Rassegna stampa 17 giugno

 

Giustizia: quando la parola d’ordine diventa "tutti dentro!"

di Stefano Olivieri

 

Aprile on-line, 17 giugno 2008

 

Magistrati, giornalisti, clandestini, manifestanti e scioperanti. Di giorno in giorno si allunga la lista dei candidati alle nostre carceri mentre fra le pieghe dei vari decreti emanati spuntano immancabili le emergenze personalissime del nostro premier. "Ce lo chiede la gente!" è il refrain, la parola d’ordine diffusa dal governo, ma abbiamo qualche dubbio che il popolo delle libertà sia così bene informato delle turbolenze giudiziarie del proprio beniamino da accettare senza neanche discutere l’ennesima raffica di provvedimenti ad personam.

Certo dipende da che cosa intende Berlusconi, quando parla di gente comune. Prendiamo le intercettazioni, per esempio. Non mi risulta che il fruttarolo sotto casa sia interessato, anche se le sue albicocche costano troppo e sanno di sapone. Non fa nemmeno il servizio a domicilio, se lo intercettano tutt’al più troveranno la moglie che gli chiede quando buttare la pasta. Lo stesso dicasi per il benzinaio da cui mi servo, che è vero che coltiva abusivamente lattuga e pomodori nella piazzola retrostante l’area di servizio, ma quando arrivo lo trovo sempre lì, gentilissimo, con la pompa in mano e il sorriso sulle labbra. E poi i pomodori se li mangia lui, mica li vende. Poi ci sarebbe la portiera del palazzo, ma quella lì le intercettazioni le fa ancora alla vecchia maniera, origliando dietro la porta a vetri della portineria. Chi è dunque "la gente" di cui parla Berlusconi, che poi sarebbe la stessa che spinge La Russa a mescolare l’esercito alla polizia nelle strade. Il ministro ha detto che lo fa per scongiurare le ronde dei cittadini, benissimo. Ma chi ha lanciato per prima l’idea delle ronde? Non è stata forse la Lega, alleata di La Russa e di Berlusconi?

E chi è la gente che consiglia cautela al governo nella applicazione del decreto sicurezza nei cantieri, mentre nel nostro paese continuano a morire sul lavoro più del doppio degli operai rispetto al resto d’Europa? E visto che ci siamo, quale gente, quali elettori hanno consigliato i nostri rappresentanti governativi ad approvare - e il voto della destra italiana è stato determinante - la riforma europea dell’orario di lavoro che anziché ridurre dilata fino a sessanta ore settimanali l’impegno dei nuovi schiavi?

Non sanno forse che la prima causa delle morti bianche è proprio lo stress, la fatica, oltre che l’inadeguatezza degli impianti di sicurezza e il mancato rispetto delle norme? Come fa sacconi a parlare di "straordinario piano di formazione" indirizzato evidentemente agli ignoranti e incauti operai mentre si minimizza e si tace sulle sanzioni da applicare ai datori di lavoro ? Ma che razza di gente si è andata a cercare il governo per avere l’appoggio popolare per queste norme schifose?

"Carcere per cinque anni!" ha tuonato con soddisfazione il premier annunciando giorni fa il suo provvedimento sulle intercettazioni. Esattamente - guarda caso - tanti quanti sono quelli della sua legislatura, aggiungiamo noi. Giusto per non essere infastidito nel suo impegno, nel suo sacrificio personale e disinteressato per curare l’Italia. Salvo naturalmente qualche bonbon ogni tanto per addolcire un po’ l’impegno, tipo l’emendamento sulle intercettazioni che gli preme per quell’affare con l’avvocato Mills e quella maledetta chiacchierata con Saccà.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Lui il pelo se lo è fatto ricrescere e il vizio non lo ha perso mai, e lo diffonde. Il ministro Sacconi annuncia norme anti sciopero, La Russa schiera l’esercito nelle piazze, Alfano pronto ad arrestare magistrati e giornalisti che si macchieranno del nuovissimo reato di informare la gente su scandali tipo il Santa Rita di Milano. Ci si è messa perfino la Gelmini con la circolare sul recupero dei debiti formativi degli studenti anticipato al 31 agosto, giusto per rovinare le ferie obbligate degli operai nelle fabbriche, che come è noto chiudono solo in quel mese. Già, ma non si tratta evidentemente della stessa gente che interessa a Berlusconi, che pure dovrebbe essere il presidente di tutti. Ha ragione Sartori, in Italia non c’è bisogno di un colpo di stato per instaurare un regime, basta svuotare dall’interno la cassa dei valori e dei diritti costituzionali. Alla chetichella, con destrezza, come fanno i bravi rapinatori. Così mentre la gente si gusta al Tg1 la notizia delle nozze di Briatore con la Gregoraci, da un giorno all’altro il nostro paese cambia e torna indietro. Mentre l’inflazione avanza a due cifre e mette in ginocchio le famiglie, mentre i furbi tornano ad essere ancora più furbi, mentre sul lavoro si perdono i diritti e si muore sempre più spesso.

Finiranno per "normalizzare" a loro uso e consumo questo paese, con discrezione e pugno di ferro. Negando voce e visibilità al dissenso, facendo tintinnare le manette come ai bei tempi, quando i treni arrivavano in orario perché c’era lui. Nessuno naturalmente saprà dire quando, come e perché è avvenuta la trasformazione, visto il nuovo calmiere applicato a giustizia e stampa, e se aspettiamo l’opposizione stiamo freschi, anzi al fresco data la nuova disciplina sulla giustizia. Perché il problema grave oggi è proprio questo: chi suonerà la sveglia? Chi convocherà la prima manifestazione nazionale per rigettare con sdegno questo indecoroso avvio di legislatura? Chi ricorderà a Berlusconi che almeno 17 milioni di italiani non lo hanno votato? Qualcuno deve pur farlo.

Dopo la sconfitta del 2001 fu il tamtam spontaneo della rete che fece nascere la manifestazione del Palavobis a Milano. Ebbene penso si debba proprio fare di nuovo e in fretta, perché la politica dei cittadini non può aspettare più di tanto. Diamoci una data entro questa estate. Io propongo quella del 13 di luglio, che quest’anno cade di domenica. È la stessa data in cui nel 1994 il ministro Biondi emanò la legge "salva ladri". Se si vuole si può fare, per fortuna internet non l’hanno ancora chiusa.

Giustizia: esercito in strada, ma quattro polizie non bastano?

di Romano Bracalini

 

www.opinione.it, 17 giugno 2008

 

D’accordo. L’emergenza richiede la messa in campo d’ogni strumento valido a reprimere l’illegalità diffusa (nostrana e straniera). Richiede una costante e agguerrita vigilanza sulle strade, sui treni, sugli autobus. Come al solito ci siamo svegliati tardi. Non ci siamo accorti di esserci allevata la belva in seno nel solito sport nazionale di dilaniarci a vicenda in un rimasuglio di vecchia politica e ideologia. Il buono e il cattivo diventano un’opinione. Non ha più fondamento il fatto, l’evento in se, ma la causa di forza maggiore, l’elucubrazione sociologica. Viziamo ogni discorso di dottrina. I rom diventano buoni o cattivi, virtuosi o ladri, a seconda dell’angolazione politica da cui si guardano. L’oggettiva verità non ha alcuna importanza se contrasta con l’ideologia di riferimento.

Di fatto le prigioni scoppiano: su tre detenuti uno è straniero. Siamo in forte ritardo nel fronteggiare l’insidia crescente, in misura che la criminalità scorge la nostra debolezza e ne approfitta, mentre già si avvista la prossima carretta del mare zeppa fino all’orlo salvata per un pelo dall’abisso. Tra le colpe del governo precedente c’è quella massima d’aver trascurato il capitolo dell’immigrazione legale e clandestina diventata cruciale per l’Europa intera. Un somalo sbarcato a Lampedusa te lo ritrovi in Lapponia in men che non si dica. Siamo ancora lontani dal varare una politica comune e concordata.

Sono forse insufficienti le forze impiegate, o sono forse solo male impiegate? È un quesito che non avrà mai risposta. Ma questa storia dell’esercito utilizzato per pattugliare le strade, sia pure con un contingente provvisorio di 2.500 soldati, non riusciamo a mandarla giù nemmeno riuscissero a convincerci che solo a queste condizioni l’emergenza rientrerà nei ranghi. C’è una considerazione che forse al ministro Ignazio La Russa sfugge ed è una considerazione di principio, e anche di forma, o se volete di semplice buon senso, che attiene al bagaglio e alla forma mentale di un paese "democratico" che deve agire anche nelle fasi di emergenza nel rispetto delle regole. Invece la tradizione autoritaria italiana, fin dai primi anni dell’unità, ha sempre trascurato questo principio di legalità ed impiegava l’esercito in funzioni di ordine pubblico, con gli stati d’assedio e le repressioni popolari. Il peggior ricordo è quello d’un Bava Beccaris che spara sulla folla durante il ‘98 milanese. Certo, s’è fatto un caso estremo e forse assolutamente esagerato. Ma quello che si vuol dire è che l’esercito non deve in nessun caso costituire un pretesto per il suo uso improprio a fini interni. In altri tempi, liberali e conservatori si affrontarono proprio sul carattere che avrebbe dovuto avere il nuovo esercito italiano: esercito di popolo come lo intendevano i repubblicani e i democratici (Garibaldi, Mazzini, Cattaneo) ; o esercito regio agli ordini del re come lo volevano i conservatori monarchici. L’esercito era per tradizione la pupilla del re. Con la riforma Ricotti del 1865 il nuovo esercito italiano sorto con gli spezzoni borbonico e toscano innestati sull’esercito piemontese mantenne l’aggettivo regio, formula che rimase in vigore fino al 1943. Da quel momento l’esercito, tranne casi eccezionali in Sicilia e nel Sud in genere, non doveva essere più impiegato in operazioni di ordine pubblico.

Il ministro La Russa insistendo nel suo progetto infrange un principio anche mostrando le migliori intenzioni. Non sempre l’approvazione popolare è garanzia di legalità democratica. L’uso dell’esercito richiama alla mente più foschi modelli sudamericani: il Nicaragua dei gorillas, l’Argentina dei generali. L’onorevole Di Pietro ha detto che l’Italia non è la Colombia: e a volte si stenterebbe a crederlo. L’onorevole Finocchiaro del Pd ha parlato di ricorso "vanitoso", in altri termini di protagonismo del ministro La Russa. Ma in questa esibizione di forza e di vanteria, non in contrasto col bagaglio culturale di La Russa, va vista anche una sorta di concorrenza con la Lega alla quale la destra sociale non vuol lasciare il primato della sicurezza, per rispondere anzitutto (e principalmente) all’esigenza del suo elettorato d’ordine che su questo tema non vuole essere secondo a nessuno. Non solo la sinistra, per obbligo di ruolo e vezzo, ma anche il sindacato di polizia ha criticato l’idea dei reparti militari per le strade, che nelle intenzioni del ministro della Difesa dovrebbero impedire il formarsi spontaneo delle ronde cittadine. Sarà solo per questo?

O non c’è una rivalità con Maroni? Comunque è piuttosto insolito questo ricorso all’esercito da parte di un paese che di polizie non ne ha una soltanto, come tutti i paesi normali, ma quattro. La Francia ha i flic che arrestano i ladri e dirigono il traffico. Idem gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. In Italia contiamo la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza e le Polizie locali (oltre alle guardie campestri e forestali in eccedenza): però a un quadro coordinato d’azione efficace di prevenzione e repressione nuoce la rivalità tra i diversi corpi e armi che agiscono spesso e volentieri in conflitto tra loro togliendo ogni efficacia e segretezza all’azione. Non vorremmo che alla concorrenza tra le diverse polizie si aggiungesse, per questione di bottega e di vanità personale, quella tra i ministri.

Giustizia: l’esercito in strada, le reazioni e i commenti politici

 

Dire, 17 giugno 2008

 

La Russa: "In malafede chi parla di militarizzazione"

 

"È in assoluta malafede chi parla di militarizzazione delle nostre città". Lo dice, a Radio 24, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, replicando alle critiche del sindaco di Torino Roberto Chiamparino. La Russa spiega l’emendamento al Dl sulla sicurezza in questi termini: ci saranno, dice "tremila soldati" tra cui "carabinieri impiegati in funzioni militari" o "soldati delle altre forze armate, previo uno specifico addestramento".

Svolgeranno i loro compiti "insieme alle forze dell’ordine: in totale allora saranno novemila uomini che girano nelle nostre città. Novemila persone in strada che dicono che lo Stato c’è". La Russa parla anche dell’introduzione del reato di immigrazione clandestina: "Ha il senso di dare un ‘effetto annunciò, cioè serve a dire con un tam tam che in Italia sono cambiate le cose. Non è certo la panacea, ma ha un effetto deterrente. Inoltre, in questo modo si mantiene fede all’impegno preso con i nostri elettori: mai più clandestini sotto casa".

 

Donadi: "Militari, brutta idea inutile e demagogica"

 

Roma - L’uso dei militari nelle città "è una brutta idea e sbagliata. Spieghino piuttosto perché non si trova il modo per impiegare per la sicurezza sulle strade quei 50 mila tra poliziotti e carabinieri che oggi sono impegnati in mansioni amministrative e democratiche". Lo dice il capogruppo del Idv alla Camera Massimo Donadi, che lo valuta un provvedimento "inutile e demagogico" che dimostra "la volontà di non affrontare i problemi con misure vere".

 

Ronconi: "I militari non risponderanno mai a Maroni"

 

"I militari dell’esercito non potranno mai essere assoggettati a ministero dell’Interno ma continuare ad esserlo esclusivamente a quello della Difesa". Lo dice l’esponente dell’Udc Maurizio Ronconi il quale aggiunge che "ci troviamo di fronte all’ennesimo pasticcio del governo che ignora che mai passerà l’idea di militari dipendenti dalle direttive del ministero dell’interno". Ronconi aggiunge che "d’altra parte sarebbe un precedente pericolosissimo e perfino incostituzionale e che non avrebbe il consenso da parte di chi è costituzionalmente a capo dell’esercito". L’esponente centrista conclude sottolineando che "molto meglio sarebbe che il governo ritiri l’intenzione malsana di utilizzare l’esercito per compiti di polizia magari ripiegando su compiti affidati ai carabinieri oltre che alla polizia di Stato".

 

Bricolo: "Militari a presidio di confini e coste"

 

"Le forze armate possono essere utili in vari modi. Discuteremo in aula dell’ emendamento sui militari a presidio delle città ma contestualmente sarà base di discussione anche un ordine del giorno presentato a nome del gruppo della Lega riguardo al contrasto in mare dei flussi migratori in entrata nel nostro paese". Il presidente dei senatori della Lega Federico Bricolo spiega la posizione del Carroccio al Senato sulla presenza dei militari nelle città per affrontare l’emergenza sicurezza.

Spiega Bricolo: "Visto che chiunque può violare i nostri confini, Marina, Aeronautica, Esercito e Forze dell’ordine devono presidiarli, prendendo esempio da quello che stanno già facendo Spagna e Malta. Loro, a differenza nostra, sfruttando anche le forze armate, sono riusciti a bloccare i flussi di clandestini che sbarcavano sulle coste". Insomma, conclude Bricolo, attualmente "i nostri sono confini colabrodo e chiunque può arrivarci. Questo, per quanto ci riguarda, è inaccettabile".

Giustizia: legge salva-premier, Berlusconi attacca i magistrati

di Liana Milella

 

La Repubblica, 17 giugno 2008

 

Berlusconi va oltre la figura del premier che, nella scorsa legislatura, ordinava sottobanco leggi a suo uso e consumo. Adesso se ne assume pienamente la responsabilità. Sfida il Quirinale. Annuncia il prossimo ddl che mette a riparo dai processi le alte cariche dello Stato (lui in primis). Cede al diktat di An e Lega e sottoscrive, con una lettera al presidente del Senato Schifani che non ha precedenti nella storia delle istituzioni, l’emendamento che blocca per un anno tutti i processi in Italia (compresi i suoi), salvo che riguardino reati gravissimi. Si scaglia contro la presidente del tribunale di Milano che ce l’ha in giudizio e la ricusa.

Le toghe sono basite. "È uno scherzo". "È un delirio". "È una follia". "Meglio fare un’amnistia". L’Anm dichiara che dei suoi passi "non si comprendono le finalità". Pure i penalisti, nonostante l’articolo sia stato scritto dal collega Niccolò Ghedini, vedono "la Costituzione violata". Veltroni giura che "è la fine del dialogo". Casini lo invita al passo indietro e gli intima "ritira gli emendamenti". Di Pietro lo sfotte "perché è allergico alla giustizia". Ma lui, il Cavaliere, va avanti lo stesso. E gli alleati adesso dovranno votare in consiglio dei ministri l’emendamento Vizzini-Berselli.

Due pagine, che segnano una svolta nella strategia mediatica del Cavaliere. Un emendamento che ne segna un’altra nella politica della giustizia del centrodestra. Due strappi che faranno epoca. Vediamoli. Alle 20 la lettera spedita a Renato Schifani diventa pubblica. Il premier chiosa la norma che, di mattina, i relatori al decreto sicurezza Carlo Vizzini e Filippo Berselli hanno depositato per la discussione in aula che parte stamattina. Berlusconi parla dell’emendamento che ordina ai giudici di dare "assoluta priorità ai reati più recenti". Sottoscrive "la sospensione di un anno dei processi". La giustifica politicamente perché "consentirà alla magistratura di occuparsi dei reati più urgenti" e darà tempo al governo e al Parlamento di fare "le riforme strutturali per accelerare i processi". Poi, come se stesse facendo una scoperta e della genesi dell’emendamento non sapesse nulla, ha il coraggio di scrivere: "I miei legali mi hanno informato che la norma sarebbe applicabile a uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica". Il premier attacca a fondo i suoi giudici, il pm che "usa la giustizia a fini mediatici e politici" e il tribunale "politicizzato e supinamente adagiato sulla tesi accusatoria". Ma l’emendamento, che pure congela il processo Mills, non è per lui ma per "la collettività". Berlusconi segue il consiglio degli alleati, quello del ministro dell’Interno Maroni che gli ha detto: "È una questione di correttezza. Se si deve fare si faccia per bene. Assumiti la responsabilità di quello che ti tocca personalmente". Identico il messaggio da An. Suona pure come una risposta al Veltroni della prima mattina ("Se si vogliono introdurre certe normette di nascosto è bene sapere che con me certe cose non passano...").

Adesso l’emendamento è ufficialmente targato Berlusconi, può portare il suo nome, e non quello di personaggi divenuti famosi grazie alle sue leggi ad personam (come Cirami e Cirielli). Stabilisce innanzitutto che "nella formazione dei ruoli d’udienza e nella trattazione dei processi il giudice assegna precedenza assoluta a quelli con la pena dell’ergastolo e della reclusione superiore a 10 anni". Sono inclusi tutti i reati gravi, gravissimi, i processi con detenuti (come oggi). Poi ecco la sospensione di un anno che serve per fermare i casi del Cavaliere e lasciare spazio ampio per presentare e approvare il nuovo lodo Schifani. Che la Lega (con Castelli) e An (con La Russa) già promettono di votare.

Per i processi che riguardano reati commessi fino al 30 giugno 2002 (la corruzione giudiziaria Mills riguarda fatti avvenuti fino al 29 febbraio 2000) e "che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado" (giusto la situazione del caso Mills) scatta la sospensione immediata. "Per la durata di anni uno". L’estensore dell’emendamento, che tutti addebitano a Ghedini, "protegge" la sua creatura dagli attacchi più scontati. Stavolta è subito scritto che la prescrizione viene bloccata. Che la norma è ricusabile e se l’imputato vuole il processo il processo si fa. Che la parte civile può trasferire l’azione in sede civile.

Si riaprono anche i termini del patteggiamento. E, vera chicca che solo una sottile mente giuridica può aver architettato, si stabilisce che il processo non si sospende con un’udienza ad hoc, ma tocca al presidente notificare alle parti lo slittamento. Così, se per caso a qualcuno fosse venuta in mente l’idea di eccepire pubblicamente l’incostituzionalità, la chance è bruciata in anticipo. Il ministro ombra del Pd Lanfranco Tenaglia, per tutta la giornata, invita il premier "a ritirare l’ennesima norma ad personam". Ma Berlusconi non ci pensa proprio. Va avanti. E per decreto blocca tutti i processi pur di salvarsi da un’ipotetica condanna.

 

Ecco la lettera che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha inviato ieri sera al presidente del Senato Renato Schifani. Il testo è stato diffuso da Palazzo Chigi

 

"Caro Presidente, come Le è noto stamane (ieri mattina, ndr) i relatori senatori Berselli e Vizzini, hanno presentato al cosiddetto ‘decreto sicurezza’ un emendamento volto a stabilire criteri di priorità per la trattazione dei processi più urgenti e che destano particolare allarme sociale. In tale emendamento si statuisce la assoluta necessità di offrire priorità di trattazione da parte dell’Autorità Giudiziaria ai reati più recenti, anche in relazione alle modifiche operate in tema di giudizio direttissimo e di giudizio immediato.

Questa sospensione di un anno consentirà alla magistratura di occuparsi dei reati più urgenti e nel frattempo al governo e al Parlamento di porre in essere le riforme strutturali necessarie per imprimere una effettiva accelerazione dei processi penali, pur nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali.

I miei legali mi hanno informato che tale previsione normativa sarebbe applicabile ad uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica. Ho quindi preso visione della situazione processuale ed ho potuto constatare che si tratta dell’ennesimo stupefacente tentativo di un sostituto procuratore milanese di utilizzare la giustizia a fini mediatici e politici, in ciò supportato da un Tribunale anch’esso politicizzato e supinamente adagiato sulla tesi accusatoria.

Proprio oggi, infatti, mi è stato reso noto, e ciò sarà oggetto di una mia immediata dichiarazione di ricusazione, che la presidente di tale collegio ha ripetutamente e pubblicamente assunto posizioni di netto e violento contrasto con il governo che ho avuto l’onore di guidare dal 2001 al 2006, accusandomi espressamente e per iscritto di aver determinato atti legislativi a me favorevoli, che fra l’altro oggi si troverebbe a poter disapplicare.

Quindi, ancora una volta, secondo l’opposizione l’emendamento presentato dai due relatori, che è un provvedimento di legge a favore di tutta la collettività e che consentirà di offrire ai cittadini una risposta forte per i reati più gravi e più recenti, non dovrebbe essere approvato solo perché si applicherebbe anche ad un processo nel quale sono ingiustamente e incredibilmente coinvolto.

Questa è davvero una situazione che non ha eguali nel mondo occidentale. Sono quindi assolutamente convinto, dopo essere stato aggredito con infiniti processi e migliaia di udienze che mi hanno gravato di enormi costi umani ed economici, che sia indispensabile introdurre anche nel nostro Paese quella norma di civiltà giuridica e di equilibrato assetto dei poteri che tutela le alte cariche dello Stato e degli organi costituzionali, sospendendo i processi e la relativa prescrizione, per la loro durata in carica. Questa norma è già stata riconosciuta come condivisibile in termini di principio anche dalla nostra Corte Costituzionale.

La informo quindi che proporrò al Consiglio dei ministri di esprimere parere favorevole sull’emendamento in oggetto e di presentare un disegno di legge per evitare che si possa continuare ad utilizzare la giustizia contro chi è impegnato ai più alti livelli istituzionali nel servizio dello Stato. Cordialmente, Silvio Berlusconi".

Giustizia: Anm; preoccupa ritorno degli insulti ai magistrati

 

Adnkronos, 17 giugno 2008

 

"Siamo preoccupati ed allarmati. Preoccupati perché ritornano aggressioni e insulti nei confronti di magistrati titolari di indagini delicate". Lo ha detto il Segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) Giuseppe Cascini a Sky Tg24 in riferimento alla lettera di Silvio Berlusconi in cui spiega le ragioni degli emendamenti aggiunti al pacchetto sicurezza. Per Cascini c’è preoccupazione "per un intervento legislativo estemporaneo che stravolge il funzionamento del processo penale, rompe il principio di legalità costituzionale e non se ne capisce la ragione, a meno che non la si voglia individuare nella necessità di sospendere un processo. Allora forse bisogna affrontare questa questione". In merito alla norma inserita dall’Esecutivo nel decreto sulla sicurezza, Cascini sostiene che "un’indicazione di principio sulla priorità per processi per fatti più gravi può essere oggetto di un ragionamento e di una riflessione per l’organizzazione degli uffici, anche se sarebbe opportuno avere un sistema che riesce a fare tutti i processi anche per fatti meno gravi".

Giustizia: Finocchiaro; inaccettabile ciò che avviene in senato

 

Adnkronos, 17 giugno 2008

 

"Trovo davvero sconcertante quello che sta avvenendo in queste ore. Mai in maniera così esplicita Berlusconi aveva dichiarato la sua volontà di intimidire la giustizia e la magistratura italiana. Ne è testimonianza il contenuto dell’istanza di ricusazione presentata dai legali del premier riguardo al processo Berlusconi-Mills e la risposta del Procuratore della Repubblica di Milano". Lo afferma Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato.

"Trovo, inoltre, grave - aggiunge - il tono della sua lettera al presidente del Senato, trovo irrispettosa e pericolosa la presentazione di questi emendamenti che con il Dl sicurezza niente hanno a che fare e trovo sinceramente pauroso che da tutta la maggioranza non si levi una voce autonoma a difesa delle regole. Infine ritengo inaccettabile quello che sta avvenendo in Senato: di fronte alla gravità di tali avvenimenti c’è la necessità che il Parlamento affronti una discussione molto seria. Se non verrà dato tutto il tempo necessario per affrontare una questione così importante, ci troveremmo di fronte ad una forzatura istituzionale davvero enorme".

Giustizia: saltano i processi sul G8? intervenga Napolitano…

 

Comunicato Stampa, 17 giugno 2008

 

Sembra che il cosiddetto decreto salva Berlusconi, fra i suoi vari effetti collaterali, abbia la sospensione dei processi in corso contro agenti, funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine per i fatti del G8 di Genova del 2001. Sarebbe una beffa, dopo sette anni di indagini e udienze, e un atroce atto di ingiustizia per le centinaia di vittime degli abusi compiuti nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz e per tutti i cittadini democratici. Sarebbe un atto così grave, che stentiamo a credere che possa davvero compiersi.

Com’è noto, i procedimenti giudiziari sono alla vigilia della sentenza di primo grado: quella per i maltrattamenti inflitti ai detenuti nella caserma di Bolzaneto, riguardante 45 agenti, è stata messa in calendario per il prossimo mese di luglio; quella per i pestaggi, le falsificazioni, gli arresti arbitrari alla scuola Diaz, riguardante 29 funzionari e dirigenti di polizia, è attesa per novembre.

Se davvero il parlamento decidesse di bloccare questi delicati processi, saremmo di fronte a un atto sostanzialmente eversivo: si impedirebbe alla magistratura di fare la sua parte (almeno in primo grado) in merito ad eventi che hanno segnato una gravissima caduta dello stato di diritto, gettando discredito sulle nostre forze dell’ordine e sull’intero ordinamento democratico italiano. Si impedirebbe a centinaia di persone, vittime degli abusi nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz, di aspirare a un risarcimento morale attraverso la giustizia; si impedirebbe a tutti i cittadini di recuperare fiducia nella legalità costituzionale, che a Genova fu sospesa e che il parlamento si appresta ad accantonare. Ci appelliamo al presidente della Repubblica, garante della Costituzione, affinché ci risparmi questo scempio.

 

Comitato Verità e Giustizia per Genova

Giustizia: 8 anni per sentenza; il Csm: non farà più il giudice

 

La Repubblica, 17 giugno 2008

 

Non può più fare il magistrato Edi Pinatto, il giudice che ha impiegato otto anni per scrivere le motivazioni della sentenza con la quale il tribunale di Gela aveva condannato sette componenti del clan Madonia a complessivi 90 anni di carcere, determinando così la loro scarcerazione. La sezione disciplinare del Csm con un provvedimento che ha pochi precedenti lo ha rimosso dall’ordine giudiziario.

Un intervento era stato sollecitato dall’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella e dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano,: "Mai più fatti come quello di Gela - aveva detto il capo dello Stato - episodi del genere minano il prestigio della magistratura e la fiducia che in essa ripone il cittadino". Richieste che in un primo tempo erano sembrate cadere nel vuoto, dopo che il Csm aveva respinto la richiesta di sospensione d’urgenza dal servizio del pm, perché Pinatto aveva nel frattempo depositato le motivazioni delle sentenze attese da 8 anni, e perché di lì a poco la questione sarebbe passata alla Procura generale della Cassazione. A chiedere la sanzione, la più grave per i magistrati, è stata proprio la Procura generale, rappresentata da Eduardo Scardaccione, nel processo davanti alla sezione disciplinare del Csm.

Il Pg ha sottolineato come il ritardo di otto anni causato da Pinatto, che oggi è Pm a Milano, sia stato "gravissimo, ingiustificato e ha provocato danni irreversibili, violando l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, la sostanza a cui si lega l’immagine, la credibilità della magistratura". Si tratta di un fatto "reiterato, abnorme, irreparabile per le parti pubbliche e private". Il ritardo del giudice provocò infatti la scarcerazione di alcuni esponenti del clan dei Madonia, essendo scaduti i termini di custodia cautelare.

Inoltre, poiché Pinatto è stato già sanzionato due volte da Palazzo dei Marescialli con la perdita di anzianità - ha sottolineato il Pg - l’unica sanzione possibile non potendosi applicare la sospensione, è la rimozione: "è incompatibile con la funzione del magistrato". Davanti alla Corte Pinatto si è difeso così: "Il mio impegno personale è stato gravoso - ha dichiarato- si è trattato di un "circolo vizioso", di un sovraccarico di turni in un’indagine complessa". Il difensore di Pinatto, il presidente di sezione della Cassazione Mario Fantacchiotti, nel corso del trasferimento da Gela a Milano, le nuove funzioni si sono accavallate alle precedenti. "La gravità del danno c’è stata - ha detto il difensore - ma occorre tenere conto del carico di lavoro a cui è stato sottoposto il magistrato. Alla fine è andato nel pallone".

Giustizia: troppi agenti aggrediti; 24 giugno riunione al Dap

 

Comunicato stampa, 17 giugno 2008

 

Auspico che a presiedere la riunione indetta dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per martedì 24 giugno alle ore 10 sui troppo frequenti casi di violenza in danno di appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria sia il Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Il Guardasigilli non può restare ulteriormente insensibile alle problematiche della "sua" Polizia. E l’appuntamento è quello idoneo per conoscere gli intendimenti del Ministro della Giustizia e del Governo Berlusconi in materia penitenziaria.

È l’auspicio di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prime e più rappresentativa organizzazione della Categoria con 12mila iscritti, in merito alla convocazione del Dap delle Sigle sindacali sui gravi episodi di agenti aggrediti nelle ultime settimane. In pochissimi giorni, infatti, diversi poliziotti sono stati aggrediti da detenuti nei penitenziari di Lecce, Matera, Torino, nel carcere femminile di Roma Rebibbia.

"Si tratta di aggressioni annunciate aggiunge Capece, che esprime apprezzamento al Capo del Dap Ettore Ferrara per avere subito accolto la richiesta del Sappe di aprire un tavolo di riflessione Sindacati - Amministrazione su questa grave criticità penitenziaria. L’incontro è programmato per martedì 24 giugno alle 10 presso il Dap e noi auspichiamo che sia presente il Ministro della Giustizia Angelino Alfano.

Capece denuncia, in particolare, che tutti i Funzionari del Corpo, attuali Comandanti di reparto, non hanno ricevuto - loro malgrado - nessuna istruzione e addestramento sulle modalità operative da impiegare in caso di disordini interni, tentativi di rivolta, aggressione al Personale. I funzionari sconoscono gli equipaggiamenti ed i materiali in dotazione al Corpo perché durante i corsi di formazione queste attività non sono contemplate. In più si aggiunga che migliaia di Agenti di Polizia Penitenziaria, assunti negli ultimi anni, non sono stati addestrati per difendersi o comunque reagire in caso di aggressione. Si deve dunque procedere alla riorganizzazione dei Nuclei Operativi Regionali, soprattutto nelle regioni più a rischio, per avere la possibilità di inviare, in caso di urgenza, un nucleo di personale preparato ed addestrato anche all’uso della forza.

Bisogna dotare gli Agenti in servizio nelle sezioni detentive di apparati antiaggressione elettronici, che azionati in caso di emergenza possano consentire l’invio di supporti, e attivare dei piani di difesa degli Istituti che, anche se predisposti, non vengono mai testati con simulazioni operative. Bisognerebbe impiegare nei turni serali e notturni (quando il personale è limitato al minimo necessario) spray immobilizzanti (il Corpo li ha già in dotazione) e manganelli e soprattutto effettuare periodiche esercitazioni negli Istituti per insegnare al personale le tecniche di difesa e di immobilizzazione. L’Amministrazione penitenziaria, conclude Capece deve dare immediate disposizioni per l’utilizzo delle nuove tute di servizio, considerando che le divise ordinarie non facilitano i movimenti e, in caso di aggressione, contribuisce a limitare i movimenti del personale.

Siracusa: Garante regionale ha segnalato diverse disfunzioni

 

Comunicato stampa, 17 giugno 2008

 

Il Sen. Salvo Fleres, Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale, in relazione alle ripetute segnalazioni pervenute dai detenuti della Casa Circondariale di Siracusa che hanno evidenziato disfunzioni, carenze e difficoltà di convivenza dentro l’Istituto, ha dichiarato:

"In seguito al mio specifico intervento il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, dott. Faramo, mi informa che sono stati effettuati accertamenti presso l’Istituto di Pena di Siracusa ed il funzionario incaricato, dott. Gianfranco De Gesu, ha riscontrato la fondatezza di talune situazioni segnalate dal Garante. In particolare:

1) Con riguardo alla problematica della mancata distribuzione di materiale per l’igiene personale e a quella dei prezzi di vendita esosi dei generi alimentari disponibili in dispensa, sono state impartite disposizioni affinché sia garantito a tutti i detenuti l’assegnazione dei prodotti igienici per la pulizia personale. Analogamente è stato disposto che sia rivisto l’elenco dei generi alimentari in vendita in dispensa al fine dell’adozione di un nuovo listino che preveda per i generi di più largo consumo la possibilità di scelta tra prodotti di qualità per venire incontro alle esigenze dei detenuti che hanno difficoltà economiche.

2) Con riferimento alla convivenza nello stesso reparto dei detenuti comuni e detenuti protetti, che ha determinato forti tensioni(soprattutto con i detenuti accusati di pedofilia), che spesso si sono conclusi con risse verbali e conseguenza messa in punizione dei detenuti comuni, il dott. Faramo ha disposto che la direzione della Casa Circondariale si attivi per il superamento delle scelte organizzative che hanno determinato l’attuale situazione in vista di nuova e diversa sistemazione anche per consentire una detenzione in condizione di sicurezza e di uguaglianza rispetto agli altri detenuti.

3) In merito alla morte dei detenuti Giuseppe Romano e Daniele Foti, il dott. Faramo mi comunica che non è in grado di riferire alcuna notizia in quanto l’Autorità giudiziaria che indaga sui fatti non ha concesso il necessario N.O. all’espletamento di una indagine amministrativa che, pertanto, attualmente risulta sospesa. Come Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale, resto in fiduciosa attesa dei risultati dell’indagine della magistratura ordinaria affinché si faccia chiarezza sui due decessi che creano grave allarme tra la popolazione carceraria siracusana e nell’opinione pubblica. In conclusione in attesa di ricevere comunicazione sulle misure adottate dalla direzione della Casa Circondariale di Siracusa in conseguenza delle direttive impartite dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, auspico tempestività e solerzia a tutela della legalità e dei diritti fondamentali dei detenuti".

Milano: a San Vittore è "guerra" tra albanesi e nordafricani

di Luca Fazzo

 

Il Giornale, 17 giugno 2008

 

I pochi italiani rimasti nella prigione faticano a farsi rispettare. Nel carcere ora comandano gli immigrati. Due detenuti su tre vengono da fuori. E fra marocchini e albanesi è guerra aperta San Vittore.

Le due di un pomeriggio qualsiasi. Sesto raggio. Un viavai di facce, detenuti, dialetti. E un solo italiano. Mezza età, i capelli arruffati, sta fermo davanti a una cella, in mano una domandina, una delle mille pratiche burocratiche che scandiscono la vita in carcere. Come si vive, in galera, in minoranza? Il detenuto sta per rispondere. Forse vorrebbe dire che è dura. O forse direbbe che un uomo vale l’altro, perché la galera in qualche modo unisce, e che tra gli stranieri come tra i nostri ci sono i buoni, i rompiscatole, i prepotenti. Ma la vicedirettrice che passa di lì lo zittisce. I detenuti non possono parlare con i giornalisti. E anche questo, in fondo, è un segno dei tempi non facili che vive il vecchio carcere.

Nella Milano multietnica, oggi San Vittore è l’unico quartiere dove il rapporto si è invertito, si è superato lo spartiacque: più stranieri che italiani. La gente entra ed esce in continuazione, così il rapporto oscilla: un giorno tre stranieri su quattro, un giorno due su tre. Ma sempre, e comunque, la maggioranza non parla italiano. Così la vita nel microcosmo di San Vittore cambia, velocemente, ed è un cambiamento senza ritorno, dove una breve, frettolosa visita nei raggi è sufficiente per capire che non si può essere ottimisti per almeno tre motivi.

Il primo: la grande maggioranza è fatta di detenuti non "professionali", gente che non è esperta di carcere, non sa come viverlo (non sa, per esempio, che l’igiene è fondamentale per sopravvivere, e i vecchi detenuti italiani passavano il tempo a fare pulizie) e questo scatena tensioni che non si erano mai viste.

Il secondo: la mutazione avviene in una situazione ambientale ormai oltre i limiti della ragionevolezza e del rispetto umano, dove il sovraffollamento di alcuni settori del carcere (segnatamente il sesto raggio) è a livelli letteralmente da terzo mondo.

L’ultimo: una stretta repressiva che viaggia più veloce della costruzione di nuove carceri è destinata inevitabilmente a peggiorare ulteriormente la situazione. A fare da guida è una giovane donna, si chiama Manuela Federico, calabrese.

Fino a due anni fa faceva l’avvocato, poi ha scelto il concorso per la polizia penitenziaria ed oggi è vicecomandante del carcere. Non ha ancora addosso la scorza, l’inevitabile durezza dei veterani. Così quando passa davanti alle celle è un coro di "dottoressa domandina", con ognuno che le vuole chiedere qualcosa, sventolando l’inevitabile modulo. Gli stranieri lo imparano in fretta, il gergo del carcere.

Quando questo era un carcere italiano, c’era una sorta di divisione regionale: i siciliani al terzo raggio, i calabresi al quarto. San Vittore era reso tranquillo dalla pax mafiosa che dettava le regole. Qualche scazzottata, ogni tanto, ci scappava. Ma l’accordo tra clan - lo stesso accordo che spartiva strade e affari nella Milano fuori - garantiva il buon andamento della vita carceraria. Oggi tutto questo non esiste più.

I malavitosi di lungo corso sono tutti reclusi altrove: a Opera - come Salvatore Riina e Renato Vallanzasca - a Bollate, in giro per l’Italia. A San Vittore gli italiani devono volare basso. E la partita per decidere chi comanda in carcere è ancora tutta aperta. Con la conseguenza che, ogni tanto, la violenza esplode. "L’altro giorno - racconta un avvocato - dovevo incontrare in carcere un mio cliente ma non mi hanno nemmeno fatto entrare perché dentro stava accadendo l’iradiddio".

I gruppi etnici più numerosi sono, nell’ordine, marocchini, romeni e albanesi. I romeni si fanno abbastanza gli affari loro, così ad affrontarsi sono gli albanesi e i marocchini. "Presi singolarmente - racconta Manuela Federico - magari vanno anche d’accordo. Ma quando fanno gruppo scatta la contrapposizione". Impossibile tenerli separati in raggi diversi: l’andirivieni continuo, con trenta entrate al giorno, rende già abbastanza difficile trovare un letto per tutti. Al massimo si può cercare di raggrupparli per cella. Ma le celle ogni tanto si devono aprire. Ed è lì che arrivano i guai.

Tutti, a San Vittore, sanno che andrà sempre peggio. Il carcere cerca in qualche modo di sopravvivere creando delle isole di vivibilità: i corsi di italiano o di computer, la "nave" che è un settore dove si va solo a richiesta e con patti chiari, rispetto delle regole in cambio di spazi di socialità. Ma il resto è un disastro.

Gli islamici in questo disastro fanno proselitismo con facilità, eleggono i loro imam a rotazione, pregano, predicano. Il carcere, visto dall’interno, sembra cadere letteralmente a pezzi. I soldi per aggiustarlo non ci sono. Al terzo piano del sesto raggio ci sono uomini pigiati come animali, tripli letti a castello, sei corpi dove ci sarebbe spazio per uno, e ci si domanda come facciano a non ammazzarsi. Le docce allagano i bagni, i cessi si intasano, l’odore invade i corridoi. Rieducazione e recupero, in queste condizioni, sono parole vuote di significato.

Catania: "raccolta differenziata" nel carcere di Caltagirone

 

La Sicilia, 17 giugno 2008

 

Da ieri mattina i circa 200 detenuti del carcere di Caltagirone rappresentano un esempio positivo di "ecologia virtuale". Ogni cella della casa circondariale, infatti, è stata attrezzata di contenitori per la raccolta differenziata, che viene estesa al resto della struttura con il coinvolgimento di detenuti e personale dipendente. È il frutto del progetto "Ecos", curato da Kalat Ambiente S.p.A. (società pubblica che gestisce l’Ato Rifiuti del Calatino) e dalla direzione della casa circondariale di Caltagirone. Si tratta in assoluto del primo progetto in Sicilia che coinvolge i detenuti e il personale dipendente nella raccolta differenziata dei rifiuti. Negli scorsi giorni si sono svolti gli incontri fra i detenuti (precisamente il 4 e il 5 giugno) e il personale di Kalat Ambiente per la sensibilizzazione sul tema e l’illustrazione del progetto (il 10 giugno) e sugli stessi temi è stato coinvolto il personale dipendente.

E ieri mattina, alla presenza del sindaco di Caltagirone, Franco Pignataro, del presidente di Kalat Ambiente, Vittorio Digeronimo, del direttore della casa circondariale di Caltagirone, Claudio Mazzeo, e del provveditore regionale per la Sicilia, Orazio Faramo, è stato illustrato il progetto. Il direttore del carcere ha presentato una serie di iniziative ambientali (tra le quali l’accordo con un’associazione ambientalista per lavori socialmente utili in un fondo a Santo Pietro). Antonella Aranzulla (Kalat Ambiente) ha illustrato il progetto: la società ha messo a disposizione i contenitori per la differenziata e ha organizzato un servizio di ritiro specifico; inoltre ciascuna cella della casa circondariale sarà dotata di un mastellino per la raccolta quotidiana del rifiuto umido e organico. Di concerto con la direzione del carcere avverrà il ritiro di umido e organico (tre volte a settimana) e secco (due volte, una per carta e cartone, un’altra per la plastica). Soddisfazione è stata espressa dal sindaco Pignataro, dal presidente Digeronimo e dal provveditore Faramo.

Verona: detenuti e disabili, insieme in progetto d’integrazione

 

Redattore Sociale, 17 giugno 2008

 

La cornice è quella della Casa Circondariale di Montorio, a Verona. I protagonisti sono un gruppo di 15 detenuti e di 10 disabili, all’interno di un progetto di addestramento e toelettatura per cani. Corso della cooperativa Cercate onlus.

Due marginalità, due segmenti della società cui spesso si fa riferimento solo per stereotipi si sono incontrati a Verona, uniti da un festoso gruppo di cani. La cornice è quella della casa circondariale di Montorio, i protagonisti sono un gruppo di 15 detenuti e di 10 disabili, il "mezzo" 10 cani di varie taglie e razze. "Dalle frange più deboli della società arriva il più alto messaggio di integrazione": è il commento della responsabile della Cooperativa Cercate Onlus - Ceod Cà Vignal, Nadia Gobbo. Due realtà ai margini, dunque, hanno scoperto ciò che ancora la società ignora: che prima di essere detenuti o disabili si è persone.

Attivo dal 2005 come corso di addestramento e toelettatura nel carcere, il progetto "Amici speciali" nell’edizione 2007-2008 si è allargato per coinvolgere non solo i detenuti ma, primo in Italia, anche i disabili. "La parola chiave per noi è rispetto e conoscenza dell’altro - spiega Dannia Pavan dell’associazione Picot (Progetti per il sociale) -. Ci ha mosso la consapevolezza che il carcere debba aprirsi al territorio e che per i detenuti il tempo è perlopiù vuoto, senza senso. Noi abbiamo voluto riempire questo tempo, dando loro la possibilità di aprirsi, di mettersi in gioco". Il corso, partito a ottobre grazie anche alla collaborazione dell’Ulss 20, si è svolto in quella che i detenuti chiamano "oasi", un tempo area incolta all’interno della casa circondariale.

Con impegno e costanza lo spazio è stato rimesso in sesto dai suoi nuovi proprietari, che vi hanno costruito una casetta in legno e il percorso di addestramento. I 15 detenuti hanno lavorato quattro ore al giorno dal martedì al venerdì per imparare a comunicare e farsi capire dagli amici a quattro zampe. E due volte alla settimana per mezza giornata arrivavano anche gli amici del Ceod (4 della Cooperativa Cercate e gli altri dell’associazione "La Libellula" Onlus). "I momenti precedenti al primo incontro sono stati caratterizzati da un pò di timore da parte dei nostri ospiti - ricorda Nadia Gobbo -, ma dopo la prima visita è stato evidente per tutti che quelle recluse erano semplicemente delle persone. Da quel momento in poi li hanno considerati loro amici".

La speranza comune è che il corso continui, vista anche la crescente richiesta di partecipazione da parte dei detenuti. Sul totale dei 700, i 15 neoaddestratori sono considerati infatti una minoranza fortunata, che può trascorrere all’esterno della cella buona parte della giornata, vivendo un’esperienza formativa e valida da un punto di vista umano. "I cani sono animali che possono dare tanto alle persone in difficoltà e che in questa occasione sono stati mediatori indispensabili" spiega la responsabile dell’area pedagogica della casa circondariale, Enrichetta Ribrezzi, mentre il direttore Salvatore Erminio sottolinea che "i detenuti hanno dimostrato grande partecipazione e costanza e il lavoro con i disabili è stato importante, quindi da parte nostra la disponibilità a continuare lungo questo cammino c’è".

Roma: in carcere a Regina Coeli, ora Cecchi Gori ha paura

 

Quotidiano Nazionale, 17 giugno 2008

 

L’ex produttore cinematografico non nasconde la preoccupazione: "La stessa parte nera dell’Italia, quella mafiosa e criminale che mi ha portato qui, vuole la mia morte, farmi sparire, annullarmi".

Vittorio Cecchi Gori è sdraiato, come morto, dietro le sbarre della cella numero 12 nella sezione numero 7 di Regina Coeli. Sul tavolino della cella ci sono biscotti sbocconcellati, scatole di cracker, un tubetto aperto di dentifricio Pasta del Capitano. È morto ma veglia. C’è chiasso di ferro e voci rintronanti nel corridoio, come in tutte le carceri. Sente però qualcuno che dice piano il suo nome, apre gli occhi e sono vispi, azzurro-verdi. "Direttore", dice balzando su. "Anzi onorevole. Conoscevo tutti i deputati e i senatori, sono stato uno di loro: non è venuto nessuno in questi dieci giorni, ma che gli ho fatto? Non ho niente contro di loro, non è la politica a volermi morto. Sono altri, altri...".

Sorride e insieme allaga le sue grandi pupille di lacrime. Ha una Lacoste azzurra, sulla manica lunga giace una macchia rossa di sugo o di vino: la cosa più feroce è il povero coccodrillo sciupato della maglietta. Si avvicina alle sbarre color ruggine. "È una follia, è tutta una follia. Quello che mi capita è degno del Paraguay". Ora abbassa la voce per non farsi sentire da nessuno, nemmeno dal direttore della prigione impassibile e baffuto. Mette nelle mie le sue mani, curate, da bambino o da donna, con le unghie lunghe ma pulite. Mi parlerà un’ora. Io dirò le solite parole di queste circostanze: coraggio, finirà presto, tanti le vogliono bene, le devo salutare qualcuno, mi ha parlato bene di lei Tizio e Caio.

Mi scopro a dargli qualche volta del tu. Si dà sempre del tu a chi ha perso l’invisibile corazza della libertà, così misconosciuta quando c’è. Dice: "Non so perché mi trovo qui. Non lo so nemmeno dopo che ho parlato con il giudice. Ho cercato di pagare i debiti, non ingannavo nessuno". Come sta? È vero che ha domandato l’eutanasia?""No, non ho mai avuto istinti suicidi. Ma qui può accadermi qualcosa. La stessa parte nera dell’Italia, quella mafiosa e criminale che mi ha portato qui, vuole la mia morte, farmi sparire, annullarmi. Quella è gente cattiva, non dico di più. Per questo sono stato io a chiedere di essere sorvegliato a vista". Lancia un’occhiata dietro le mie spalle, dove c’è la guardia penitenziaria, seduta a un tavolino da Libro cuore più piccolo di un banco delle elementari, e dietro spunta un ragazzotto dalla testa rasata e dalla camicia celeste.

Gli dico: qualcuno la vuole ammazzare, teme questo? Qualcosa come il caffè nero al cianuro preparato per Sindona? "Questo... qui la direzione e le guardie carcerarie mi vogliono bene, nulla da dire, sono assistito e guardato. Ma sa... io non voglio morire, ma temo di ritrovarmi morto per lo spavento, per la tensione, che subentri la depressione e ceda qualcosa in me. L’angoscia e l’ansia mi assaltano di notte, ma poi passano. E il mattino arrivano le mazzate, come in Paraguay. Lo sa che da quando sono arrivato qui, martedì 3 giugno, mi sono arrivate diverse richieste di trasferimento in carcere per altri reati. Tutto si abbatte su chi è già messo in ginocchio. Stavo da due giorni in cella, e arriva una richiesta da Catania. Mi accusano di aver comprato dei voti che neanche mi sono serviti per rieleggermi nel 2001.

Dicono che i quattro milioni che avrei dato a un prete di parrocchia erano per uno scambio sporco di consensi. Un pentito ha alzato la cifra, mi tira dentro storie assurde. Io sono colpito da questa Italia della malavita e della mafia. Non dalla politica, né di destra né di sinistra: non ci sono complotti ma ragioni di bottega, di soldi che mi dovevano e mi hanno rubato, migliaia di miliardi. Non c’è una parte politica che mi odi o mi perseguiti.

Del resto ho avuto guai in qualunque stagione politica: fosse ulivista o berlusconiana. Ci capisco pure di politica. Sono stato io a prefigurare l’alleanza tra Lega e i siciliani autonomisti di Lombardo anni fa. Per senso di responsabilità nel 1994, quando ero senatore dei Popolari, feci mancare il mio voto contrario che avrebbe fatto cadere Berlusconi. A lui ho chiesto per lettera, quattro mesi fa, di candidarmi senatore, ma Silvio non mi ha risposto. Capisco i motivi, venivo da sinistra, lui però male non me ne ha fatto mai. Fini poi mi vuol bene. Lui era appena diventato papà e gli ho chiesto se potevo sperare anch’io di averne un altro. Lui mi rispose: Si rinasce, e porta pure bene".

Porta rancori? "Ai politici no, e perché mai. Nessuno è venuto a trovarmi, a differenza di quando capitò ad altri, è vero. Ma questa è una lezione di vita. Il nemico non sono loro e neanche la magistratura, ma questa Italia oscura che mi ha spogliato, mi ha tolto la Fiorentina e la mia televisione. Mi devono dei soldi, chi li ha visti? Parlo di un certo giro di Telecom... Avevo ragione o no quando denunciavo il lato tenebroso di Telecom? Lo dissi proprio a lei, cinque anni fa. E lo scrisse. Poi sono saltati fuori quei guasti, quei dossier...

Le intercettazioni sono state inventate dalla parte verminosa di Telecom, non dalla magistratura. Insistono ad annichilirmi, non gli basta quanto mi hanno inflitto. Quando mi hanno arrestato con questa accusa fasulla di bancarotta, stavo per andare al concordato. Volevano da me però che rinunciassi alle mie cause di rimborso per la Fiorentina e la televisione che m’hanno rubato. Io mai. Piuttosto crepo qui, io alla mia dignità non ci rinuncio. So che se mi tirerebbero fuori, se accettassi compromessi umilianti. Ma non lo faccio. È per questa mia natura un po’ ingenua ma fatta di principi che sono qui. A me basta che mi fanno fare dei film, che male gli fo? Ma per favore aiutatemi a uscire, non ce la faccio, muoio qui dentro innocente. È interesse generale che io esca.

Com’è stato il momento dell’arresto? È stato violento? Ha visto qualcuno nel frattempo? domando. Cecchi Gori si ricorda qualcosa, ha un lampo felice e si arrossa: "Mi saluti Feltri, mi vuol bene Feltri vero?". Poi la faccia torna color arancione, come le inferriate, i capelli ocra come i mobili di materiale ignifugo, o viceversa. Doveva essere abbronzato due settimane fa. "Quando sono venuti, alle tre di pomeriggio, in ufficio, ho chiesto di vedere mio figlio Mario, prima che mi portassero via. Ha 16 anni, certe cose restano impresse per sempre: un padre trascinato in galera... Me lo hanno concesso e sono grato ai finanzieri. L’ho chiamato e gli ho detto: Mario (si chiama Mario come mio padre), ora mi mettono in prigione. Ma sappi che il tuo babbo non ha fatto nulla di male, nulla di cui vergognarti, conserverò sempre la mia dignità di uomo".

Sto cercando di avere il permesso di chiamarlo al telefono. Sentirmi rivivere in lui. Ma non ci riesco, la burocrazia è complicata: una volta mi hanno fatto chiamare un numero sbagliato. Non ho nessuno, sono solo. Capisco come ho sbagliato a non mettere su una famiglia buona e stabile". L’unico nome di donna che fa è: la Marini. "Mi ha difeso, sempre. Pensi che hanno ritirato fuori la storia di una sua denuncia contro di me, roba di anni fa. Mi stanno trattando come Al Capone. Ma la Marini è brava". Non dice mai Valeria, ma "la Marini". Tranne in un caso. "La persona più vicina è il mio cane, ho in mente il mio cane. Sono preoccupato per lui. Prende solo cibo da me. Dev’essere in un angolo del mio appartamento a Palazzo Borghese. Ho chiesto che andasse Valeria a dargli da mangiare, da lei lo accetta, per cinque anni ha convissuto con noi. È un Jack Russell terrier, si chiama Amore".

Cecchi Gori ha pantofole aperte Nike, un paio di calzoni blu da tuta, e c’è un libro aperto sul letto. Si chiama Segreti, e raccoglie una serie di consigli asiatici e mistici per sopportare le pene. "Vede: io non ho più i miei genitori, fratelli o sorelle, e i miei figli sono lontani. Amici? Credevo di averli... E ora se non mi ammazzano, muoio io. Non voglio l’eutanasia, non c’è bisogno; io mi muoio". Contorce la corona del rosario e se la preme per lasciare un segno sulla gola, "me lo ha mandato il cappellano, prima avevo al collo una catena d’oro che mi aveva regalato la Marini", e le sue mani sono diafane, da principe. In quel momento è disperato, poi si rianima.

Il cinema. "Ho pensato di fare un film, qui dentro. Non la solita trama triste del detenuto in attesa di giudizio, ma una commedia all’italiana. Dovrebbe dirigerlo Virzì. Cinque o sei storie che si intrecciano: due o tre detenuti, la guardia, il direttore, il cappellano, l’avvocato, il magistrato. Fare un film per me è come innamorarsi, cambiano i colori delle cose. Io, sa, sui film sono bravo. Fatemi uscire, farò solo film. Invece sono dimenticato da tutto il mio mondo".

Lo rimprovero: molti registi hanno parlato bene di lei. Zeffirelli ad esempio. Lui: "È morto Dino Risi. C’è stato uno, uno, che abbia ricordato che il suo produttore era Cecchi Gori? Eppure mi conoscono in tutto il mondo, il mio nome è un patrimonio di questo Paese, alla Casa Bianca sono stato ospite a cena, ho vinto tre Oscar. E ora sono seppellito, perché poi? Ho 66 anni, trascinato qui, non hanno voluto nemmeno concedermi i domiciliari che alla mia età si danno a tutti, e per un reato non commesso e che non esige l’arresto. Ero pronto a pagare ogni debito, tutto pur di preservare una piccola cellula di società cinematografica sana per lasciarla a mio figlio. Lui ricomincerà, e ce la faremo".

La Madonnina della prima rotonda (il carcere è dedicato a Regina Coeli) è inquadrata come una detenuta da luci tipo Las Vegas deve pensare quello che penso io: processate Cecchi Gori, ma tiratelo fuori di qui. Fuori non troverà amici, ma almeno un cane di nome Amore, come nei film.

Forlì: ieri terza edizione del Trofeo "Calciando… calciando"

 

Comunicato stampa, 17 giugno 2008

 

È possibile ridurre le distanze tra chi è abituato a vedere il cielo da una cella e chi può contare tutti i giorni su una piena libertà? Ieri pomeriggio a Sadurano è successo, almeno per cinque detenuti della Casa Circondariale di Forlì. L’occasione di regalare una domenica di libertà è stata il Trofeo "Calciando… Calciando", organizzato dall’associazione "Con…Tatto" Onlus, in collaborazione con la squadra di calcio a 5 "Gli Amici di Marcello" e con il contributo della Provincia di Forlì. L’iniziativa ha preso vita tre anni fa dalla Associazione Con…Tatto onlus che collabora da anni con e all’interno della Casa Circondariale di Forlì. L’Associazione ha avviato relazioni con la squadra "Gli Amici di Marcello" e con essa negli scorsi due anni ha organizzato le precedenti edizioni.

L’obbiettivo è creare un ponte tra dentro e fuori. Il pallone aiuta a far conoscere chi è dentro e deve ricominciare a guardare fuori, avvicinandosi al fine pena e chi è fuori e vuole prepararsi ad accogliere chi tra poco rientrerà nella comunità.

Oltre al pallone, la giornata è stata allietata da una merenda e da chiacchiere "libere" accompagnate dai volontari che si rendono disponibili, insieme alla squadra, nella gestione dell’iniziativa e del trasporto delle persone detenute tra il carcere e il campo. La scelta del campo è da sempre possibile grazie alla sensibilità e alla disponibilità del gruppo Sadurano che lo concede gratuitamente.

Quest’anno l’iniziativa, ha potuto contare su quattro squadre, "gli amici di Marcello", il "Club Forza Forlì", la rappresentativa della Comunità di Sadurano, e una rappresentanza dei consiglieri del Comune di Forlì, nelle quali si sono "integrati" i detenuti provenienti dal carcere, dando il loro contributo al successo sportivo oltre che sociale, dell’iniziativa. Avvicinare la realtà carceraria al mondo comune, anche attraverso lo sport, permette di superare le barriere della discriminazione e favorire una maggiore integrazione dei detenuti che, una volta scontata la pena, torneranno ad essere cittadini "normali".

Dal punto di vista strettamente sportivo, il trofeo è stato conquistato dal club Forza Forlì, ma al termine della manifestazione tutti sono stati premiati, perché il vero trofeo conquistato è stata la possibilità di vivere una domenica alla pari.

Roma: detenuto a Regina Coeli si sposa, anche lei è detenuta

 

Comunicato stampa, 17 giugno 2008

 

Grazie all’intervento del Garante dei detenuti un recluso di Regina Coeli può sposare la compagna, detenuta a Rebibbia Femminile. Il Garante Angiolo Marroni: "il matrimonio può essere, per queste due persone, il primo passo per tornare a pieno titolo nella società".

Come ogni matrimonio che si rispetti lo sposo - un detenuto di Regina Coeli - ha dovuto attendere, trepidante, l’arrivo della sposa, che arrivava dalla sua attuale residenza: il carcere di Rebibbia femminile. Per il resto, gli ingredienti tipici di uno sposalizio c’erano tutti: l’officiante (tre funzionari del comune di Roma), quattro testimoni, il fotografo, la torta e lo spumante gentilmente offerti dal cappellano di Regina Coeli.

È stato davvero un matrimonio speciale quello che ha unito Massimiliano e Sonia, 54 anni lui e 43 lei, coppia fissa anche fuori dal carcere, coimputati per lo stesso reato e in attesa di giudizio in due diverse carceri di Roma. A consentire il matrimonio, l’interessamento del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni che - insieme alla Direzione del carcere e ai volontari della Comunità di Sant’Egidio - ha curato tutti i passaggi burocratici necessari al Comune di Roma per la promessa di matrimonio e le pubblicazioni. Il rito è stato celebrato nei giorni scorsi nella sala di rappresentanza di Regina Coeli.

A fungere da testimone per i due sposi, due operatori dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti e due impiegati dell’Area Educativa del Penitenziario. Invitati da entrambe le parti ispettori ed agenti della polizia penitenziaria che hanno anche concesso ai due sposi, al termine del rito, un colloquio straordinario di 30 minuti. "Il carcere è uno spaccato della società: all’interno, fermo restando che si sconta una pena per i reati commessi, si lavora, si studia, si vive e si muore e, in qualche caso, ci si sposa anche - ha detto il Garante Regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni -. Noi abbiamo lavorato molto per consentire a queste due persone di coronare un sogno che, siamo convinti, può essere davvero il primo passo per mettersi alle spalle il passato è ritornare, a pieno titolo, nella società".

Droghe: rinasce il Dipartimento antidroga, a capo un medico

 

Ansa, 17 giugno 2008

 

Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento delle dipendenze di Verona, sarà il direttore del nuovo Dipartimento antidroga che il governo Berlusconi vuole ripristinare dopo l’abolizione fatta dal precedente esecutivo. Lo ha confermato all’agenzia Ansa il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, che ha anche preannunciato che entro la fine di giugno presenterà la Relazione annuale al Parlamento sulle dipendenze.

"Ho scelto Serpelloni - ha spiegato Giovanardi - perché è un personaggio prestigioso, una persona di grandi competenze e di esperienza amministrativa". Molto attivo sul fronte delle dipendenze, il 53enne medico internista - che è anche direttore del Centro di medicina preventiva e del Reparto di Medicina delle Dipendenze e Alcologia della Ulss 20 di Verona - ha fra l’altro diretto un gruppo di studio internazionale sulle reazioni del cervello alle sostanze stupefacenti e coordina il progetto sperimentale di un sistema di allerta e risposta rapida contro il dilagare del consumo di droghe tra i giovani. Ha inoltre coordinato uno studio preliminare di fattibilità per la sperimentazione del vaccino anti-cocaina.

Durante la scorsa legislatura, Serpelloni fu chiamato dal ministro Paolo Ferrero a far parte della Consulta degli esperti sulle tossicodipendenze del Ministero della Solidarietà Sociale, e dal ministro Livia Turco a far parte della Commissione consultiva in materia di dipendenze patologiche del Ministero della Salute. Con l’attuale governo, Serpelloni ha sicuramente in comune una netta presa di posizione rispetto alle droghe cosiddette leggere: "l’Italia - ha detto poco tempo fa - dovrebbe seguire l’esempio della Gran Bretagna e considerare la cannabis come droga altamente pericolosa". E, ancora: "è necessario come istituzioni dare un messaggio chiaro e inequivocabile alle giovani generazioni sulle sostanze stupefacenti, che sono tutte tossiche per il nostro cervello e in grado di alterare anche permanentemente le normali funzioni psichiche della persona. Sulla base di questo si devono creare condizioni di tutela della salute dei cittadini, soprattutto se minorenni, che ne vietino esplicitamente l’uso e la circolazione".

Serpelloni sarà in un primo tempo a capo di una "struttura di missione", un organismo provvisorio - con le stesse funzioni del Dipartimento - previsto dal Decreto legislativo 303, la cui creazione richiede tempi meno lunghi rispetto all’istituzione del Dipartimento. La struttura di missione lascerà poi il posto, appena possibile, al nuovo Dipartimento.

"Aver scelto per un compito così importante, come la guida della struttura di coordinamento delle politiche sulla droga, un dirigente di una struttura pubblica, è un fatto rilevante": così Alfio Lucchini, presidente di Federserd, la federazione del servizi pubblici delle dipendenze, commenta la notizia che il prossimo direttore del Dipartimento nazionale antidroga sarà Giovanni Serpelloni. "Siamo certi - dice Lucchini - che Serpelloni sarà in grado di valorizzare la realtà e l’esperienza del Servizio pubblico e di intervento in una fase così delicata dell’azione antidroga". Delicata perché, spiega, in questo periodo sono in atto "cambiamenti importanti dei fenomeni che riguardano il consumo e le dipendenze, e che richiedono forti investimenti nel sistema di intervento, a cominciare proprio dai Sert". E Serpelloni, che "si è distinto per aver favorito la costituzione dei dipartimenti delle dipendenze come luoghi territoriali del trattamento e della cura, potrà cercare di costruire le giuste sinergie per affrontare questi fenomeni". "Nel momento in cui un professionista come lui assume un compito così rilevante - conclude Lucchini - saprà commisurare le attività, tenendo conto di tutte le opinioni. E Federserd saprà interloquire".

Argentina: diritto e globalizzazione, intervista Luigi Ferrajoli

di Carlos Rodriguez

 

Associated Press, 17 giugno 2008

 

Uno dei principali teorici del garantismo in materia penale, il giurista Luigi Ferrajoli, è a Buenos Aires per il terzo congresso dell’Asociacion Interamericana de Defensorias Publicas (Aidef) finanziato dalla Commissione Europea. In un’intervista al quotidiano "Pagina 12" ha parlato di droga, depenalizzazione, diritto, globalizzazione e libertà.

 

Garantismo

 

Alla fine degli anni novanta, Lei diceva che il garantismo era una parola nuova nel lessico giuridico poiché era stato inserito vent’anni prima, in Italia, nel Diritto Penale. Com’è la situazione a livello universale?

Il garantismo è una parola coniata negli anni settanta, in Italia, in ambito del Diritto Penale. Tuttavia, può essere estesa come paradigma teorico alle garanzie di tutti i diritti fondamentali, non solo del diritto di libertà in materia penale, bensì anche nei diritti sociali. E non solamente rispetto ai poteri pubblici, ma anche rispetto a quelli privati. E non solo rispetto al potere di uno Stato, ma anche ai poteri internazionali.

 

Lei afferma che esistono degli ampliamenti del garantismo che dovrebbero essere presi d’urgenza. A quali questioni si riferisce?

Uno degli ampliamenti dovrebbe andare in direzione dei diritti sociali. Un altro verso i poteri privati, che la tradizione liberale ha sempre confuso con le libertà, quando sono cose differenti. Per esempio, si confonde ciò che è la proprietà dei media con ciò che è la libertà di stampa. O anche verso il potere del mercato, che si pone al di sopra dei diritti civili. Il garantismo si è sviluppato esclusivamente rispetto ai poteri pubblici, come espressione dello stato di diritto, invece di manifestarsi anche nei confronti dei poteri privati. Il diritto al lavoro, il diritto all’ambiente non hanno un disegno costituzionale. Questi ampliamenti devono essere strutturali.

 

C’è un terzo ampliamento di cui lei parla.

Il terzo è il diritto internazionale. Abbiamo molte Carte internazionali: dichiarazioni di diritti, convenzioni, patti, ma senza garanzie. In questo vuoto di garanzie, il potere privato e quello delle grandi imprese private colmano il vuoto di garanzie pubbliche. Ciò permette ai poteri privati, senza che ne abbiano il diritto, di svilupparsi in maniera selvaggia e illimitata.

 

Tornando al tema della libertà di stampa, in Argentina, in alcuni momenti storici poteva essere meno complicato lavorare con una certa libertà in un organo di stampa statale che in uno privato.

Succede anche in Italia ed è il segno dell’importanza dei concetti teorici. È il frutto di una confusione concettuale che fa parlare di "libertà di stampa" quando in realtà è "libertà della proprietà dei media". La polemica che c’è stata in Italia, sul monopolio dei media da parte di (Silvio) Berlusconi, ha posto l’accento sul pluralismo della proprietà, che è un valore da garantire, naturalmente. Ma io credo che si debba anche affermare la separazione della libertà di stampa, ossia la libertà dei giornalisti d’informare, dalla proprietà dei media. La proprietà non dovrebbe influenzare l’opinione dei giornalisti e nessuno dovrebbe avere più di una rete televisiva o di un giornale. Ciò dovrebbe essere assicurato per legge. Altrimenti sono solo garanzie di carta, senza un’applicazione reale.

 

Droga

 

Si è incontrato con il ministro Anibal Fernandez e ha parlato con lui del progetto di depenalizzazione del possesso di droghe per uso personale. Qual è la Sua opinione su quest’iniziativa?

La legislazione antidroga che si è sviluppata nel mondo sotto la pressione degli Stati Uniti è totalmente irrazionale. Essa produce solo criminalità e non la diminuzione del consumo. Il proibizionismo significa affermare il monopolio criminale del mercato della droga, che produce, inevitabilmente, criminalità grande e piccola, in questo caso dei piccoli venditori di droga. La criminalità esercita una pressione su tutti i giovani che la legalizzazione non produrrebbe. Esiste un interesse dei piccoli consumatori e spacciatori di corrompere altri giovani. Questo è legato alla pressione dei grandi monopoli della droga. Tutto ciò fa sì che la repressione cada sulla mano d’opera bassa e non sulle grandi imprese.

 

La legalizzazione della droga sarebbe la soluzione del problema?

È possibile che la legalizzazione in un primo momento porti a un aumento del consumo, ma nel lungo termine ci sarebbe una diminuzione poiché non ci sarebbero la pressione e la corruzione sui consumatori, i quali devono convincere i propri compagni a consumare.

 

Che opinione ha del progetto argentino di depenalizzazione?

Non ho letto il progetto, non conosco i dettagli. Mi è parso che il ministro abbia una politica molto razionale. Uno dei passi da fare, nella lotta alla droga, è prevedere l’impunibilità del consumo. È un principio classicamente liberale dire che "gli atti contro se stessi non sono punibili". Ciascuno è sovrano sulla propria persona. La criminalizzazione peggiora soltanto il problema. Un’altra misura potrebbe essere di differenziare la droga pesante da quella leggera. Importante è ridurre il danno. E per questo, il Diritto Penale non è una bacchetta magica.

 

Armi

 

Ho sentito che s’interessa anche del piano di disarmo della società civile..

Una politica importante sarebbe quella di legalizzare l’uso delle armi. Le armi dovrebbero essere considerate, più della droga, dei beni illegali. Le armi sono destinate a uccidere, provocano guerra e criminalità. Perché non parlare di armi-traffico anziché parlare tanto di narco-traffico?

 

Prima parlava di "irrazionalità" della politica in materia di droghe promossa dagli Stati Uniti. È possibile ottenere un cambio sostanziale per smetterla con le droghe e le armi se sono due mercati favolosi?

È legittimo il sospetto che ci siano degli interessi molto forti a sostegno del proibizionismo sulle droghe. Non è credibile, visto che gli Stati Uniti hanno sperimentato il proibizionismo, negli anni ‘20, che ha provocato il gangsterismo, il quale ha causato una criminalità feroce.

 

Globalizzazione

 

Lei parla del rapporto tra Diritto e globalizzazione…

È importante analizzare come si possa utilizzare il Diritto per neutralizzare gli effetti negativi della globalizzazione. La globalizzazione si caratterizza come un vuoto del diritto pubblico, un vuoto di garanzie dei diritti fondamentali. Noi abbiamo accordi di diritti umani, molte convenzioni interamericane, europee, africane. Abbiamo molte carte e dichiarazioni, ma sono solo diritti di carta se mancano le leggi che consentono la loro applicazione pratica.

 

Come si frena una globalizzazione che, per molti aspetti, sta portando alla distruzione dell’ambiente, come avviene in Argentina con le imprese che sfruttano le miniere a cielo aperto?

Esiste una totale assenza di limiti per le imprese, le quali possono devastare l’ambiente e le risorse naturali. Le imprese sanno individuare le vulnerabilità dei paesi e quindi decidere in quali è possibile lavorare e sfruttare al meglio, distruggere l’ambiente e corrompere i governanti. Ciò si chiama, con un eufemismo, la "concorrenza" tra assetti nazionali più benigni e assetti delle imprese. È una cosa buona solo per le imprese che sfruttano gli Stati dalle legislazioni meno garantiste.

 

In Argentina ci sono state proteste da parte delle comunità interessate per evitare la distruzione delle risorse naturali, ma le imprese continuano a distruggere l’ambiente…

Sono processi difficili, di lungo termine. Solo le lotte sociali possono evidenziare la violazione dei diritti, l’incostituzionalità di ciò che sta accadendo. È necessario segnalare il carattere suicida di questa mancanza di limiti per le imprese private. Questo è l’unico pianeta che abbiamo. Rispetto alle grandi catastrofi del passato, oggi c’è una differenza: potremmo non essere più in tempo per dire "mai più".

 

Significa che c’è il rischio che non potremo mai più dire "mai più"…

Bravo. Abbiamo detto "mai più" al fascismo, "mai più" alla dittatura, "mai più" alla distruzione del pianeta, "mai più" alla disuguaglianza che causa milioni di morti. Adesso potremo non essere più in tempo per prendere le decisioni che occorrono.

Giappone: eseguite tre condanne a morte, già 13 in 10 mesi…

 

Vita, 17 giugno 2008

 

Il ministero della Giustizia giapponese ha reso noto che sono state eseguite tre condanne a morte di altrettanti omicidi. Un uomo di 45 anni è stato impiccato per l’omicidio di 4 bambine nel 1988 e 1989 a Tokyo e nella vicina provincia di Saitama, mentre un altro condannato di 37 anni è salito sulla forca per furto e omicidio. La terza esecuzione, avvenuta nel carcere di Osaka, ha riguardato un uomo riconosciuto colpevole dell’omicidio di due donne, nel 1985 e nel 1990, per ottenerne l’assicurazione sulla vita. Con queste ultime tre pene capitali eseguite salgono a un totale di 13 le condanne a morte firmate dal ministro della Giustizia Kunio Hatoyama che ha assunto l’incarico nell’agosto scorso. Nel braccio della morte delle diverse carceri giapponesi ci sono in attesa 103 condannati che non sanno quando verrà eseguita la sentenza perché vengono informati solo poche ore prima.

Stati Uniti: Guantanamo; 6 tunisini interrogati da agenti Sismi

di Carlo Bonini

 

La Repubblica, 17 giugno 2008

 

Gli spettri della Guerra al Terrore tornano a bussare alla porta di Palazzo Chigi. E questa volta hanno il volto di sei cittadini tunisini e di una giovane donna dai capelli biondi, che si è caricata sulle spalle il loro destino. Adel Al Akimi, Hisham Sliti, Hedi Hamamy, Lofti Bin Ali, Saleh Sassi, Abdel Ben Mabrouk, quarantatre anni il più vecchio, trentotto il più giovane, sono gli "italiani" di Guantanamo. Perché della Tunisia hanno conservato solo il passaporto.

Perché la loro casa, le loro famiglie sono in Italia, dove hanno vissuto per anni, non da clandestini né da ricercati, ma da uomini liberi con un regolare permesso di soggiorno. La donna si chiama Cori Crider. È un avvocato americano che si divide tra Londra e gli Stati Uniti dove difende, per "Reprieve", associazione legale anglo americana, le ragioni di chiunque abbia sceso l’ultimo gradino nella scala dei diritti.

In un anno di indagini difensive, ha messo insieme un rapporto di 26 pagine che, ora, accusa il governo di Roma di "complicità nella violazione dei diritti umani" dei suoi assistiti, prigionieri da sei anni nelle gabbie della base navale di Cuba, sfidandolo a sollecitarne il rimpatrio in Italia. Un documento essenziale nella violenza dei suoi dettagli, nella capacità di svelare sul conto dei "Gitmo six" (di cui pure era nota l’esistenza) il destino che li ha travolti, la ferocia della loro prigionia, la violenza psicologica e giuridica sofferta per mano di funzionari del Sismi che ebbero ad interrogarli tra il 2002 e il 2003.

L’11 giugno Cori Crider ha fatto recapitare, insieme al rapporto, una lettera di tre cartelle al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al ministro di Giustizia Angelino Alfano, a quello dell’Interno Roberto Maroni, a quello degli Esteri Franco Frattini. Si legge: "Egregio Presidente, con mio rincrescimento, devo informarla che le autorità italiane, in piena violazione del diritto internazionale, appaiono complici nella cattura dei sei cittadini tunisini che difendo e negli abusi che hanno subito nell’isola di Guantanamo.

Siamo infatti in grado di dimostrare che i detenuti in questione, come del resto la maggior parte di quelli rinchiusi a Guantanamo, hanno raggiunto l’isola di Cuba attraversando lo spazio aereo italiano. Abbiamo inoltre appreso che i sei detenuti sono stati interrogati tra il 2002 e il 2003 da agenti delle forze dell’ordine e dell’intelligence militare italiana, il Sismi, in un periodo cioè in cui gli interrogatori sotto tortura hanno costituito prassi regolare nella prigione. Ciò che è peggio, le informazioni raccolte dagli agenti italiani sono state condivise con i Servizi americani e con il regime tunisino, consentendo che nel loro paese di origine, la Tunisia, i miei assistiti venissero in tal modo condannati in absentia a lunghe pene detentive prive di qualsiasi base giuridica, ma tali da impedire oggi il loro rientro in quel Paese".

Al governo italiano viene prospettata un’alternativa: "I miei assistiti - prosegue la lettera - hanno trascorso gli ultimi sei anni in un Inferno che avrebbe reso orgoglioso Dante. E, oggi, rischiano di precipitare in un girone ancor più terribile, quello della detenzione e della tortura in Tunisia. Dunque, riteniamo che il governo italiano, come già accaduto in Germania e Spagna, possa compensare i danni già arrecati ai sei cittadini in questione rimpatriandoli in Italia, dove erano regolarmente residenti. Qualora questo non avvenga, l’Italia, alla luce di quanto previsto dalla Convenzione internazionale contro la tortura, sarà ritenuta giuridicamente responsabile di quanto sin qui accaduto e di un’eventuale consegna dei miei assistiti alla Tunisia".

Il governo italiano non ha dato alcun cenno. A Palazzo Chigi, la questione deve apparire evidentemente di nessuna rilevanza né diplomatica, né giuridica. A dispetto della macchina "risarcitoria" che uno studio legale anglo-americano è in grado di mettere in moto. A dispetto delle implicazioni politiche che il rapporto documenta e che fanno dell’affare una questione assai seria.

Le storie di Adel Al Akimi, Hisham Sliti, Hedi Hamamy, Lofti Bin Ali, Saleh Sassi, Abdel Ben Mabrouk si somigliano come gocce d’acqua. Vivono in Italia per molti anni. Chi a Bologna (Adel), chi a Milano, chi a Torino (Saleh). Ottengono il permesso di soggiorno e per ragioni diverse lasciano il Paese nei mesi precedenti l’11 settembre. Chi per raggiungere il Pakistan (Adel qui si sposa e qui mette incinta la moglie di una bambina che ha oggi sei anni e che lui non ha visto nascere). Chi l’Afghanistan (Hisham, che tenta di liberarsi della dipendenza dall’eroina, raggiunge il cugino che ha aperto una macelleria).

Con l’inizio delle ostilità, vengono catturati dall’esercito pachistano e venduti all’intelligence americana come "pericolosi terroristi di Al Qaeda" (Hisham ha la pessima idea di allungare 20 dollari a un tassista afgano perché gli faccia superare il confine con il Pakistan. E il tipo lo consegnerà per 5.000 alla prima pattuglia americana). Arrivano tutti a Guantanamo tra il gennaio del 2002 e il febbraio del 2003.

A bordo di aerei che fanno regolarmente scalo nella base americana di Incirlic, Turchia. Si legge nel rapporto: "I piani di volo ottenuti dalle autorità aeronautiche spagnole e portoghesi ci consentono di dire che è altamente probabile che gli aerei in questione, come del resto almeno altri 28 voli carichi di prigionieri diretti a Cuba, abbiano attraversato lo spazio aereo italiano, con il permesso delle autorità di governo e in piena violazione delle leggi italiane ed europee".

È un problema. Ma non il solo. Perché quando, nel maggio scorso, l’avvocato Cori Crider ha finalmente accesso ai suoi clienti nelle gabbie di Guantanamo, le loro testimonianze illuminano quale sia stato, tra il 2002 e il 2003, il lavoro condotto a "Camp Delta" non solo dai nostri agenti di polizia e dai militari dei carabinieri (la circostanza era nota), ma dai funzionari del Sismi, la cui presenza sull’isola era rimasta sino ad oggi segreta. Evidentemente per dissimulare la piena consapevolezza che Palazzo Chigi aveva di quanto accadeva a Guantanamo nei suoi giorni più bui.

Racconta Adel Al Akimi: "La prima volta venni ascoltato da sei uomini della polizia italiana e la conversazione fu civile, perché scoprii che uno dei poliziotti, un napoletano, era parente del mio amico Giovanni, il proprietario della "Trattoria la Mela" di Bologna, dove avevo lavorato per anni. Quando ci salutammo i poliziotti mi dissero di non preoccuparmi. Perché era chiaro che non avevo fatto nulla e che sarei tornato a casa presto. Mesi dopo, però, arrivarono altri italiani che mi dissero di essere del "Servizio"". Sono due funzionari del Sismi.

Adel ne ricorda le fattezze e i modi: "Uno alto e uno basso, con i capelli grigi. Giocavano al buono e al cattivo. Quello alto mi consolava, quello basso mi riempiva di accuse e di apprezzamenti razzisti. Ricordo che mi disse: "Sei qui perché vuoi creare lo Stato islamico e conquistare l’Occidente". E quando mi lamentai delle torture che subivo, rispose: "Lo so come vanno le cose qui". A Hisham Sliti va peggio. Il suo regime di detenzione è infernale. I suoi carcerieri gli vietano per mesi indumenti puliti ("mi diedero da indossare le mutande sporche di un altro prigioniero"), lo picchiano se accenna un gesto di ribellione. "King Kong", il più violento tra gli americani che lo interroga, lo sfregia scaraventandogli sul volto un frigorifero portatile. E così, quando arriva la visita degli italiani, il disgraziato crede si sia accesa una luce. Hisham non ricorda con esattezza se fossero carabinieri o polizia. O, almeno, soltanto carabinieri o polizia.

Ricorda solo due cose: "Dopo avermi interrogato e mostrato un album di fotografie, mi dissero che ero proprio "un nessuno". E ricordo uno di loro, basso, con un’uniforme della Marina militare italiana (il che lascerebbe pensare a un militare del Sismi ndr) che nel congedarsi mi disse "Fatti i cazzi tuoi"". I "cazzi suoi" Hisham se li è fatti e da Guantanamo non si è mosso. Mentre una corte tunisina lo condannava a 40 anni sulla scorta delle informazioni raccolte nella sua gabbia. Il copione si ripete con Hedi Hamamy. I due funzionari del Sismi gli fanno visita nel febbraio del 2003, questa volta accompagnati da un americano che assisterà in silenzio all’interrogatorio e al commiato che lo chiude: "Quello dei due italiani che sembrava il capo, mi disse: "Qui dentro ci resterai finché non metti i capelli bianchi"". Hedi, oggi, ha 39 anni e a 10 lo ha condannato una corte tunisina. Dopo sei anni, per il Dipartimento della Difesa americano, i "Gitmo six" sono inutili zavorre. Privi quali sono, ormai, di qualsiasi valore di intelligence. Oggi, gli avvocati di "Reprieve" renderanno disponibile on-line il rapporto sul loro caso.

Stati Uniti: ad Alcatraz albergo di lusso al posto del carcere

di Arturo Cocchi

 

Repubblica, 17 giugno 2008

 

Un albergo di lusso in quella che è stata a lungo la più inespugnabile delle carceri. Alcatraz, o "la rocca" (The Rock), la prigione-cittadella che si trova davanti a San Francisco, nel bel mezzo del canale perennemente avvolto nelle nebbie, potrebbe riservare ai suoi futuri residenti part-time trattamenti di natura opposta a quelli che ricevevano, fino a 45 anni fa, gli ospiti per i quali era stata progettata.

Il progetto è dell’Us National Park Service, che oggi gestisce il sito. In effetti, l’evoluzione di Alcatraz, da luogo pensato e attrezzato per alloggiare personaggi del calibro di Al Capone a punto di riferimento per villeggianti dal reddito a sei zeri, è stata meno brusca di quanto si possa pensare. Dopo il 1963, infatti, la prigione e l’isola di Alcatraz sono diventati un’attrazione turistica, la più popolare di San Francisco dopo il Golden Gate, capace di attirare un milione e mezzo di visitatori l’anno. E le guardie che si incontrano sull’isolotto sono la stessa tipologia di ranger che si incontrano al Grand Canyon o allo Yosemite National Park.

La recente ma consolidata vocazione del sito è esattamente la molla che spinge il Nps a provare ulteriori strade. Ad oggi, infatti, l’isolotto è raggiungibile con un battello, che si prende dal molo 33 del porto turistico della bellissima città californiana. Una gita di un paio d’ore e ritorno, che non consente di visitare l’intero sito e di ammirare le bellezze naturalistiche che offre. L’isola, infatti, si estende per cinque ettari, e offrirebbe possibilità extra rispetto alle attuali: l’osservazione della fauna locale, oltre alla visita di alcuni locali della prigione, al momento chiusi al pubblico, come il cinema dove si racconta che ai residenti loro malgrado venisse proiettato "Da qui all’eternità". Da tutto questo prende corpo l’idea di ampliare la potenzialità e l’estensione temporale dell’offerta, utilizzando, secondo il progetto attuale, l’edificio che ospitava le stanze delle guardie carcerarie.

La risposta a tali esigenze è proprio l’albergo, che garantirebbe un accesso al sito 24 ore su 24. Gli ospiti del resort potrebbero ammirare in tutto il suo fascino la San Francisco notturna, che, complici le nebbie, spesso si lascia vedere solo in parte, lasciando però percepire, in forma sonora, tutta la sua vitalità. D’altra parte, l’hotel e le sue dotazioni (bar, ristoranti...) sarebbero a disposizione anche dei numerosi turisti che scelgono la gita notturna alla prigione. Il battello, poi, potrebbe caricare e scaricare ospiti anche nelle parti dell’isola di Alcatraz ad oggi proibite.

Molte sono le idee di sviluppo proposte per "The Rock" dalla chiusura della prigione, nel 1963. Tramontato il progetto di un nuovo penitenziario, si è presto passati a idee di ben altra natura, inclusa l’ipotesi di un casinò. Molte proposte, però, si sono arenate in seguito alle necessità di conservazione di un sito che ha importanza sia dal punto di vista storico che da quello naturalistico. L’albergo è uno dei capisaldi di un piano ventennale da poco varato dal nuovo management del parco. Il National park service sta raccogliendo commenti e utilizzerà le osservazioni del pubblico per aggiornare il piano, già dal prossimo anno.

L’isola prende il suo nome dalla presenza di pellicani, "Alcatraz", in spagnolo. Usata come punto di riferimento dai primi cercatori d’oro, dalla metà dell’Ottocento (il faro è del 1853), ha ospitato il famigerato carcere dal 1909. Prigione durissima, entro la quale venivano di fatto rescissi i contatti con l’esterno, era nota soprattutto per la estrema difficoltà di evasione. Per fuggire, bisognava infatti attraversare a nuoto la Baia di San Francisco: nella maggior parte dei casi, le guardie inseguivano i fuggitivi in barca e li raccoglievano, vivi o morti. Tra le due evasioni riuscite, quella del 1962 di Frank Morris e dei fratelli John e Clarence Anglin ha ispirato il celebre film "Fuga da Alcatraz", con Clint Eastwood, del 1979. Altro film ambientato nella prigione, "The Rock", con Sean Connery e Nicolas Cage, del 1996.

 

 

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