Rassegna stampa 20 giugno

 

Giustizia: cosa succede con l’emendamento "salva-premier"?

 

Corriere della Sera, 20 giugno 2008

 

La prescrizione accorciata dal centrodestra senza calcolare quanti processi avrebbe "fulminato", o l’indulto varato dal centrosinistra con la clamorosa sottostima dei condannati che ne avrebbero usufruito, nulla hanno insegnato: proporre o contrastare riforme della giustizia senza avere la più pallida idea della ricaduta pratica delle norme è il modo più sicuro perché alla lotteria dei numeri sia il cittadino-utente dei Tribunali a estrarre sempre il biglietto perdente.

Alla stima dell’Associazione nazionale magistrati, secondo la quale sarebbero 100mila i processi che verrebbero sospesi dall’emendamento Vizzini-Berselli fortemente voluto dal premier Berlusconi, il ministro della Giustizia ha obiettato: "Mi è stato detto che complessivamente i procedimenti pendenti arrivano a 3 milioni. Occorre rifare i conti e, rispetto al totale, calcolare quanti se ne sospendono. Ma non si può far credere alla gente che andrebbero tutti a regolare conclusione in quest’anno ". Così, però, il ministro confonde il dato dei 3 milioni di procedimenti pendenti (fascicoli iscritti a registro ma pendenti nelle varie fasi procedurali) con il numero dei dibattimenti fissati in Tribunale (racchiusi fra il rinvio a giudizio e la sentenza di primo grado), cioè la fascia di processi (352mila la rilevazione a fine 2006) entro la quale opererà la norma che punta a sospendere per un anno i processi per reati puniti con pene non superiori ai 10 anni.

Anche l’Anm, tuttavia, nel lanciare il suo fondato allarme sul non preventivato impatto della legge, nonché su alcuni suoi clamorosi paradossi (dibattimenti che proseguirebbero per vicende bagatellari e altri che si fermerebbero per questioni serissime come gli omicidi colposi o alcune violenze sessuali), si avventura sulla scivolosa strada di numeri dall’incerta plausibilità.

Dire infatti che i processi a rischio sono 100mila - stima operata dall’Anm partendo dal presupposto che il 30% dei 352mila processi pendenti riguardino fatti commessi prima del 30 giugno 2002, e che questi siano reati puniti nel 90% dei casi con pene non superiori ai 10 anni - è poco più di una proiezione già spannometrica nella dimensione cronologica, ma addirittura del tutto cieca in quella qualitativa. L’Anm non distingue i processi che, pur incentrati in ipotesi su fatti davvero precedenti il 30 giugno 2002, riguardano reati o presentano condizioni che la nuova legge comunque escluderebbe dalla sospensione.

E non li distingue perché non può farlo. Esattamente come non è in grado di farlo il ministero. E come nessuno oggi può fare in Italia. Perché questo è il vero nodo di quest’ultimo carosello politico-giudiziario: per come sono fatte le statistiche giudiziarie, nessuno (né a livello locale di singolo tribunale né a livello centrale di ministero) è in grado di aprire un computer, immettere i termini della nuova legge, schiacciare un tasto e sapere quanti processi si bloccherebbero. A poco, infatti, serve il registro generale nei tribunali, perché da quello si può ricavare solo la data di iscrizione del processo, non la data di commissione del reato che quel processo sta accertando.

Bisognerà che in ogni tribunale ogni cancelleria di ciascuna sezione verifichi a mano, fascicolo per fascicolo, se il reato risale a prima del 30 giugno 2002, se è punito con più o meno di 10 anni, se è tra quelli per cui la sospensione è esclusa dalla legge: per esempio, se gli imputati non siano magari detenuti anche per causa diversa dal processo teoricamente da sospendere (altra circostanza che i registri non attestano e che subisce ripetuti aggiornamenti).

Ad aggravare l’impasse c’è il fatto che questa verifica non potrà essere scaglionata giorno per giorno, man mano che verranno chiamati i relativi processi; ma dovrà essere fatta tutta insieme e in una volta, prima che entri in vigore la legge, perché essa impone ai Tribunali di notificare "immediatamente" agli imputati la sospensione dei processi congelabili.

E per notificarli, bisogna prima sapere quali siano. Sotto questa massa di notifiche da fare, schiatteranno le cancellerie già sotto organico del 12% a livello nazionale e con picchi del 30% al Nord: se i processi da sospendere fossero anche solo qualche decina di migliaia anziché i 100mila stimati dall’Anm, e tenendo presente che in quasi tutti i dibattimenti gli imputati sono più di uno, difficilmente le cancellerie potranno reggere la moltiplicazione delle notifiche sia nella partita di andata (quando bisognerà notificare le sospensioni) sia in quella di ritorno (quando dopo un anno bisognerà rifare i ruoli di udienza e rinotificare la data di ripresa dei processi sospesi).

Con spese peraltro enormi, consistenti nel costo della montagna di fax da spedire o dei circa 9 euro a notifica se a mezzo posta. L’assurdità di questo modo di legiferare, prima ancora che nei dubbi costituzionali sul suo contenuto, sta proprio in questo irresponsabile prescindere dalle ricadute pratiche delle norme. "Occorre rifare i conti" è un sano proposito. Solo che sarebbe stato meglio pensarci prima di presentare la legge, non dopo.

Giustizia: tribunali chiusi solo 1 mese, per smaltire arretrato

 

Il Mattino, 20 giugno 2008

 

Giustizia chiusa per ferie soltanto nel mese di agosto: con una norma, inserita nel decreto legge della manovra economica, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, riduce a un mese lo stop per i processi. "Sono due le direttrici di marcia: accelerare i processi e agevolare il più possibile - sottolinea il ministro - forme di soluzioni alternative della controversia, e per questo puntiamo molto su una accentuazione della mediazione. Saranno poste anche le basi - spiega Alfano - del processo informatico".

 

Inciderà anche sulle ferie dei magistrati?

"No. È la macchina a rimettersi in moto 15 giorni prima. I diritti soggettivi, ovviamente, restano intatti".

 

Cinque milioni di cause pendenti nel settore civile. Come pensa di riuscire a far smaltire tutto questo arretrato?

"Sono due le direttrici di marcia: accelerare i processi e agevolare il più possibile forme di soluzione alternative della controversia, e per questo puntiamo molto su una accentuazione della mediazione. Saranno poste anche le basi del processo informatico e le notificazione per via telematica sono il primo passo. Non solo: ci sarà una norma per sanzionare il comportamento negligente delle parti, così chi si assenterà due volte dall’udienza vedrà estinguersi il suo processo. E poi ridurremo di un terzo, e questo già a partire dall’estate, la sospensione feriale dei termini processuali civili: le vacanze inizieranno, come sempre, il primo agosto ma finiranno il 31 del mese e non più il 15 settembre".

 

Nessuna ipotesi di congelare i processi anche nel civile?

"Non si confonda il penale con il civile, dove intendiamo procedere, in alcuni casi, con un disegno di legge e, in altri, con un provvedimento apposito che punta all’accelerazione dei processi. Il presupposto della sospensione di alcuni procedimenti penali è cosa ben diversa: garantire una corsia preferenziale per i reati di maggiore allarme sociale e di più recente commissione, sospendendo per un anno i processi semi-abbandonati e in odore di prescrizione".

 

Dopo l’Anm anche il Csm, che sta preparando un parere, non sembra entusiasta della soluzione.

"Leggerò il documento del Consiglio con grande attenzione. Ma non posso tacere che questa norma trae spunto dalla circolare Maddalena (l’ex Procuratore Capo di Torino, ndr.) e da altre analoghe iniziative che, laddove applicate, hanno dato buoni risultati. E non dimentichiamo che le circolari dei capi degli uffici giudiziari non potevano certo prevedere la sospensione dei termini di prescrizione, aspetto invece presente nel decreto".

 

II rischio è che fra un anno si debba ricominciare daccapo, se non si potrà ricostituire il vecchio collegio giudicante. Perché non prevedere che si salvino tutti gli atti, anche se non c’è l’accordo delle parti processuali?

"Durante il percorso parlamentare del provvedimento si valuterà anche questa obiezione e tecnicamente si studierà come agire al meglio".

 

L’Anm ha citato casi di processi anche molto gravi che verranno bloccati mentre altri di minore impatto che andranno avanti. Non è anche questa una forma di ingiustizia?

"Il nostro obiettivo non è generare paradossi e crediamo, tra l’altro, che non se ne produrranno. Intendiamo consentire lo svolgimento, il più rapido possibile, di processi riferiti a reati ‘ recentemente commessi e di grave allarme sociale. E non si cerchi di far credere che i processi "congelati" si potrebbero chiudere se non ci fosse questo anno di sospensione".

 

Se il problema era il processo Mills, dove il premier è imputato, perché non affrontare questa sola questione non coinvolgendo tutto il sistema giustizia?

"Una buona norma, e lo dimostrano le circolari dei procuratori che ho prima citato, non diventa automaticamente cattiva solo perché potrebbe riguardare il presidente del Consiglio in un suo procedimento penale".

 

Perché non ripristinare l’immunità parlamentare?

"Ma che c’entra la norma che da priorità ai reati recenti e più gravi con l’immunità parlamentare?"

 

Quella norma prelude, però, a un nuovo Lodo Schifani.

"Non ci sarebbe nulla di strano nel procedere in quella direzione. Il lodo è una causa di non punibilità per le più alte cariche dello Stato ed esiste in molto altri Paesi".

 

Che accadrà fra un anno, quando al processi "congelati" si saranno aggiunte altre pendenze?

"Fra un anno saranno stati celebrati e conclusi tanti procedimenti per reati di recente commissione e di grave allarme sociale. Ecco perché è sbagliato dire che è una norma blocca - processi. Anzi, garantisce una corsia preferenziale per quelli più gravi e recenti".

 

Che fine fa la certezza della pena?

"Questa norma la tutela appieno".

 

Ma non nei casi che vengono sospesi.

"I procedimenti "congelati" proseguiranno l’anno prossimo e nel frattempo si sarà smaltita una buona parte del carico di processi più gravi e che meritano di avere una giustizia rapida".

Giustizia: Saltamartini (An); tolleranza zero per la pedofilia

di Traiano Bertolini

 

L’Opinione, 20 giugno 2008

 

Tolleranza zero nei confronti di chi commette crimini legati alla pedofilia e alla pedo-pornografia. Ad invocarla è Barbara Saltamartini, responsabile del dipartimento Pari opportunità di An, che ha chiesto un intervento legislativo in grado di inasprire le pene, introducendo una fattispecie di reato specifica in materia di apologia ed istigazione alla pedofilia.

 

Quali sono le priorità che intendete mettere in campo per contrastare i crimini a danno dei minori?

Ho già detto e non mi stancherò mai di ripetere che contro la pedofilia la nostra parola d’ordine deve essere tolleranza zero. Forse non tutti ne sono pienamente consapevoli ma la pedofilia è un fenomeno che ci riguarda da vicino. Secondo i dati più recenti a nostra disposizione, il 92% dei minori sfruttati è di razza europea; il 61% dei clienti e dei consumatori della pedo-pornografia online è europeo; l’86% dei materiali pedofili rilevati in rete è allocato in territorio europeo.

Come vede, l’Europa che - pur con difficoltà - si avvia verso la piena maturità politica e istituzionale, non è ancora in grado di porre un freno ad uno dei crimini più esecrabili che colpisce, depreda, violenta l’innocenza dei suoi stessi figli. Considerato il carattere "globale" del fenomeno, credo che l’unica arma davvero efficace possa essere la cooperazione, sia a livello internazionale che locale. In altre parole, è necessario cominciare ad unire le forze e coordinare gli interventi, creando una sinergia tra istituzioni, soggetti politici e associazioni per arrivare a soluzioni nuove ed efficaci. Per questo intendo chiedere l’immediata audizione di tutte le realtà associative, a partire dall’Associazione Meter di Don Fortunato di Noto, che da anni si occupano con impegno di questo dramma sociale. Infine, ritengo una priorità non più rinviabile l’istituzione dì un Garante nazionale dell’Infanzia, una figura che esiste già in moltissimi stati europei, ma inspiegabilmente non ancora nel nostro Paese.

 

Secondo le stime di Telefono Arcobaleno gli italiani sono il quinto maggior fruitore al mondo di pedo-pornografìa online. Quali azioni di contrasto è possibile concertare con la polizia postale?

Occorre riflettere attentamente sul ruolo di internet e sulla diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione. La produzione di materiali pedopornografici (filmati e fotografie) si è riattivata notevolmente e si è arricchita la metodologia di scambio online, con infiltrazioni sistematiche che vanno ben al di là della comunità pedofila propriamente detta e arrivano a contaminare spazi privati appartenenti ad aziende e istituzioni.

Non possiamo certo permettere che la globalizzazione tecnologica divelti la cassa di risonanza di una lobby di criminali. La pedofilia, d’altra parte, non è riducibile tout court ad una questione penale. In molti casi si sta pericolosamente trasformando in un fatto culturale. Penso ad esempio alla formazione partitico-lobbistica olandese, "Naasteniiefde, Vrijheid en Diversiteit", "Solidarietà, libertà e diversità". Questi signori nella loro piattaforma programmatica hanno proposto di abbassare a 12 anni l’età legale per avere rapporti sessuali e di legalizzare la pedo-pornografia. Di casi simili, purtroppo, se ne potrebbero citare tanti altri. Il problema che si pone, dunque, è quello di aiutare la rete a sviluppare robuste difese immunitarie, per così dire, il decreto Gentiloni ha compiuto un primo passo in tal senso, con la previsione di una black list per gli internet provider, di oscurare i siti incriminati. Spazi web spesso effimeri, trasferiti periodicamente su server diversi per sfuggire ai blocchi. Ma le "fonti" che distribuiscono queste immagini criminali sono solo qualche migliaio. Ed è proprio concentrandosi su queste che possiamo sradicare il fenomeno dalia rete.

 

Il prossimo 24 giugno si "celebra" il "Boy Love Day", la giornata dell’orgoglio pedofilo. Si fa un gran parlare di tolleranza zero su tanti fronti della criminalità; non potrebbe essere un segnale importante iniziare ad applicarla a partire proprio da chi compie dei crimini terribili nei confronti dei più indifesi?

Mi trova perfettamente d’accordo. La Giornata dell’orgoglio pedofilo è un evento ignobile contro il quale dobbiamo mobilitarci tutti senza esitazioni. La proposta delle donne di An è che venga punita per legge la cosiddetta cultura pedofila e la sua devastante ideologia. Sarebbe un segnale molto importante e non solo sul piano simbolico. Sanzionando il Boy Love Day e ogni altra forma di apologia e istigazione alla pedofilia e pedo-pornografia con una fattispecie di reato specifica - che per ora manca nel nostro ordinamento - si otterrebbe l’obiettivo di anticipare la soglia di prevenzione prevista dai sistema penale. In questo modo sarebbe possibile colpire tutte quelle condotte che, a prescindere dalla commissione del reato, offendono non solo il sentimento collettivo di sicurezza ma anche quell’insieme di valori che costituiscono la base fondante della nostra società.

Giustizia: Camera Penale Roma; Costituzione ormai è inutile

 

Apcom, 20 giugno 2008

 

"In questo Paese la Costituzione è definitivamente, ufficialmente inutile. Mentre infatti essa proclama la obbligatorietà della azione penale, il Parlamento ne sancisce la discrezionalità mediante decretazione d’urgenza". Così attacca, in una nota, la Camera penale di Roma, in merito all’emendamento Berselli-Vizzini al ddl Sicurezza.

Secondo l’organismo di rappresentanza dell’avvocatura, quello posto in essere è "un atto grave ed abnorme, quasi quanto la Circolare con la quale, lo scorso anno, il procuratore della Repubblica di Torino, Marcello Maddalena, invitò i propri sostituti a trattare solo procedimenti utili, cioè non vulnerati dall’indulto (perché, si sa l’ipotetica assoluzione è l’esito inutile di un procedimento penale)".

"Noi insorgemmo allora, ed insorgiamo ora - continua il comunicato - contro chi fa strame della legalità costituzionale, la quale richiede, una volta che si deciderà di abbandonare finalmente il totem ipocrita della obbligatorietà dell’azione penale, si seguano le corrette procedure di revisione della nostra Carta fondamentale".

"Non altrettanto può fare chi allora insorse sì, ma per difendere Maddalena dalla formale segnalazione della quale fu fatta oggetto quella circolare ad opera dell’Unione camere penali, archiviata dal Csm, ed oggi grida, senza alcuna credibilità e coerenza, allo scandalo".

"Occorre non rassegnarsi alla imperante e sempre rinnovata Costituzione materiale, mentre viene cestinata, a colpi di decretazione di urgenza - o peggio ancora di circolari - quella scritta dai nostri Padri. Questi sono, d’altronde, i nuovi padri della patria: un procuratore della Repubblica che riforma la Costituzione a colpi di circolare, o quel senatore Berselli, presidente della commissione giustizia, che contestualmente a questa bella impresa, progetta pubblicamente "l’abolizione della legge Gozzini". Ogni era ha i Padri che si merita. Purtroppo per i figli".

Giustizia: Contrada; "no" a nuova istanza differimento pena

 

Agi, 20 giugno 2008

 

Il Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, Daniela Della Pietra, ha rigettato nuovamente l’istanza di differimento pena o di detenzione domiciliare per motivi di salute per l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, che nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere sta scontando una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo rende noto il legale di Contrada, avvocato Giuseppe Lipera, che aveva sollecitato un trasferimento del suo assistito nell’ospedale militare del Celio a Roma. Nella motivazione il giudice "non ritiene però che ricorrano i presupposti per addivenire a un tale provvedimento: non clinici, atteso che l’istituto penitenziario non ha fatto a questo A.G. alcuna richiesta di ricovero.... e non giuridici atteso che, non esistendo presso l’ospedale del Celio un centro clinico penitenziario e non ricorrendo le ragioni di cui prima, si darebbe luogo a un ricovero in quel nosocomio sine die, con continuo piantonamento del detenuto da parte dei carabinieri, il che è escluso dalla natura stessa dell’istituto di cui discute".

Lipera ha scritto ai Ministri della Difesa e della Giustizia per sottoporre loro il caso. Lipera sostiene che "il magistrato non ha alcun potere sul trasferimento dei detenuti, siano essi militari o civili" e che "l’amministrazione militare avrebbe potuto autonomamente decidere il trasferimento senza dar conto alcuno". Contrada, ricorda il legale, ha optato per la detenzione militare e ciò nonostante nel dicembre scorso il magistrato "sua sponte, ha ordinato il ricovero del Contrada presso il reparto detenuti (denominato Palermo) dell’ospedale Cardarelli di Napoli, gestito da sempre dal Corpo di Polizia Penitenziaria, obbligando così il dottor Contrada, contrariamente alla sua volontà, a stare in un reparto insieme ai detenuti comuni". Le condizioni di salute fisiche e psichiche dell’ex 007, che ha 77 anni, secondo l’avvocato "si sono ulteriormente aggravate", e chiede che pertanto sia il ministero della Difesa a ordinare il suo ricovero al Celio.

Giustizia: quando Giovanni Guido evase da San Gimignano

 

Il Cittadino, 20 giugno 2008

 

La testimonianza di Luigi Morsello, che il 21 gennaio 1981 dirigeva la Casa di Reclusione in provincia di Siena. Particolari inediti sulla fuga dal carcere di uno dei tre massacratori del Circeo.

Guido Giovanni, detto Gianni, evase dalla Casa di Reclusione di San Gimignano (Siena) il 21 gennaio 1981. La dinamica dell’evasione si dispiegò con tale facilità, da sembrare subito sospetta agli investigatori. Guido fu assegnato al carcere di San Gimignano nell’anno 1977, proveniente dalla Casa Circondariale di Civitavecchia dov’era rinchiuso per le aggressioni subite dagli altri detenuti. Guido, 19 anni, studente di architettura, assieme ad Andrea Ghira e Angelo Izzo, è stato uno dei tre massacratori del Circeo.

Il 30 settembre del 1975 Andrea Ghira insieme con Gianni Guido e Angelo Izzo, tre giovani della borghesia nera romana, invitarono Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, due ragazze di borgata. Ma la festa si trasformava in un incubo. Le due ragazze furono drogate, picchiate e violentate per due giorni. Rosaria Lopez, 16 anni, fu portata in bagno, picchiata e annegata nella vasca. Dopo, i tre raggiungono la Colasanti, tentarono di strangolarla con una cintura e la colpirono selvaggiamente. Donatella riuscì a salvarsi perché si finse morta. Le due ragazze furono ritrovate nel bagagliaio di una Fiat 127 bianca intestata al padre di Guido Giovanni. La Colasanti fu ricoverata con gravi ferite. Donatella Colasanti è morta il 30 dicembre 2005 a Roma per un tumore al seno, ancora duramente sconvolta per la violenza subita 30 anni prima. Le sue ultime parole: "Battiamoci per la verità".

Andrea Ghira e Angelo Izzo avevano un precedente per violenza a due ragazzine. Andrea Ghira sfuggì a tute le ricerche degli organi di polizia. Gli altri due furono processati e condannati. Il Guido fu condannato all’ergastolo, come anche gli altri due, Ghira in contumacia.

 

Guido a San Gimignano

 

Quando Guido fu assegnato a San Gimignano era in attesa del processo d’appello. Il suo fascicolo personale era privo della copia della sentenza di primo grado. L’osservazione e trattamento, previste dalla legge penitenziaria del 1975 stavano muovendo i primi passi. Inoltre, questo obbligo giuridico è previsto solo per i condannati con sentenza passata in giudicato in esecuzione di pena detentiva definitiva. Va ricordato che era il cosiddetto "decennio degli anni di piombo", definizione postuma per indicare il sanguinoso periodo del terrorismo.

Va anche detto che la riforma penitenziaria del 1975 nacque monca, perché l’istituto del permesso premiale, pur previsto nel testo di legge, fu cancellato da un legislatore spaventato per quanto stava succedendo in Italia e per quanti servitori dello Stato (magistrati, poliziotti, carabinieri, agenti di custodia, sindacalisti, giornalisti, operatori penitenziari) furono barbaramente uccisi.

L’avere limitato la concessione del permesso solo per gravi motivi rinfocolò il clima di tensione all’interno delle carceri, che tornarono essere funestate da episodi di violenza di ogni genere. Si viveva in un clima di terrore e, paradossalmente, ci si sentiva al sicuro nel mondo penitenziario solo quando si stava in carcere, per servizio e gli operatori che ci vivevano (direttore, maresciallo comandante, agenti di custodia), sensazione che perdurò anche dopo il 1975.

Nel 1977 si decise di porre fine, fra l’altro, allo stillicidio di evasioni che funestavano le vecchie e decrepite carceri italiane, di realizzare un circuito di carceri di sicurezza, furono individuati gli istituti più idonei, la funzione di Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena fu affidata al gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era un uomo d’azione, non solo di riflessioni. In meno di un mese individuò i detenuti più pericolosi da trasferire nelle carceri cosiddette di "massima sicurezza", definizione che prese piede ed è usata, a sproposito, ancora oggi (non esistono più carceri di massima sicurezza, esistono carceri particolarmente sicure, la norma che li prevedeva, l’art. 90, fu soppressa dalla "legge Gozzini" del 1986).

Nella scremata operata dal generale Dalla Chiesa incappò anche Guido, che fu trasferito altrove, ma dopo circa un anno lo stesso fu riassegnato a San Gimignano, in quanto "declassificato", il che significava che non era giudicato più un detenuto pericoloso, provvedimento che fu adottato dall’Amministrazione penitenziaria centrale. Vi restò fino al giorno dell’evasione, che avvenne alle ore 19.15 di domenica 21 gennaio 1981, una serata particolarmente fredda.

Le ricerche, immediate, delle forze di polizia non dettero esito alcuno, il Guido si era dileguato nel nulla, sparito, volatilizzato. La dinamica dell’evasione fu di una semplicità estrema. Il Guido si conquistò la fiducia del personale di custodia, uno dei quali poi fu accusato anche di corruzione, venne arrestato e trattenuto nel carcere di Montepulciano, oggi soppresso, per 40 giorni, venendo poi scarcerato per concessione della libertà provvisoria.

 

La fuga dal carcere

 

Il padre, Guido Raffale, era banchiere centrale del Banca Nazionale del Lavoro, veniva frequentemente a trovare il figlio in carcere ed ogni volta si raccomandava al personale perché non accadessero altri episodi di violenza da parte degli altri detenuti e a danno del figlio. Guido non subì mai in carcere a San Gimignano violenza alcuna da nessuno. La madre, di origine napoletana e di famiglia ricca, veniva più raramente, ogni volta con un comportamento freddo e distaccato, a differenza del marito, che era invece molto estroverso. Abitavano a Roma, ai Parioli, noto quartiere dell’alta borghesia romana. Durante la detenzione nel carcere sangimignanese lavorò come scrivano e spesino del sopravvitto detenuti, fu messo in cella assieme ad un detenuto molto più anziano col quale legò molto.

In seguito fu adibito al lavoro di scrivano dello spaccio agenti. Per svolgere quel lavoro si doveva attraversare la portineria: si aprivano e si chiudevano alle sue spalle due porte blindate, le disposizioni erano di essere accompagnato e controllato sempre da un agente, oltre il piantone di portineria. Guido si presentava un soggetto chiuso, silenzioso, l’espressione del viso indecifrabile; celava con cura un certo disprezzo per l’istituzione in cui stava scontando un anticipo di pena, ancorché non definitivamente accertata, all’ergastolo.

Si era a conoscenza delle sollecitazioni del padre, di tentare di ricostruirsi un futuro, tentativo però che appariva velleitario, specie ad un giovane viziato, violento e crudele, che era per giunta esponente dell’estrema destra, ma questo dato non era conosciuto in loco. È evidente che il Guido non ci pensava proprio a restare in carcere 20-21 anni, considerata le diminuzioni di pena per buona condotta, né aveva nessuna intenzione di aggrapparsi all’altra speranza, ben più significativa, di una liberazione condizionale.

L’unico suo scopo (poi si seppe che era una vera e propria ossessione) era quello di studiare in piano di fuga, che appariva impossibile: il carcere di S. Gimignano, funestato nel 1968 dall’evasione di quattro detenuti dai tetti, da allora non ne aveva più subite. Non solo. Nel decennio successivo, per l’infaticabile iniziativa del suo direttore, era stato gradualmente rafforzato in ogni settore. Si era provveduto a sostituire le porte in legno con sistemi monoblocco in lamiera presso piegata con cancello incorporato, il primo in Italia. Le sbarre alle finestre erano state raddoppiate con infissi in metallo ferroso resistente al taglio, a maglia incrociata, realizzata con tondini di ferro perforati a caldo e dopo temperati. Nelle finestre d’angolo delle celle le inferriate erano state triplicate, il muro di cinta parzialmente rifatto, innalzato e protetto a ridosso e su entrambi i lati delle garitte di sorveglianza da barriere di protezione con telaio in ferro e vetri antiproiettili. Era una come una fortezza (ma era in realtà un vecchio convento), godeva della fama di carcere sicuro e ben controllato. Il carcere di San Gimignano fu l’ultimo ad aprire le porte delle celle dei detenuti nella regione Toscana, nel 1974, dopo due rivolte nel febbraio e luglio 1974, fu il primo a chiuderle dopo la scrematura fatta dal generale Dalla Chiesa nel 1977.

Godeva della fiducia dei P.M. di Firenze. Il dottor Pierluigi Vigna, futuro Procuratore Nazionale antimafia, quando arrestò Roberto Gemignani, capo del gruppo terroristico di sinistra "Azione Rivoluzionaria", volle che fosse portato a San Gimignano con la raccomandazione che nessuno all’interno del carcere sapessero chi era. Per oltre 40 giorni, tenuto in reparto isolamento, nessuno seppe chi fosse, ad eccezione del direttore, del maresciallo comandante e di quell’esponente degli agenti di custodia, che restò invischiato nell’evasione del Guido.

Gemignani ebbe il nome in codice "Ciccio bello", col quale fu registrato anche nella matricola detenuti, il solo nome scritto a matita. Era importante che non si sapesse del suo arresto perché l’operazione antiterrorismo era in corso. La copertura saltò, quando la notizia trapelò dagli uffici giudiziari di Firenze e finì sulla stampa.

 

Il carcere, un vecchio convento

 

Questo era il carcere di San Gimignano, un vecchio convento all’interno della cerchia muraria del centro storico, carcere oggi abbandonato. Per concludere, i detenuti che mal sopportavano il rigoroso regime detentivo, facevano di tutto per essere trasferiti altrove [atti di autolesionismo, sciopero della fame, isolamento volontario, sequestri di persona (di altri detenuti ma per tre volte anche di personale di custodia: la prima dell’agosto 1975 - entrarono in carcere tre pistole in un pacco per uno dei due detenuti sequestratori che presero in ostaggio praticamente tutto il carcere, ivi compreso il maresciallo comandante - sequestro che finì con l’uccisione di uno dei due detenuti e la resa dell’altro; una seconda ed una terza volta nel 1976, a distanza di quarantotto ore dalla fine del precedente, durati due giorni ciascuno e conclusi con il trasferimento del detenuto che per ogni sequestro aveva preso in ostaggio la prima volta un agente e la seconda volta due].Tanta sicurezza all’interno del carcere non c’era, la sicurezza esisteva, nel periodo 1974-1977, per chi pensava di uscire dal carcere evadendo, ma non più al suo interno.

Nel sistema difensivo c’era una sola smagliatura, di natura strutturale, la portineria, che era si blindata, ma solo parzialmente: per aprire i due portoni verso e dall’esterno e verso e dall’interno, il piantone doveva uscire per aprirli manualmente. Era in progettazione l’applicazione di comandi a distanza, che allora erano appena entrati nell’uso e che saranno adottati in tutte le carceri di nuova costruzione.

 

Le circostanze dell’evasione

 

Non si sarebbe verificata se non vi fosse stata la concomitanza di tre circostanze avverse. La prima, del tutto arbitraria, l’utilizzo di "quel detenuto" per i lavori di pulizia in portineria, in sostituzione dello scopino titolare. La seconda, l’averlo utilizzato "quel detenuto" anche per le pulizie della domenica e festivi. La terza, l’avere messo in servizio di piantone nell’orario 16-24 un agente di bassa statura, mingherlino, palesemente non in grado di resistere all’aggressione del Guido, che era alto e forte.

L’avere messo "quel detenuto" a lavorare in aumento allo scopino titolare (perché poi così andò a finire) si verificò durante la missione del direttore al carcere di Pianosa Isola nel periodo 15.11-15.12.1980, missione continuativa della durata di un mese. Il carcere di Pianosa era privo di direttore da molti mesi, nessuno ci voleva andare, il direttore titolare ed il ragioniere capo erano ammalati da molti mesi, fu giocoforza organizzare missioni brevi con turnazioni di un mese ciascuno. Il secondo turno fu saltato dal direttore della Casa Circondariale di Siena, ammalato di insufficienza renale, della quale morì anni dopo.

Toccò quindi al direttore del carcere di San Gimignano. In questo periodo il Guido iniziò ad essere utilizzato come scopino in portineria. Rientrato dalla missione a Pianosa accadde a quel direttore, uscendo dall’ufficio del maresciallo comandante ed assieme allo stesso interno alla zona detentiva di notare quel detenuto che faceva lo scopino in portineria: non era la sua mansione. Il direttore ordinava pertanto al maresciallo comandante di impartire disposizioni perché non accedesse più.

Quest’ordine non fu prontamente eseguito (quella era la stoffa e con quella il sarto doveva confezionare i vestiti), il Guido, che sentì il direttore impartire quell’ordine, decise di anticipare l’esecuzione del piano di evasione: dalla portineria, durante le pulizie tardo-serali, quando lo spaccio agenti era chiuso. Una anticipazione temeraria, perché non supportata da una logistica esterna non ancora resasi disponibile. Però, quel varco stava per chiudersi, anzi, avrebbe dovuto già essere chiuso. Quindi osò, alle ore 19.15 del 21 gennaio 1981 evase.

Come? Approfittando del servizio di pulizie, che quella sera, domenica, si recò ad effettuare da solo, l’altro detenuto rimase in cella. Entrò nella guardiola del piantone, afferrò un massiccio posacenere in vetro marrone, sferrò alcuni colpi in testa al piantone (quello mingherlino), stordendolo (fu trovato pieno di sangue, dalle ferite alla testa per i colpi ricevuti).

 

L’effetto della sorpresa

 

L’effetto sorpresa era stata totale! Prima di uscire dalla portineria azionò il comando di apertura a distanza del portone principale d’ingresso, l’unico fino a quel momento installato, aprì la prima porta, attraversò il corridoio di accesso al carcere in senso contrario uscendo da quel portone appena aperto col comando a distanza, girò a sinistra e scomparve nella notte. La sentinella della garitta n. 4, che incombeva sull’ingresso del carcere, vide il Guido uscire, attraversare rapidamente ma con passo tranquillo, senza correre, gli chiese cosa stava facendo lì (!), realizzò che stava evadendo solo dopo avere chiamato il responsabile della sorveglianza interna col citofono, che gli consigliò di sparare qualche colpo in aria per confondere le idee.

Quindi fu dato l’allarme e si scatenò l’inferno. Guido però era ormai lontano. Guido non fu più trovato. Le investigazioni successive appurarono che aveva raggiunto la strada statale S. Gimignano - Poggibonsi, mediante una sterrata laterale, percorsa dai cani poliziotto, che persero le tracce alla confluenza della sterrata con la statale. Lì Guido ottenne un passaggio da in ignaro cittadino di Barberino Val d’Elsa, che rese successiva testimonianza ai carabinieri. In seguito fu sentito il custode di una villetta che la famiglia Guido possedeva sul lago di Bracciano, che riferì che il Guido figlio si era presentato a tarda notte, aveva telefonato a casa sua a Roma e poi era uscito nuovamente, senza più rivederlo.

È ovvio che la famiglia, subentrata a frittata fatta (Guido Raffaele ha sempre sostenuto di non avere avuto una parte nell’evasione del figlio, che lo rovinava per sempre, com’è accaduto), si è adoperata per farlo espatriare, ma non è improbabile che la frangia degli estremisti di destra lo abbia aiutato a fuggire fuori dell’Italia.Il Guido veniva definitivamente arrestato (era stato arrestato ed evaso altre due volte in sud America) nel 1994 a Panama ed estradato in Italia.Oggi, ad un anno dalla scadenza della detenzione, ridotta ad anni 30 in appello, è stato ammesso al regime di "affidamento in prova al servizio sociale", concesso dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, una misura alternativa alla detenzione che comporta la scarcerazione dell’affidato: Guido Giovanni, detto Gianni, dorme a casa sua ai Parioli dal 13 aprile.

I genitori, intervistati, hanno dichiarato (Corriere della Sera - 30 maggio 2008): "Mio figlio ha pagato. E comunque non sarà facile rifarsi una vita alla sua età - sospira la signora Maria, discendente di un’importante famiglia di armatori napoletani Noi di sicuro in tutti questi anni non l’abbiamo mai abbandonato". "Cosa farà Gianni dopo aver espiato fino in fondo la sua pena? Non importa - aggiunge il padre, altissimo dirigente Bnl ora in pensione. C’è qui la sua famiglia, ci siamo noi. La famiglia, secondo me, è l’unico posto dove un detenuto possa riuscire a reinserirsi. L’unica vera comunità di recupero, chiamiamola così, per chi esce dal carcere".

Neanche dopo 33 anni hanno il coraggio morale di ammettere il proprio fallimento come famiglia che non ha avuto la capacità di impedirgli di diventare un mostro, freddo, spietato, crudele, che ha causato tanto lutti e tanto dolore a due povere ragazze ed a quelli che a S. Gimignano avevano provato a creare le condizioni favorevoli ad un progetto di ricostruzione di una vita rovinata, mentre l’interessato pensava solo ad un progetto di evasione, a fuggire, ad evadere.

Le indagini amministrative successive all’evasione furono un capolavoro (voluto) di inefficienza, si cercava a tutti i costi un capro espiatorio, ma non si riusciva a trovarlo. Si pensava alla procurata evasione ed alla corruzione. Il Ministro di Grazia e Giustizia era Adolfo Sarti ed era preoccupatissimo di sviare l’attenzione della pubblica opinione da ciò che stava emergendo dalle indagini sulla loggia massonica P2, alla quale era iscritto e di lì a poco dovette dimettersi dal governo, uscì di scena, morendo nel 1992, mentre Valerio Zanone (classe 1936, da poco tornato alla ribalta dopo un lungo oblio nelle file de L’Ulivo, ma non ricandidato nel 2008) tuonava in Parlamento contro quel direttore, chiedendo accertamenti rapidi e punizioni esemplari.

 

Cosa accadde subito dopo

 

Il direttore, il maresciallo comandante e un appuntato furono imputati di procurata evasione. Per l’appuntato fu aggiunta l’imputazione di abuso d’ufficio, successivamente derubricata a malversazione a danno di privati (reato oggi soppresso dalla legge 86/1990). Cos’era accaduto? Il povero appuntato voleva acquistare casa a San Gimignano, aveva bisogno di un mutuo (un prestito) ed ebbe la malaugurata idea di chiedere aiuto a Guido padre (direttore centrale della Bnl) il quale lo indirizzò alla Banca di Calabria, la quale concesse il mutuo (forse prestito) ad un tasso bassissimo, il 3%, circostanza che lo rallegrò senza insospettirlo, il rimanente 15% però lo pagava di tasca sua Guido padre.

Il direttore, a rischio di mandato di cattura (si temeva l’inquinamento delle prove), fu subito trasferito perché ciò non accadesse. L’appuntato e Guido padre furono arrestati dal Giudice Istruttore (siamo nella vigenza del codice di procedura penale del 1931), l’appuntato si fece 40 giorni di carcere, il Guido padre fu arrestato in un secondo momento, e fu condotto anch’egli presso la casa Circondariale di Montepulciano. Nessuno dei due disse alcunché, non avevano alcunché da dire, in effetti.

Vi furono anche imputati minori, esclusi dal processo dal G.I., mentre il latitante Guido Giovanni fu imputato, oltreché di evasione, anche di tentato omicidio in danno dell’agente piantone di portineria. Il processo dunque fu celebrato in Corte d’Assise, per il direttore ed il maresciallo comandante l’imputazione fu derubricata ad evasione per colpa del custode. La corte d’assise di primo grado applicò l’amnistia a direttore e maresciallo comandante. Il direttore la rifiutò, per cui fu celebrato anche per lui il secondo grado di giudizio, dopo la conferma della sentenza di primo grado, il direttore si appellò alla Corte di Cassazione, inutilmente.

Il difensore, senza dire nulla all’assistito direttore, nel grado terzo di giudizio non inserì il rifiuto dell’amnistia, anche se questo punto è incerto. Probabilmente, si limitò a rintuzzare l’appello del P.M. Fatto sta che per il direttore e l’appuntato ebbe inizio la discesa agli inferi. L’appuntato, sospeso dal servizio e rimastovi per molti anni (allora non era previsto il limite massimo di cinque anni), cinque - sei anni dopo si dimise e fu collocato in pensione. Il direttore fu guardato sempre con sospetto, per molti anni, in particolare dal nuovo capo del personale, che oggi, vedi il caso, è il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha concesso al Guido Giovanni l’affidamento in prova.

Il direttore della Casa di Reclusione di San Gimignano si chiamava Luigi Morsello, è tutt’ora vivente, vivo e vegeto ed è privo di rancori. È l’autore di questa significativa testimonianza.

 

Luigi Morsello

Campania: minori stranieri detenuti vivono grande dramma

 

Dire, 20 giugno 2008

 

"In Campania, nelle due carceri minorili di Nisida e Airola, viviamo il grande dramma dei minori detenuti extracomunitari". A lanciare l’allarme, nel corso del convegno sui minori stranieri in Italia, organizzato dal Garante dell’Infanzia e l’adolescenza della Regione Lazio e da Save the Children, è Gennaro Imperatore, Garante dell’Infanzia della Regione Campania.

"Al contrario dei minori italiani - aggiunge Imperatore - che hanno alle spalle una famiglia, o comunque un territorio, e che possono telefonare all’esterno o recarsi ad un colloquio, i ragazzi extracomunitari non hanno nessuno. Questo è veramente triste". Imperatore parla a tale proposito di "vuoto assoluto" e spiega che "il 90% di loro non ha genitori in Italia". Così quando a volte "mi chiedono quanti di loro riesco a recuperare - conclude il Garante della Regione Campania - mi trovo costretto a rispondere con un silenzio imbarazzato".

Modena: azienda agricola in carcere, solo in 4 istituti su 200

 

Redattore Sociale, 20 giugno 2008

 

A Modena il convegno mondiale sul biologico. Il caso dell’istituto cittadino: a partire dal 2000 circa 15 detenuti sotto la guida di agronomi producono frutta e verdura. Prodotti per ora destinati solo alla vendita interna.

Sono soltanto quattro, su un totale di duecento, gli istituti penitenziari italiani che ospitano al loro interno un’azienda agricola biologica. Se ne è discusso ieri in occasione del convegno mondiale sul biologico di Modena. Tra i quattro esempi, si è preso in esame, in particolare, quello modenese: a partire dal 2000 il carcere cittadino ha avviato due specifici progetti che hanno come obiettivo il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti. Uno è incentrato sull’apicoltura; l’altro, "Agricola 2000", sull’agricoltura biologica. "Abbiamo optato per questa scelta - spiega il direttore della Casa circondariale di Modena, Paolo Madonna - per offrire ai detenuti, in gran parte stranieri, la possibilità di apprendere tecniche colturali a basso impatto ambientale da applicare quando torneranno nei loro Paesi d’origine".

Sotto la guida di agronomi esterni, i detenuti - una quindicina, inquadrati come braccianti agricoli e regolarmente retribuiti - lavorano all’azienda agricola interna, che occupa una superficie complessiva di quattro ettari. A partire dal 2006 la produzione di vegetali e ortaggi (2,5 tonnellate annue) è certificata bio, mentre la frutta (due tonnellate) è ancora in regime di conversione. Molto ampia la gamma di prodotti coltivati all’interno del carcere: susini, prugne, albicocchi, ciliegi, peschi, peri e meli, vigneti (lambrusco, albana, sangiovese, trebbiano), piccoli frutti (more, ribes, uva spina) e un fragoleto. Nella serra vengono coltivate piantine agricole e da fiore, piante ornamentali, siepi di essenze autoctone (corniolo, sambuco, prugnoli etc.), erbe aromatiche. I prodotti sono destinati, per ora, alla vendita al dettaglio nello spaccio interno, in attesa che modifiche normative permettano la distribuzione anche all’esterno del carcere.

Terni: "Il carcere in rete" presentato alla Casa Circondariale

 

Cronaca di Terni, 20 giugno 2008

 

In merito alla presentazione del progetto "Il carcere in rete" che si è svolta presso la Casa Circondariale di Terni, riceviamo e pubblichiamo, la relazione di Aldo Placidi, presidente dell’associazione di volontariato San Martino promotrice dell’iniziativa: "È con soddisfazione che abbiamo appreso che il progetto Il carcere in rete è stato ammesso al finanziamento con un punteggio pari a 70 ed è il primo progetto nella graduatoria regionale.

Credo che tale risultato sia il frutto del lavoro condiviso che in questi anni le associazioni, organizzazioni e enti del volontariato operanti nel pianeta carcere hanno realizzato negli istituti di pena presenti nella nostra regione, in stretta sinergia e collaborazione con le Direzioni delle carceri e con gli enti locali e regionali.

Gli obiettivi del progetto sono quelli di: sostenere i detenuti/e in stato di estremo disagio e privi di riferimenti familiari parentali; costruire misure di sostegno che permettano lo sviluppo di azioni di preparazione all’uscita per le persone detenute; sostenere percorsi di "accompagnamento familiare" che rimuovano le cause che sono alla base dell’isolamento consentendo un vero e proprio riallaccio della rete familiare che altrimenti rischierebbe di venire compromessa; motivare i percorsi di reinserimento e animare il tempo vuoto della pena; dotare gli operatori volontari e/o sociali di strumenti che finalizzino una comprensione ed un coinvolgimento più efficace nell’attività stessa. Questi obiettivi si concretizzeranno con le seguenti azioni:

Interventi di prima necessità: distribuzione di beni primari, in quanto il grado di povertà che si riscontra nelle carceri è oramai diventato insostenibile. Immigrati, senza fissa dimora, tossicodipendenti senza legami familiari, malati mentali non hanno la possibilità di sostenersi. Da qui l’esigenza di un intervento che spazia dalla distribuzione di indumenti, medicinali che il sistema penitenziario non è in grado di fornire, materiali per igiene personale ecc. Questo avverrà in tutti e quattro gli istituti penitenziari presenti in Umbria.

Azioni di orientamento, accompagnamento, affiancamento al fine di sviluppare nella persona delle capacità ad orientarsi nella ricerca di soluzioni occupazionali e sociali, di ridefinizione degli obiettivi personali e professionali, di orientamento e consulenza ed infine di un percorso di accompagnamento da parte degli operatori ai servizi del territorio.

Avvio di attività laboratoriali ludico/ricreative per motivare l’adesione dei detenuti ai percorsi di reinserimento. L’associazione "ora d’aria Terni" svolgerà una attività di laboratorio della legalità soprattutto per i nuovi giunti, nell’ambito del quale fornirà soprattutto ai detenuti stranieri gli strumenti linguistici e di informazione rispetto alle "regole del carcere", la consapevolezza dei propri diritti e doveri durante la pena e dopo l’espiazione. Tali laboratori verranno attivati anche attraverso l’utilizzo di tecniche di animazione che partano da un coinvolgimento ludico dove verranno utilizzati anche mediatori per lo scambio culturale, uno dei problemi maggiori infatti è la comunicazione tra detenuti italiani e stranieri.

Interventi di mediatori culturali per detenuti/e stranieri/e Negli ultimi anni la presenza dei detenuti stranieri in carcere è sempre più consistente e, per loro, si pone sempre il problema di un’effettiva parità di trattamento e di accesso alle diverse opportunità offerte dalla normativa vigente. A questo proposito la figura del mediatore, diventa indispensabile come figura "ponte" fra detenuto straniero, istituzione carceraria e società di accoglienza. Egli è in grado di intervenire in specifiche situazioni per individuare ed esplicitare i bisogni degli immigrati, attivando la comunicazione e la negoziazione dei significati e apportando modificazioni di contenuto e modalità di approccio alle problematiche. Questo intervento verrà fatto nella Casa circondariale di Terni.

Sostegno ed accompagnamento dei familiari dei detenuti. Ci sono particolari esigenze che investono in particolare i familiari che versano in condizioni di disagio economico e di estrema povertà e sono privi di punti di riferimento certi sul territorio e che trovano enormi difficoltà nel cercare una sistemazione consona anche per i soli pochi giorni in cui sono permesse le visite ai loro congiunti.

Le strutture residenziali sorte nei Comuni di Spoleto, Terni, Perugia, Orvieto che ospitano familiari, detenuti in permesso premio, ed in misura alternativa sono diventate un punto di forza nell’ottica del reinserimento sociale del detenuto in quanto evitano quello scollamento che si produce inevitabilmente nei rapporti affettivi, familiari e sociali. Tuttavia per dare risposte immediate si deve intervenire con una vera e propria azione di "accompagnamento familiare" che permetta ai familiari non solo di essere ospitati nella struttura ma anche di intraprendere dei percorsi che rimuovano le cause che sono alla base dell’isolamento familiare, consentendo un vero e proprio riallaccio della rete familiare che altrimenti rischierebbe di venire compromessa.

In un ambito cosi particolare come quello carcerario dove i volontari e gli operatori sono chiamati a confrontarsi con una complessità di relazioni, c’è bisogno di interventi di supervisione come supporto e sostegno alla loro attività. Per supervisione intendiamo essenzialmente operare su tre aree: la relazione volontario utente , la relazione all’interno della propria associazione, la relazione tra il volontario e le istituzioni esterne. Uno spazio insomma di sospensione, di distanziamento dall’attività di volontariato di arretramento finalizzato ad una comprensione e ad un coinvolgimento più efficace nell’attività stessa.

La supervisione, è caratterizzata da una serie di incontri tra volontari ed operatori sociali che si confrontano sulla esperienza comune del carcere. Sono momenti di riflessione e di condivisione dell’azione operativa individuale, delle situazioni problematiche oggettive e soggettive, delle differenti strategie messe in atto, delle finalità perseguite sia proprie che delle associazioni a cui si fa riferimento, di verifica della propria motivazione personale, di verifica del processo formativo nel momento dell’applicazione di ciò che si è appreso.

Milano: le "Visite a San Vittore" per 50 giovani avvocati…

 

Dire, 20 giugno 2008

 

È l’iniziativa "Visite a San Vittore", grazie alla quale alcuni legali vanno in visita nelle carceri cittadine. "Un modo per conoscere quello che accade dopo il processo".

Passare dall’altro lato delle sbarre, smettendo per qualche ora la toga da avvocato e indossando i panni dei propri clienti. È l’iniziativa "Visite a San Vittore", grazie alla quale alcuni legali vanno in visita nelle carceri cittadine. "Un modo per conoscere quello che accade dopo il processo, per avere una migliore sintonia con la persone che assistiamo" la definisce l’avvocato Giuliano Spezzali. "Finora siamo andati solo a San Vittore, ma in programma c’è anche la visita al carcere di Bollate, che si concretizzerà probabilmente tra ottobre e novembre", spiega il penalista Mirko Mazzali, ideatore del progetto che ha già portato dietro le sbarre di San Vittore una cinquantina di legali. L’iniziativa, spiega Mazzali, era rivolta soprattutto ai professionisti più giovani, "ma ha finito per lasciare colpiti anche penalisti come me con anni di esperienza". La maggior parte degli avvocati, infatti, del carcere ha visto solo la sala colloqui. Tra i luoghi che invece sono diventati tappa della visita a San Vittore, in compagnia alcuni dirigenti del carcere milanese, ci sono la matricola (il luogo cioè dove i carcerati vengono perquisiti e immatricolati), il raggio e le celle. "Abbiamo avuto la possibilità di far capire che cos’è in realtà il carcere, anche per ricordarcene in seguito al momento di difendere i nostri clienti", dice scherzando Mazzali. "Visite in carcere" ha avuto un buon successo: "Abbiamo ricevuto molte richieste: per 50 posti a disposizione ci sono arrivate almeno il doppio di domande".

Immigrazione: Acli; direttiva sui rimpatri è troppo punitiva

 

Dire, 20 giugno 2008

 

Secondo il Presidente Olivero "sottolinea più gli aspetti di insicurezza che i doveri di accoglienza. L’unico elemento positivo: il fatto che per la prima volta l’Europa ha preso una posizione comune".

Una direttiva "troppo punitiva" nei confronti degli immigrati irregolari quella votata ieri dal Parlamento di Strasburgo, "che sottolinea più gli aspetti di insicurezza che i doveri di accoglienza". Pur tuttavia, "è la prima attesa decisione comune dell’Europa sulla questione dell’immigrazione". Questo in sintesi il giudizio delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani nei confronti della Direttiva sui rimpatri degli immigrati clandestini varata ieri dall’Unione europea.

"L’unico elemento veramente positivo - spiega il presidente delle Acli Andrea Olivero - è il fatto che per la prima volta dopo anni l’Europa ha preso una posizione comune, candidandosi finalmente a guidare la politica dell’immigrazione, che finora ha invece conosciuto una dimensione esclusivamente nazionale e intergovernativa. In questo senso, malgrado non siamo d’accordo con molte delle indicazione contenute nella Direttiva, almeno vengono posti dei limiti - per la detenzione e l’allontanamento, ad esempio - che non potranno essere superati dalle normative dei Paesi comunitari, come invece oggi accade".

Paiono eccessivi alle Acli i 18 mesi come tetto per la detenzione all’interno dei centri di permanenza. Così come non piace l’espulsione seguita da fino a cinque anni di allontanamento, di impossibilità di ritorno nel continente europeo. Perplessità anche sulle modalità stesse della detenzione, con particolare riferimento alla possibilità delle persone detenute di ricevere informazioni su come entrare correttamente in Europa e su come chiedere asilo. "Dobbiamo assicurare l’asilo politico a tutti i cittadini che ne hanno diritto" afferma Olivero.

Ma è la normativa nel suo complesso che non convince le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, "perché tende anch’essa - spiega il presidente Olivero -, come le nuove norme che si vogliono introdurre in Italia, a sottolineare gli elementi relativi alla insicurezza e alla criminalizzazione dell’immigrato, piuttosto che la necessità di dare accoglienza a quanti disperati giungono sulle nostre coste". "Noi non possiamo pensare che l’Europa chiuda le sue porte o non valuti l’assistenza dei disperati come un dovere per l’insieme del continente".

D’accordo quindi con la regolamentazione del fenomeno, anche ponendo limiti, ma "senza dare l’impressione di una fortezza che si chiude", "senza intenti punitivi". "Ad esempio, la detenzione fino a 18 mesi nei centri di permanenza - spiega Olivero - non è assolutamente utile per l’obiettivo che si prefigge, cioè l’identificazione dello straniero al fine del rimpatrio nel suo paese d’origine. L’identificazione, infatti, quando non avviene nei primi mesi, molto difficilmente avviene in seguito. E risulta allora più una misura punitiva per lo straniero, che utile e necessaria per la sua identificazione". "Sarebbe stata allora molto più utile - conclude - una normativa che andasse ad incentivare il rimpatrio volontario dello straniero irregolare, limitando fortemente il tempo di allontanamento, e assicurando allo straniero la comprensione delle modalità per l’ingresso regolare".

Immigrazione: Migrantes; accoglienza, no criminalizzazione

 

Dire, 20 giugno 2008

 

L’analisi di padre Gianromano Gnesotto sulla direttiva rimpatri: "È preoccupante che un’Europa che costruisce le sue basi multiculturali ponga come primo passo una norma che invece criminalizza l’irregolarità".

In occasione della veglia ecumenica di stasera per le vittime del Mediterraneo, chiediamo di tracciare il quadro dell’immigrazione in Europa insieme a padre Gianromano Gnesotto, direttore dell’Ufficio per la pastorale degli immigrati esteri in Italia e dei profughi della Fondazione Migrantes.

 

Ieri sostanzialmente si sono chiuse le porte all’immigrazione irregolare. I primi commenti alla "promozione" di questa discussa direttiva sono stati: "ha vinto l’Europa delle diffidenze". Una prima direttiva non sull’integrazione, ma su rimpatri e su come chiudere i confini. Qual è il vostro commento?

Questa direttiva già da tempo è stata indicata come la direttiva della vergogna da molte associazioni che si interessano da anni degli immigrati, perché sbilancia le politiche migratorie sul versante della repressione e della chiusura. Fa apparire l’Europa come una fortezza che si difende di fronte ad un fenomeno che in tutti questi anni ha mostrato il volto buono di una risorsa che fa il bene non soltanto dei Paesi di provenienza, ma anche degli stessi Stati europei. Questa direttiva mette in secondo piano le politiche di integrazione. Un’Europa che sta costruendosi su basi multietniche e multiculturali pone come primo passo una norma che dà, invece, il tono della chiusura con misure che appaiono sproporzionate. La direttiva prevede una detenzione nei centri di permanenza per un termine minimo di sei mesi prolungabile a 18 ed è una ferita nel sistema del sistema giuridico perché segna una limitazione della libertà personale in assenza di reato. Questo getta un tono di criminalizzazione su un fenomeno che invece è fortemente positivo.

 

Protezionismo, chiusura, fortezza, diffidenza. Negli ultimi anni ritornano spesso certi termini. Dove sta andando il Vecchio Continente, paladino dei diritti umani dopo le ferite delle guerre mondiali?

Di fronte a dei numeri consistenti di persone che provengono dal di fuori, diverse per cultura e tradizioni e lingua, c’è spontaneamente un atteggiamento di sospetto e chiusura. Questo atteggiamento è quello che viene chiamato razzismo spontaneo senza calcare troppo le linee della parola razzismo. Il passo successivo all’atteggiamento spontaneo però va calibrato. Si può andare nella nevrosi in cui c’è la criminalizzazione, ma anche nel buonismo per cui tutto va bene. Va fatto un discernimento per equilibrare le tensioni in base ai principi e i valori di riferimento. Abbiamo una storia europea e italiana che parla di solidarietà, accoglienza e attenzione. Abbiamo una Costituzione in Italia che ha al centro la persona e la promozione dei diritti e dei doveri fondamentali, abbiamo norme internazionali sulla salvaguardia della dignità della persona. Credo che siano questi i punti fondamentali di riferimento che sono stati il pane quotidiano dell’Europa e che non devono essere messi in discussione.

 

In Italia oggi si parla di aggravante di clandestinità. Come si può leggere questa direzione presa dal governo sia a livello politico che sociale…

Sembra che questa presa di posizione sia una risposta a quel bisogno di sicurezza che è avvertito in maniera generalizzata anche qui in Italia, ma in qualche modo avvertita in modo sproporzionato. Il clandestino, colui che entra non si sa bene perché secondo alcuni punti di vista, questo lo riteniamo un reato, qualcosa come un delinquente, questo naturalmente crea una confusione enorme, perché si dà un mantello di reato a chi in effetti non ha commesso nessun reato se non il fatto di essere entrato nel territorio di uno stato senza i documenti previsti per un regolare soggiorno. Ma alcuni di loro fuggono con le poche cose che hanno, con la loro stessa vita, senza portarsi dietro nulla, neanche i documenti. I richiedenti asilo e rifugiati mostrano una grande contraddizione di ritenere il "clandestino", colui che è tacciato di reato. Se invece si vuole rispondere all’opinione pubblica che vuole sentirsi rassicurata con prese di posizione rigorose, allora il discorso è un altro. Le conseguenze di queste posizioni non le conosciamo ancora bene, ma possiamo intuire che siano negative.

 

Ha parlato di sicurezza. C’è un luogo comune che lega la questione della sicurezza all’immigrazione irregolare. Come possiamo sciogliere questo nodo?

Basterebbe guardarsi attorno, scendendo da posizioni ideologiche. L’immigrato irregolare è una persona che lavora all’interno delle nostre famiglie e non ha documenti che segnano la sua regolarità del territorio. L’irregolare è una persona che per una vasta serie di motivi non ha un permesso di soggiorno valido e vive in Italia. È una persona che dà un servizio enorme a categorie di persone come gli anziani, le famiglie. Basta guardarsi intorno per scardinare immediatamente la questione immigrazione come pericolo sociale. Ci sono poi situazioni che possono portare l’immigrato a delinquere, ma l’irregolarità non porta di per sé qualcosa di pericoloso.

 

Allo stato attuale dei fatti quali sono le strade percorribili per sensibilizzare sul problema?

Anzitutto l’azione nelle istituzioni preposte a governare il fenomeno cercando di mettere dentro quei contenuti di valori che fanno la storia dell’Europa. Vanno riproposti i tesori che lungo la storia hanno segnato il bene e la democrazia delle nostre terre. Quindi c’è un impegno a livello politico di coloro che rappresentano le varie nazioni. Poi c’è anche un impegno delle associazioni che lavorano nel sociale che possono contribuire con la loro presa di posizione.

 

Come Fondazione Migrantes cosa chiedete al mondo delle istituzioni?

Come cristiani ci sentiamo lacerati interiormente di fronte a tanti morti per lo più giovani in cerca solo di una vita migliore, ma chiediamo a coloro che hanno le responsabilità istituzionali di rendere possibili politiche di responsabilità, di accoglienza e di rispetto specialmente nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti. Chiediamo, inoltre, che venga attuata una politica lungimirante di cooperazione allo sviluppo e di dialogo con i paesi di partenza in modo particolare con i paesi del continente africano.

Immigrazione: clandestini nei Cpt 18 mesi? "impazziscono"

 

Dire, 20 giugno 2008

 

Parla il medico della struttura di Torino. Dopo l’ultimo decesso nel maggio scorso nella struttura Redattore sociale e tornato a incontrare migranti e gli operatori. Francesco Musolino: "Già 2 mesi creano situazioni psicologicamente molto difficili".

Dopo l’ultima tragedia al Cpt di Torino, Redattore Sociale è tornato nella struttura di corso Brunelleschi per incontrare immigrati e operatori. Il dottor Francesco Musolino non era in servizio la sera del 23 maggio, giorno in cui il detenuto marocchino, tossicodipendente, morto il giorno dopo, ha iniziato a star male. Ma ha visto la cartella della vittima, e sa come funziona l’assistenza medica nella struttura. Lo chiamano "zio" al Centro, e lui per ogni paziente ha una parola d’affetto "sarà che qualcuno ha l’età di mio figlio", racconta. Gli stranieri lo chiamano spesso, gli chiedono consiglio, e sembrano rispettarlo, gli domandano anche notizie della sua famiglia: "Ciao dottore, stai bene?"

 

Arrivano spesso al Cpt degli stranieri tossicodipendenti?

In questo momento ce n’è solo uno - risponde il primario - ma che transitano ce ne sono sempre, almeno 2 o 3 al mese. Metadone, ansiolitici per superare la fase di astinenza, fanno terapia a scalare. Sono tossicodipendenti da eroina.

 

La vittima marocchina era un tossicodipendente?

Sulla cartella c’era scritto che faceva uso di eroina, cocaina, forse etilista, anche ansiolitici che in genere si associano.

 

È d’accordo sull’ipotesi del decesso per polmonite?

Aspettiamo l’autopsia. Ognuno dice la sua, siamo nel campo delle ipotesi. qualcuno ha anche ipotizzato che avesse degli ovuli nello stomaco che si erano sciolti". (ndr. sul quando si sapranno i risultati dell’autopsia, ancora i tempi non si conoscono).

 

Cosa pensa sull’estensione dei tempi di permanenza a 18 mesi?

Già un periodo di 2 mesi, come quello attualmente previsto, crea situazioni psicologicamente molto difficili: gli stranieri vogliono andarsene, o tornare a casa, o comunque uscire. Prolungare il tempo di permanenza? 18 mesi no. Impazziscono.

Roma: il "fronte antirazzista" in assemblea alla Sapienza…

di Eleonora Martini

 

Il Manifesto, 20 giugno 2008

 

Assemblea alla Sapienza con decine di associazioni. Assenti studenti e docenti. Confronto aperto tra Arci, Acli, Antigone, Cgil, Federazione dei rom e altre organizzazioni. Per costruire l’opposizione al pensiero unico xenofobo e per i diritti dei migranti.

Forse sono ancora troppo poche, ma le "Mille voci contro il razzismo" che si sono alzate ieri dall’Aula magna dell’università di Roma La Sapienza rappresentano gli anticorpi della democrazia italiana. Quell’unica preziosa risorsa a cui aggrapparsi per non venire risucchiati dal pensiero unico, dal senso comune razzista dilagante, dall’ideologia xenofoba che ormai attecchisce come la gramigna, da quel "consenso popolare che si nutre del linciaggio dei diritti" prima ancora che delle persone.

Per questo, "un consesso di minoranza" - come l’ha chiamato Gad Lerner, che insieme a Tullia Zevi e Luciano Eusebi ha introdotto la discussione - può avere un potenziale inaspettato per contrastare leggi discriminatorie come quelle previste nel pacchetto sicurezza, imposte in nome di un "popolo" che spesso e volentieri non è altro che "un’invenzione ideologica televisiva". "È il razzismo che ci rende insicuri", è il messaggio lanciato dalle centinaia di persone convenute nel cuore del più antico ateneo romano, e che hanno voluto cominciare con un minuto di silenzio in tributo alle 150 vittime senza volto e nome dell’ultima tragedia del Mediterraneo. Vittime per le quali stanno cercando sottoscrizioni per poter organizzare il recupero delle salme e il loro funerale in patria.

Operatori, studiosi, giuristi, antropologi, rappresentanti delle comunità migranti, ex vittime della tratta di schiave, attivisti, medici, politici, intellettuali e sindacalisti hanno voluto alzare la voce contro quelle norme volute dal governo Berlusconi che introducono il reato di immigrazione clandestina, che prolungano la possibilità di detenere i migranti senza alcun processo fino a 18 mesi in un carcere chiamato Cpt, che autorizzano censimenti su base etnica con schedature di massa, che preparano la società ad una militarizzazione del territorio. Leggi che servono proprio ad "aumentare il senso di insicurezza", a far crescere la paura dell’immigrato, a "cercare un capro espiatorio per distogliere l’attenzione", a "frammentare la società". Perché, hanno fatto notare, "cosa c’è di meglio di una comunità frammentata per poterla depredare?".

Colpisce perciò che alle "mille voci" dell’assemblea romana, promossa da un ampio arco di associazioni della società civile italiana - dall’Arci alle Acli, dalla Cgil a Magistratura democratica, da Antigone a Giuristi democratici, dalla Federazione rom e sinti insieme, che ha partecipato con una folta delegazione, a Libera, Lunaria, Fuoriluogo, Medici contro la tortura, Confronti, Asgi, Federazione delle chiese evangeliche italiane, Cantieri sociali, ecc. - non si siano aggiunte quelle degli studenti e dei docenti universitari. Nemmeno l’ombra di uno dei tanti attivisti del movimento studentesco romano. Il primo a registrarne l’assenza è stato proprio il prorettore Piero Marietti, ospite e sostenitore del convegno di cui ha avviato i lavori.

"Nessun ringraziamento, era nostro dovere essere qui - ha detto Marietti - Vi devo però chiedere scusa perché con dolore riconosco che quello che manca qui questa mattina è proprio l’Università". "Un vero peccato - ha sottolineato più avanti Sveva Haertter, responsabile ufficio migranti della Fiom - che proprio gli studenti, che pure recentemente hanno subito aggressioni da gruppi neofascisti, non riescano a trovare il nesso tra la loro lotta e quella che noi qui sosteniamo". A dire il vero, gli studenti non sono stati gli unici a snobbare l’appuntamento: nessuna traccia nemmeno del Pd malgrado alcuni esponenti, soprattutto tra i radicali, avessero annunciato la loro partecipazione.

Applauditissima, Tullia Zevi ha ricordato il clima culturale in cui nacquero le leggi razziali e le tante similitudini tra il senso di solitudine e disperazione che provarono gli ebrei e quello che oggi segna la vita di tanti rom e immigrati. In molti hanno ricordato che "i diritti umani prescindono dallo status e dal possesso di un documento", e "non conoscono confini nazionali".

Impossibile riportare tutte le voci, ma l’assemblea infine ha deciso, in questa fase, di concentrare gli sforzi su tre punti, come ha riassunto il responsabile immigrazione della Cgil, Piero Soldini: "Primo: chiediamo a governo e parlamento di fermarsi, di non approvare questo pacchetto sicurezza, facciamo appello affinché venga bocciato in Senato, e invitiamo a riprendere un confronto vero con l’associazionismo di base.

Secondo: al parlamento europeo di Strasburgo che domani (oggi, ndr) voterà la direttiva sui rimpatri diciamo che se si vogliono cercare in Europa regole omogenee per ben governare i flussi migratori è sbagliato cominciare da norme repressive e penali. Terzo: è necessario e urgente impostare una campagna culturale che si rivolga a tutti, soprattutto ai media. Perché si garantiscano spazi di informazione corretta, plurale e un uso del linguaggio rispettoso della dignità di ogni essere umano".

Milano: aggredita 12enne Rom vincitrice premio Unicef 2008

 

Comunicato stampa, 20 giugno 2008

 

È accaduto ieri mattina, 17 giugno, alle 8 a Milano. La famiglia Covaciu, romena di etnia Rom, già oggetto di continue peregrinazioni per l’Italia a seguito di vessazioni, minacce e sgomberi, stava uscendo dalla tenda in cui da diversi giorni si era stabilita, in un microinsediamento nella zona di Gianbellino, quando è stata brutalmente aggredita da due italiani di età compresa fra i 35 e i 40 anni. Rebecca, 12 anni, nota per essersi aggiudicata in Italia il Premio Unicef - Caffè

Shakerato 2008 per le sue doti artistiche applicate all’intercultura, e il fratellino Ioni, 14 anni, sono stati prima spintonati e poi picchiati. I genitori, uno dei quali è Stelian Covaciu, pastore della Chiesa Pentecostale, che assieme al fratello maggiore di Rebecca erano accorsi per difendere i figli, sono stati ricoperti di insulti razzisti, minacciati, indotti a lasciare immediatamente l’Italia e subito dopo percossi.

I Covaciu a quel punto sono fuggiti verso la stazione di San Cristoforo, in piazza Tirana, e accorgendosi di essere ancora seguiti hanno chiesto aiuto ai passanti. Nessuno è intervenuto.

Mentre la famiglia si stava avviando verso il parco antistante la stazione, la signora Covaciu, cardiopatica, è stata colta da un malore. Stellian Covaciu ha a quel punto contattato telefonicamente Roberto Malini del Gruppo EveryOne, che ha dato l’allarme facendo inviare sul posto una volante della Squadra Mobile di Milano e un’ambulanza.

All’arrivo della Polizia, gli aggressori si sono dileguati. Prima ancora dell’aggressione, l’Unicef aveva manifestato indignazione per la vicenda della piccola Rebecca, simbolo di un’infanzia senza diritti.

Il Gruppo EveryOne era in procinto di organizzare un ritorno della famiglia in Romania per sottrarla all’ostilità che colpisce i Rom a Milano. "Questa nuova violenza contro le famiglie Rom è spaventosa e deve sollevare la protesta della società civile" commentano i leader del Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau.

"Quello che è avvenuto a Rebecca e alla sua famiglia è sintomatico del clima, ormai fuori controllo nel nostro Paese, di odio e intolleranza nei confronti del popolo Rom. Purtroppo non si tratta affatto di un caso isolato, ma dell’ennesimo gravissimo episodio di violenza, ai danni di una famiglia innocente, che rimarrà impunito e annuncia tempi davvero oscuri per l’Italia." Il Gruppo EveryOne ha recentemente denunciato l’aggressione a Rimini, avvenuta nell’indifferenza generale, di una ragazzina Rom incinta, presa a calci da un italiano mentre chiedeva l’elemosina. A Pesaro, qualche giorno fa, Thoma, il membro più anziano della locale comunità Rom, sofferente di un handicap a una gamba e cardiopatico, è stato colpito al capo e umiliato in pieno centro storico. Nella stessa città, i parroci hanno recentemente vietato ai Rom di chiedere l’elemosina davanti alle chiese.

Nei giorni precedenti all’aggressione della famiglia Covaciu, EveryOne ha ricevuto segnalazioni di numerosi episodi di violenza da parte di italiani nei confronti di persone di etnia Rom, soprattutto dei più deboli: bambini e donne. "L’attuale clima di discriminazione generale e l’atteggiamento ostile delle autorità," continuano Malini, Pegoraro e Picciau "fanno sì che le persone aggredite non trovino più il coraggio di denunciare i loro aggressori.

Inoltre, dichiarazioni come quelle del ministro dell’Interno Roberto Maroni, che predica la tolleranza zero contro i Rom, la loro schedatura con foto segnaletiche e addirittura il prelievo del Dna, lo sgombero indiscriminato e senza alternative di campi di fortuna e insediamenti regolari, la sottrazione dei bambini Rom alle famiglie senza mezzi di sostentamento - proclami che sconcerterebbero qualunque esponente democratico di un Paese civile -, finiscono per fomentare violenze e soprusi ai danni dei più indifesi".

Assieme a EveryOne, anche Santino Spinelli, dell’Associazione Thèm Romano onlus, e il gruppo "Caffè Shakerato" di Genova, organizzazione per l’intercultura e il rispetto dei diritti dei bambini, esprimono la più viva preoccupazione per l’episodio, effetto ancora una volta dell’odio razziale che imperversa in Italia. "È necessaria una condanna unanime del mondo politico italiano e delle Istituzioni europee" concludono i leader del Gruppo "e sono ormai indispensabili provvedimenti seri contro chi viola i diritti umani e si fa portatore di violenze e discriminazioni di matrice xenofoba e razzista".

 

Gruppo EveryOne

Droghe: Bernardini (Ri): presto pdl su legalizzazione canapa

 

Agi, 20 giugno 2008

 

I parlamentari del partito radicale eletti nelle liste del Pd presenteranno un disegno di legge sulla cannabis terapeutica e una proposta per la legalizzazione delle sostanze stupefacenti. Dall’Agi.

Siena, 18 giugno 2008 - I parlamentari del partito radicale eletti nelle liste del Pd presenteranno un disegno di legge sulla cannabis terapeutica, l’utilizzo cioè della cannabis per la cura di alcune malattie. Lo ha annunciato Rita Bernardini segretaria del partito radicale, parlamentare, a Siena per il processo che dovrà decidere su un episodio avvenuto nel giugno del 2002 relativo alla cessione e distribuzione gratuita di marijuana in Piazza del Campo.

"Devo dire che ancora dobbiamo studiare come sarà questa proposta. In ogni caso vorremmo fare qualcosa di inattaccabile perché in poco tempo si arrivi alla sua approvazione". L’episodio per cui Bernardini e altri due esponenti del partito radicale, Giulio Braccini e Claudia Sterzi sono sotto processo riguardava un’azione di disobbedienza civile dedicata alla cannabis terapeutica e alla necessità di utilizzare farmaci contro il dolore a base di principi attivi estratti dalla canapa.

La legalizzazione delle sostanze stupefacenti è nel calendario dell’azione politica del partito radicale assieme alla battaglia sulla cannabis terapeutica. "Contemporaneamente alla proposta che riguarda questa sostanza - ha detto oggi a Siena Rita Bernardini, parlamentare del Pd e segretaria del Partito radicale - vorremmo presentarne un’altra per la legalizzazione delle sostanze stupefacenti. È chiaro che la legalizzazione, non liberalizzazione - ha sottolineato Bernardini - non può essere uguale per tutte le droghe ma va regolamentata in modo diverso.

Ad esempio per l’eroina ne prevediamo la somministrazione controllata. Si tratta di una proposta che abbiamo presentato anche nelle scorse legislature. Però quello che dobbiamo fare - ha aggiunto Bernardini - è creare un forte movimento di unità per puntare all’approvazione di questa legge. ". La segretaria radicale ha sottolineato, come ha detto anche la responsabile dell’associazione radicale antiproibizionisti Claudio Sterzi, " che per chiedere la calendarizzazione delle discussione in Parlamento siamo disposti a tornare a fare azioni di disobbedienza civile".

Il proibizionismo con la faccia feroce che vige in Italia non ha ridotto il fenomeno della droga, anzi lo ha incrementato: ci sono cinque milioni di consumatori di hashish e marijuana. Una situazione che ha arricchito le mafie e coloro che ci speculano. Se la marijuana fosse una semplice produzione agricola non avrebbe il valore che ha oggi: essendo proibita vale di più.

Mi piacerebbe sapere visto tutta questa ostinazione delle forze politiche se ci siano legami fra criminalità politica e la criminalità che si arricchisce con il traffico di stupefacenti. Per capire basta andare in Campania e vedere quali sono i legami tra la criminalità politica e la situazione di oggi.".Su questo ci campano a dismisura mafie, camorra, ndrangheta, sacra corona unita".

Stati Uniti: risoluzione Onu; lo stupro è un’arma di guerra

 

Ansa, 20 giugno 2008

 

Una risoluzione Onu chiede la fine delle violenze sessuali contro civili, pratica assai diffusa nelle zone di guerra. Il segretario Ban Ki Moon: "la violenza contro le donne ha assunto proporzioni inaudite".

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che classifica lo stupro come un’arma di guerra. Con questa decisione il Consiglio chiede la fine delle violenze sessuali contro i civili, una pratica molto diffusa nelle zone di guerra.

"Tattica di guerra" - Il documento definisce lo stupro come una tattica di guerra e una minaccia alla sicurezza internazionale. Il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki Moon, ha denunciato come la violenza contro le donne abbia ormai raggiunto "proporzioni inaudite" in alcune società. Il testo, definito "storico" dalla organizzazioni in difesa dei diritti dell’uomo, considera la violenza sessuale come una tattica di guerra "per umiliare, dominare, instillare paura, cacciare e/o obbligare a cambiare casa i membri di una comunità o di un gruppo etnico". Durante il dibattito al Consiglio - scrive la Bbc - Ban Ki Moon ha dichiarato: "Per rispondere alla guerra silenziosa contro le donne e le ragazze è necessaria una leadership a livello nazionale". Per il segretario generale le Nazioni Unite sono chiamate ad aiutare gli stati a "costruire questa capacità" e a "sostenere la società civile".

 

 

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