato. Vedremo quanto reggerà nel dibattimento".

 

A Bolzaneto non furono sospesi i diritti umani?

"Lo nego. Alcuni fatti sono stati equivocati dagli imputati. Come la perquisizione corporale che è prevista dal regolamento. Chi denuncia le flessioni non sa che è solo un sistema tecnico per evitare ricerche più intrusive. Non c’è umiliazione per puro sadismo".

 

Chi mise gli arrestati nella posizione del cigno applicava la legge?

"Neanche a me sembrò normale e chiesi perché venisse fatto. Mi fu data una risposta strana, per evitare che i ragazzi toccassero le ragazze. Rimasi perplesso. Dalla commissione emerse che fu necessario per separare gli immatricolati dagli altri. Deciderà il giudice se stare in piedi quattro ore vuol dire sospendere i diritti".

 

Per lei è normale?

"I metalmeccanici stanno in piedi otto ore al giorno e non si sentono umiliati e offesi. Immatricolazioni e identificazioni si sono protratte oltre il tempo normale. Non fu anomalo in una notte come quella".

 

Perché si precipitò a Genova? Vide gli abusi? A caldo negò pestaggi "sistematici e preordinati".

"E li nego tuttora. Ero a casa e seppi dell’assalto a Marassi. Ritenni mio dovere stare vicino ai miei uomini. Non ero solo. La visita a Bolzaneto fu decisa al momento. Parlai con un fermato, ma non mi disse nulla. Tuttora mi chiedo perché i pm non mi abbiano mai chiamato. Non è strano? Comunque dopo il G8 ci furono lettere di complimenti per la penitenziaria come quella di un funzionario Usa".

 

Gli Usa fanno testo?

"E l’ex Pg Marvulli che ringraziò tutti "per il comportamento ineccepibile"? E il capo dei Gip Coppello che fece lo stesso? Siamo stati tutti ciechi o la sospensione dei diritti non c’è stata?".

 

Contesta la tortura organizzata?

"Non sono Dio e non posso negare a prescindere. Ma vedo singoli episodi da punire e perseguire".

 

Donne tenute nude, gente costretta a gridare "viva il duce"...

"Fatti gravissimi, ma singoli".

 

E la testimonianza di un agente pentito?

"Gli episodi sono sempre gli stessi: dita divaricate, il piercing strappato, la ragazza fatta uscire in slip e reggiseno in corridoio, quello obbligato a cantare Faccetta nera. Raddoppiamo pure i casi, ma non superiamo la decina. Tre giorni di emergenza, qualche singolo che perde la testa e va punito. Il resto sono palle giornalistiche".

 

Perché, da ministro, non ha cacciato quei singoli?

"Prima di rovinare la vita di qualcuno bisogna aspettare i risultati del processo. Sono convinto che emergerà la verità".

 

Di chi è la colpa se in Italia non c’è il reato di tortura?

"Del legislatore di sinistra che ha presentato un testo inaccettabile, in cui si parlava di torture di natura psicologica, per cui io potrei accusare di tortura Prodi visto che ogni volta che lo vedo mi sento male".

 

Se il Pdl vince, metterà il reato nel codice?

"C’è un obbligo internazionale, ma ci vuole un testo equilibrato".

 

Prescrizione e indulto. È giusto che tutto sia cancellato?

"E lo dice a me che ho votato contro lo sconto di pena? Con la Cirielli i reati gravi non si prescrivono. Se Bolzaneto è stato il "garage Olimpo" perché hanno contestato reati prescrivibili in sette anni? La verità è che ci sono clamorosi buchi di natura logica".

Giustizia: Radicali; garantire diritto voto a disabili e detenuti

 

Apcom, 20 marzo 2008

 

I radicali scrivono al ministro dell’Interno Giuliano Amato chiedendo una Circolare per poter garantire il voto dei disabili. "Anche quest’anno una fetta consistente di elettori sarà esclusa dal diritto di voto...", scrivono Rita Bernardini, Segretaria Nazionale di Radicali Italiani, Ileana Argentin, Delegata per le Politiche dell’Handicap del Comune di Roma e candidata nelle liste del PD, e Marco Cappato, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, chiedendo ad Amato la circolare per consentire il più possibile il legittimo esercizio del voto tra i disabili e i detenuti in possesso dei diritti civili.

I tre firmatari, informa una nota, ricordano che nel 2006, sulla spinta della lotta portata avanti dai radicali Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, l’allora ministro Giuseppe Pisanu si rese promotore della legge n.22 per il diritto di voto domiciliare dei malati intrasportabili "dipendenti in modo continuativo e vitale da apparecchiature elettromedicali". Un successo che però ha continuato a precludere la possibilità di votare ai tanti che, pur infermi, non dipendono da apparecchiature mediche.

Bernardini, Argentin e Cappato portano a sostegno della propria richiesta le normative in materia dei più grandi paesi, europei e non, le quali - decisamente più snelle e flessibili di quella italiana - in molti casi prevedono le modalità del voto a domicilio, per procura e per corrispondenza, oltre ad agevolazioni come la scheda in Braille per gli elettori non vedenti.

Per quanto riguarda il diritto voto dei detenuti, i sottoscrittori invece osservano che, come recita l’art.48 comma 4 della Costituzione, questo "non può essere limitato se non per incapacità civile, o per effetto di sentenza penale irrevocabile oppure nei casi di indegnità morale indicati dalla legge".

Quali sono, allora, i motivi del permanere di questa inaccettabile discriminazione?", chiedono, precisando che "l’onere per le casse dello Stato sarebbe una giustificazione inaccettabile per quello che, di fatto, si presenta come un limite all’esercizio effettivo del potere democratico".

Bernardini, Argentin e Cappato chiudono la lettera - a cui sono allegati un dossier sulle procedure di voto per i disabili negli altri Paesi e alcuni articoli sull’argomento firmati da Piergiorgio Welby - con delle proposte concrete: una circolare del Ministero dell’Interno "indirizzata ai comuni affinché - pur considerando carente normativa vigente - si attivino al massimo per consentire il diritto di voto dei disabili e dei detenuti che non hanno perso i loro diritti civili"; e, infine, un appello allo stesso Amato a collaborare ad un disegno di legge in materia, "affinché quella dell’imminente scadenza elettorale sia l’ultima occasione in cui diritti fondamentali siano così palesemente violati e calpestati". "Sapremo lottare per farlo approvare dal prossimo Parlamento", promettono.

Giustizia: lettera infermieri penitenziari su riforma sanitaria

 

Lettera alla Redazione, 20 marzo 2008

 

Leggiamo con estremo rammarico una nota della Cnvg che sollecita di superare le resistenze corporative. A tal proposito noi Infermieri vogliamo adeguatamente specificare che le attuali resistenze, malgrado il completo abbandono da parte del Ministero della Giustizia di migliaia di lavoratori che per il ministero hanno lavorato ricevendo solo dispregio, non provengono da una difesa corporativa in quanto moltissimi di noi sono a lavorare nel carcere perché lo hanno scelto e non perché non avevano alternative.

La nostra resistenza deriva dal fatto che si cerca di far passare come panacea di tutti i mali la legge che prossimamente sarà varata senza minimamente affrontare i veri problemi che aveva di fronte la sanità penitenziaria, e cioè i rapporti con la custodia e con i ritardi che questi comportavano nelle diagnosi e cure.

 

Sandro Quaglia

Segreteria SAI (Sindacato Autonomo Infermieri)

Lettere: la luce sempre accesa… può diventare una tortura

di Gisela Pabst (Detenuta a Sollicciano)

 

www.informacarcere.it, 20 marzo 2008

 

Durante il giorno abbiamo bisogno di luce e di sole, fa bene all’umore. Durante la notte abbiamo bisogno di buio per un sonno rigeneratore. Ma com’è qui a Sollicciano? La luce artificiale, durante il giorno, fa sì che la sera ti ritrovi con gli occhi affaticati. Nella notte non c’è mai buio: fuori ci sono i fari accesi, nel corridoio splende davanti ad ogni cella una luce di neon bianca accecante e dentro la cella c’è una luce blu accesa tutta la notte.

Chi pensa che la luce blu non sia dannosa, che non sia quasi niente, pensa male. Quando mi sveglio durante la notte mi sembra illuminato a giorno, anche se la maggior parte delle persone hanno avvolto la lampada con un panno per attenuare la luce. Sì, la luce mi procura dolori, mi fa male agli occhi e mi fa rabbia perché non ci posso fare niente. E la mattina, quando la luce del giorno entra nella cella, ti svegli e quasi sempre hai la sensazione di non avere dormito.

Non è soltanto la luce blu che disturba il sonno salutare, ma anche quando l’agente fa il suo giro, apre la porta, guarda dentro la cella e ti raggiungono i raggi della luce chiara del neon davanti alla tua cella. Alcune agenti illuminano le celle dal corridoio con una torcia elettrica e, non so come ci riescono, ma colpiscono sempre gli occhi. Tante agenti, poi, non richiudono bene la porta e così un raggio chiaro entra per il resto della notte.

Posso capire le agenti quando dicono: "Non vi possiamo vedere, è troppo buio nelle vostre celle, non è permesso coprire la luce al soffitto". Arrivano dal corridoio che è illuminato a festa e quando guardano nelle nostre celle per loro è buio. Per me invece è una luce abbagliante, perché quando mi sveglio vengo dall’oscurità del sonno. E questo non è salutare. È confermato anche da studi della ricerca medica: quando si dorme con la luce certi ormoni non vengono prodotti e dormire sempre con la luce accesa fa ammalare.

Verona: carcere-scuola, lo sport avvicina giovani e detenuti

di Elena Cardinali

 

L’Arena di Verona, 20 marzo 2008

 

Compie vent’anni il Progetto Carcere e Scuola. Iniziato con la partecipazione di due istituti scolastici, per iniziativa di Progetto Carcere 663 "Acta non Verba", di cui è presidente Maurizio Ruzzenenti, oggi è condiviso da 57 istituti superiori di Verona e provincia. Lo ha annunciato ieri nell’incontro di presentazione lo stesso Ruzzenenti, alla presenza del direttore della casa circondariale di Montorio, il dottor Salvatore Erminio, dell’assessore regionale alle Politiche sociali Stefano Valdegamberi, dell’assessore provinciale all’Istruzione Maria Luisa Tezza e del vicecommissario Paolo Presti comandante del reparto di polizia penitenziaria di Montorio.

"Verona è l’unico esempio di un carcere dove i detenuti incontrano gli studenti con cui non solo condividono momenti di sport ma anche di riflessione e confronto", spiega Ruzzenenti. "I giovani capiscono così cosa significhi vivere in carcere mentre i detenuti hanno un’occasione per capire che c’è un altro modo di vivere e di pensare al di fuori delle mura della prigione. Inoltre il Progetto prevede dei corsi nelle scuole di educazione alla legalità. Sono 1.243 gli studenti che parteciperanno quest’anno all’iniziativa, iniziata ora e che si concluderà a giugno, a cui vanno aggiunti 230 insegnanti".

Attualmente i detenuti a Montorio sono 640, di cui una cinquantina donne, per la maggior parte stranieri. Il carcere ne dovrebbe contenere circa 400 e il disagio per il sovraffollamento a volte crea tensioni. Recentemente un gruppo di detenuti ha scritto a un giornale regionale per lamentare la scarsità di spazi e per non ricevere materiale dall’esterno. Spiega il direttore Erminio:"In due bracci sono in corso dei lavori di ristrutturazione, per cui parte dei detenuti è stata riunita nelle stesse celle. Per ciò che riguarda i rifornimenti esterni, detenuti e familiari sanno bene cosa si può portare e non portare in carcere. Vorrei aggiungere che la presenza dei volontari e delle loro attività è fondamentale per il buon clima del carcere, per stemperare tensioni e risolvere stati di difficoltà".

L’assessore Valdegamberi, ricordando che la Regione finanzia i progetti di volontariato in carcere, sottolinea come "la pena debba essere soprattutto riabilitativa. Se al detenuto si offrono già in carcere dei percorsi alternativi per quando uscirà, e se poi viene seguito in questo suo cammino anche fuori del carcere, sarà un guadagno per tutta la società, anche in termini economici, perché meno persone torneranno in carcere. Il reinserimento degli ex detenuti è un passo fondamentale in questo senso".

L’assessore Tezza, condividendo l’iniziativa di Carcere e Scuola per il suo valore educativo intrinseco, "che avvicina il mondo giovanile a una realtà spesso percepita come estranea dallo stesso tessuto sociale quando invece il carcere è specchio della società", ha suggerito di modificare il termine di educazione alla legalità in educazione alla libertà: "Insegniamo ai giovani che la libertà ha le sue regole e vanno rispettate". E poi ha chiesto che ogni scuola "adotti" un detenuto, anche a livello epistolare, per dargli un’apertura e un appoggio per il suo futuro.

Bologna: la vita amara delle poliziotte, vessate e umiliate…

di Francesco Mura

 

Il Bologna, 20 marzo 2008

 

"Intimidite, sbeffeggiate, umiliate e offese. Per due volte: come servitori dello Stato e come donne". Sono Filomena Crispino, 52 anni, fino a pochi anni fa ispettore capo di polizia penitenziaria alla Dozza e oggi impiegata in Tribunale, e Giovanna Peduto, 49 anni, ex assistente capo alla Dozza e ora sempre con lo stesso grado nel carcere minorile "Siciliano" meglio conosciuto come "Via del Pratello". Due storie parallele di due donne che per prime hanno avuto il coraggio di denunciare pubblicamente quello che accadeva all’interno del carcere bolognese.

La vicenda di Filomena nasce per motivi sindacali e di discriminazione, l’altra solo per aver chiesto, dopo due interventi all’ernia del disco, di essere adibita a un incarico più leggero per non finire su una sedia a rotelle. Entrambe con l’aggravante di essere donne, "nate per lavare piatti". Entrambe, la punta dell’iceberg di un malessere diffuso. Dopo la loro denuncia, altri due agenti sarebbero ricorse alla Clinica del lavoro.

"Tutto inizia quando ero Ispettore Capo e dirigente sindacale - racconta Filomena - cosa, quest’ultima, non molto gradita". Che si traduce in abusi e offese. Soprattutto dopo che, da sindacalista, denuncia alcune carenze all’interno della caserma. Una sorta di condanna che, da quel momento in poi, sconterà giorno dopo giorno. Per tutta risposta, riceve una perquisizione della stanza in sua assenza e senza esserne stata informata - assicura - né prima né dopo". Questo nonostante Filomena svolga il suo lavoro con scrupolo e nel rispetto del regolamento.

"Osservare il regolamento, alla Dozza - racconta - voleva dire "rompere" e attirarsi le ire di chi comandava". Si rivolge a politici, sindacalisti e persino al Consigliere nazionale per le pari opportunità. Ma non succede niente. "Mentre le vessazioni continuavano senza sosta". Una situazione che Filomena trascina per anni ma alla fine cede. Psicologicamente e fisicamente. Si rivolge alla Clinica del lavoro (lo farà per ben quattro volte, ndr) che diagnostica un "disturbo post traumatico da stress".

Per tre volte prova a tornare al lavoro e per tre volte si ammala. La patologia si aggrava: "ipertensione arteriosa per prolungata esposizione ad uno stress psicoemotivo nell’ambiente di lavoro". Ma le provocazioni continuano. "I miei superiori racconta - mandarono i miei certificati alla Motorizzazione per la revisione della patente".

Trattamento riservato anche a Giovanna contravvenendo alla circolare ministeriale, la n. 3572/6022 del 2002, che vieta l’invio dei certificati senza l’autorizzazione scritta dell’interessato. Ma se erano matte, perché nessuno si preoccupò di privarle della pistola? La malattia termina ma l’ospedale militare le impone una scelta tra il pensionamento e il ruolo civile. Per lei, il lavoro di agente, potrà essere solo un ricordo.

Chiede, quindi, di passare al ruolo civile. Ma anche in questo caso trova ostacoli su ostacoli, "volevano mandarmi in pensione". Arriva persino l’assegno della liquidazione senza che abbia mai chiesto il pensionamento. Si rivolge al Tar che emette ben due Ordinanze di reintegro in servizio, ma nessuna delle due viene ottemperata e Filomena rimane sedici mesi senza stipendio. "I mesi più duri della mia vita, visto che mi sono dovuta rivolgere ai servizi sociali perché non avevo di che vivere". Solo lo scorso luglio, dopo un’interrogazione parlamentare, riesce ad avere gli stipendi arretrati, vincere la causa di merito e passare a un ruolo civile. Ora, Filomena aspetta di "ritornare alla vita", mentre Giovanna attende che l’iter della sua denuncia faccia il suo corso.

Immigrazione: legislatura finisce, ma la riforma è prioritaria

 

Il Domani, 20 marzo 2008

 

Con la caduta del governo e l’imminente fine della legislatura si perde, speriamo non per sempre, un’altra delle riforme ritenuta da più parti necessaria, quella della legge sull’immigrazione, per la quale era stato presentato un disegno di legge delega al governo per la modifica della legge Bossi-Fini.

Il disegno di legge Amato-Ferrero, dal nome dei ministri che lo hanno presentato, che è stato preceduto da un’ampia discussione con le organizzazioni sociali e con le istituzioni sulle prospettive di riforma, ha rivelato una netta discontinuità con la normativa ancora in vigore, contrassegnata dalla concezione dello straniero prima di tutto come problema di ordine pubblico comunque come ospite sempre in prova, e non come risorsa per il paese, e ha assunto l’obiettivo di stabilire un collegamento forte tra la condizione giuridica del migrante e una idea di società multiculturale, cercando di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e promuovendo in questo modo l’immigrazione regolare.

La riforma vorrebbe incidere prima di tutto sulla possibilità di rendere meno astratto il meccanismo di previsione delle quote di ingresso di stranieri nel paese valorizzando le necessità emergenti nel mondo del lavoro, incidere sulla disciplina e sui termini dei permessi di soggiorno consentendo la permanenza degli stranieri che sono sul territorio e che hanno perduto attività lavorativa ma che sono socialmente inseriti, rendere effettivi i rimpatri con una serie di misure che rendano appetibile il rientro nel paese di origine attraverso la previsione di programmi di rimpatrio assistito e volontario e con l’istituzione di un apposito fondo per i cittadini espulsi senza mezzi di sostentamento, combattendo così anche lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina che vive anche del "sogno" di ritorno nel paese da cui si è stati allontanati ma nel quale si vuole ritornare non avendo nessuna ragione per rimanere nel proprio.

Altro intervento importante è poi previsto per le disposizioni penali in materia di immigrazioni, oggi di particolare severità, sulle quali la Corte Costituzionale ha già invitato il legislatore ad intervenire laddove non c’è proporzione tra il disvalore del fatto e l’entità della sanzione e la previsione dell’arresto obbligatorio per violazioni di tipo formali, tanto che si può ritenere si sia affermato un diritto penale speciale per gli immigrati, con il quale si punisce non il fatto, ma l’autore del reato, cioè l’immigrato irregolare in quanto tale.

È evidente che l’immigrazione irregolare che non ha possibilità alcuna di diventare legale si trasforma in clandestina e le condotte criminose sono inevitabili, con trasformazione di un gran numero di migranti "per motivi economici" in autori di reato, presenti in misura superiore al 30% nelle carceri italiane e poi destinati ai centri di permanenza temporanea finalizzati all’espulsione, Cpt (Centri di Permanenza Temporanea) per i quali la riforma prevede un sistema differenziato di strutture destinate all’assistenza e al soccorso e altre destinate al trattenimento di chi si è sottratto alla procedura di identificazione, ma con forte riduzione dei tempi di permanenza, oggi pari a 30 giorni prorogabili a 60.

La nuova disciplina vorrebbe disegnare, sia pure con alcune ambiguità, un sistema che renda nel tempo i Cpt, oggetto di fondate critiche per essere comunque luoghi di privazione della libertà personale in assenza di condotte penalmente rilevanti, superati da una serie di istituti che rendano non più necessario affrontare il tema della clandestinità con questi strumenti. Non si può non considerare, infine, come la battaglia ideologica sulla irregolarità degli stranieri come male in sé, e la cultura della insicurezza che su essa si è costruita, sia naufragata tutte le volte che è stato necessario adottare provvedimenti di "sanatoria" di centinaia di migliaia di irregolari, utili all’economia del paese, la cui pericolosità è venuta meno per legge, a dimostrazione di come sia necessario un mutamento di rotta in tema di immigrazione.

Droghe: Ferrero; il "ravvedimento" di D’Alema? è tardivo...

 

Notiziario Aduc, 20 marzo 2008

 

"Le tesi sostenute ieri da Massimo D’Alema sono completamente condivisibili. Peccato che esponenti del Pd abbiano bloccato in questi due anni qualsiasi possibilità sia di modificare la sciagurata legge Fini-Giovanardi, sia di vietare la pubblicità degli alcolici in televisione". Così il ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero, commenta le dichiarazioni del ministro degli esteri, Massimo D’Alema, in materia di droghe e alcol.

"Ci troviamo così in un paese che mette in galera chi si fuma uno spinello e che parallelamente promuove l’uso degli alcolici come viatico per ottenere successo nella vita, il tutto mentre l’alcool è la prima causa di morte per sostanze. Sono quindi contento del ravvedimento di D’Alema ma non posso che sottolineare come questo sia un po’ tardivo".

"Massimo D’Alema dovrebbe sapere e spiegare ai giovani italiani che in Francia e negli Stati Uniti anche i semplici consumatori di droghe leggere finiscono addirittura in carcere così come avviene in tanti altri paesi del mondo. In Italia invece abbiamo scelto la strada di punire penalmente soltanto gli spacciatori". Lo afferma in una nota Carlo Giovanardi (Pdl).

"Ma non è tollerabile pensare - prosegue - che non venga ritirata la patente o sequestrato il motorino a chi guida sotto l’effetto degli stupefacenti così come a chi guida ubriaco, mettendo a rischio la propria vita e quella degli altri".

"Le centinaia di vittime sulla strada dovute a persone che guidano ubriache o sotto l’effetto degli stupefacenti - conclude Giovanardi - dovrebbero indurre il nostro ministro degli esteri ad abbandonare gli slogan sessantottini del tipo proibito proibire per fare concorrenza agli onorevoli Luxuria e Caruso, che dovrebbero vergognarsi profondamente quando inducono i giovani a comportamenti che danneggiano la loro salute".

Droghe: ricerca; l’ecstasy causa sintomi simili all’Alzheimer

 

Notiziario Aduc, 20 marzo 2008

 

Basta una sola pasticca di ecstasy perché, in aree cerebrali fondamentali per l’apprendimento e la memoria, come l’ippocampo, si verifichino alterazioni cellulari tali da compromettere queste funzioni. Lo dice una ricerca del Neuromed, Istituto Neurologico Mediterraneo di Pozzilli (IS), pubblicata ieri sul Journal of Neuroscience e condotta da Carla Busceti.

"Per il nostro studio, durato due anni", ha detto ad Apcom Carla Busceti. "Siamo partiti da studi clinici internazionali che mettevano in evidenza l’esistenza di deficit cognitivi in soggetti che facevano uso di ecstasy, un derivato chimico della metanfetamina, Mdma. Soggetti che sono stati sottoposti a test clinici di memoria verbale mentre venivano monitorati con l’Elettroncefalogramma e con la Risonanza Magnetica funzionale.

In queste persone venivano riscontrate rispettivamente anomalie di tipo elettroencefalografico e minori attivazioni delle aree cerebrali deputate alla memoria rispetto a individui di un gruppo di controllo che non facevano uso di droga".

Lo studio del Neuromed, è stato fatto su topolini di laboratorio, ai quali sono stati somministrati dosaggi di Mdma paragonabili a quelli che un giovane consuma durante una serata passata in discoteca, ovvero una pasticca di 120 mg. Lo scopo era quello di indagare gli effetti neurotossici dell’ecstasy a livello cerebrale: le alterazioni che sono state osservate nel cervello dei topi trattati con la droga, sarebbero sovrapponibili, secondo Carla Busceti, a quelle tipiche della malattia di Alzheimer e di altre patologie associate a demenza.

E sarebbero proprio queste alterazioni che potrebbero diventare la base anatomica di disfunzioni della capacità di apprendimento e della memoria Basta, quindi, una singola pasticca a produrre i danni cerebrali osservati nei topi dai ricercatori, se, poi, le dosi somministrate sono maggiori e prolungate nel tempo, i segni di danno all’ippocampo sono maggiori. "Alla luce di questi dati è plausibile ritenere che soggetti che fanno ripetutamente uso di ecstasy, anche in un singolo episodio occasionale, possano andare incontro a serie riduzioni della capacità di apprendere e memorizzare".

Ma non è tutto, secondo lo studio, in una bassissima percentuale di casi l’assunzione di ecstasy può determinare un esito fatale di morte a causa della insorgenza di una sindrome serotoninergica.

"L’ecstasy - spiega la ricercatrice - induce un forte e immediato rilascio della serotonina (neurotrasmettitore), che normalmente è contenuta in vescicole che si trovano nei terminali nervosi, ma che, se viene stimolata dalla droga, fuoriesce e va ad agire sui recettori di membrana che, in una bassissima percentuale di soggetti predisposti geneticamente e quindi suscettibili ad una eccessiva stimolazione della serotonina, sono in soprannumero. In queste persone la risposta che si innesca a causa della droga non solo è immediata, ma è anche eccessiva per cui questi individui vanno incontro ad ipertermia maligna che esita in morte per arresto cardiaco".

Il fatto che solo una bassissima percentuale di soggetti che usano la droga rischia esiti fatali "non deve indurre l’erronea considerazione che la droga sia innocua e che la maggior parte dei soggetti sia esente da effetti tossici. Lo studio condotto al Neuromed, infatti, dimostra che l’assunzione anche di una sola pasticca di ecstasy può determinare effetti neurotossici a lungo termine a livello del sistema nervoso centrale.

"Abbiamo osservato nel cervello di animali trattati con questa droga alterazioni del citoscheletro (struttura scheletrica della cellula) - spiega ancora Busceti - delle cellule dell’ippocampo dovuta a modificazioni chimiche delle proteine che ne fanno parte. Le proteine del citoscheletro, dette proteine tau, che normalmente sono organizzate in maniera ordinata per formare una struttura tridimensionale di supporto alla cellula, se subiscono modificazioni chimiche a causa dell’azione della droga, si distaccano dalla struttura disorganizzandola e si aggregano tra di loro formando dei grovigli intracellulari o neurofibrillari, paragonabili a quelli presenti nei cervelli dei pazienti affetti da Alzheimer e altre forme di demenza . "È quindi possibile inquadrare la tossicità indotta da Mdma come una taupatia (patologia della proteina tau) che è responsabile di alterazioni che sono simili alla demenza".

Tibet: da Amnesty appello per 15 monaci tibetani in carcere

di Simone Baroncia

 

www.korazym.org, 20 marzo 2008

 

Amnesty International ha lanciato sul proprio sito www.amnesty.it un appello in favore dei 15 monaci tibetani arrestati il 10 marzo per aver preso parte a una manifestazione pacifica a Barkhor, Lhasa, capitale del Tibet.

Amnesty International ha lanciato sul proprio sito (www.amnesty.it) un appello in favore di Samten, Trulku Tenpa Rigsang, Gelek Pel, Lobsang, Lobsang Thukjey, Tsultrim Palden, Lobsher, Phurden, Thupdon, Lobsang Ngodup, Lodoe, Thupwang, Pema Garwang, Tsegyam e Soepa, 15 monaci tibetani arrestati il 10 marzo per aver preso parte a una manifestazione pacifica a Barkhor, Lhasa, la capitale della Regione autonoma tibetana.

Non si hanno ulteriori informazioni sul luogo in cui sono detenuti né su eventuali accuse formulate nei loro confronti. Amnesty International teme rischino di subire torture e altri maltrattamenti. Il 10 marzo, centinaia di monaci hanno dato vita a una marcia dal monastero di Drepung verso Barkhor. Un altro gruppo, di cui i 15 monaci ora in carcere facevano parte, ha iniziato a marciare dal monastero di Sera ma è stato subito bloccato dalle forze di sicurezza cinesi. I monaci chiedevano al governo di Pechino di porre fine alla campagna di rieducazione patriottica, che li obbliga ad abiurare il Dalai Lama e li sottopone alla propaganda governativa.

Le manifestazioni a sostegno dei monaci arrestati si sono estese ad altri monasteri e hanno coinvolto settori più ampi della popolazione, a Lhasa e nelle province vicine del Qinghai, del Gansu e del Sichuan, popolate in larga parte da tibetani. Il 14 marzo le proteste si sono fatte violente; alcuni dimostranti hanno assalito e incendiato esercizi commerciali cinesi e hanno aggredito persone di altri gruppi etnici. Il governo di Pechino ha sollecitato i manifestanti ad arrendersi entro la mezzanotte del 17 marzo, ora locale, promettendo un trattamento indulgente a coloro che avrebbero rispettato l’ultimatum.

Attualmente le strade di Lhasa sembrano essere per lo più calme e sgombre, mentre giungono notizie di disordini nelle province del Gansu e del Sichuan. La polizia e i militari cinesi stanno rastrellando le case di Lhasa, dalle quali alcuni testimoni hanno visto trascinare via persone con la forza, e pare stiano ricorrendo a un uso eccessivo della forza contro manifestazioni sporadiche ancora in corso a Lhasa e in altri centri del Tibet. Il fatto che un gran numero di truppe sia stato dispiegato nella regione fa temere che possano essere commesse ulteriori violazioni dei diritti umani. Le autorità cinesi hanno imposto un blocco pressoché totale delle notizie provenienti dal Tibet e dalle zone limitrofe. Dal 12 marzo ai giornalisti non viene più permesso l’ingresso nella regione. Gli inviati che già si trovavano in Tibet sono stati costretti a rimanere alla larga dalle province del Gansu, del Sichuan e del Qinghai.

Nel frattempo il Dalai Lama si è detto pronto a riallacciare un confronto politico - sospeso da due anni - con il governo cinese sul futuro della provincia autonoma del Tibet: lo ha fatto sapere un suo portavoce, il quale ha precisato che Tenzin Gyatso "è impegnato al dialogo con i cinesi. Dobbiamo metterci uno di fronte all’altro e parlarci". Secondo le parole del portavoce, ampiamente riportate dalla stampa internazionale, entrambe le parti devono rendersi conto di dover ‘vivere fianco a fiancò: "I cinesi non risolveranno mai la questione tibetana inviando truppe, l’unica soluzione è di metterci uno di fronte all’altro, di stabilire un dialogo e di trovare una soluzione a beneficio di entrambe le parti".

Le dichiarazioni del portavoce del Dalai Lama sono giunte dopo che il presidente del governo tibetano in esilio aveva ricevuto, in un incontro durato una ventina di minuti, i delegati di alcuni dei gruppi pro-indipendentisti tibetani più radicali, considerati tra i principali protagonisti dei disordini dei giorni scorsi sia in Tibet che in altre zone della Cina, ma anche in India. Secondo fonti giornalistiche, questi gruppi avrebbero criticato la posizione del Dalai Lama, definita "troppo morbida", nei confronti della Cina. Pechino, che accusa la "cricca del Dalai Lama" di aver fomentato i disordini e le violenze avvenute a Lhasa e in altre zone del paese, già nei giorni scorsi aveva fatto sapere di "lasciare aperta la porta al dialogo" con l’esponente politico-religioso tibetano.

Comunque in questo momento, "non bisogna lasciare solo il Dalai Lama. Bisogna difenderlo cogliendo l’elemento di coerenza di quest’uomo, grande difensore dei diritti umani. A testimonianza e suo sostegno servono dichiarazioni di ripudio della violenza, da qualunque parte provengano, utilizzando il metodo della persuasione", afferma all’agenzia Sir Antonio Papisca, docente di Relazioni Internazionali e Tutela dei Diritti Umani dell’Università di Padova, a proposito dell’appello del Dalai Lama per la ripresa del dialogo con la Cina e dell’appello del Papa sul Tibet. "La posizione del Dalai Lama è coerente, anche se difficile - spiega Papisca in una intervista che verrà pubblicata sul Sir -. È una testimonianza forte. Il Dalai Lama ha già compiuto in passato degli atti importanti, perché ha laicizzato la costituzione del Tibet in esilio. Ha agganciato la costituzione alla dichiarazione universale dei diritti umani, quindi anche ad un’etica pacifica, non violenta. Si trova ad essere il capo della parte mondana in esilio però come capo fa prevalere la dimensione spirituale".

Kenya: detenuti lavorano in progetto per depurazione acqua

di Achim Steiner (Vicesegretario dell’Onu)

 

www.greenreport.it, 20 marzo 2008

 

I detenuti di una prigione sulla costa est dell’Africa avviano un progetto di depurazione che si basa sulla natura per trattare i rifiuti umani. L’iniziativa, che implica lo sviluppo di una zona umida per purificare le acque reflue, dovrebbe costare giusto una frazione del prezzo dei trattamenti ad alta tecnologia, generando dei profitti su un triplice piano ambientale, economico e sociale.

Al di là del progetto dei gestione delle acque reflue, il progetto permetterà di valutare l’utilizzo dell’acqua filtrata dalle zone umide, per l’irrigazione e la pescicoltura, apportando anche ai detenuti una nuova fonte di proteine o altri mezzi di sussistenza con la vendita sul mercato locale.

Una parte di queste "acque nere" a forte concentrazione di rifiuti umani, sarà anche utilizzata per la produzione di biogas. Il biogas può essere sfruttato come combustibile per la cucina, il riscaldamento e l’illuminazione, permettendo all’amministrazione penitenziaria di ridurre le fatture elettriche e di fare economia di denaro, diminuendo le emissioni nell’atmosfera da parte della popolazione carceraria forte di 4.000 persone, comprendente il personale e i prigionieri.

La notizia di questo progetto, finanziato dal governo della Norvegia e dal Fondo mondiale per l’ambiante con il sostegno di un largo ventaglio di partner tra i quali la Coast Development Authority and National Environment Management Authority del Kenya supportata dalla università di Dar Es Salam in Tanzania e dalla università di Wageningen, la libera università di Amsterdam e dalla Ong "Aqua-4-All" dell’Olanda, giunge quando il mondo celebra la Giornata mondiale dell’acqua 2008, dichiarato International Year of Sanitation dall’Onu.

Questa esperienza fa parte di un insieme di progetti messi in opera nel quadro del programma WIO-LaB, chiamato a rispondere ai problemi legati agli impatti delle attività terrestri nell´oceano Indiano occidentale, iniziativa che fa parte della Convention di Nairobi, uno degli accordi sui mari regionali amministrati dall’Unep.

Speriamo che gli insegnamenti che verranno tratti potranno essere applicati ad altre regioni del mondo, per far in modo che le molteplici sfide del risanamento e dell’inquinamento possano essere considerate una parte di un approccio basato sulla natura.

 

 

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