Rassegna stampa 16 luglio

 

Giustizia: i detenuti sono 12.000 in più dei posti disponibili

 

Dire, 16 luglio 2008

 

Rapporto dell’associazione Antigone. I detenuti sono in tutto 54.605, i posti letto regolamentari sono 42.890. Il 31 dicembre del 2007 i detenuti erano 48.693. In sei mesi sono cresciuti di poco meno di 6 mila unità.

È di nuovo emergenza sovraffollamento nelle carceri italiane. L"effetto indulto sembra ormai molto lontano e le cifre assolute dei detenuti stanno tornando ai picchi che si erano registrati prima dell’applicazione del provvedimento di clemenza. In alcuni carceri italiani il tetto è stato comunque ampiamente superato e in tutti gli istituti ormai ci sono più detenuti che posti letto. È questo in sintesi il nocciolo del quinto Rapporto sulle carceri curato dall’associazione Antigone e presentato questa mattina a Roma nella sede della Fondazione Basso. Complessivamente, si legge nel Rapporto, i detenuti sono oggi 54.605. I posti letto regolamentari sono 42.890. Vi sono 11.715 persone in più rispetto ai posti letto disponibili.

Il 31 dicembre del 2007 i detenuti erano 48.693. In sei mesi sono cresciuti di poco meno di 6 mila unità. Mille detenuti in più al mese. Erano 39.005 il 31 dicembre del 2006. Per tutto il 2007 il tasso di crescita mensile è stato di 807 detenuti. Il 31 dicembre del 2005, ossia sette mesi prima dell’approvazione dell’indulto, la popolazione detenuta ammontava a 59.523 unità. Ora siamo ormai vicini ai 55 mila. Manca pochissimo al ritorno al picco pre-indulto. Anche perché quello che spaventa sono i ritmi di aumento della popolazione carceraria.

Antigone ha fatto qualche calcolo e qualche paragone storico. Il 31 dicembre del 2001 i reclusi erano 55.275. Il tasso di crescita nel quadriennio del primo governo Berlusconi (2001-2005) è stato quindi di circa mille unità l’anno. Il 31 dicembre del 1996 i detenuti erano 47.709. Nei cinque anni di governo del centro-sinistra i detenuti sono cresciuti di poco più di 1.500 unità l’anno. L’aumento progressivo del tasso di crescita carcerario è l’effetto di due leggi: la ex Cirielli sulla recidiva e la Bossi-Fini sull’immigrazione. Leggi del 2005 e del 2002 che oggi iniziano a produrre i loro effetti inflattivi. Ma ora siamo a una crescita mensile impressionante, che sfiora appunto le mille unità. A tassi di crescita mensili di questa natura entro la fine dell’anno si sarà tornati alle cifre del pre-indulto e quindi all’emergenza assoluta in termini di sovraffollamento.

Nel Rapporto di Antigone si mettono in evidenza in particolare alcune situazioni di particolare affollamento a livello regionale: in Emilia Romagna le presenze ammontano a 3.857 mentre la capienza regolamentare è pari a 2.270. La percentuale di sovraffollamento è del 170%. In Lombardia ci sono 8231 detenuti per 5382 posti letto. La percentuale di sovraffollamento è del 152%. In Abruzzo, Sardegna e Umbria vi sono meno detenuti rispetto alla capienza regolamentare. Tra le carceri più sovraffollate: Monza (dove oltre 100 persone dormono sui materassi), la Dozza a Bologna, Poggioreale a Napoli.

Negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), in cui sono recluse 1.348 persone, di cui 98 donne, le condizioni di vita sono troppo dure, diversi i casi di detenzione ingiustificata, eccessivo uso di letti di contenzione, strutture in alcuni casi sovraffollate e sporche, un internato su sei ha conosciuto l’esperienza della coercizione.

In tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani sono presenti una o più sale di coercizione, con letti con cinghie di cuoio e in alcuni casi un buco al centro per i bisogni fisici. Il dato è preoccupante in sé, spiega Antigone, perché la pratica della coercizione è di per sé violenta, e non mancano casi di internati costretti al letto di coercizione sino a 14 giorni di seguito.

Un’esperienza che secondo i dati parziali raccolti (non si dispone dei dati relativi agli Opg di Napoli e Aversa (Napoli)), ha riguardato 195 soggetti: 84 a Reggio Emilia, 47 a Castiglione delle Stiviere (Mantova), 32 a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) e a Montelupo Fiorentino (Firenze). Sul totale degli internati il 65,1% ha commesso un reato contro la persona, il 15,4% contro il patrimonio, il 4,9% contro la libertà sessuale.

Giustizia: meno recidiva per immigrati e misure alternative

 

Dire, 16 luglio 2008

 

Rapporto Antigone. Al 31 dicembre 2007 il tasso di recidiva calcolato dopo un anno è del 13,35% per il campione di detenuti dimessi dalla misura alternativa e del 20,64% per quelli dimessi dal carcere. Per gli stranieri il tasso è del 16,92%.

La recidiva è più bassa tra gli immigrati rispetto agli italiani e in generale tra tutti i detenuti che hanno beneficiato delle misure alternative al carcere. Conferme e sorprese nel quinto Rapporto sulle carceri italiane di Antigone che contiene quest’anno anche un approfondimento specifico sul tema della recidiva, che aveva suscitato molte polemiche al tempo dell’indulto e che in genere viene utilizzato in modo spesso strumentale anche nei dibattiti generali sulle politiche penitenziarie.

Analizzando i dati aggiornati e confrontando i risultati con le ricerche precedenti, Antigone giunge alla conclusione che tra gli "indultati", ovvero tra tutti coloro che hanno beneficiato dell’indulto deciso dal governo Prodi, il tasso di recidiva (ovvero di reati che si ripetono e che riportano in stato di detenzione il soggetto) risulta sempre più basso tra coloro che provengono dalle misure alternative al carcere rispetto a coloro che provengono dalle misure restrittive normali. "I dati aggiornati al 31 dicembre 2007" ha detto oggi Giovanni Torrente "mostrano un tasso di recidiva del 13,35% per il campione di soggetti dimessi dalla misura alternativa e un tasso di recidiva del 20,64% per i soggetti dimessi dal carcere".

Antigone conferma dunque la maggiore efficacia delle misure alternative rispetto al reinserimento sociale dei detenuti e conferma al contrario la tendenza alla "fidelizzazione" al carcere. Chi è stato più volte in carcere - spiega Torrente - tende a tornarci anche con maggiore facilità in seguito. Nonostante questo le misure alternative sono ancora la cenerentola del sistema penitenziario italiano e al 31 dicembre 2007 risultavano in misura alternativa solo 4.600 persone. L’assurdità della situazione è data anche dal fatto che il 32% dei detenuti nelle carceri normali sono nei limiti dei 3 anni della pena, sono quindi (o meglio sarebbero) soggetti adatti alle misure alternative che però non vengono concesse o vengono concesse molto raramente.

Un fenomeno che riguarda in speciale modo i tossicodipendenti. Sempre rispetto alla recidiva, Torrente ha spiegato che la percentuale degli stranieri nelle carceri italiane è cresciuta dal 34 al 38% dopo l’indulto. Ma questo non vuol dire che tutti gli stranieri che avevano beneficiato dell’indulto sono poi tornati in carcere. Si tratta invece molto spesso di soggetti diversi. E i dati "al contrario" ci dicono che il tasso di recidiva tra i detenuti stranieri risulta più basso di quello degli italiani: 17% circa (16,92 per la precisione) contro il 22,90% degli italiani. Gli stranieri che beneficiano delle misure alternative al carcere sono una esigua minoranza.

Giustizia: Antigone; Stefano Anastasia garante dei detenuti

 

Dire, 16 luglio 2008

 

Il fondatore dell’associazione ed ex capo della segreteria di Manconi al ministero della Giustizia assume la carica informale che nasce per colmare una lacuna dell’Italia. "Stimolo e denuncia a un decennio di insipienza parlamentare".

"La legge non c’è, l’Italia rimane ancora indietro rispetto a molti altri paesi e quindi Antigone, associazione che da dieci anni si occupa della condizione dei detenuti, ha deciso di lanciare in proprio la figura del Difensore Civico. La carica sarà assunta da Stefano Anastasia, fondatore di Antigone, ed ex capo della segreteria di Manconi al ministero della Giustizia. Ne ha dato notizia oggi Susanna Marietti, durante la presentazione a Roma del quinto rapporto sulle carceri curato da Antigone. "L’associazione vista la difficoltà/impossibilità/disinteresse a dar vita a un difensore civico nazionale per i detenuti" - si legge nel comunicato - ha deciso di promuoverne la istituzione informale: un difensore civico di Antigone, che sia di stimolo e di denuncia di un decennio di insipienza parlamentare e che ci consenta di seguire e promuovere iniziative politiche a partire da casi e denunce provenienti dalle carceri".

I ritardi del nostro paese sono testimoniati dalle cifre. Nell’Unione Europea, prima dell’ingresso della Bulgaria e della Romania, ben 23 stati su 25 avevano istituito la figura del difensore civico dei detenuti. Il difensore civico di Antigone rafforzerà gli strumenti di tutela dei diritti umani e dei diritti delle persone private della libertà attraverso visite periodiche negli istituti di pena e prestando assistenza amministrativa e legale a vantaggio dei detenuti.

L’organismo si avvarrà degli osservatori volontari dell’Associazione, di un team legale e collaborerà attivamente con i garanti promossi dagli enti locali e dalle regioni.

Chiunque potrà segnalare situazioni di disagio diffuso nelle carceri o vicende individuali scrivendo una lettera (Via Principe Eugenio 31, 00185 Roma) o una mail a difensorecivico@associazioneantigone.it.

Giustizia: 45 i detenuti suicidi nelle carceri italiane nel 2007

 

Dire, 16 luglio 2008

 

Rapporto Antigone: 43 hanno riguardato uomini, di cui 27 italiani e 16 stranieri, e due hanno riguardato donne italiane. Altri 76 reclusi morti per cause naturali. Suicidi e atti di autolesionismo anche negli Opg.

"Il fenomeno scandaloso degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari non è stato superato come non è superato il fenomeno sempre più preoccupante dei suicidi in carcere. Per quanto riguarda gli Opg, nel 2004 si erano registrati 2 suicidi (1 ad Aversa, l’altro a Reggio Emilia). Nel periodo che va dal settembre 2006 al marzo 2008 nel solo ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa vi sono stati 6 suicidi e un tentativo di suicidio. La struttura di Aversa è arrivata ad ospitare un numero di internati pari al doppio della sua capienza. Si registra anche un episodio molto grave nell’Opg di Montelupo Fiorentino. Il 22 maggio 2007, Maurizio Sinatti, 42 anni, viene ucciso dal compagno di stanza. La vittima era stata internata da pochi mesi. Sono i dati contenuti nel Quinto rapporto sulle carceri dell’associazione Antigone, che ha fatto il punto in generale sul fenomeno dei suicidi in tutti gli istituti e non solo quindi negli Opg.

Nelle carceri italiane nel 2007 vi sono stati 45 suicidi. "Ci si ammazza in carcere più o meno diciotto volte di più che all’esterno", è il commento di Antigone. Altri 76 sono i reclusi morti per cause naturali. I 45 suicidi avvenuti nel corso dell’anno passato hanno interessato lo 0,10% della popolazione detenuta mediamene presente nell’anno.

Di essi, 43 hanno riguardato uomini, di cui 27 italiani e 16 stranieri, e due hanno riguardato donne italiane (lo 0,22% delle poche donne detenute complessivamente). La maggior parte degli atti auto-soppressivi si è registrato tra gli imputati. Per quanto riguarda i tentativi di suicidio, gli episodi totali sono stati 610, di cui 571 hanno riguardato uomini, equamente distribuiti in valore assoluto tra italiani e stranieri (287 contro 284).

Rispetto alle differenze di genere, il rapporto registra che delle donne che si sono suicidate, 22 erano italiane e 17 straniere. Anche qui la maggiore rappresentazione è tra coloro che non hanno ancora una condanna definitiva (400, di cui 23 donne, contro 198 condannati, di cui 15 donne, e 12 internati, di cui una donna). I tentativi di suicidio hanno interessato l’1,35% della popolazione detenuta presente in media nel corso del 2007. Cifre molto superiori emergono nel conteggio degli atti di autolesionismo, che hanno riguardato ben l’8,14% dei detenuti e degli internati, vale a dire, in termini assoluti, 3.687 persone, di cui 1.447 uomini italiani, 2.066 uomini stranieri, 117 donne italiane (addirittura il 12,89% del totale) e 57 donne straniere (solo il 5,29% del totale). Tra questi detenuti, 2.213 erano imputati (di cui 104 donne), 1.402 condannati (di cui 69 donne) e 71 internati (di cui una donna). Se ci rivolgiamo adesso ai decessi per cause naturali, troviamo che sono morti in carcere nel 2007 76 detenuti (lo 0,17% della media complessiva dei presenti), tra cui 2 donne. Tra questi, 63 erano italiani (lo 0,22% della media totale, tra cui due donne) e 13 stranieri (lo 0,08% della media totale). Tra gli internati, categoria particolarmente a rischio, si sono registrati 11 decessi per cause naturali nel 2006 (lo 0,84%), 14 decessi nel 2005 (l’1,27%) e ancora 11 nel 2004 (l’1,02%). Nei primi sei mesi del 2008 vi sarebbero stati già 23 suicidi più altri 30 detenuti morti.

Giustizia: 446 i minori negli istituti di pena, è straniero 1 su 2

 

Dire, 16 luglio 2008

 

Rapporto Antigone. Le bambine straniere sono oltre il 25% del numero complessivo dei non italiani. Più bassa la percentuale di sovraffollamento, anche se con alcune eccezioni. Focus sulle buone prassi.

"Per la prima volta dalla istituzione del Rapporto sulle carceri, l’associazione Antigone ha avuto modo di visitare anche gli istituti minorili. Ecco quindi i primi dati aggiornati presentati questa mattina a Roma. Sono 446 i minori ristretti negli istituti penali per minori, 231 gli stranieri, ossia oltre il 50% del totale. Le bambine straniere sono oltre il 25% del complessivo dei non italiani. Nel rapporto vengono segnalate alcune tendenze e alcune criticità. Rispetto alle cose che funzionano, c’è da registrare una più bassa percentuale di sovraffollamento, anche se ci sono poi dei casi che contraddicono la regola.

Nel Rapporto si fa riferimento all’istituto di Lecce, dove il 13 ottobre 2007 si è conclusa l’indagine della magistratura sugli abusi compiuti dal personale penitenziario su alcuni detenuti dell’istituto penale minorile leccese. Secondo l’accusa i ragazzi venivano denudati e successivamente pestati nelle proprie celle. La procura di Lecce ha indagato undici agenti con l’accusa di abuso di mezzi di correzione e violenza su minori. Dal 16 luglio 2007 la struttura è ufficialmente chiusa con provvedimento a firma del Capo Dipartimento della Giustizia Minorile per il "mancato adeguamento alle norme antinfortunistiche della legge 626" ed i ragazzi sono stati trasferiti nel carcere minorile di Bari. Altro caso è quello di Torino Ferrante Aporti, istituto penale per minori. Agli inizi di luglio 2008 vi sono state proteste dei ragazzi reclusi per l’affollamento intollerabile.

Antigone ci tiene però a segnalare anche le buone prassi e i casi positivi come quello di Cagliari la Comunità "la Collina". Rivolta all’accoglienza di 12 giovani-adulti (18-25 anni) in misura alternativa alla detenzione, in situazione di emarginazione sociale ed a rischio di recidività. La comunità dove è stato girato il film "Jimmy della collina", tratto dall’omonimo libro di Massimo Carlotto, si trova tra le colline che circondano Cagliari.

La Collina e un viale che si inerpica verso le costruzioni. Qui abita, con alcuni dei ragazzi, don Ettore Cannavera, fondatore e anima delle attività che qui si svolgono. La comunità sorge su un terreno che era proprietà della sua famiglia. La comunità è rivolta a minori in misura alternativa. Quando sono in casa, i ragazzi si dividono la responsabilità dei vari lavori, cucinano, puliscono, tengono gli spazi esterni.

Il sabato mattina, con sveglia alle 7 e inizio delle attività alle 8, si occupano del giardino e delle aiuole fiorite, zappano, potano, decespugliano, mentre la domenica mattina, con sveglia alle 8, fanno le pulizie "di pasqua" in casa. Le famiglie dei ragazzi possono andare a trovarli, ma naturalmente chi può va in permesso a casa.

Giustizia: un pm a Capo del Dap; Margara fu unico "esperto"

di Giancarlo Trovato

 

Rinascita, 16 luglio 2008

 

Su proposta del Guardasigilli Angelino Alfano, da venerdì scorso il pubblico ministero Franco Ionta è il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e, pertanto, a lui è affidata la delicata gestione dell’intero pianeta carcere.

Le competenze del Dap - per la legge del 1990 che l’ha istituito - sono così delineate: attuazione della politica dell’ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari, trattamento dei detenuti e degli internati, nonché dei condannati e internati ammessi a fruire delle misure alternative alla detenzione; coordinamento tecnico-operativo, direzione e amministrazione del personale e dei collaboratori esterni dell’Amministrazione; direzione e gestione dei supporti tecnici, per le esigenze generali del Dipartimento stesso.

Considerato che - secondo quanto previsto dalla legge - l’incarico per dirigerlo deve essere affidato a un magistrato e stranamente non a un direttore penitenziario, che ha compiuto lunghi anni di carriera in carcere, la scelta dovrebbe ricadere perlomeno su chi ha maturato un’esperienza diretta e concreta in tale settore, esercitando la sua professione all’interno dei Tribunali di Sorveglianza. Ma in diciannove anni solo una volta è accaduto così.

Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Franco Ionta è da sempre agli onori della cronaca per aver coordinato importanti inchieste nella lotta al terrorismo di matrice brigatista, internazionale e islamica. Tra le ultime, in particolare, quelle sull’omicidio di Calipari e sul delitto D’Antona.

Sostituisce Ettore Ferrara, nominato il 6 dicembre 2006 dall’allora ministro della giustizia Clemente Mastella, che a maggio lo aveva voluto quale capo di Gabinetto. Prima di assumere la guida del Dap, era stato giudice presso il Tribunale di Napoli, Consigliere di Corte d’appello del capoluogo campano, Consigliere del Csm dal 1998 al 2002 e Consigliere di Cassazione nei tre anni successivi. Ferrara, a sua volta, aveva sostituito Giovanni Tinebra, divenuto procuratore generale di Catania.

Da quando si concluse l’incarico di Alessandro Margara, caduto sotto il fuoco amico per il suo innovativo iperattivismo, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si sono succeduti Magistrati, in prevalenza Pubblici Ministeri, conoscitori del carcere non dal suo interno, ma unicamente come luogo da riempire di gente.

Dopo aver dato una storica impronta, moderna e umana, al Tribunale di Sorveglianza di Firenze, distinguendosi per essere uno dei padri della "legge Gozzini", Margara assunse la direzione del Dap nel luglio 1997 e la mantenne sino all’1 aprile 1999, quando apprese dai giornali che avrebbe dovuto lasciare il posto a Gian Carlo Caselli.

In un momento in cui la gestione del carcere appare assai complessa, anche per la mancanza di strutture e di operatori penitenziari, capaci ambedue di fronteggiare il costante aumento della popolazione detenuta (con gli stranieri inarrestabili nella corsa a raggiungere quota 50%), dovrebbe essere sentita come necessaria al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la presenza della figura di un "super-esperto".

Conoscendo la scrupolosa professionalità di Franco Ionta, non resta che augurarsi che sappia diventare tale, iniziando a conoscere il carcere anche dall’interno e scoprendo che ha urgente e non rinviabile necessità di modernizzarsi, abbandonando gli arcaici modi di conduzione, che - troppo spesso - consentono una gestione dittatoriale dei singoli direttori in maniera personalizzata, differente in ognuno dei 206 istituti penitenziari.

Non sarà facile utilizzando le leggi attuali. Serve che il legislatore abbia il coraggio di mettere mano a una radicale riforma, rivedendo la gestione dell’intero sistema (dal direttore al detenuto, passando per la polizia), la quale - a breve, medio e lungo termine - sappia dotare l’Italia di un sistema penitenziario veramente rieducativo. Soprattutto per garantire al cittadino la sicurezza, in virtù della limitazione della recidiva e dell’eliminazione dei cattivi maestri.

Giustizia: la Camera approva il decreto legge sulla sicurezza

di Vladimiro Polchi

 

La Repubblica, 16 luglio 2008

 

Militari nelle grandi città, stretta sui clandestini, ergastolo a chi uccide un poliziotto, più poteri a sindaci e prefetti. Passa alla Camera la fiducia sul decreto sicurezza, mentre procede a tappe forzate al Senato l’iter del lodo Alfano. La maggioranza, accantonato il dialogo, va avanti sulla strada tracciata.

L’obiettivo? Portare a casa entrambi i provvedimenti, prima della pausa estiva. Non solo. Il Guardasigilli annuncia a gran voce una "riforma organica" della giustizia per settembre, secondo le linee anticipate ieri da Repubblica. Inevitabile lo scontro con l’opposizione, mentre i sindacati delle forze dell’ordine confermano la mobilitazione davanti tutte le prefetture.

Sul decreto sicurezza, il governo Berlusconi ha incassato ieri la sua seconda fiducia. La Camera ha approvato l’emendamento con 322 voti a favore, 267 contrari e l’astensione dei sei deputati della componente radicale del Pd e dei due della Svp. Il testo riproduce le norme già approvate a fine giugno al Senato, con una sostanziale differenza: sparisce la "blocca processi", sostituita con una più "digeribile" facoltà di rinvio affidata alla discrezionalità dei magistrati.

Una modifica che non basta al Partito Democratico, pronto a ripetere questa mattina il suo No al voto finale sul decreto, che dovrà poi tornare al Senato: "Questo decreto - commenta Gianclaudio Bressa (Pd) - nasce non per la sicurezza dei cittadini, ma per la sicurezza a Berlusconi". Diversa la linea dell’Udc: i centristi votano contro la fiducia ma, dopo una riunione del gruppo, annunciano che si asterranno nel voto finale.

Altro fronte di scontro, la giustizia. Ieri, a palazzo Madama, la conferenza dei capigruppo ha deciso bruciare i tempi e far arrivare in aula il lodo Alfano (che prevede l’immunità per le quattro più alte cariche dello Stato) per lunedì, prevedendo il voto finale per martedì 22 luglio. "È la prima volta - nota il vice capogruppo Pd, Luigi Zanda - che non si vota il calendario dei lavori all’unanimità". Poi, in autunno, si penserà all’intera riforma della giustizia: separazione delle carriere, Csm sdoppiato, no all’obbligatorietà dell’azione penale.

Contro i provvedimenti del governo, si schierano i sindacati delle forze dell’ordine. Il segretario dell’Associazione Funzionari di Polizia, Enzo Marco Letizia, accusa la maggioranza di eludere col decreto sicurezza "l’urgenza di rendere certa la pena, perché i dati sui tempi medi di carcerazione per gravi reati restano sconfortanti: per rapina 515, per spaccio 536, per violenza sessuale 692, per mafia solo 736, per omicidio 2.495 (meno di 7 anni)". È la dimostrazione del "fallimento della legge Gozzini e del disinteresse del governo a porvi rimedio".

I sindacati criticano poi "l’operazione di facciata" dei 300 milioni stanziati per la sicurezza: "A fronte di un taglio di oltre un miliardo - spiega Claudio Giardullo del Silp-Cgil - il governo dichiara di voler istituire un fondo di trecento milioni, finanziato tra l’altro con le risorse destinate alle vittime della mafia". Donato Capece, segretario del Sappe, (sindacato della polizia penitenziaria) non nasconde la sua "delusione per questa maggioranza, alla quale tante donne e uomini delle forze dell’ordine hanno dato il proprio voto". I sindacati di polizia incontreranno oggi Maroni, poi (salvo sorprese) scatterà domani il volantinaggio contro il governo. Divisi invece i sindacati, sulla proposta del ministro della Difesa di estendere anche all’esercito i compiti di ordine pubblico oggi svolti dai carabinieri.

Giustizia: i contenuti del "decreto sicurezza" approvato oggi

 

Ansa, 16 luglio 2008

 

Rinvio di 18 mesi dei processi "meno gravi"; elenco dei procedimenti penali che dovranno essere trattati prima degli altri; uso dell’esercito per garantire la sicurezza nelle strade; articolo 416-bis anche per le mafie straniere; aggravante della clandestinità. Sono queste alcune delle novità principali contenute nel decreto sicurezza sul quale l’aula della Camera è chiamata a votare la fiducia al governo.

Corsia preferenziale processi - Ogni ufficio giudiziario dovrà stilare, alla luce della direttiva del governo, un elenco dei processi che avranno corsia preferenziale nella formazione dei ruoli di udienza. E di queste priorità individuate, i capi degli uffici dovranno informare Csm e ministero della Giustizia.

I processi che hanno la precedenza - Passano in secondo piano tutti i processi che sono stati colpiti dall’indulto, che riguardano cioè reati commessi fino al 2 maggio 2006. Mentre dovranno essere celebrati subito i processi che prevedono il rito per direttissima, quelli con imputati detenuti e quelli che riguardano reati più gravi come mafia e terrorismo, incidenti sul lavoro, circolazione stradale, immigrazione clandestina. E quelli che hanno una pena superiore ai 4 anni. In più, i capi degli uffici giudiziari, nell’individuare i criteri di rinvio, dovranno tener conto della "gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa".

Rinvio e prescrizione - Il rinvio non potrà superare i 18 mesi e sospende i termini di prescrizione. Non potrà essere disposto se l’imputato si oppone e se è già stata chiusa la fase del dibattimento. Gli elenchi delle priorità disposti dai singoli Capi degli uffici dovranno essere comunicati al Csm e al Guardasigilli che esprimerà la sua valutazione in sede di relazione annuale alle Camere sull’amministrazione della Giustizia. La parte civile potrà rifarsi in sede civile. In questo caso i termini a comparire saranno ridotti della metà e il giudice dovrà dare la precedenza.

Immigrazione clandestina - Tra i processi prioritari rientrano anche quelli per i reati relativi all’ingresso illegale in Italia (nel testo precedente non erano previsti).

Patteggiamento allargato - Per i processi colpiti da indulto si potrà ricorrere al patteggiamento, sempre che siano ancora in primo grado, e anche se sono scaduti i termini. Potrà essere chiesto anche se era già stato respinto in precedenza.

Uso esercito - Il ministro dell’Interno, di concerto con quello della Difesa e sentito il presidente del Consiglio, potrà ricorrere all’uso delle forze armate fino a 3.000 unità e per non più di sei mesi ogni volta che individuerà delle emergenze.

Pene più severe se identità è falsa - Inasprite le pene per chi dichiara una falsa identità a un pubblico ufficiale: reclusione da uno a sei anni (prima il massimo era tre anni). Introdotta la stessa pena anche per chi, per impedire l’identificazione, "altera parti del proprio o dell’altrui corpo".

Cambia 416-bis, condanne più dure e si apre a stranieri - Aumentano di due anni le pene per l’ associazione mafiosa e si estende il reato anche alle organizzazioni straniere.

Precedenza per infortuni sul lavoro - Nella formazione dei ruoli d’udienza i tribunali dovranno dare "priorità assoluta" ai reati commessi in violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Carcere per chi affitta a clandestini - Reclusione da sei mesi a tre anni per chi dà alloggio, "al fine di trarne ingiusto profitto", a immigrati clandestini. Prevista anche la confisca della casa. Inasprite le pene per chi dà lavoro a stranieri senza permesso di soggiorno.

Stretta contro ubriachi al volante - Modifiche al codice penale con la previsione di una pena da 3 a 10 anni di reclusione per l’automobilista ubriaco o drogato che causa incidenti mortali, con revoca della patente. Prevista anche la confisca del veicolo.

L’aggravante clandestinità - Pene aggravate di un terzo se a compiere reato è un soggetto presente illegalmente in Italia.

Ergastolo per chi uccide pubblico ufficiale - Introdotta l’aggravante che comporta l’ergastolo nel caso di omicidio di un ufficiale di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria.

Lotta a contraffazione - Sono introdotte norme specifiche in materia di distruzione delle merci contraffate sequestrate.

Espulsioni più facili per stranieri - Si ampliano i casi di espulsione su ordine del giudice per gli stranieri condannati. Sarà espulso chi è condannato a più di due anni di reclusione (prima era 10 anni). Obbligatorio l’arresto dell’autore, anche se non c’é flagranza, e si procede con rito direttissimo.

No a gratuito patrocinio per condannati mafia - I mafiosi già condannati non potranno più avvalersi del gratuito patrocinio.

Più coinvolgimento sindaci e polizie locali - Ai fini della sicurezza si danno più ampi poteri ai sindaci che potranno, per alcune misure, non rivolgersi neanche ai prefetti e la polizia di Stato dovrà coordinarsi anche con le polizie comunali e provinciali.

Giustizia: Alfano; dal Governo l'importante svolta antimafia

 

www.giustizia.it, 16 luglio 2008

 

"Oggi la Camera ha approvato misure antimafia che, per quantità e qualità, non hanno precedenti recenti. Ne sono felice e dico che proseguiremo su questa strada, approvando il disegno di legge sulla sicurezza, attualmente in discussione al Senato, che contiene altre importantissime norme con cui siamo convinti che piegheremo definitivamente Cosa nostra". Lo afferma il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, a proposito delle disposizioni contenute nel decreto sicurezza licenziato oggi dalla Camera.

"Un consistente pacchetto di misure antimafia, inserito dal Governo nel decreto sicurezza " prosegue Alfano " consentirà, infatti, una serie di interventi di straordinaria importanza sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, interventi che incidono, in particolare, sulle misure di prevenzione personali e patrimoniali, potenziandone la portata e gli effetti sia sotto il profilo sostanziale che procedurale"

"Tra i punti più qualificanti del pacchetto" sottolinea il guardasigilli "rientra l’aggravamento delle pene, sia nel minimo che nel massimo, per il delitto di associazione mafiosa. Un’altra importante novità, che tra l’altro comporterà anche un risparmio notevole per le casse dello Stato, consiste nel precludere, a mafiosi e trafficanti di stupefacenti, l’accesso al patrocinio gratuito, presumendo per legge che il loro reddito superi il minimo previsto per l’ottenimento di questo beneficio".

"Altre rilevanti disposizioni" continua Alfano "riguardano l’attribuzione, alla Direzione Nazionale Antimafia, della competenza per le indagini e la richiesta di applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di soggetti appartenenti ad associazioni mafiose; l’estensione delle stesse agli autori di altri gravi reati, come lo spaccio, il traffico di sostanze stupefacenti, il sequestro di persona a scopo di estorsione; l’ammissione della richiesta e dell’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personali e patrimoniali".

"Grazie alle nuove norme" fa notare il ministro "sarà possibile proseguire o avviare, nei confronti degli eredi o degli aventi causa, il procedimento per la confisca dei beni, provento di attività illecite, anche dopo la morte della persona condannata per reati di mafia e procedere alla confisca dei beni di cui tale soggetto risulti essere titolare tramite interposta persona, fisica o giuridica. Si potrà, inoltre, prevedere che la confisca possa essere disposta su somme di denaro o altri beni del valore equivalente ai beni sottratti alla procedura e presumere, salvo prova contraria, la natura fittizia del trasferimento dei beni, operato nei due anni precedenti alla confisca. Viene, infine, introdotta" conclude il guardasigilli "la presunzione di illecita provenienza per tutti i beni il cui valore sia sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati ai fini del pagamento delle imposte o comunque rispetto alla propria attività economica".

Giustizia: Vizzini (Pdl) presenta Ddl per inasprimento 41-bis

 

Apcom, 16 luglio 2008

 

Aumento di un anno della durata dei provvedimenti carcerari emessi dal ministro della giustizia, inversione dell’onere della prova e spostamento della competenza funzionale al Tribunale di sorveglianza di Roma per tutti i ricorsi. Sono questi i tre punti della riforma del 41 bis dell’ordinamento penitenziario, il cosiddetto carcere duro, contenuti nel disegno di legge presentato oggi al Senato dal Presidente della prima Commissione Affari Costituzionali, Carlo Vizzini.

La proposta, si legge in una nota, tiene conto di una serie di disfunzioni e di interpretazioni di segno diverso operate dai Tribunali di sorveglianza che, in molti casi, hanno dichiarato l’inefficacia dei decreti applicativi o di proroga del regime di carcere duro. "Ho tenuto conto - spiega Carlo Vizzini - della richiesta di un nuovo intervento legislativo su questo tema delicato venuta anche dalle Procure della Repubblica più impegnate sul fronte della lotta alla mafia e dalla stessa Direzione nazionale antimafia".

Il primo articolo stabilisce che i provvedimenti adottati dal ministro hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a tre, mentre l’attuale normativa limita tale durata ad un minimo di un anno e ad un massimo di due. Con la stessa disposizione si è poi stabilito che i provvedimenti del ministro sono prorogabili "salvo che risulti la prova della cessazione della partecipazione o comunque di ogni altra forma di collegamento o di contatto del detenuto o dell’internato al sodalizio criminoso di appartenenza ovvero ad altre associazioni criminali, terroristiche o eversive".

"Questa modifica - aggiunge Vizzini - introduce un’inversione dell’onere della prova perché per sottrarsi ai provvedimenti di proroga sarà necessario che sia il detenuto a provare la cessazione della partecipazione all’associazione criminale, mentre la normativa vigente prevede in capo all’Amministrazione l’obbligo di verifica della permanenza del soggetto nel sodalizio criminale".

Infine la previsione di una competenza funzionale in capo al Tribunale di Sorveglianza di Roma evita che vi possa essere in materia di reclami dei detenuti una eccessiva eterogeneità di orientamenti giurisprudenziali da parte dei diversi tribunali. "Si tratta - ha concluso Vizzini - di un provvedimento che rende più severo il 41 bis, impedendo che boss mafiosi, che esercitano ancora un potere all’interno delle organizzazioni e tentano per questo di dialogare con l’esterno possano essere consegnati ad un regime di carcerazione ordinaria beffando lo Stato e tutti coloro che si battono quotidianamente in prima linea per debellare questo cancro che rappresenta ancora oggi una ferita per la nostra democrazia. Questo provvedimento si unisce alle altre iniziative legislative da me introdotte all’interno del decreto sulla sicurezza in materia di prevenzione personale e patrimoniale e di confisca dei patrimoni mafiosi che rappresentano uno strumento per svuotare le casseforti delle mafie".

Giustizia: il "diritto di polizia" e i giudici ciechi di Bolzaneto

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 16 luglio 2008

 

Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un "campo" dove esseri umani "provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali" possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative.

Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato "entro stasera vi scoperemo tutte". Agli uomini, "sei un gay o un comunista?". Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C’è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un "trauma testicolare". C’è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l’altro piede".

C’è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I.M.T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.

Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B.B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". Percuotono S.D. "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti". S.P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano.

J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere "tranne che in un caso" l’inumanità degli abusi e delle violenze.

Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l’ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere "contro i custoditi" atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.

È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo " in venti anni " di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.

Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico. Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti " governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune " di archiviare il caso come un imponderabile "episodio" (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa "degli altri". Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che " per tre giorni " ci è già appartenuta.

I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell’autentica posta del processo fin dal primo momento. "Bolzaneto è un "segnale di attenzione"", hanno detto. È "un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere".

I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l’ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l’attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inumana, "tutto è possibile". Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che "bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi".

È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato "gli atti di tortura", "i comportamenti crudeli, disumani, degradanti".

E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c’è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati " dove i corpi vengono rinchiusi " dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto).

L’invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti e soprattutto le istituzioni" a guardarsi da ogni minima tentazione d’indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d’eccezione che lasciano cadere l’ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell’orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, Ministro di Giustizia dell’epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella "posizione del cigno" contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.

"Bolzaneto" è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della "sicurezza", dell’ordine pubblico, del "pericolo concreto e imminente", della "sicurezza dello Stato" si potesse configurare un’inattesa zona d’indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio.

Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un "diritto di polizia" che prevede "anche per i bambini" lo screening etnico, la nascita di "campi di identificazione" che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il "campo". Avverte che in questi luoghi "fuori della legge", dove le regole sono sospese come l’umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.

Giustizia: Cassazione; indultino è applicabile a cumulo pene

di Giovanni Negri

 

Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2008

 

L’indultino si applica anche nei confronti di chi è stato condannato con cumulo della pena per una pluralità di reati. Basta che abbia scontato la pena per il delitto più grave, che avrebbe impedito di usufruire del beneficio.

La sospensione della pena nel limite massimo di due anni, introdotta con la legge 207/2003, ha infatti una natura analoga a quella delle misure alternative alla detenzione, essendo collegata a un giudizio di meritevolezza e al percorso di recupero sociale. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 27786 della prima sezione penale depositata l’8 luglio. La Cassazione ha così respinto l’interpretazione del tribunale di sorveglianza di Napoli che aveva negato il beneficio a un detenuto perché nel provvedimento di cumulo che aveva determinato la condanna per alcuni reati era compreso anche un delitto di quelli che impedivano la concessione della sospensione della pena.

La Corte ha aderito alla tesi prospettata dalla difesa che aveva sostenuto che la pena inflitta per il reato di ostacolo all’indultino doveva essere considerata già scontata. E ha fatto presente come la Corte costituzionale ha già avuto modo di precisare che possono essere concesse misure alternative alla detenzione ai condannati per gravi reati quando essi hanno scontato per intero la pena per i delitti più gravi e sono ancora detenuti per quelli più lievi. Si tratta di una linea cui si sono uniformate in seguito le stesse Sezioni unite penali della Cassazione quando hanno deciso che, nel corso dell’esecuzione, il cumulo giuridico delle pene inflitte per il reato continuato è divisibile se si tratta di ottenere benefici penitenziari per quanto riguarda fattispecie penali meno gravi.

A essere bocciata dalla Cassazione è stata poi la tesi del tribunale napoletano secondo la quale la scissione del cumulo di pene è possibile per l’applicazione di misure alternative e non anche per la sospensione condizionata della pena. Si tratta però, sottolinea la sentenza, di una distinzione che non ha ragion d’essere. Anche in questo caso soccorre la giurisprudenza della Consulta. Che, di recente, ha, in più occasioni, messo in luce la distinzione tra sospensione condizionata della pena (indultino) e indulto vero e proprio.

Al primo è infatti "insito" un giudizio di meritevolezza in relazione al percorso di recupero sociale avviato dal detenuto. Per questo la Consulta ha, nel 2005 (sentenza n. 278) dichiarato l’illegittimità della norma della legge istitutiva dell’indultino che negava il beneficio al detenuto ammesso a una misura alternativa alla detenzione. Come pure milita in questa direzione la successiva pronuncia (n. 255/2006) con la quale era stata "bocciata" l’automaticità della sospensione condizionata della pena al condannato non ammesso a una misura alternativa alla detenzione perché del tutto scollegata da una valutazione positiva del trattamento penitenziario.

La Cassazione poi ha avuto modo di precisare un orientamento favorevole al legame tra meritevolezza e sospensione della pena, quando, per esempio, è stato chiarito che il beneficio non si applica ai condannati ai quali è stata revocata una misura alternativa alla detenzione per un fatto non incolpevole. O quando è stata considerata legittima la revoca del beneficio, anche al di fuori dei casi esplicitamente previsti dalla legge istitutiva, quando ne risultava impossibile la prosecuzione in rapporto ai parametri fissati per le misure alternative.

Giustizia: troppi avvocati, 35mila saranno cancellati da Albi

 

Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2008

 

Se nel Regno Unito ci sono 117mila avvocati (1 ogni 342 abitanti) e in Francia 44mila (1 ogni 1.465 abitanti), in Italia c’è un vero e proprio esercito di ben 210mila avvocati, vale a dire 1 ogni 283 abitanti. E se il problema dell’esubero nella professione è annoso, in questi giorni il Consiglio Nazionale Forense sta cercando di porre un limite all’iscrizione agli albi tramite un controllo più attento sull’effettivo esercizio della professione. Da Genova, dove il Consiglio è riunito, il Presidente Guido Alpa ha annunciato che ci sarà una "scrematura" di circa 35mila avvocati dagli albi, per mancato esercizio della professione o per denunce dei redditi inferiori a 7mila euro l’anno e non giustificate.

Alla presentazione della Relazione sull’attività del Consiglio Nazionale Forense per il 2007, Alpa aveva detto che "intendiamo correggere un sistema che è stato malamente riformato, con un provvedimento temporaneo che è diventato permanente, come accade puntualmente nel nostro Paese; ed intendiamo, correlativamente, rafforzare i poteri degli Ordini e del Cnf in materia di registrazione e controllo, in modo che i giovani che si avviano alla professione forense possano entrare non in una giungla, ma in un settore di lavoro efficiente, ancorché complesso".

Oltre a questo aspetto, il Consiglio Nazionale Forense a Genova discuterà anche di altri problemi dell’avvocatura. "Pensiamo - ha detto Alpa - che la carta vincente da giocare per l’avvocatura sia quella di offrire ai clienti privati ed alle imprese prestazioni di elevata qualità e sostenere così lo sviluppo del Paese e migliorare i rapporti sociali, anche familiari". Alpa, che ha annunciato un incontro con il ministro martedì per discutere del processo civile, ha pure parlato della necessità di tutelare i diritti individuali fondamentali e quelli dei deboli (immigrazione, reati familiari, promozione delle pari opportunità e tutela del consumatore e dell’ambiente).

San Gimignano (Si): detenuto s'impicca, le indagini in corso

 

Ansa, 16 luglio 2008

 

Alla fine è successo l’irreparabile: un detenuto si è impiccato nel carcere di Ranza a San Gimignano. Il gesto sarebbe avvenuto stamani, ma non si hanno altri particolari in merito. Sconosciuti al momento l’identità dell’uomo e i motivi che l’avrebbero portato a compiere il tragico gesto. Le autorità si sono trincerate dietro uno strettissimo riserbo per poter svolgere le indagini necessarie a far luce si quanto accaduto. Il Carcere di Ranza, una struttura carceraria ormai al collasso per la mancanza di personale, le cattive condizioni igienico sanitarie, la carenza cronica di acqua e il problema logistico legato all’ubicazione (la fortezza al centro di San Gimignano) era balzato alle cronache solo 10 giorni fa per l’aggressione a un assistente di polizia penitenziaria da parte di un detenuto. Il grave fatto era stato denunciato dalle organizzazioni sindacali, che avevano chiesto un intervento politico immediato. Oggi la tragica notizia.

Bologna: da ottobre un panificio all’interno della "Dozza"

 

Dire, 16 luglio 2008

 

Da ottobre nascerà un panificio all’interno della "Dozza". Obiettivo è insegnare un mestiere ai detenuti e creare un’azienda competitiva. Ma i detenuti restano sempre più del doppio del numero consentito dalla legge.

Dal prossimo ottobre a Bologna si potrà mangiare il pane del carcere. Alla Dozza, infatti, nascerà un vero e proprio panificio gestito da detenuti fornai e i loro prodotti saranno distribuiti nei punti Camst a prezzi competitivi. L’obiettivo, infatti, è da un lato insegnare un mestiere che possa agevolare il rientro in società dei carcerati, dall’altro mettere in piedi un’attività commerciale che funzioni e sia competitiva sul mercato. L’idea è venuta all’assessorato comunale al Commercio che si é rivolto alla Fondazione Del Monte per le risorse necessarie a far partire il progetto, cioè 200.000 euro per costruire il forno nel carcere.

Non un centesimo di più, però, perché, è stata l’indicazione della Fondazione, non si tratta di fare elemosina, ma di creare un’azienda: così il panificio è stato dato in gestione ad un nome storico della città, il fornaio Valentini, che insegnerà ai detenuti ad impastare ed infornare sfilatini e rosette. La produzione inizialmente sarà di due quintali di pane al giorno già prenotati dalla Camst, in modo da garantire almeno il pareggio tra spese e ricavi.

Ma l’obiettivo è raggiungere i cinque quintali, allargando il mercato anche ad altri operatori. I carcerati, tutti uomini, che lavoreranno al forno impareranno così un mestiere, una condizione fondamentale che abbatte il rischio di recidiva dal 65 al 17%. Inoltre, i fornai detenuti rappresenteranno un piccolo segno in controtendenza agli ultimi tagli del Governo che ridurranno di un terzo, su 150, i posti di lavoro all’interno della Dozza, dove, invece, i carcerati restano sempre più del doppio del numero consentito dalla legge.

Opera: gelateria e fattoria nel carcere, i prodotti in vendita

 

Ansa, 16 luglio 2008

 

Nel carcere di massima sicurezza di Opera, nel Milanese, dove è detenuto anche Totò Riina, sono stati inaugurati un laboratorio di gelateria artigianale e un allevamento di quaglie per produrre uova, chiamati rispettivamente "Aiscrim... prigionieri del gusto" e "La fattoria di Al Cappone". Con queste due singolari iniziative la Casa di reclusione intende favorire il recupero sociale dei detenuti, i cui prodotti saranno presto in vendita.

"Noi siamo conosciuti all’esterno, a torto o a ragione, come un carcere duro, ma vogliamo coniugare l’esigenza di sicurezza alla riabilitazione sociale", ha spiegato Giacinto Siciliano, direttore dell’istituto penitenziario, presentando i 300 metri quadri della struttura adibiti alla produzione dei gelati e l’orto esterno, situato proprio davanti ad un’ala del carcere, dove si trovano serre, coltivazioni e soprattutto la capanna per l’allevamento delle quaglie.

I detenuti-lavoratori, una ventina per ora e assunti regolarmente da una cooperativa e un’azienda, sono per la maggior parte in regime di alta sicurezza. "Son dentro da dieci anni e me ne restano ancora tre - ha raccontato Elio, pasticciere - quando uscirò mi piacerebbe trovare lavoro in questo settore".

Bologna: da "Avvocato di strada" una guida per i clochard 

 

Ansa, 16 luglio 2008

 

L’associazione di volontariato "Avvocato di strada" che offre assistenza legale gratuita ai clochard ha realizzato la nuova guida "Dove andare per?" dedicata alle persone senza fissa dimora. Le indicazioni sono riferite alla città di Bologna. Ogni anno, l’associazione aggiorna la guida indicando ai senza dimora di dove andare per vestirsi, lavarsi, mangiare, trovare lavoro e assistenza legale.

La guida sarà presentata domani 16 luglio presso la sede bolognese di "Nuovamente Centro Multimediale Progetta il tuo Spazio" ed avrà una tiratura di diecimila copie. Nel corso dell’anno è prevista la distribuzione gratuita in stazione, nei centri diurni, nei dormitori, nelle mense per i poveri, presso le sedi dei servizi sociali, e in tutti i luoghi frequentati dalle persone senza tetto.

Una parte di queste copia entrerà a far parte del "Kit del detenuto", distribuito dal Comitato locale per l’Area dell’esecuzione penale a chi è in uscita dal carcere. La realizzazione della guida "Dove andare per?" si propone l’obiettivo di creare una rete cittadina che possa coinvolgere associazioni di volontariato, servizi sociali, centri per i diritti, sindacati, per dialogare sui temi dell’esclusione sociale

Bergamo: da Provincia 5 mln per il reinserimento lavorativo

 

www.agenfax.it, 16 luglio 2008

 

La Provincia di Bergamo scende in campo per il reinserimento lavorativo di disoccupati, giovani, extracomunitari disoccupati e categorie svantaggiate. Attraverso il nuovo Programma di reimpiego 2007-2009, presentato questa mattina dall’assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro, Giuliano Capetti infatti, verranno messi a disposizione, 4.789.729 euro, risorse che saranno utilizzate secondo il meccanismo delle doti e permetteranno a circa 600 soggetti di tornare nel mondo del lavoro.

Ciascuno dei soggetti beneficiari del bando potrà usufruire di una dote, di circa 5 mila euro, ergo un insieme di risorse che potrà utilizzare rivolgendosi a un ente accreditato per i servizi al lavoro, tra cui i dieci centri per l’impiego della Provincia di Bergamo, per innalzare le proprie competenze professionali ed essere quindi ricollocato nel mondo lavorativo.

Ogni operatore accreditato per i servizi al lavoro può prenotare fino a un massimo di 20 doti mensili.

"La Provincia di Bergamo ha avviato il Programma di reimpiego 2007-2009 mettendo a disposizione circa 5 milioni di euro a favore di disoccupati, persone in cassa integrazione, categorie in difficoltà - ha spiegato l’assessore Giuliano Capetti -. Attraverso il meccanismo della dote, queste persone potranno partecipare a percorsi di riqualificazione professionale, aggiornamento professionale, finalizzati al reinserimento lavorativo. I 5 mila euro della dote potranno essere spesi nelle agenzie per l’inserimento lavorativo e negli Enti accreditati dalla Regione".

I destinatari del Programma sono: lavoratori e lavoratrici in mobilità (ai sensi della L. 223/91 o della L. 236/93), anche in deroga; lavoratori e lavoratrici collocati in Cassa Integrazione Guadagni straordinaria, anche in deroga; lavoratori e lavoratrici inoccupati o disoccupati (iscritti al Centro per l’impiego), in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti; disoccupate/disoccupati da più di 12 mesi (se giovani fino a 29 anni da più di 6 mesi); disoccupate/i over 40; donne in reinserimento dopo due anni di inattività; giovani fino a 25 anni inoccupati o disoccupati, privi di titolo di studio di secondo ciclo; extra-comunitari disoccupati con permesso di soggiorno in scadenza entro sei mesi e immigrati disoccupati o inoccupati provenienti dai paesi di nuova Europa entrati a far parte dell’Unione Europea il 1° gennaio 2007); categorie appartenenti alla svantaggio non certificato: persone disoccupate non rientranti nella tutela di cui alla L. 68/99 e in difficoltà occupazionale in quanto: portatrici di handicap fisici, psichici o sensoriali e/o oggetto di processi di emarginazione sociale, soggette a processi di emarginazione sociale, in quanto ex detenuti o scarcerati per indulto, riconosciute come affette, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale, persona che non abbia ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente da quando è stata sottoposta a una pena detentiva o a un’altra sanzione penale, genitori con famiglia monoparentale con uno o più figli a carico.

I 5 mila euro della dote serviranno per lo sviluppo del Piano di Intervento Personalizzato (500 euro) quale strumento che permetterà l’individuazione delle azione e le misure finalizzate all’inserimento lavorativo o alla creazione d’impresa. Il reinserimento nel mercato del lavoro potrà avvenire attraverso un contratto a tempo indeterminato o determinato di almeno 9 mesi.

Seguirà la formazione (2.500 euro) e quindi la partecipazione a tirocini, visite guidate in aziende e formazione in azienda. La terza fase sarà l’inserimento vero e proprio attraverso l’accompagnamento lavorativo (2.000 euro) o attraverso l’accompagnamento alla creazione di impresa (2.500 euro).

Oltre alla dote, il Programma prevede altre misure di sostegno quali lo stanziamento di incentivi economici alle imprese in caso di assunzione, da realizzare attraverso azioni individuali o di gruppo volte all’analisi del contesto organizzativo e del ruolo professionale, oltre che al sostegno delle competenze del soggetto.

Saranno inoltre erogati contributi per il sostegno all’avvio di un progetto imprenditoriale nell’ottica della promozione dell’auto imprenditorialità sia attraverso percorsi formativi per il sostegno nella fase di start-up sia attraverso incentivi economici. Tutte le attività previste e le collegate azioni di ricollocazioni dovranno concludersi entro il 30 settembre 2009.

Verona: il carcere peggiore che ho visto… e non c’è rimedio

 

L’Arena di Verona, 16 luglio 2008

 

La testimonianza. Il racconto di un ex detenuto che ha passato 17 anni dietro le sbarre tra l’Italia e la Francia. "Troppi detenuti, scarsa possibilità anche di lavarsi".

"In carcere a Verona si sta malissimo. È il carcere peggiore in cui uno possa finire. Si dice che la detenzione dovrebbe servire a reinserire nella società. Falso. Se passi tutta la tua giornata in quattro in una cella (nata per uno) senza poter lavorare e fare sport alla fine ti annienti. Ai miei tempi era il posto dove incontravi tutti gli ignoranti del mondo, sia detenuti che guardie. Queste neanche sapevano leggere e scrivere. Scrivevo per loro le lettere da mandare a casa. Adesso i detenuti sono gli ignoranti di sempre, i poliziotti sono migliorati, ma fanno un lavoro orrendo, con turni massacranti, saltando ferie".

A parlare è un "veterano" delle carceri di Italia, ma anche d’Europa, F.D.V., 60 anni, 15 dei quali trascorsi tra Verona e Spoleto, San Gimignano e Volturno, Sollicciano e tanti altri ancora. Ai 15 va aggiunto l’anno e mezzo all’estero. I reati sempre gli stessi: rapina, furto, traffico internazionale di stupefacenti, è entrato in tutte le operazioni Arena.

La "carriera" di D.V. è cominciata ufficialmente quando aveva 17 anni e venne arrestato la prima volta: "Si accorsero che ero minorenne tre mesi dopo. Io non avevo motivo di dirlo, nessuno me lo aveva chiesto, e tutto sommato stavo bene in cella con i miei amici".

Quella volta D.V. venne preso, ma il suo primo furto lo commise con un amichetto a otto anni: "Rubammo moneta dal portafogli del bidello della scuola. Non avevano prove contro di noi, ma ci attribuirono la paternità del colpo. Ci misero ai "lavori forzati". Tutte le piante delle Massalongo le abbiamo piantumate noi due".

"Io di carceri ne ho fatti tanti, per questo posso affermare che il peggiore è quello di Verona. Spesso mi sono sentito dire che la colpa era del fatto che non c’era un direttore fisso, o che cambiava spesso. Sta di fatto che finire a Montorio è peggio che andare in un carcere di massima sicurezza. E io ne so qualcosa. A Spoleto per esempio, potevo fare footing tutti i giorni e pure la doccia. Qui hai diritto a tre docce alla settimana e di fare sport non se ne parla proprio. Eppure aiuterebbe tanto, i detenuti sarebbero più tranquilli".

Il nome dei D.V., padre e figlio era comparso lo scorso anno anche nell’operazione Iena, un’indagine della squadra mobile che aveva individuato nei due gli autori di svariate rapine.

"Quando mi sono visto sul giornale mi sono molto sorpreso", dice D.V., "all’epoca ero detenuto in carcere in Francia, sempre per traffico internazionale di stupefacenti. Io con quelle rapine non c’entro proprio. Tra l’altro attribuirono a mio figlio una telefonata in cui gioivamo dell’omicidio di due poliziotti alla Croce Bianca. Non è così. L’intercettazione non è tra me e lui, infatti io all’epoca ero in carcere, ma tra lui e la sua ragazza, che poi è morta di overdose. A lei che raccontava cos’era successo, lui disse che quelle cose non gli importavano e che era di loro due che avrebbero dovuto parlare".

Nei vari periodi di detenzione, il più lungo meno di due anni, D.V. ha fatto anche incontri eccellenti: "Al Campone insieme a me c’era anche quel Lele Mora oggi tanto famoso. Era dentro per droga e nessuno lo voleva in cella. Alla fine dissi di metterlo da me. Lui mi promise che una volta fuori ci saremmo incontrati e mi avrebbe dato una mano. Mi diede tre appuntamenti e non si presentò mai".

D.V. appartiene a quella mala di una volta in cui bastava la parola data: "Non c’era neanche bisogno di darla, per la verità", dice lui, "con alcuni eravamo come fratelli. Come Antonio Possato, morto, Pier Luigi Montecchio per esempio. Mi piacerebbe tanto riabbracciarlo, non so neanche se è vivo o morto. Ha quattro omicidi sul groppone. A Brescia uccise un poliziotto carcerario per tentare la fuga, da Reggio Emilia è scappato. Andai io a prenderlo, scappò anche da Treviso e anche lì ad aspettarlo c’ero io. Chissà che fine ha fatto...".

D.V., il ragioniere mancato, nel senso che è arrivato alla terza superiore, ma così lo chiamavano quando faceva lo "spesino" a Montorio, sostiene di aver fatto fallire la ditta che aveva vinto l’appalto del bar: "Alzavo il numero dei caffè o dei panini, facevo le moltipliche e mi rendevo conto che non se ne accorgevano. Ero riuscito a fare una cresta per 35 milioni di vecchie lire. Nessuno se ne accorse per mesi e la spesa mia e degli amici era gratis".

Brescia: mostra "Lolmocolmo", opere realizzate da detenuti

 

Il Giornale di Brescia, 16 luglio 2008

 

Detenuti - artisti: verrà inaugurata oggi a "Lolmocolmo" di Corso Magenta 43/bis una mostra degli elaborati realizzati da alcune persone ristrette negli Istituti penali di Brescia e Verziano. Si tratta di un originale ed interessante tentativo di avvicinare la comunità cittadina con quella carceraria compiuto dagli animatori del concept shop di corso Magenta, Aurelia e Claudio, in collaborazione con l’Associazione Carcere e Territorio di Brescia in un contesto evocativo e fortemente simbolico della possibilità di un cambiamento per mettere a disposizione di chi voglia davvero provarlo un percorso di crescita.

Gli elaborati in mostra sono il frutto dell’impegno creativo e soprattutto dello sforzo emotivo messo in atto dai partecipanti al concorso "Evadere con l’arte", che nei mesi di maggio e giugno è stato proposto e realizzato negli istituti di pena della nostra città.

L’iniziativa è stata dedicata alla memoria del giudice Giancarlo Zappa, Magistrato di Sorveglianza, fondatore dell’Associazione Carcere e Territorio, che è promotrice dell’evento insieme alla Consulta della Vita Sociale e Politiche della Famiglia del comune di Brescia e alla Direzione degli Istituti penali di Brescia.

Il concorso, cui hanno partecipato volontariamente alcune persone recluse a Brescia, ha costituito un’ occasione per far conoscere alla società esterna non tanto i volti degli autori dei manufatti, che resteranno ovviamente sconosciuti, quanto la voglia di esprimere sentimenti e la creatività di tali persone, che invece vogliono dirompentemente superare la barriera delle mura del carcere e, talvolta, come in questo caso, almeno in parte, ci riescono.

Con materiali semplici ed impensabili hanno realizzato strumenti attraverso i quali poter esprimere la propria personalità e comunicare le proprie emozioni, come bene hanno messo in luce le motivazioni all’assegnazione dei premi, redatte dai componenti la Giuria chiamati a valutare le opere.

Fra di essi la dottoressa Elena Lucchesi, dirigente dei Civici Musei bresciani, la dottoressa Elena Palladino, membro della Consulta per la vita sociale, la professoressa. Carla Alberti, insegnante in carcere, il dottor Angelo Russo educatore penitenziario a Canton Mombello, Claudio Bianchi ed Aurelia Alberti de "Lolmocolmo", Fausto Lorenzi del "Giornale di Brescia", Francesco De Leonardis di "Bresciaoggi" e Roberta Possi per Act

"Sulla scorta dell’esempio di Giancarlo Zappa che, - riferiscono Camilla e Clara, le volontarie di Act che hanno curato l’iniziativa - abbiamo tentato di ricucire lo strappo che si viene a creare nella società quando è commesso un reato, Act opera per rimettere in comunicazione due comunità che pur contigue, quella carceraria e quella esterna, si ignorano e spesso non riescono a superare la diffidenza l’una dell’altra".

Per ricordare i preziosi insegnamenti di Zappa, per tentare ancora una volta questo riavvicinamento - seppur simbolico - tra il "dentro" e il "fuori", gli elaborati saranno esposti a "Lolmocolmo", nella sede di Corso Magenta 43/bis da oggi alle ore 12. L’ingresso è libero, negli orari di apertura.

Pordenone: il Cappellano; un carcere della doppia condanna

 

Il Gazzettino, 16 luglio 2008

 

Parla il sacerdote del Castello: condizioni disumane in cella e una quotidianità senza sbocchi. "Me lo ripetono in molti, ogni giorno. Le constatazioni più amare non si basano tanto sulle condizioni disumane della vita in cella, quanto sulla sterile quotidianità della "non esistenza", che si gestisce ormai dentro un’inesorabile "normalità" priva di sbocchi. La condanna peggiore, allora, diventa quella alla noia. Ti fa sentire un uomo inutile". Parola di don Piergiorgio Rigolo, classe 1942, da poco più di quattro anni cappellano del Castello di Pordenone. Quotidianamente il sacerdote nato a Pescincanna di Fiume Veneto incontra i reclusi e si confronta con loro.

Fuori dalle vecchia mura di piazza della Motta infuria da anni la polemica sul nuovo carcere, idealmente sballottato tra San Vito, la Comina e altre possibili localizzazioni. E dentro? "Questo dibattito sulla struttura non provoca alcuna forma d’interesse reale in chi sta scontando la sua pena - il prete allarga le braccia -. Certo promiscuità e convivenza forzate pesano sui rapporti. Tuttavia le difficoltà sono comunque molteplici. Dipendono innanzitutto dalla tipologia del reato commesso e dalla storia personale dei soggetti. C’entrano pure la cultura e la religione. Soprattutto, questo istituto non è in grado di offrire spazi d’evoluzione in vista dell’uscita e della conseguente mutata condizione sociale".

Davanti a don Rigolo sono passati più di mille volti diristretti. "Tra loro - riassume la storia di 50 mesi - c’è chi mi ha colpito per l’età e chi per la situazione d’isolamento pressoché totale vissuta nei confronti degli altri. Ho conosciuto giovani vittime di un dissesto psicologico gravissimo e uomini in preda alla disperazione per lo status delle loro famiglie. Ma la resistenza culturale più frequente la noto fuori dal Castello: si parla dei carcerati solo in termini di minaccia alla sicurezza, come se non appartenessero più alla società. L’alternativa è un’indifferenza generalizzata, che mortifica anche il nostro animo e la nostra cultura".

Gli incontri di ogni giorno provano a spezzare il muro. "La galera - osserva il religioso - dovrebbe privare le persone soltanto della loro libertà. Nella mia esperienza posso invece affermare che non si limita a questo". I passaggi sono tre, saldamente collegati tra loro. "La detenzione degrada la mente - è la sua tesi -. In troppi casi non si pensa più, se non a reati, avvocati, processi, denaro che non c’è. In seconda battuta distrugge il fisico, che non si muove e non lavora. Quindi inaridisce il cuore. Si deformano l’emotività e il rapporto con il proprio corpo".

Rieducare resta la sola via maestra per evitare il proliferare della criminalità. "La giustizia non può limitarsi a punire - sottolinea don Piergiorgio -. Deve occuparsi della riparazione del danno e della possibile ricomposizione degli strappi sociali, ossia di vittime e "colpevoli" che a volte sono altrettanto innocenti".

Cosa succederà al Castello nei prossimi mesi? "La direzione della nostra Casa circondariale e il suo settore educativo, in collaborazione con il Dsm di Pordenone, intendono avviare un programma d’incontri di gruppo per i cosiddetti sex offender - anticipa il cappellano -. Ciò nella logica del mutuo aiuto, con l’obiettivo di favorire consapevolezza e responsabilità del proprio comportamento. Questi reclusi vivono isolati non soltanto dall’esterno, ma anche all’interno del penitenziario, nella sezione protetta. Esempi positivi legati a progetti del genere sono già stati registrati in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Toscana".

Poi ci sono le attività di comunità multifamiliare, per chi vive o ha vissuto l’esperienza detentiva di un parente, ospitate in seminario. Lo stesso sacerdote organizza un programma settimanale di formazione culturale nel carcere, con appuntamenti tenuti da specialisti. Infine, per i detenuti "protetti" ogni sabato mattina gli Alcolisti Anonimi presentano una forma di terapia di gruppo.

Torino: ha ucciso per lite a bar, ora sogna di fare lo scrittore

 

Asca, 16 luglio 2008

 

Otto anni fa ha ucciso un amico per una banale lite da bar, per una partita a "scala 40" finita male: quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo. Ora lo chiamano "Dottore" ed è libero di lavorare all’esterno del carcere, dopo aver goduto di permessi per frequentare le lezioni all’università.

La nuova vita di Marco Purita, 31 anni, è stata sancita ufficialmente ieri mattina nel carcere torinese delle Vallette, dove ha discusso la sua tesi di laurea in Scienze Politiche su "Nietzche. L’antipolitico e i totalitarismi del Novecento". La sua è la prima tesi specialistica discussa all’interno del penitenziario, nell’ambito di un programma di recupero che ha già consentito ad alcuni detenuti di conseguire una laurea triennale. Ieri mattina del passato di Purita non si parlava. L’educatrice che l’ha seguito in questi anni ha detto così: "Lui non avrebbe nemmeno voluto essere citato, per rispetto nei confronti di chi ha subìto il reato. Per quanto sia pentito e abbia intrapreso un percorso virtuoso non ritiene giusto stare sulla ribalta, mentre si riaprono le ferite delle sue vittime".

Gli archivi di cronaca rimandano all’ottobre del 2000, quando a Seregno un giovane di 23 anni, con piccoli precedenti penali, uccide con quattro colpi di pistola calibro 7.65 Tito Laino, 25 anni, che l’avrebbe deriso dopo averlo battuto a "scala quaranta".

Il giorno dopo, Purita aveva di nuovo aggredito nel bar l’amico con calci e pugni. I due erano stati convinti a far pace e Tito Laino si era offerto di far aggiustare la catenina d’oro e il maglione del rivale, rotti durante la lite. Marco Purita aveva finto di accettare. E invece, l’indomani, l’agguato mortale sotto casa. I carabinieri lo hanno poi rintracciato in un albergo di Carate e arrestato per omicidio volontario. Tempo dopo il Tribunale di Monza l’aveva condannato a 16 anni di carcere.

Nel 2003 Purita aveva chiesto il trasferimento a Torino, proprio per poter frequentare Scienze Politiche grazie al programma per detenuti. In questi anni ha anche potuto usufruire di permessi per frequentare le lezioni in facoltà e le biblioteche dell’università. Inoltre il neodottore usufruisce di una borsa lavoro che gli consente di lavorare parttime all’esterno del carcere. Il suo sogno, ha rivelato ieri mattina, è di diventare uno scrittore. Per il momento, aspetta di finire di scontare la propria pena.

Livorno: cane depresso, concessa visita al padrone detenuto

 

La Repubblica, 16 luglio 2008

 

Da mesi Lola, un boxer di 11 anni, è malata di nostalgia e solitudine. Non riesce a sopportare l’allontanamento dal padrone, chiuso nel carcere delle Sughere. Per questo il veterinario ha chiesto e ottenuto che il cane, malato di depressione, incontrasse il suo amico.

Soffriva Lola, soffriva terribilmente senza il suo padrone. Troppi mesi senza vederlo, lei abituata a stare sempre con lui. Col suo pelo marroncino e gli occhioni neri, la boxer di 11 anni, era distrutta dalla nostalgia: D.M., 41 anni, da gennaio è detenuto nel carcere delle Sughere di Livorno. E la cagnetta era depressa. Non mangiava più, era triste. Finché, ieri mattina ha rivisto dopo mesi il suo padrone in carcere. A richiedere l’incontro per il bene del cane, è stato lo stesso veterinario: all’inizio dell’anno, subito dopo le prime settimane di distacco, Lola diventava sempre più triste e inconsolabile.

E così lo specialista le ha diagnosticato una depressione dovuta alla nostalgia del suo padrone: l’unico modo per consolare la cagnetta era portarla da lui e farle trascorrere un po’ di tempo insieme al suo amico. E infatti, l’analisi del veterinario s’è rivelata azzeccata. Già in primavera c’era stato un primo "dialogo" che però non era stato risolutivo. Ieri invece, quando alle 9.30, nell’area verde delle Sughere, Lola ha visto il suo padrone, ha iniziato a correre all’impazzata fino a saltargli addosso. Lui s’è sdraiato per terra e lei, che non stava in sé dalla gioia, gli faceva le feste leccandolo e accarezzandolo.

"Ci voleva la cinepresa! - esclama la mamma del detenuto, che era presente all’incontro insieme a un altro parente - Sembravano babbo e figliola: lei abbaiava entusiasta mentre lui aveva le lacrime agli occhi". I due si sono coccolati, "quasi parlavano!". Si guardavano affettuosamente e per un’ora la triste Lola ha ritrovato la gioia. Il tutto sotto lo sguardo attento degli agenti di polizia penitenziaria che assistevano contenti all’evento.

Quello tra Lola e il detenuto è stato un vero e proprio colloquio, durato un’ora, come da regolamento, e avvenuto nel giardino del carcere anziché nelle stanze interne, proprio per dar modo all’animale di avere più spazio a disposizione per esprimere al meglio tutto il suo entusiasmo. Un incontro incoraggiato dalla stessa direttrice del carcere, che non ha esitato ad autorizzare la visita. Un rapporto speciale quello tra Lola e il quarantunenne. Da quando è nata, lei è sempre stata a casa all’Ardenza ed è quindi considerata "una di famiglia". Per 11 anni è stata sempre insieme al suo padrone, proprio per questo il distacco è parso insopportabile alla cagnetta.

"Era giù, si sentiva abbandonata - racconta il cugino del detenuto - Lola è affettuosa, buona e supervivace, nonostante l’età, le manca solo la parola. Ma da quando lui è in carcere, stava male, si vedeva che soffriva. Disappetenza, sguardo spento, era un altro cane". Una nostalgia che ha colpito anche il padrone, che in ogni lettera dal carcere alla famiglia non manca di mandare un saluto speciale alla sua cagnetta. "Non c’è una volta che non mi chieda di lei - dice la madre del detenuto - "Stringimi Lola, baciami Lola, dille che m’aspetti, che non l’ho abbandonata". Quando leggo quelle parole così tenere mi viene da piangere...". Ma non c’è dubbio, Lola aspetterà.

Immigrazione: sui Rom polemica tra Ministero Esteri e l'Onu

 

Vita, 16 luglio 2008

 

Il Ministero degli Esteri si è detto sorpreso dalle dichiarazioni dei consulenti delle Nazioni Unite. I tre si erano detti scioccati per la retorica discriminatoria dei leader italiani verso i nomadi.

Il Ministero degli Esteri ha espresso "viva sorpresa e sconcerto" in risposta alle dichiarazioni di tre esperti indipendenti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani.

"Le valutazioni contenute nella dichiarazione congiunta dei tre esperti indipendenti dell’Onu - il senegalese Doudou Diène, lo statunitense Gay McDougall e il messicano Jorge Bustamante - destano viva sorpresa e sconcerto, essendo frutto di giudizi non basati su fatti e derivanti da informazioni palesemente inesatte e infondate circa il contenuto dell’iniziativa legislativa italiana in corso" ha scritto La Farnesina in una nota.

I tre si sono detti preoccupati dalle decisioni del governo sulle impronte ai bambini rom, accusando l’esecutivo di aver fatto scelte discriminatorie. Gli esperti hanno ammesso di essere rimasti scioccati dalla "retorica aggressiva e discriminatoria" usata dai leader politici italiani nel parlare della minoranza rom.

Il ministero è intervenuto per precisare che le procedure stabilite dal governo non sono "volte a raccogliere elementi di identificazione - tra cui anche, ma non soltanto, le impronte digitali - tra i soli appartenenti alla comunità rom, ma riguardano tutti coloro che si trovano in condizioni irregolari"

"La mancata identificazione" si legge nella nota "produce l’effetto che essi non possono usufruire delle prestazioni e dell’assistenza sanitaria e sociale, il cui presupposto è appunto la conoscenza della loro identità personale".

"Come più volte ribadito dal governo italiano" conclude il ministero "la preoccupazione principale rimane quella di sottrarre gli stessi ad eventuali abusi e violenze e di reinserirli in un percorso sociale, a cominciare dalla scolarizzazione. La precondizione per realizzare tali obiettivi fondamentali è, ancora una volta, la previa identificazione certa dei minori in questione".

Immigrazione: Tosi (Ln); far scontare pene in paese origine

 

Asca, 16 luglio 2008

 

Il Sindaco di Verona Flavio Tosi sottoporrà domani al ministro degli Interni, Roberto Maroni, la proposta di far scontare la pena agli immigrati nel paese d’origine. Lo ha detto lo stesso Tosi incontrando alcuni rappresentanti del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) all’interno del carcere di Montorio.

Oggetto dell’incontro sono state in particolare la questione del pesante sovraffollamento delle carceri, della carenza di organico (soprattutto femminile), l’emergenza sanitaria provocata dalla presenza di detenuti extra-comunitari (il 70 % dei detenuti totali) portatori di patologie ormai debellate in Italia.

Il sindaco si è detto disponibile a riferire le richieste avanzate dalla polizia penitenziaria al ministero degli Interni già domani, in occasione di una sua visita a Roma. "Sottoporrò al ministero le vostre richieste -ha aggiunto il sindaco- in particolare quella che prevede, attraverso convenzioni con paesi stranieri, di far scontare la pena nella nazione d’origine dei detenuti; questo consentirebbe di evitare sovraffollamento e problemi sanitari oltre all’abbattimento dei costi. Attualmente un carcerato in Italia costa circa 75 mila euro l’anno mentre all’estero costerebbe nettamente meno mantenerlo; altri paesi hanno già adottato questo provvedimento in maniera funzionale".

Droghe: Giovanardi; da settembre "test" per avere patente

 

Notiziario Aduc, 16 luglio 2008

 

Un test per verificare se si è consumatori di droga e alcol e per chi risulta positivo non ci sarà il rilascio di patente o patentino. Parte a settembre una nuova campagna per la sicurezza stradale promossa dal Dipartimento per le Politiche Antidroga in 4 città campione: Verona, Perugia, Foggia e Cagliari per ora le prescelte. La campagna si basa su un’iniziativa europea che scatterà nel 2011 ma che l’Italia mette in campo con tre anni di anticipo per prevenire le stragi su strada. Ad annunciarla è il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla Famiglia, droga e servizio civile, Carlo Giovanardi, che ne ha anticipato i contenuti nell’ambito della conferenza "Sicurezza stradale: invertiamo la rotta", promossa oggi a Roma da Asso Giovani e Forum Nazionale dei Giovani nell’ambito dell’iniziativa "Basta Un Attimo".

"La campagna promossa dal Dipartimento è un’iniziativa che punta sulla prevenzione contro l’uso di droghe e alcol per chi si mette al volante. I test verranno realizzati in 4 città campione, scelte tra Nord, Centro, Sud e Isole maggiori, e verranno effettuati su tutti i giovani che faranno richiesta di patente auto o patentino per guidare moto e motorini. Chi risulterà positivo al test non avrà il documento di guida.

"I numeri dei morti, dei giovani che perdono la vita e di tutti quelli che rimangono invalidi a causa di un incidente su strada parlano chiaro: siamo di fronte ad una grande guerra, le cifre sono impressionanti" dice ancora Giovanardi sottolineando che si tratta di "un fenomeno terribile. Questi ragazzi escono di casa la sera tutti vitali e non tornano più alle loro famiglie. Per non parlare poi di quelli che rimangono invalidi".

"I provvedimenti assunti dal precedente governo, quelli che sta prendendo l’attuale governo, come lo stop alla vendita di alcolici dopo le 2 del mattino, hanno prodotto un calo di vittime sensibile e tra gli emendamenti c’è anche la richiesta di vietare la vendita di alcolici non solo per le discoteche o i locali di ritrovo, ma anche per i ristoranti". "Non c’è dubbio - dice il Sottosegretario - che va messa in campo una maggiore severità, ma ci sono resistenze fortissime. Volevamo portare il divieto ben oltre le 2 del mattino, fino alle 3, ma le categorie coinvolte non si sono rese disponibili ad alcun accordo".

"Non mi sembra - sottolinea - un modo di collaborare per la sicurezza di giovani e non". "Inoltre, cito per tutti il caso di Ravenna, il Prefetto ha fatto chiudere un locale inadempiente, ma il giudice di Pace ha rinviato il provvedimento a marzo-aprile 2009 quando è in questa stagione, è adesso il maggior problema. Spesso si ritirano patenti e si calano punti sulla patente per infrazioni gravi alla sicurezza stradale, poi arriva il giudice di Pace e annulla la sanzione. Bisogna guardare alla vita e alla sicurezza di chi sta in strada".

 

 

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