Rassegna stampa 12 luglio

 

Giustizia: norma blocca-processi; l’Anm apre, il Pd non cede

 

Corriere della Sera, 12 luglio 2008

 

All’indomani del via libera della Camera al lodo Alfano sull’immunità per le alte cariche dello Stato, il governo presenta alcuni emendamenti al decreto sicurezza che modificano sostanzialmente la cosiddetta norma "blocca processi". In pratica, al posto della sospensione è prevista la semplice facoltà affidata ai magistrati di fissare criteri di rinvio dei processi per reati indultati o che comunque rientrano nell’indulto previsto dalla legge del 31 luglio 2006. "Abbiamo recepito le critiche dell’opposizione - spiega Giulia Bongiorno, presidente della prima commissione di Montecitorio - e per questo auspico che già nel comitato dei nove della commissione Giustizia, che si riunirà lunedì, ci possa essere un parere favorevole unanime".

Il Pd: "resta il nostro no" - Ma le modifiche apportate dal governo non soddisfano l’opposizione, pronta a dare battaglia sulla blocca-processi. Resta il "no" alla norma anche nella nuova riformulazione del governo. Quindi, il Partito democratico voterà contro la nuova norma sia per un motivo di metodo, perché tali misure non sono considerate omogenee al dl sicurezza "e dovrebbero essere eliminate completamente" sia per motivi di merito "criticando la discrezionalità data ai presidenti di tribunale". Ad annunciarlo, conversando con i giornalisti a Montecitorio, è stato Lanfranco Tenaglia. La richiesta del Pd, ha spiegato il Guardasigilli del governo ombra, "è di eliminare completamente queste norme dal dl sicurezza".

Verso la fiducia - E se l’opposizione è pronta a dare battaglia, il governo ventila l’ipotesi di un ricorso alla fiducia sul dl sicurezza. "L’Italia dei valori ha presentato 90 emendamenti, il Pd 1.075... forse è una tattica parlamentare con cui ci vogliono obbligare a mettere la fiducia per non votare sì a un provvedimenti che recepisce le loro proposte" ha spiegato Elio Vito, ministro per i Rapporti con il Parlamento. "Certo - prosegue Vito - ognuno applica la tattica parlamentare che vuole, però sia chiaro che se saremo obbligati a mettere la fiducia per rispettare i tempi la responsabilità sarà dell’opposizione". Il Popolo della libertà, infatti, ha presentato soltanto i due emendamenti sulla blocca-processi, la Lega nessuno: basta questo per far dire a Vito che "l’indurimento della dialettica parlamentare è colpa dell’opposizione". Se comunque fosse posta la questione della fiducia, chiarisce ancora il ministro, "verrà fatto lunedì su martedì".

Anm: "netto miglioramento" - Soddisfatta invece per l’emendamento al decreto sicurezza che ha profondamente modificato l’originaria versione della blocca-processi l’Associazione nazionale magistrati, che parla di "netto miglioramento rispetto alle previsioni". La nuova formulazione "prevede una responsabilizzazione dei capi degli uffici giudiziari - osserva il presidente dell’Anm Luca Palamara - oltre a tener conto delle specificità dei casi concreti. Inoltre, a differenza della blocca-processi, la sospensione non è obbligatoria, ma facoltativa e con un limite di pena edittale nettamente inferiore".

Rinvio pianificato - Ma quali sono le novità alla norma blocca-processi? "Scompare la sospensione automatica dei processi e arriva il rinvio pianificato dai dirigenti degli uffici. In secondo luogo - prosegue la Bongiorno - sparisce la data del 30 giugno 2002 come "discrimine" per i processi da rinviare e si introduce quella del 2 maggio 2006, ovvero il termine per i reati coperti da indulto. Infine, il controllo dei rinvii e la decisione su di essi è a discrezione della magistratura, come chiesto da più parti". Le modifiche alla norma, però, non finiscono qui. Il governo, infatti, mantiene priorità per i processi per reati di maggiore gravità, per quelli commessi in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e, più in generale, per tutti quelli che prevedono pene superiori ai 4 anni di reclusione.

Quelli con pene inferiori ai 4 anni, invece, possono essere rinviati secondo "i criteri e le modalità - si legge nel testo dell’emendamento - individuati dai dirigenti degli uffici". A confermare le novità ai microfoni di Sky Tg24 è Niccolò Ghedini del Pdl: "È una riformulazione dell’emendamento in cui rimane fermo il principio generale di dare priorità a determinati processi, cioè ai processi più gravi, ma si dà assoluta discrezionalità ai dirigenti degli uffici, quindi ogni singolo tribunale farà la propria valutazione su come gestire i ruoli d’udienza. Non c’è più una norma rigida che impone determinate decisioni, ma ogni singolo tribunale potrà attagliare la norma alle sue esigenze".

"Strane coincidenze" - Il Pd parla di "strane coincidenze" (secondo l’opposizione, sia la "blocca-processi" che il lodo Alfano hanno l’obiettivo di garantire l’immunità per il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi). "La maggioranza ha presentato due emendamenti al decreto sicurezza per eliminare il blocco dei processi per i reati con pene inferiori a 10 anni compiendo un clamoroso passo in dietro" rileva in una dichiarazione Donatella Ferranti, Capogruppo Pd in Commissione Giustizia della Camera. "Questa vergogna che avrebbe avuto effetti dirompenti nell’ordinamento giudiziario, come più volte denunciata con forza dal Pd, viene finalmente fermata; e questo accade all’indomani dell’approvazione del cosiddetto lodo Alfano a dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, che era stato tutto architettato per mettere al riparo il premier dai suoi problemi giudiziari".

Idv - Duro anche Massimo Donadi, capogruppo dell’Italia dei Valori: "Adesso c’è la prova che il presidente del Consiglio era pronto a mandare all’aria 100 mila processi per salvarsi". "Berlusconi - aggiunge - ha ottenuto dal Parlamento sequestrato il riscatto, che non è il lodo Alfano ma la porcata Alfano, e adesso lascerà libera la giustizia perché si è messo in salvo".

Giustizia: il Pg Caselli; ora la norma blocca-processi va bene

 

Apcom, 12 luglio 2008

 

Le modifiche alla norma blocca processi incontrano il favore di Giancarlo Caselli: in un’intervista al Corriere della Sera l’ex Capo della Procura di Palermo dice che "esaminando le possibili ricadute tecniche sul funzionamento della giustizia e le modifiche, mi pare che tutto sommato l’emendamento vada bene".

Secondo Caselli la norma è migliorata perché "piuttosto che il vecchio blocca processi ora abbiamo qualcosa che prende una direzione positiva". Infatti, continua Caselli, "non c’è più una sospensione obbligatoria per un anno di processi che avrebbero riguardato anche reati gravissimi. C’erano anche sequestri di persona, estorsioni, rapine, furti in alloggio, scippi, stupri e violenze sessuali, con tanti saluti alla sicurezza". A disporre il rinvio del processo, per non più di 18 mesi e solo per i reati che rientrano nell’indulto, sono i dirigenti degli uffici.

Caselli toglierebbe dalla norma la sospensione della prescrizione dei reati: "Significa che tra 18 mesi siamo punto e a capo, senza nessun miglioramento strutturale duraturo per quanto riguarda il disastroso funzionamento della giustizia". Ma ci vorrebbero delle compensazioni, come la possibilità per la parte civile di trasferire l’azione in sede civile godendo di una corsia privilegiata, già presente nel progetto annunciato.

Per il magistrato siamo di fronte a un’opera teatrale in tre atti: "Primo atto si dà fuoco alla casa perché se rimaneva inalterata la norma blocca-processi la crisi della giustizia sarebbe diventata una catastrofe. Secondo atto: si tirano fuori dalla casa i quattro inquilini più eccellenti con il cosiddetto lodo Alfano. Terzo atto: arrivano i pompieri che spengono il fuoco. Sequenza sconcertante".

Giustizia: la politica, la mafia e l’eredità di Leonardo Sciascia

di Pasquale Vitagliano

 

www.giustiziagiusta.info, 12 luglio 2008

 

"Ci mancano la penna e la spada di Leonardo Sciascia", ha scritto Vincenzo Consolo nel 2004 in un articolo su "Liberazione". Eppure, c’è il sospetto che al salotto buono della cultura italiana non manchi affatto quel "politicamente scorretto" che denunciò i "professionisti dell’antimafia"; quello che ebbe il coraggio di indicare nella figura del giudice-legislatore il pericolo di un potere fondato sulla virtù ma senza possibilità di verifica. Non è possibile appropriarsi di Sciascia.

"Di volta in volta sono stato accusato", diceva di se stesso, "di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio. (…) Il fatto è che i cretini, e ancor più i fanatici sono tanti; godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza".

La sua più tragica profezia è stata quella di intuire che il terreno sul quale si sarebbe realizzato il più grande incontro di questi fanatismi sarebbe stato la giustizia: la sua amministrazione, il ruolo dei magistrati, il loro inevitabile quanto pericoloso inserirsi nel vuoto della politica.

Due casi emblematici su tutti: il caso Tortora nel 1983 e il caso Sofri nel 1988: due affair giudiziari che hanno dimostrato quanto l’Italia della manzoniana colonna infame non fosse molto lontana dall’Italia-da-bere di quegli anni. E neppure da quella di oggi: l’Italia della Seconda Repubblica, che Sciascia non ha potuto conoscere e giudicare.

È passato molto tempo dalla sua morte, il mondo è cambiato e la sensibilità sociale, forse, si è ribaltata. Un rimedio per i mali della giustizia? "Paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale." Immaginate se questa frase fosse stata pronunciata da Sciascia oggi, negli anni di Berlusconi, dei Girotondi e de Il Caimano.

Da che parte, dunque, starebbe oggi Leonardo Sciascia, il più lucido e severo intellettuale italiano della fine del XX secolo? Dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia, che per lui rischiavano di essere ridotti a "puri nomi". Allora. Ed oggi?

Il 10 gennaio 1987 scoppiava il caso dell’articolo sui professionisti dell’antimafia. La tesi dell’articolo è semplice eppure rigorosa: "la soluzione dei problemi legati alla mafia dovrà passare attraverso il diritto, la legge, o non ci sarà soluzione, perché sarebbe come opporre alla mafia un’altra mafia, come avvenne durante il fascismo. Non si può fare antimafia lasciando che lo Stato, che le città marciscano nella corruzione e nel disservizio". L’antimafia può diventare strumento di potere: "può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando".

La forza di queste parole non stava solo nella lucidità dell’analisi. Ma, ancora una volta, nella potenza profetica, capace di scavalcare i confini stessi dell’oggetto della sua analisi. Cosa avrebbe detto, in piena tangentopoli, della via giudiziaria alla riforma della politica, della via carceraria alla lotta alla corruzione? Non avrebbero potuto quelle parole bene adattarsi anche a questo oggetto di analisi storica? Poteva esserci lotta vera alla corruzione e al malcostume senza rispetto del diritto, in nome di una solo presunta e proclamata virtuosità dell’azione giudiziaria, con tanto di tintinnio di manette?

Nella lotta alla mafia, Sciascia fu collocato dal coordinamento antimafia "ai margini della società civile". Dove lo avrebbero collocato i virtuosi dei girotondi? "Sciascia combatte Sciascia", scriveva Pansa, richiamando involontariamente un qualche tradimento dei chierici. E invece Sciascia era Sciascia. Come oggi, vent’anni dopo, Pansa non combatte Pansa, quando con i suoi libri ricorda gli eccidi del triangolo rosso e rivela le ombre della lotta partigiana, rimosse dalla retorica dell’antifascismo.

Va detto che lo difesero in pochi. La maggior parte degli intellettuali pretese l’abiura: se non ti piacciamo noi che combattiamo la mafia… Allora ti piace la mafia. Sciascia rimase inflessibile. Anzi, dette A Futura Memoria il patrimonio di idee e battaglie che avrebbero dovuto costituire il suo non negoziabile lascito di pensiero e azione. Respingere il garantismo, quale richiamo non retorico, non intermittente ed equilibrato al diritto e alla costituzione, sarebbe stato un errore incalcolabile. Nella lotta alla mafia, come anche, malgrado la sua assenza, nella lotta alla corruzione politica.

"Preferirò sempre che la giustizia venga danneggiata piuttosto che negata", questa l’eredità più duratura, non solo di un uomo libero, ma di uno degli ultimi testimoni di una tradizione di pensiero critico ed autonomo, contro "l’intolleranza del pensiero totalizzante", come scriveva Piero Ostellino in quei giorni di polemica.

È curioso leggere sulla pagina che apre un libro che a Sciascia sarebbe piaciuto: "Un leggero spaesamento. Questa è la prima sensazione provata da chi, abituato per ragioni di mestiere a leggere processi inquisitoriali del ‘500 e del ‘600, si accosti agli atti dell’istruttoria condotta nel 1988 da Antonio Lombardi e Ferdinando Pomarici a carico di Leonardo Marino e dei suoi presunti correi." Chi è abituato ad occuparsi di Inquisizione è lo storico Carlo Ginzburg. L’inchiesta è quella sull’omicidio Calabresi, per il quale Adriano Sofri oggi è in carcere. Il libro è Il Giudice e lo Storico, considerazioni in margine al processo Sofri. La presenza di Sciascia, dell’ombra e del riflesso del suo pensiero, te la porti accanto per tutta la lettura di questo libro, dall’inizio alla fine.

Quale giustizia, dunque? Questa è la domanda che ti resta nel fondo e si ripete ossessivamente. Può essa arrivare a negare se stessa proprio nel momento in cui raggiunge la punta più alto di sacrificio degli uomini che la incarnano?

A Consolo, come a noi tutti, Sciascia manca. Manca la sua lucida visione profetica. Ma sarebbe ben povera cosa se tra i suoi lasciti ci fosse principalmente la visione del fallimento del Psi: "quel partito socialista - sono parole di Consolo - che alla sua fine, come frutto avvelenato, ci avrebbe lasciato in eredità un uomo e un partito: Berlusconi e Forza Italia, del cui potere o strapotere tutti soffriamo e di cui ci vergogniamo".

E, invece, ci manca l’ostinata volontà di non chiudere mai il cerchio della comprensione dei fatti umani con rassicuranti e troppo corrette conclusioni; di rimandare la risposta ad ogni dilemma un po’ più in là, per mezzo di una nuova questione, di un nuovo dubbio, di una diversa osservazione. Ci manca la tenace forza di metterci continuamente in discussione.

Quando Sciascia riusciva ad anticipare quello che sarebbe accaduto nel nostro paese intorno agli anni ‘70, lui si schermiva: "Non sono un profeta, ma leggo la realtà e due più due fa quattro". Ecco allora che, dopo la battaglia sui "professionisti dell’antimafia", avremmo voluto sentire la sua voce, la sua riflessione adagiarsi tormentata, eppure sempre lucida, sulle stragi di Capaci e di Via Amelio. Ricevere da lui, in quei momenti di smarrimento e di resa, un barlume di comprensione. Di ascoltare un ragionamento in grado di conciliare il garantismo con il sacrificio delle vite umane, il diritto formale con la giustizia quotidiana.

Allo stesso modo, Sciascia ci è mancato al momento del crollo della politica, quando le monetine dell’Hotel Rafael consegnarono le istituzioni, nel vuoto di potere, all’azione delle Procure. Anche allora sarebbe stato decisivo ascoltare dalla sua voce come conciliare la separazione dei poteri con la degenerazione della partitocrazia; lo straripamento di potere dei giudici con l’incapacità della politica di auto-emendarsi. C’è stato, invece, il silenzio della ragione, nel rimpianto struggente di non avere alcuna voce capace di indicare una rotta, di indicarci, senza indulgenze, se sono stati più grandi i nostri torti o le nostre ragioni.

Ha scritto il filosofo Gustaw Herling che "per anni l’antimafietà è stata la misura di tutto. Con l’eccezione di Sciascia: gli altri facevano e fanno romanzi sulla mafia, però, solo lui seppe portare la mafia dentro la sua narrativa e i suoi saggi bellissimi." Opere che partivano dall’Onorata Società, in realtà, parlavano del "limite del mondo".

"Contraddisse e si contraddì", diceva Leonardo Sciascia di se stesso. E questa è la sua più stringente eredità. Ed ancora, con le parole di Candido Munafò, "la morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora e in balia dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restano" (Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia). Ci ha lasciato il coraggio di fare i conti con il limite umano; con i suoi libri e i suoi articoli ci ha condotto per mano su quella debole corda che separa, anzi no, unisce il giusto e il torto; la forza della denuncia e la mansuetudine della comprensione; l’anelito ad un mondo migliore e la pesante difesa della ragione e del diritto. E ci ha così fatto vincere la paura di sbagliare, di cadere. Ma oggi siamo rimasti soli. Un po’ meno capaci di leggere la realtà di oggi.

Giustizia: ex terroristi in libertà… complicità della sinistra?

di Sergio Romano

 

Corriere della Sera, 12 luglio 2008

 

Lettera di Giuseppe Giannetti. Ho letto con profonda tristezza mista a rabbia l’intervista alla vedova del Generale Giorgieri, in relazione alle esibizioni di uno dei complici dell’assassinio di suo marito su un quotidiano dell’estrema sinistra, nonché il commento ipocrita del direttore di tale quotidiano (Corriere della Sera del 7 luglio). La povera signora, come tanti altri famigliari di vittime del terrorismo, si sente ferita tre volte: la prima dall’uccisione del suo caro, la seconda dall’impunità totale o parziale degli assassini, la terza - forse ancora peggiore - dal fatto che i criminali pontificano dappertutto, fanno sociologia, criminologia, politica a spese del contribuente, e se qualcuno si azzarda a protestare danno in escandescenze.

Mentre Giacinto Pannella digiuna per Tareq Aziz e una sedicente "romanziera" sbraita a Parigi contro l’estradizione della Petrella, mentre Casimirri, Lollo, Grillo e compagni vivono allegramente in America Latina, gli assassini come Guido (quello del Circeo), Scattone e Ferraro sono liberi, mentre i parenti delle loro vittime marciscono nel dolore e nella solitudine, ignorati non più da tutti ma ancora da troppi. Ma quel che è peggio è che i colpevoli pontificano, come il complice dell’assassinio di Giorgieri, con la complicità più o meno attiva di molti loro ex compagni o camerati e di una parte della "casta stampata".

Dando per scontato che siamo tutti d’accordo col Beccaria e la costituzione italiana, le rivolgo alcune domande. Che immagine della giustizia danno queste vicende? Che fiducia si può nutrire in uno Stato incapace di punire i colpevoli come meritano e di una società incapace di costringerli all’anonimato? Quali sono secondo lei i motivi per cui Mitterrand aprì le porte ai delinquenti delle Br? È vero che fu almeno in parte una vendetta per l’aiuto fornito a suo tempo dall’Italia al Fln algerino?

La risposta di Sergio Romano. Caro Giannetti, Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, è stato intervistato da Giuseppe Cruciani per una trasmissione di Radio 24 e ha ripetuto nella sostanza ciò che aveva dichiarato a Fabrizio Caccia del Corriere. Comprende e rispetta il dolore della signora Giorgieri, vorrebbe incontrarla e le farà una telefonata. Ma conosce Persichetti, ritiene che sia molto diverso dal ragazzo di vent’anni fa ed è convinto che la legge Gozzini sia una buona legge

Confesso che sulla legge Gozzini la mia opinione non è radicalmente diversa da quella di Sansonetti. Occorre aggiornarla, stringere qualche vite, rendere i controlli più severi e puntuali, evitare i danni provocati da un certo lassismo degli scorsi anni. Ma un Paese civile, a mio avviso, non può fare a meno di una legge che escluda la riabilitazione del detenuto e uccida la speranza. Il problema, se mai, è la credibilità della riabilitazione.

La signora Giorgeri non ha torto quando dice di credere che gli ex terroristi non "abbiano capito fino in fondo il male che hanno fatto (...). Non credo che abbiano capito che io, per esempio, non ho avuto una parte della vita che mi spettava, assieme a mio marito e ai miei figli". E lei non ha torto, caro Giannetti, quando osserva che queste persone "pontificano dappertutto, fanno sociologia, criminologia, politica a spese del contribuente, e se qualcuno si azzarda a protestare danno in escandescenze". Ma qui sorge un problema che va al di là delle responsabilità individuali e chiama in causa, tra gli altri, anche Liberazione.

Il nostro terrorismo di sinistra non fu mai il fenomeno isolato di frange insignificanti. Fu pericoloso perché intorno alle organizzazioni terroristiche esistevano aree di solidarietà decrescente che passavano dal rosso acceso della complicità al rosa pallido della simpatia e della comprensione. Questa simpatia non è mai completamente scomparsa e si esprime soprattutto creando intorno all’ex terrorista un’area di protezione garantista. Lo abbiamo constatato nel caso di Silvia Baraldini, estradata dagli Stati Uniti sulla base di un impegno che non è stato rispettato.

Ce ne accorgiamo constatando il modo in cui una certa sinistra evita di fare domande imbarazzanti "ai compagni che hanno sbagliato", dà per scontato il loro ravvedimento, li accoglie, li sostiene, li appoggia. Così è accaduto nel caso di Paolo Persichetti, fraternamente accolto nella redazione del quotidiano di Rifondazione comunista. È difficile immaginare che gli ex terroristi, finché potranno contare su questa accoglienza, provino vergogna per il loro passato.

Vengo ora, caro Giannetti, alla sua domanda su Mitterrand, responsabile di una prassi giudiziaria che negava l’estradizione in Italia dei terroristi quando "non avevano le mani sporche di sangue". Non credo che il "florentin", come veniva chiamato in Francia con una evidente allusione a Machiavelli, volesse far pagare all’Italia il flirt di Enrico Mattei con il Fronte di Liberazione algerino all’epoca del conflitto con la potenza coloniale. Penso piuttosto che volesse "fare qualcosa di sinistra " e che abbia scelto, per farlo, il Paese più disposto a inghiottire una decisione palesemente ingiusta e, per di più, poco europea.

Giustizia: la lotta armata, la giustizia, la vendetta, il patibolo

di Piero Sansonetti

 

Liberazione, 12 luglio 2008

 

Polemica con Sergio Romano sul caso Persichetti. Vari giornali, nei giorni scorsi, hanno posto la questione del nostro amico Paolo Persichetti, condannato anni fa per concorso in omicidio (l’uccisione del generale Licio Giorgieri, avvenuta nel 1987), il quale da circa un mese gode della semilibertà e lavora con noi a "Liberazione". Ha ottenuto la semilibertà da un tribunale che ha applicato la legge Gozzini, avendo prima di tutto verificato che esistessero le condizioni - oggettive - di legge per la semilibertà, e avendo poi espresso una sua valutazione soggettiva.

Critiche alla decisione del tribunale (e alla nostra decisione di far lavorare Paolo Persichetti con noi) sono venute dalla signora Giorgia Pellegrini Giorgieri, vedova del generale, e poi da diversi opinionisti. Naturalmente esprimo il massimo rispetto per le opinioni e i sentimenti della signora Giorgieri, la quale da molti anni soffre per un dolore fortissimo e che non può essere cancellato. Vorrei invece rispondere ad alcune considerazioni di Sergio Romano, commentatore autorevolissimo del "Corriere della Sera", non solo perché il suo articolo di ieri (più precisamente la risposta a un lettore, pubblicata nella quotidiana rubrica di lettere che Romano cura) chiama direttamente in causa questo giornale; ma anche per la stima vera che ho nei suoi confronti e perché ho sempre apprezzato la sua capacità di argomentare (anche se non sempre ho condiviso i suoi argomenti).

Sergio Romano in sostanza riconosce la validità della legge Gozzini (che prevede riduzioni di pena per i carcerati che abbiano scontato, con buona condotta, una parte consistente della condanna) e tuttavia eccepisce sui benefici concessi a persone che siano state riconosciute colpevoli di terrorismo e non abbiano in qualche modo dimostrato il proprio ravvedimento e la vergogna per il proprio passato. Infine critica la sinistra radicale, la quale in fondo - dice - ha sempre esercitato un eccessivo garantismo nei confronti di queste persone, dimostrando così una certa simpatia, o almeno tolleranza, verso il terrorismo. Per provare questa tesi, Sergio Romano cita il caso di Silvia Baraldini (anche lei, peraltro, collabora col nostro giornale) condannata ad una quarantina d’anni di prigione negli Stati Uniti, e poi estradata in Italia, e poi lasciata libera.

Cerco di rispondere con ordine. Partendo dal caso di Silvia Baraldini. Sono sicuro che se Romano conoscesse le carte del caso Baraldini non avrebbe dubbi sul fatto che nei confronti di Silvia c’è stata una vera e propria - e odiosa - persecuzione da parte di alcuni tribunali americani. Romano conosce meglio di me la giustizia negli Stati Uniti e meglio di me sa come quella americana sia - spesso - una giustizia che lascia molto a desiderare.

Non perché sia troppo severa o troppo garantista. Perché è tutte e due le cose insieme, cioè molto garantista per alcuni (e in alcuni casi) molto ingiusta e feroce verso altri. Silvia non è mai stata condannata per nessun tipo di omicidio. Ha subìto una condanna per reati che, se giudicati in Italia, da un qualunque tribunale, non avrebbero comportato condanne superiori a pochi mesi di prigione. Si è beccata quasi l’ergastolo, ha scontato più di vent’anni di carcere duro, in gran parte in condizioni terribili, isolamento, forme di detenzione vicine alla tortura, anche quando era gravemente ammalata di tumore. Punto. Ogni volta che rileggo la storia di Silvia e delle ingiustizie che ha subito, vengo colto da un fremito di rabbia e commozione.

Seconda questione, quella di Paolo Persichetti. È stato assolto in primo grado e poi condannato in secondo per concorso morale in omicidio. È innocente o colpevole? Ognuno può avere le sue convinzioni, poi conta la decisione del tribunale. Colpevole. Benissimo. Non di avere ucciso il generale Giorgieri, ma di essere stato complice morale. Una differenza c’è. Ha subìto una condanna molto pesante, rispetto al reato. Più di 20 anni. Ne ha scontata più di metà in carcere (senza tener conto degli anni dell’esilio in Francia). Su questa base ha ottenuto la semilibertà.

Vuol dire che di giorno lavora e la sera torna il galera. Ha cercato e trovato un lavoro: presso di noi, visto che già quando era in carcere, collaborava con noi sulla base delle sue conoscenze, della sua cultura, e delle sue capacità professionali. Cosa c’è che non va? Non deve lavorare il detenuto semilibero? Non credo che Romano pensi questo. E allora dovrebbe trovarsi un lavoro meno gratificante? Sono sicuro che Romano non può pensare nemmeno questo. Non può supporre che il lavoro per un detenuto che ha avuto il diritto a godere della semilibertà debba comunque essere in qualche modo punitivo. Il tribunale non gli ha inflitto un lavoro come punizione ma ha riconosciuto un suo diritto.

Allora dov’è la questione? La sinistra - mi sembra che dica l’editorialista del "Corriere" - è troppo tollerante con gli ex terroristi e non ha mai chiuso i conti con la lotta armata. Non so cosa rispondere. Penso che sia del tutto falso. Vengo dal Pci, dove ho militato per due decenni, e mi ricordo le battaglie che alcuni di noi combatterono negli anni di piombo: è vero, erano battaglie garantiste contro una linea del partito incredibilmente rigorista e talvolta giustizialista e forcaiola. Le leggi speciali, gli aggravi di pena, il fermo di polizia, i processi indiziari, un uso spericolato del pentitismo. Certo, col tempo quella posizione troppo rigida, e assai poco liberale, è stata superata da gran parte della sinistra. Non riesco a immaginare che questa sia un difetto.

E allora cosa resta delle critiche alla semilibertà a Paolo? L’idea che non si è pentito, o non si è pentito abbastanza, o non lo ha dimostrato, e il fatto che la sua espiazione comunque ha un termine mentre l’espiazione delle vittime non lo ha, e allora non c’è proporzione tra colpa e pena.

Ecco, su questo davvero il mio dissenso è totale. Sul pentimento o meno, francamente, non credo che possa esserci un giudizio né da parte della legge, né dei giornali né di chiunque altro. Ciascuno di noi sa cosa ha fatto e cosa non ha fatto nella vita - la verità vera la conosce solo ciascuno di noi, non i tribunali - e ciascuno di noi sa perché ha fatto determinate cose, e sa se deve pentirsi o no, e sa come eventualmente deve pentirsi, e non ha nessun bisogno di esibire i suoi giudizi su se stesso, i suoi pensieri e la sua esistenza.

Quanto al rapporto tra pena e colpa, o stiamo attenti, o finiamo per chiedere per tutti la pena di morte. Voglio dire: capisco il dolore infinito (nel senso che non finisce mai) della signora Giorgieri. E le esprimo tutto il mio possibile affetto. Ma non ci può essere una misurazione della pena che sia in proporzione diretta con il dolore che è stato inflitto alle vittime o ai parenti delle vittime. Il reato prescinde dal danno che provoca, e il giudizio è sul reato, non sul danno.

Altrimenti non è più legge ma è vendetta. Mi spiego: se prendo una mitragliatrice e sparo al supermercato, e uccido dieci bambini, commetto esattamente lo steso delitto che commetto se prendo una mitragliatrice e sparo al supermercato e uccido tre vecchi ultracentenari. Giusto? Se ad un reato che ha prodotto un dolore infinito deve corrispondere una pena infinita, l’unica logica ragionevole è quella del patibolo. Questo però è un sistema di pensiero giuridico che funziona in alcune civiltà molto arretrate rispetto alla nostra. La nostra civiltà giuridica da Cesare Beccaria e dalle sue grandi intuizioni filosofiche. Direi che conviene tenercela stretta.

Giustizia: sulla sicurezza "tagli" per 3 miliardi di euro in 3 anni

 

Agi, 12 luglio 2008

 

Uniti per protestare contro il governo. I sindacati di polizia, il Cocer e l’intero comparto sicurezza e difesa lanciano l’allarme e contestano a Palazzo Chigi il decreto legge 112 varato alla fine di giugno, che prevede tagli per oltre 3 miliardi di euro sui capitoli di spesa della sicurezza e della difesa. I tagli previsti per i prossimi tre anni, secondo i sindacati, "impediranno l’acquisto di autovetture, di mezzi, di strumenti utili per svolgere il servizio nonché la possibilità di rinnovare le armi in dotazione, per l’acquisto di munizioni, delle divise e per la ordinaria manutenzione degli uffici e delle infrastrutture".

In una nota congiunta le organizzazioni sindacali del comparto sicurezza lamentano anche la riduzione complessiva che subirà l’organico delle Forze di Polizia e delle Forze Armate di circa 40.000 unità "dovuta al mancato turnover del personale". Per questo "saranno migliaia le pattuglie e gli operatori in meno sul territorio" con un inevitabile "riduzione dei servizi e dei controlli ed una oggettiva capacità operativa e di intervento". Il decreto "antifannulloni" voluto dal governo potrebbe produrre anche pesanti tagli agli stipendi degli uomini in divisa.

Una decurtazione che potrebbe arrivare al 30-40%: "Al ministro - hanno detto i sindacati - abbiamo ribadito la necessità di escludere le forze dell’ordine dal decreto n. 112/2008, soprattutto per i tagli che porterebbe agli stipendi dei poliziotti e dei carabinieri in caso di malattia, anche se dipendenti da cause di servizio". I sindacati, in attesa delle risposte del Governo, non escludono la possibilità di organizzare un manifestazione di piazza dopo quella del dicembre scorso.

Giustizia: presentazione Franco Ionta, il nuovo Capo del Dap

 

Apcom, 12 luglio 2008

 

Franco Ionta è il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Lo ha deciso ieri il Consiglio dei Ministri, su proposta del Guardasigilli Angelino Alfano. Ionta, che è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Roma, sostituisce un altro magistrato, Ettore Ferrara, nominato a maggio del 2006 dal ministro Mastella a capo di Gabinetto, e il successivo 6 dicembre all’incarico di Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Prima di assumere la guida del Dap, Ferrara era stato giudice presso il Tribunale di Napoli, e in seguito Consigliere di Corte d’appello del capoluogo campano, prima di diventare Consigliere del Csm dal 1998 al 2002, e di svolgere le funzioni di Consigliere di Cassazione nei tre anni successivi.

Compito del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è quello di provvedere a garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli Istituti penitenziari, lo svolgimento dei compiti inerenti all’esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, delle misure alternative alla detenzione; all’attuazione della politica dell’ordine e della sicurezza degli istituti e servizi penitenziari e del trattamento dei detenuti e degli internati, nonché dei condannati ed internati ammessi a fruire delle misure alternative alla detenzione; al coordinamento tecnico operativo e alla direzione e amministrazione del personale penitenziario, nonché al coordinamento tecnico-operativo del predetto personale e dei collaboratori esterni dell’Amministrazione; alla direzione e gestione dei supporti tecnici, per le esigenze generali del Dipartimento medesimo.

Alle dipendenze del Dap, opera il Corpo di Polizia penitenziaria, organismo militarmente organizzato riconosciuto quale Forza di Polizia dalla Legge 121/81. Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria beneficia della indennità prevista per il Capo della Polizia, Comandante Generale dei Carabinieri Comandante Generale della Guardia di Finanza, è membro effettivo del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza.

 

Osapp: bene nomina Ionta ad Amministrazione Penitenziaria

 

L’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria (Osapp) esprime "tutto il suo apprezzamento al Ministro della Giustizia per la nomina di Franco Ionta al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria", il Dap. Lo annuncia il segretario generale del sindacato, Leo Beneduci, offrendo "i nostri migliori auguri" al nuovo capo, a cui spetterà "l’ingrato compito di rifondare integralmente l’amministrazione penitenziaria dopo i disastri degli ultimi due anni.

Il nuovo Capo del Dap - prosegue il segretario generale - farà presto i conti con un’organizzazione contrassegnata da nutrite sacche di privilegio, fuori da ogni più elementare regola di legalità, dove ogni istituto penitenziario è amministrato da logiche autonome, e in cui gli attuali dirigenti generali (alcuni dei quali si erano già opposti esplicitamente alla nomina) non svolgono alcuna azione di controllo e ripristino delle condizioni di legittimità nelle sedi di competenza".

"Il nuovo capo del Dap si farà presto carico - questo è l’auspicio di Beneduci - di un corpo di polizia penitenziaria che rappresenta ormai il 90% del personale dipendente, e che oggi più che mai risulta vessato e abbandonato a se stesso, e deluso da una situazione che, dopo 28 anni, non vede più spiragli per un’efficace riforma strutturale. Il nuovo capo del Dap - conclude Beneduci - dovrà porsi al cospetto del nuovo ed incalzante problema del sovraffollamento delle carceri, arrivate quasi a toccare la capienza tollerabile: una grave piaga questa che determina ed aggrava, oltretutto, le condizioni di lavoro per tutti i nostri colleghi".

Lettere: la mia paura non è di morire, ma morire in carcere

 

www.radiocarcere.com, 12 luglio 2008

 

Lettera a Riccardo Arena, di Radio Carcere. Caro Riccardo, è tanto che volevo scriverti, ma solo oggi ho trovato la forza. Mi trovo dentro la mia cella in una condizione assai particolare. Soffro di una malattia degenerativa e sono costretto a stare sulla sedia a rotelle. Gli arti inferiori sono paralizzati, così come quelli superiori. La malattia di cui soffro colpisce anche il nervo ottico. Ho già perso l’occhio destro e sto perdendo anche quello sinistro. Senza falsa vergogna, credo che la mia condizione di detenuto parli da sé.

Ti dico solo che prima pesavo 81 chili e ora ne peso 38. Il dover stare sempre sulla sedia a rotelle mi provoca delle dolorosissime piaghe. Ed è proprio il dolore il mio compagno di tutti i giorni. Un dolore causato proprio dalla malattia di cui soffro. Dovevano operarmi al midollo per farmi sentire meno dolore, ma purtroppo l’operazione è stata rinviata. La mia unica consolazione è rimasta quella di poter stare vicino, quando li vedo ai colloqui, a mia moglie e mio figlio. Un figlio piccolo che ha bisogno della vicinanza di suo padre, anche se detenuto, anche se malato. Credimi la mia vera paura non è quella di morire. Ma è quella di morire in carcere, dentro questa cella.

 

Antonio

 

Lettera a Riccardo Arena, di Radio Carcere. Cara Radiocarcere, devi sapere che nel carcere Opera di Milano succedono cose strane. Come sai a ogni detenuto vengono detratti 50 euro per le spese di mantenimento. Spese che servono per l’acqua, la luce, i detersivi per lavare la cella etc. Beh, devi sapere che, nonostante che noi paghiamo questi 50 euro per la manutenzione, dobbiamo anche pagare di tasca nostra anche i detersivi, le lampadine elettriche e ogni altro bene che ci serve per vivere in cella. Per non parlare delle cose che spariscono. Pensa che ogni mese il carcere di Opera viene rifornito di dentifrici, spazzolini, detersivi, sciampo, che dovrebbero essere destinati a noi detenuti. Purtroppo sta di fatto che pochi di noi detenuti hanno ricevono beni di questo tipo, quindi ci domandiamo: che fine fanno questi beni dello Stato? Grazie per quello che fate

 

L., dal carcere di Opera

Lombardia: i detenuti aumentano, mancano soldi e personale

 

Dire, 12 luglio 2008

 

I detenuti sono oltre 8.300, a fronte di una capienza di 8.379 posti, mentre dei 4mila agenti in servizio 500 sono stati distaccati fuori regione. La denuncia degli agenti penitenziari, che lunedì manifesteranno davanti a San Vittore.

Le carceri lombarde rischiano di tornare a scoppiare. I detenuti sono ormai oltre 8.300, a fronte di una capienza massima di 8.379 posti, mentre dei poco più di 4mila agenti in servizio 500 sono stati distaccati fuori regione. È la denuncia degli agenti di polizia penitenziaria, che lunedì 14 luglio parteciperanno a un presidio indetto dalla Cigl, Cisl e Uil, davanti al carcere di San Vittore. I sindacati chiedono un incontro con la direzione regionale dell’amministrazione penitenziaria per varare un piano straordinario che eviti la paralisi negli istituti lombardi, sovraffollati come prima dell’indulto.

In testa ai motivi della protesta c’è la "grave carenza di organico" che secondo le guardie carcerarie riguarderebbe tutti i 19 istituti penitenziari della regione. Anche i mezzi di trasporto sarebbero insufficienti e pericolosi.

"Una situazione insostenibile, la Lombardia è la regione più penalizzata d’Italia sul lato del personale - spiega il segretario regionale della Fps Cisl Lombardia, Pietro Paris - . La situazione è aggravata dal fatto che dei poco più di 4mila agenti in servizio, 500 sono distaccati fuori regione, e per l’estate l’Amministrazione penitenziaria ha disposto il trasferimento di altre 30 unità".

A fronte della diminuzione di agenti, il numero di detenuti cresce: secondo la Cisl sarebbero oltre 8.300, "cifra prossima a quella che rese inevitabile il ricorso all’indulto, quando da 9mila i detenuti erano scesi a 6mila, con l’aggravante che sono sempre più quelli ad "alta sicurezza" che obbligano ad un maggior impiego di personale".

A peggiorare la situazione anche la mancanza di investimenti in cancelli automatici e sistemi di telesorveglianza che renderebbero meno gravosa la mancanza di personale.

"Visto il trend attuale - dice Pietro Paris - la situazione è destinata a peggiorare. È indispensabile concordare un piano di intervento straordinario, altrimenti nei prossimi mesi si rischia la paralisi negli istituti lombardi". La manifestazione si svolgerà lunedì 14 luglio, alle ore 10.30, davanti al carcere di San Vittore.

Sardegna: carceri affollate e pochi agenti, sicurezza a rischio

 

Dire, 12 luglio 2008

 

Carceri sarde sovraffollate e pochi agenti per garantire la sicurezza. È la denuncia dei sindacati Fp Cgil, Sinappe Ussp, Osap e Fsa-Cnpp della Polizia Penitenziaria, riuniti a Cagliari nella sede della Cgil, per fare il punto sulla situazione e preparare le prossime battaglie. I sindacati hanno annunciato le prossime mosse per ottenere condizioni di lavoro migliori con l’obbiettivo di trovare un’intesa direttamente con il Governo.

Disagio in carcere: non quello dei detenuti, ma quello delle guardie. Il primo problema da risolvere, hanno sottolineato i rappresentanti delle sigle sindacali, riguarda la carenza di organico. Secondo i sindacati servirebbero almeno 200-250 agenti in più. "La situazione - hanno spiegato i sindacalisti della Polizia Penitenziaria - è rimasta ferma alla pianta organica del 2001. E non ci sembra che stiano per arrivare nuove assunzioni". Ai disagi per i lavoratori, che lamentano molte ferie e giornate di recupero arretrate, si aggiungono i problemi per la sicurezza. Anche perché, hanno denunciato i sindacati, le carceri sarde sono sovraffollate. I sindacati hanno annunciato le prossime mosse per ottenere condizioni di lavoro migliori con l’obbiettivo di trovare un’intesa direttamente con il Governo.

Catania: 21 mila persone morte, ma ancora "in cura" all’Asl

 

Corriere della Sera, 12 luglio 2008

 

Erano morti da anni, alcuni da decenni, ma i loro medici di famiglia hanno continuato a percepire i rimborsi per la loro assistenza dall’Azienda sanitaria. Sono circa 21 mila i casi di persone decedute ancora "in cura" scoperti dalla Guardia di finanza di Catania che ha eseguito controlli incrociati su oltre un milione di cittadini. Secondo le Fiamme gialle il danno all’erario sarebbe di circa 4 milioni e 200 mila euro, per gli ultimi cinque anni.

Gli accertamenti hanno permesso di scoprire che molti pazienti passati a miglior vita hanno "goduto" dell’assistenza medica per un periodo superiore a 35 anni, senza che nessuno si accorgesse della loro morte. Per le indagini i militari si sono avvalsi dei dati forniti dalla stessa Asl 3 relativi agli assistiti e quelli provenienti dai vari uffici Anagrafe dei Comuni della Provincia. I medici di famiglia incassano mensilmente circa 6 euro per ogni paziente assistito. I dati delle indagini sono stati trasmessi al vaglio della Corte dei conti per le valutazione della responsabilità amministrativa per danno erariale, mentre si sta valutando l’ipotesi di profili di rilievo penale.

Libro: Inferno Bolzaneto, l’accusa dei magistrati di Genova

 

Affari Italiani, 12 luglio 2008

 

"In Italia il reato di tortura non esiste. Ma se esistesse, i carcerieri di Bolzaneto lo avrebbero commesso". E Bolzaneto sarebbe un lager. Pestaggi, abusi, minacce, insulti. Duecentocinquantadue persone passate dalla caserma, tra arrestati e fermati. Trentuno storie di violenze perpetrate dalle forze dell’ordine su ragazzi tra il 20 e il 22 luglio 2001, nel "carcere provvisorio" del G8 di Genova, in un regime di terrore che avvolgeva ogni angolo della caserma, dal piazzale d’ingresso ai bagni, all’infermeria. Bolzaneto diventa così una galleria di orrori, ma anche il logico epilogo del vertice del G8 di Genova.

È quanto raccontato nel libro "Inferno Bolzaneto. L’atto d’accusa dei magistrati di Genova" di Mario Portanova che espone per la prima volta i risultati dell’inchiesta giudiziaria e gli atti del processo del G8, dopo gli scontri tra black bloc e forze dell’ordine. Avvenuti dopo l’uccisione di Carlo Giuliani.

L’accusa dei magistrati genovesi Patrizia Petruzziello e Ranieri Miniati è durissima: "A Bolzaneto sicuramente vi sono stati comportamenti deliberatamente inumani, crudeli e degradanti", scrivono. "Non c’è emergenza che possa giustificare quello che è accaduto. Non c’è giustificazione perché si era ormai lontani dagli scontri di piazza e quella caserma, dove lavoravano pubblici ufficiali, doveva rappresentare un luogo di sicurezza e di rispetto dei diritti per ogni detenuto".

Il libro - Tanti sono i nomi e le immagini delle violenze descritte nel libro. Tante scene immortalate nelle parole delle vittime. Tanto da trasformare la caserma in una sorta di lager, dove violenza e soprusi diventano i protagonisti principali.

Il taglio di ciocche di capelli per tre imputate. Lo strappo della mano per un ragazzo. Il malore di un giovane in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo nella caserma. La sofferenza di un altro ragazzo cui alla Diaz per le percosse hanno fratturato la mascella e rotto i denti. L’etichettatura sulla guancia, come marchio, per i manifestanti arrestati alla Diaz al momento dell’arrivo a Bolzaneto. E poi i colpi sui genitali, per molti. Le minacce di violenza sessuale, per molte donne.

Percosse, ingiurie, umiliazioni, per tutti. I laccetti stretti sui polsi. La faccia al muro, le botte, gli sputi, le bruciature. Niente cibo, niente acqua, niente bagno, niente assorbenti. L’infermeria, luogo di sadismo invece che di sollievo. E i cori uniti agli insulti "Troie, puttane, vi scoperemo tutte…". "Viva il Duce, viva Pinochet, Faccetta nera…". "Benvenuti ad Auschwitz".

Giovani tagliati fuori da tutto che non sanno nulla di quello che sta accadendo fuori. E nessuno fuori sa nulla di loro. Per la maggior parte dei casi i detenuti della caserma non sapevano neppure perché si trovavano lì né che fine avrebbero fatto. Molti erano stranieri. Peggio che essere in un incubo. Bolzaneto, dalla descrizione, risulta una vera e propria galleria degli orrori.

Le storie - Sono trentuno le persone che raccontano le loro storie. Tutte diverse ma tutte terribilmente simili. Botte, insulti, soprusi e umiliazioni che cadenzano con regolarità i passaggi dei detenuti tra furgoni, celle, uffici, infermeria. Storie diverse che però hanno un elemento in comune: la violenza subita durante la reclusione. Come quella di A.G., un manifestante che arriva a Bolzaneto ferito, dove un agente della polizia gli prende la mano, spaccandogli la mano. Poi mentre lo trasportano gli dicono una frase intimidatoria del tipo: "Ma è vero che ti sei fatto male cadendo dalle scale?". Gli cuciono la mano senza anestesia. O ancora quella di E.T. al quale vengono tagliati i capelli perché si rifiuta di firmare i fogli del riconoscimento

O.B.C.M. arriva a Bolzaneto senza scarpe con i soli calzini. Lo fanno stare con i talloni sollevati e un agente in divisa grigia gli mette una sigaretta accesa sotto le piante dei piedi, non riesce a tenere il tallone sollevato e si brucia. Poi viene aggredito con uno spruzzo di spray urticante. Un’arma, secondo l’attuale normativa vigente.

E K.A.J. Invece arriva alla caserma da un ospedale. Ha la mascella e i denti rotti e le portano via gli assorbenti. In cella deve stare, nonostante le ferite, in piedi. Le ferite alla bocca le sanguinano e un’altra persona in cella chiede aiuto per lei mentre lei piange. La portano in bagno e sulla turca un agente uomo le dà una spinta e la fa cadere.

E storie di violenza come queste nel libro scritto da Mario Portanova ce ne sono a decine. Tra questa anche quella di un giornalista di Radio Agr portato a nella caserma e picchiato da poliziotti e secondini senza una motivazione precisa. Tante storie da portare i pm a contestare agli imputati, oltre i reati di lesioni e simili, anche l’aggravante della crudeltà.

In caserma - Ad aspettare i detenuti che arrivavano alla caserma un vero comitato di accoglienza fatto dalle forze dell’ordine. Come in un rituale. I detenuti al loro arrivo subivano una serie di condotte vessatorie. Alcuni erano costretti ad attendere l’ingresso rimanendo chiusi nei veicoli sotto il sole anche per molto tempo, mentre altri erano costretti o contro un albero presente nel cortile o contro della palazzina. Neppure l’arrivo nell’area sanitaria è motivo di sollievo. Anzi. Il clima è anche peggio. Neppure da parte dei sanitari, coloro che lamentavano situazioni di particolari sofferenze e disagi, trovavano ascolto. Molte donne dovevano spogliarsi e rimanere nude anche in presenza di agenti uomini e alcune fra queste hanno testimoniato di essere state anche costrette a questa situazione per un tempo lungo, percepito per la situazione complessiva come superiore a quello necessario per la visita medica.

La domanda - Che cosa è accaduto allora davvero a Bozaneto? È questa la domanda al cui i pm vogliono trovare una risposta per quanto riguarda i fatti del G8. Secondo i pm, "nel trattamento inflitto ai detenuti dalle forze dell’ordine vi è stato molto di più di una, comunque assai grave, compressione del residuo spazio di libertà dei detenuti". Non c’era emergenza che potesse giustificare quello che è accaduto. Non c’era giustificazione perché si era ormai lontani dagli scontri di piazza e quella caserma. Non c’è giustificazione ancor di più perché non vi fu alcuna resistenza né singola né collettiva. In quei giorni a Bolzaneto per i detenuti è stata gravemente offesa la loro dignità di uomini, la loro libertà fisica e morale.

 

Intervista: Mario Portanova parla del suo libro su Bolzaneto

 

È sicuramente Bolzaneto il caso di violenza più discusso durante i giorni del G8 di Genova. Affari Italiani ha discusso del tema con Mario Portanova, giornalista free lance che ha scritto un libro in cui racconta tutti gli orrori di Bolzaneto attraverso la requisitoria dei pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Libro che verrà presentato lunedì 14 luglio alle ore 21 a Milano allo Spazio Melampo, via Carlo Tenca 7.

 

Da cosa è nata l’idea di un libro inchiesta sui fatti accaduti a Bolzaneto?

Ho seguito tutto ciò che è accaduto al G8 di Genova, i pestaggi, le cariche e poi il processo. Ritengo che quella della caserma utilizzata per gli arresti è stata una storia incredibile. Basta pensare che la vicenda è stata è stata data dalle forze dell’ordine su persone inermi. Senza nessuna giustificazione. Così attraverso carte pubbliche e requisitorie sono riuscito a creare questo libro. Vale la pena 7 anni dopo allora scrivere cosa sappiamo realmente sul caso.

 

Abusi, violenze e pestaggi. Sono circa 250 le testimonianze date dalle parti lese portate al processo dai due pm, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Storie che sembrano irreali. Non ha il dubbio che i fatti siano stati falsificati?

Bisogna considerare innanzitutto che le 250 persone considerate le parti lese non si conoscono. Le persone provengono da ambienti diversi, spesso anche da paesi diversi. E diversi sono stati anche i momenti in cui sono stati interrogati Il fatto che tanti raccontano cose simili fa pensare. Anche perché se no bisognerebbe pensare ad un grosso complotto creato dai no global. Senza considerare che adesso a testimoniare i fatti accaduti ci sono anche dei poliziotti che non vogliono essere indagati.

 

Che cosa secondo lei ha portato ad utilizzare tanta violenza da parte delle forze dell’ordine contro chi era presente?

A far scattare le cariche della polizia sono state le voci che si sono sparse riguardanti alcuni poliziotti morti. Due, forse tre. Costante che si sparge anche a Bolzaneto. Sono convinto che siano state messe in circolazione nei momenti strategici e hanno contribuito ad alimentare la tensione delle forze dell’ordine contro i manifestanti. Il comportamento delle forze dell’ordine a Bolzaneto poi è stato coerente con il comportamento tenuto dalla polizia in piazza a partire dal venerdì.

 

Cosa si aspetta dal processo che si sta svolgendo a Genova e che a breve pubblicherà le motivazioni della sentenza?

Vorrei che la verità storica fossero accertato. Quello che mi aspetto dai due processi è la verità dei fatti. Sia per quanto riguarda la Diaz che per Bolzaneto. Per il resto l’andazzo della giustizia non porterà a nessuna punizione e il caso andrà in prescrizione nel 2009.

Immigrazione: Padova; 30 operaie marocchine come schiave

di Davide Varì

 

Liberazione, 12 giugno 2008

 

Padova: in un impianto per il riciclo si rompe una macchina e i padroni costringono 30 operaie del Marocco a lavorare come schiave a cinque euro l’ora. Loro si ribellano e occupano la fabbrica.

Si può lavorare 10 ore di seguito, chinati per terra a spalare "monnezza" dentro un capannone caldo e asfissiante per 5 euro l’ora? Sì, in Italia si può. Bastano un paio di requisiti: essere donna ed essere migrante. E la sorte di 30 lavoratrici marocchine - ma forse sarebbe più appropriato chiamarle schiave - era proprio quella.

Dopo l’incendio della primavera scorsa, l’impianto padovano "Star Recycling" di smaltimento e differenziazione rifiuti era infatti rientrato in funzione senza il nastro trasportatore ed altri macchinari fondamentali al ciclo di lavoro. Da un mese circa tutto si faceva dunque a mano. Con le mani di queste donne per la precisione. Con le loro braccia e il loro sudore. Il camion dei rifiuti arrivava, si infilava nel capannone e buttava tutto a terra: stracci, bottiglie e avanzi di ogni genere. E loro lì, con le mani affondate nella monnezza, sedute sulle ginocchia a separare i rifiuti.

Ma ieri, esauste ed esasperate, le 30 donne hanno deciso di occupare quel capannone e incrociare le braccia. Poi hanno chiamato il sindacato e l’ispettorato del lavoro per denunciare tutto: "Abbiamo bisogno qualcuno che ci aiuti, ci salvi", racconta a Liberazione una di loro. "Questo non è lavoro - continua la donna che non vuole si faccia il suo nome per paura del "padrone" - questo è un inferno, è una cosa disumana, un lavoro da bestie. Non possiamo andare in bagno e non facciamo pause. C’è una signora italiana che ci controlla tutto il giorno".

Il tutto per uno stipendio da fame - 5 o 6 euro l’ora, dipende da quanto tempo si stava lì dentro - e senza nessuna forma di contratto: "Nei mesi successivi l’incendio - racconta ancora la donna - quando l’impianto era fermo, non abbiamo ricevuto neanche un euro". E dire che a gestire tutto c’è una cooperativa cui stato affidato l’appalto del servizio di smistamento dei rifiuti. "La cooperativa - racconta un’altra donna - ci consegna finte buste paga di 1.300 euro al mese ma l’assegno che incassiamo è di 800". Superfluo dire che ferie, malattie e permessi non esistono. La cooperativa paga le ore effettive di lavoro e basta.

Ma il bello della faccenda è che la "Star Recycling" è una costola di un’altra azienda a gestione pubblica: la "Progetto salvaguardia ambiente", partecipata da alcuni comuni del padovano. "È una catena di sfruttamento che parte da questa azienda semipubblica - spiega Paolo Benvegnù, coordinatore di rifondazione di Padova - e arriva fino alla piccola cooperativa che materialmente gestisce il servizio di differenziazione dei rifiuti. È evidente che queste donne, almeno fino ad oggi, hanno accettato qualsiasi forma di sfruttamento pur di avere una busta paga che consenta loro di rinnovare il permesso di soggiorno". Insomma, una situazione di ricatto e sfruttamento ideale per l’azienda.

Eppure, grazie alla protesta delle lavoratrici per la prima volta in quell’impianto si è visto un sindacalista. "La situazione è gravissima - ha ammesso Malica, della Filt Cgil - queste donne sono letteralmente schiavizzate. Il capannone è un forno con un’aria irrespirabile e loro non possono muoversi, sono inchiodate lì dentro a spalare tra la mondezza". "Qualche giorno fa - racconta un’altra delle lavoratrici - hanno anche investito una ragazza con un muletto e per paura che arrivasse qualche controllo non hanno neanche chiamato l’ambulanza".

Appena saputo della protesta delle donne l’azienda ha provato a tacitarle minacciando provvedimenti. Ma poi, di fronte all’intervento del sindacato e di rifondazione la strategia è improvvisamente cambiata. "Dovete uscire di qui perché l’impianto non è agibile per mancanza di macchinari", pare abbia detto un rappresentate della Star Recycling alle lavoratrici. Insomma, fino al giorno prima l’impianto era perfetto e le donne potevano spalare tra la monnezza, e ventiquattro ore dopo era diventato inagibile.

Daniela Ruffini, Assessora al Comune di Padova di Rifondazione, parla di situazione di "schiavitù intollerabile": "Queste donne venivano trattate come bestie, sono le ultime delle ultime arrivate fin qui in Italia per spalare i nostri rifiuti per un salario da fame. Chi ha paura degli immigrati deve sapere che sono i migranti che devono aver paura degli italiani".

Fino alla tarda serata il capannone rimaneva occupato e il responsabile dell’impianto decideva allora di aprire una trattativa per migliorare le condizioni di lavoro delle lavoratrici, per renderle umane e per garantire un salario giusto. Diritti che sembravano acquisiti per sempre ma che evidentemente non lo sono affatto.

Droghe: sulla cannabis "crociata" che fa bene solo alle mafie

 

Liberazione, 12 giugno 2008

 

Suicidi, carcere, drammi familiari, perdita del lavoro... questi e altri gli effetti della War on drugs, la guerra alle droghe che finora ha prodotto solo immensi capitali alla malavita organizzata (e, ripuliti, alla "sana" economia) e spezzato molte vite. L’aspetto economico lo hanno denunciato anche tre premi Nobel e 500 economisti americani nel 2005: altissimi costi (7 miliardi di dollari all’anno) e grandissimo contributo alle mafie ("un sussidio del governo al crimine organizzato").

In Italia, se non siete Gianfranco Fini che si vantò di avere provato i "terribili e devastanti effetti della marijuana" in Giamaica (commettendo, ci spiace ricordarglielo, un reato visto che l’erba non è libera neppure lì), la legislazione e le sue interpretazioni rischiano nel migliore dei casi di mandarvi al manicomio. Tutto ancora più assurdo dalla grottesca legge Fini-Giovanardi inserita con un colpo di mano nel Decreto sulle Olimpiadi Invernali ("modificazione... recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali"). Il nesso tra olimpiadi e droga è folle quanto la legge partorita: viene eliminata l’unica distinzione che si faceva almeno tra "droghe pesanti" e "droghe leggere".

Tutto ciò che "altera" (naturalmente esclusi alcol, tabacco, caffè, zuccheri, prozac, ecc. ecc.) è indistintamente punito. E di conseguenza percepito. Una canna è come un tiro di cocaina o una pera. Questo è quello che dice una legge anni luce dalla verità dei fatti. In questo quadro giuridico gli orientamenti sulla coltivazione e sul consumo sono tutt’altro che uniformi. Un giorno si grida di gioia e l’altro ci si mette le mani tra i capelli. Mettiamo conto che veniate trovati in possesso di qualche canna il cui principio attivo superi i limiti delle tabelle, un giudice dovrà stabilire, caso per caso, se si tratti di uso personale della sostanza (punito con la sola sanzione amministrativa), oppure di spaccio (in questo caso la condotta è punita con la sanzione penale).

Uno tra gli elementi è per esempio quanto guadagnate. Se siete molto ricchi è possibile che, con un giudice comprensivo, sia giustificato il fatto che abbiate acquistato grossi quantitativi per uso personale. Se siete poveri, ci dispiace, ma siete spacciatori. La parte più ambigua riguarda l’autoproduzione. In alcuni casi si è distinto tra coltivazione domestica (amministrativo) e industriale (penale). In altri, non si è operata distinzione alcuna tra una pianta o un campo da un ettaro. Timidi entusiasmi nel 2007 quando la Corte di Cassazione sancì che non è reato penale coltivare nel giardino di casa qualche piantina di marijuana.

Presto spenti, il 10 gennaio 2008, quando sempre per la Cassazione la coltivazione, sul balcone di casa, anche di una sola piantina di marijuana, indipendentemente dalle sue caratteristiche droganti è stata giudicata penalmente perseguibile. Da questa schizofrenia non si salva neanche chi lotta per ottenere almeno i riconosciuti effetti terapeutici della cannabis.

Un caso su tutti è quello di Fabrizio Pellegrini, malato di artrite reumatoide in cura con la cannabis, arrestato e condotto nuovamente in carcere negli scorsi giorni: per sette volte negli ultimi 7 anni la pubblica autorità ha perquisito la sua abitazione, sequestrato qualche pianta e un po’ di erba già essiccata. Diplomato al conservatorio in pianoforte e pittore è costretto all’odioso carcere e a sostenere ingenti spese legali. Il criminale, non è di certo lui.

Droghe: quei "rasta" della Cassazione… le reazioni politiche

 

Fuoriluogo, 12 giugno 2008

 

Ecco le reazioni alla sentenza della Cassazione sull’utilizzo della canapa da parte dei Rastafariani. Marco Perduca: pericolo conversioni per la Chiesa Cattolica. Gasparri: sentenza fuori dal tempo. Don Gallo: "Finalmente una sentenza che non demonizza una sostanza". Paolo Grimoldi (Lega): dopo Rasta legalizzare cannibali?

Marco Perduca: pericolo conversioni per la Chiesa Cattolica. Contro l’istigazione alla conversione rasta e l’arresto di fumatori cattolici il Vaticano faccia qualcosa!". È con un "sorriso amaro" che Marco Perduca, segretario della Lega internazionale antiproibizionista eletto al Senato nelle liste del Pd, accoglie la sentenza con cui la Cassazione ha accolto il ricorso di un seguace rasta che era stato condannato perché trovato in possesso di circa un etto di marijuana. "Da oggi infatti - afferma Perduca - se per i seguaci della religione rasta che verranno trovati in possesso di erba in quantità non modiche da fumarsi tranquillamente perché aiuta la contemplazione e la preghiera nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, per i fumatori cattolici, anche devoti, restano invece previste pesanti sanzioni amministrative prima, e penali poi, frutto della Legge Fini-Giovanardi. Ora - conclude l’esponente radicale - conoscendo e condividendo le posizioni della Chiesa contrarie al carcere, non si potrebbe correre ai ripari designando un santo a cui votarsi, almeno per l’estate?".

Maurizio Gasparri: sentenza fuori dal tempo. "La sentenza della Cassazione, che legittima l’uso di marijuana da parte degli adepti alla religione dei rasta perché assunta come erba meditativa, è fuori dal tempo". Lo afferma il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri che ironicamente aggiunge: "adesso tutti rasta per violare la legge e andare disinvoltamente in giro con marijuana e magari hashish o droghe simili". "Chiunque oggi - osserva Gasparri - si può definire rasta o portare semplicemente i capelli acconciati in un determinato modo per poter consumare impunemente droghe. Ma davvero a nessuno è venuto in mente che in Italia quella dei rasta è più una tendenza di moda che non una fede religiosa?". "Qualcuno fermi i giudici che vivono fuori dalla realtà", conclude Gasparri.

 

Don Gallo. "Finalmente una sentenza che non demonizza una sostanza". Don Andrea Gallo, fondatore e animatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, plaude alla sentenza della Cassazione che dà l’ok al consumo di erba per gli adepti della religione rastafari. "Il fatto è che non si può continuare a demonizzare una sostanza - afferma il sacerdote che aiuta i giovani con problemi di tossicodipendenza e nel disagio sociale -. C’è da rispettare un principio di auto determinazione. È da trent’anni che favoriamo l’offerta di sostanze stupefacenti demonizzandole, mentre ora la Suprema Corte ha capito che demonizzare una sostanza in quanto tale non è la strada giusta. Si deve colpire l’abuso, non l’uso". Don Gallo dice: "pensiamo allo zucchero: in sé, se non se ne abusa, non è certo dannoso, ma se si esagera si rischia il diabete. È tutta una questione di auto determinazione." Un esempio che a don Andrea serve per affermare che "l’obiettivo è la legalizzazione delle droghe, non la liberalizzazione. Insomma, bisogna darsi delle regole nuove che rispettino il principio di auto determinazione e bisogna distinguere tra uso e abuso, tra spaccio e uso. Questo dovrebbe tenere presente una legge. Perciò ringrazio i giudici della Cassazione perché offrono uno spiraglio in questa direzione", conclude don Gallo.

Paolo Grimoldi (Lega): dopo Rasta legalizzare cannibali?. "Ecco, ci mancava anche questo, la Cassazione che legittima l’uso di droghe in base alla religione. Se non fosse il 10 luglio sembrerebbe un pesce d’aprile", il deputato leghista Paolo Grimoldi, coordinatore federale del Movimento Giovani Padani, ricorre all’ironia per commentare così la sentenza della Suprema Corte che consente l’uso dell’erba per i rasta. "Una sentenza incredibile e indecente. La Cassazione - prosegue - non è la prima volta che stupisce con decisioni alquanto stravaganti e originali. A questo punto perché non legittimare anche il cannibalismo di alcune tribù equatoriali o le mutilazioni femminili islamiche? Chiunque oggi si potrà definire rasta solo per possedere la droga che gli serve. E poi ci si stupisce - conclude Grimoldi - che la maggioranza voglia fermare il delirio di onnipotenza di alcuni giudici?".

Roberto Cota (Lega Nord). È una sentenza che produce effetti aberranti. Le norme giuridiche vanno applicate con buonsenso. La linea guida deve essere che l’uso della droga va contrastato non giustificato". Lo ha dichiarato il Presidente del deputati della Lega Nord, Roberto Cota, in riferimento alla sentenza della Cassazione che ha accolto il ricorso di un cittadino di Terni che, condannato per illecita detenzione a fine di spaccio, ha sostenuto di essere un rastafariano e di fumare l’erba in base ai precetti della sua religione.

Bertolini (Pdl): strabismo giuridico della Cassazione. "In materia di sostanze stupefacenti, la Cassazione sembra affetta da una pericolosa sindrome che potrebbe andare sotto il nome di strabismo giuridico. La Suprema Corte, negli ultimi mesi, ha emanato sentenze, riguardanti il delicatissimo problema dell’uso e della detenzione di droghe, tra loro assolutamente incompatibili. Oggi i giudici di Cassazione, giustificando la detenzione di ingenti quantità di hashish per gli adepti rasta, assumono una decisione assolutamente sconcertante, in palese contrasto con quanto stabilito in altre occasioni". Lo afferma l’esponente del Pdl Isabella Bertolini. "Non è accettabile che in Italia si possa farla franca di fronte alla legge se beccati in possesso di un etto di hashish. L’uso, in questo specifico caso l’abuso di sostanze stupefacenti, deve essere condannato fermamente senza distinzioni né attenuanti giustificate da credenze e affiliazioni religiose. In Italia purtroppo - conclude Bertolini - esiste un filone giurisprudenziale anti proibizionista, nel quale si iscrive la sentenza emessa oggi dalla Cassazione, che noi condanniamo e bolliamo come pericoloso e dannoso".

Volontè (Udc): sentenza sconcertante. "La Cassazione continua a stupire con sentenze sconcertanti a tal punto da diventare drammatiche: permettere ai rasta di portare con sé hashish in quanto considerata dalla loro presunta religione come erba meditativa avrà un duplice gravissimo effetto sulla nostra società. In primis, indurrà gli spacciatori e i commercianti di stupefacenti a utilizzare i rasta per i loro loschi giri, e, ancor più disarmante, gli abituali consumatori potranno farsi crescere i capelli e millantare di essere adepti rasta per evitare fermi di polizia". È quanto afferma, in una nota, il deputato dell’Udc Luca Volontè.

Seychelles: resta in carcere italiano accusato di traffico droga

 

Corriere della Sera, 12 giugno 2008

 

Scende dal cellulare zoppicando per le percosse ricevute in carcere, un polso strettamente fasciato, con l’ecchimosi all’occhio appena visibile, manette ai polsi, ma entra nell’aula dove si tiene l’udienza del suo processo a testa alta. Federico Boux, torinese, 32 anni, appare provato dopo undici mesi nel carcere della Seychelles, dov’è detenuto in attesa di giudizio per traffico di droga. Un’accusa che si basa su 6,6 grammi di eroina, che l’imputato sostiene siano stati piazzati nella sua automobile senza che lui ne sapesse nulla.

La madre, Oriella, riesce ad abbracciarlo in lacrime. Il figlio rischia trent’anni di galera. Ha il tempo di scambiare qualche battuta. Come ti trattano in prigione? "Male - risponde mentre attendiamo l’arrivo del giudice Duncan Gaswaga -. Si mangia da schifo. Per fortuna che da casa mi mandano ogni giorno il cibo. Si consuma seduti per terra come i cani. Non ci sono tavoli. Poi siamo mescolati detenuti in attesa di giudizio e condannati anche per reati gravi. Così ogni giorno ricevo assalti dagli altri detenuti. Mi frugano dappertutto, mi rubano le sigarette, i biscotti, il poco cibo che ho, se non mangio tutto in fretta. È un inferno". Ma i secondini non ti difendono? "Stanno a guardare divertiti. Ora mi hanno messo in una cella da solo. Ma quando è l’ora del pranzo o della cena ci mescolano tutti assieme".

Il processo nel merito è previsto a metà novembre. Per ora ci sono state udienze preliminari ma quella di ieri è stata importantissima ed è durata più di un’ora. L’avvocato difensore, Basil Wao, ha presentato le fotografie pubblicate dal Corriere.it dove si vedono le percosse subite dall’imputato e ha chiesto che a Federico Boux fosse assicurato un trasferimento in tribunale. Ma non solo. Il legale ha fatto analizzare i 6,6 grammi di polvere trovata nell’auto del suo cliente e ha scoperto che l’eroina è solo il 30 per cento del peso, 1,9 grammi, cioè meno dei 2 grammi previsti dalla legge delle Seychelles per sostenere un’accusa pesante come il traffico di droga. La pubblica accusa, rappresentata dal procuratore Ronny Govinden, chiede che non vengano ammesse né le fotografie ("non sono state scattate da un’autorità e quindi non hanno valore"), né le analisi sulla polverina ("non è di alcun interesse conoscere la quantità. Sempre di traffico si tratta").

Interrogato dal giudice il ragazzo è molto chiaro. La disperazione lo rende lucidissimo. Racconta minuziosamente i pestaggi in carcere, l’ultimo il 29 giugno, le molestie, le angherie. Poi indica un secondino: "Ecco lui è l’unico che mi aiutato". Quando il giudice lo blocca ("grazie, ma non entriamo nei dettagli dell’assalto"), il difensore insorge: "Eccellenza, non possiamo chiudere gli occhi davanti a quanto accaduto. Occorre tirarlo fuori dal carcere". "Io cerco di stare solo - conclude l’imputato - ma non ci riesco. Vengono mi provocano, mi molestano. E quando mi hanno picchiato la polizia non mi ha creduto". Il giudice prende tempo rimanda una decisione sulla scarcerazione su cauzione al 25 luglio: "Farò analizzare la polverina e cercherò di capire perché il ragazzo è stato picchiato".

Presente all’udienza, che alle Seychelles sta destando grande l’attenzione, Ralph Volcer, direttore del settimanale d’opposizione Weekly: "Questo non è un processo normale. C’è qualcuno che intende impadronirsi dei beni della famiglia Boux e se la sono presa con il figlio. Gli hanno messo in auto un pizzico di droga e l’hanno incastrato. Sono certo che lui non c’entra nulla". Un contenzioso oppone Ezio Boux e la moglie Oriella a un italiano che ha anche il passaporto seycellese, Salvatore Paolo Procopio. La famiglia torinese sostiene di aver versato più o meno 500 mila euro a Procopio per attrezzare e lanciare un ristorante, ma di non aver mai ricevuto in cambio nulla. Cioè di essere stata truffata e aver perso tutto. Procopio non è sull’isola e non abbiamo potuto sentire la sua versione.

 

 

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