Rassegna stampa 4 gennaio

 

Giustizia: le morti in carcere si chiamano "eventi critici"

di Dario Stefano Dall’Aquila (Associazione Antigone)

 

Il Manifesto, 4 gennaio 2008

 

Si muore, nelle carceri italiane, prima e dopo l’indulto. Nell’anno appena terminato 120 morti, di questi 43 sono suicidi. Nel 2006 i morti sono stati 134, di cui 50 suicidi. Nel 2005 le morti sono state 172, di cui 57 i suicidi. Si muore con la testa infilata in un sacchetto pieno di gas, impiccati con le proprie lenzuola, di overdose, di morti improvvise che non trovano spiegazioni ma che lasciano inspiegabili segni sui corpi. In termini tecnici, nella vita di un carcere, questi episodi si definiscono "eventi critici", un modo elegante per non usare le parole morte e violenza.

A volte si muore per non tornare indietro. È il caso di Giuseppe Contini (48 anni), che si è impiccato nel carcere di Cagliari per tornare nell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Barcellona Pozzo di Gotto dove aveva trascorso cinque anni. Altre volte si muore perché non si vede una fine. Gianluigi Frigerio (50 anni) si è tolto la vita perché la sua misura di sicurezza, dopo sette anni, era stata nuovamente prorogata. Entrato per oltraggio a pubblico ufficiale, non era più uscito dall’Opg di Aversa.

"È finito l’effetto dell’indulto - è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - ora è indispensabile la riforma del codice penale". Sono storie che andrebbero perse se non ci fosse chi le raccoglie, come "Ristretti Orizzonti", agenzia di stampa dedicata al carcere, o l’associazione "A Buon Diritto", o ancora "Antigone".

 

Gli ultimi suicidi

 

Marco Erittu, 40 anni, muore il 18 novembre 2007 nella cella d’isolamento del carcere di Sassari. L’autopsia conferma la morte per asfissia impiccagione. Il giorno prima il detenuto ha scritto ai giudici sostenendo di temere per la propria vita.

Angelo (20 anni), tossicodipendente, si è ucciso nel carcere di Reggio Calabria, il giorno del rientro dalla comunità terapeutica dove aveva cominciato un percorso bruscamente interrotto. Driss K. (25 anni), marocchino, detenuto nel carcere di Modena per furto, si è tolto la vita con il gas. Roberto Conte (43 anni), tossicodipendente con problemi psichici, si è impiccato invece nella sezione "a rischio" del carcere di Marassi, con delle lenzuola di carta.

Un dramma evitabile, per Patrizia Bellotto della Cgil - Polizia Penitenziaria. "Il suicidio di questa persona deve pesare sulle coscienze di tutti, ma soprattutto di chi avrebbe dovuto e potuto garantire un nuovo corso al difficile lavoro del poliziotto penitenziario e invece si è reso complice ed ha alimentato un indecente sistema di favoritismi".

 

Il caso di Aldo Bianzino

 

Ma ci sono altre storie inquietanti. La mattina del 12 ottobre 2007, a Città di Castello, i carabinieri arrestano Aldo Bianzino (44 anni) perché trovano alcune piantine di marijuana nel terreno del suo casolare. Condotto nel carcere di Capanne, viene sottoposto ad una visita medica e poi rinchiuso in una cella di isolamento. Secondo il padre "nel frattempo non c’è stata un’udienza di convalida dell’arresto, non è entrato in contatto con altri detenuti, non ha contattato nessuno esterno al carcere". La mattina del 14 ottobre Bianzino viene trovato morto. L’autopsia evidenzia lesioni al cervello e all’addome. Alcuni detenuti affermano di aver udito Bianzino chiedere aiuto. Un agente è indagato per omissione di soccorso. Una storia atroce, ma non unica.

 

E quello di Marcello Lonzi

 

Nel carcere di Livorno, Marcello Lonzi viene trovato morto, coperto di sangue, con il volto tumefatto. L’autopsia dichiara la morte per cause naturali. È l’11 luglio del 2003. La madre, Maria Ciuffi, sporge denuncia. Si apre un’inchiesta. Dopo un anno il pm chiede l’archiviazione. Il 23 luglio 2004 si richiede un supplemento di indagine, sulla base di alcune fotografie che mostrano il corpo coperto di segni di striatine viola sulla pelle gonfia e rialzata, "ecchimosi che - secondo il legale della famiglia - possono essere state fatte solo con un bastone, un manganello". Il gip dispone ugualmente l’archiviazione. Il 29 ottobre 2006, a seguito di richiesta della difesa, si procede alla riesumazione della salma per effettuare nuovi esami, sulla base dei quali, nell’ottobre 2007, la magistratura ha avviato nuove indagini.

 

I processi conclusi

 

Francesco Romeo (28 anni), detenuto nel carcere di Reggio Calabria, viene rinvenuto, in fin di vita, all’interno di uno dei cortili. Trasportato all’ospedale, muore dopo pochi giorni senza riprendere conoscenza. Gli accertamenti stabiliscono che il decesso è avvenuto a seguito di violenze, calci, pugni e corpi contundenti. Era il 29 luglio del ‘97. Il processo si è concluso, in via definitiva, il 5 ottobre 2005 con l’assoluzione di 19 imputati e la condanna di un agente penitenziario a 8 mesi per false dichiarazioni. Ora pende il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Nel 2007 è terminata con l’assoluzione la seconda tranche del processo contro gli agenti penitenziari del carcere di Sassari accusati di abusi, violenze e maltrattamenti. Sono stati, invece, rinviati a giudizio con l’imputazione di omicidio colposo e condotte omissive, due agenti di polizia del carcere di Secondigliano per il suicidio di un detenuto avvenuto nel 2002. Morti e suicidi che meriterebbero una seria prevenzione, procedure, indagini e processi rapidi e veloci, a garanzia di tutti, vittime e imputati. Perché il diritto alla vita vale anche tra le mura di un carcere.

Giustizia: sul caso Bianzino verità e giustizia dal governo

di Luigi Manconi (Sottosegretario alla Giustizia)

 

Il Manifesto, 4 gennaio 2008

 

Due mesi fa Aldo Bianzino era a casa sua. Poi l’arresto e la morte nel carcere di Perugia. Aspettiamo ancora gli esiti della terza perizia autoptica disposta dal pubblico ministero, alla ricerca delle possibili cause della morte e delle sue eventuali responsabilità. Intanto da Lecce arriva notizia di un altro decesso le cui cause vanno chiarite: un detenuto trovato morto con macchie di sangue sul corpo.

Anche lì la Procura ha avviato le indagini ed è veramente troppo presto per ipotizzarne gli esiti. Questi episodi e gli altri elencati nel dossier di Antigone ci ricordano di quale terribile meccanismo sia la privazione della libertà per motivi di giustizia: farmaco che cura e che avvelena, 0 diritto penale si porta con sé la violenza che intende debellare.

Negli alambicchi giurisprudenziali tutto si vorrebbe saggiamente misurato, per sanzionare il male e per arrecarne il meno possibile, quando necessario. Ma la procedura, e poi la pena, non sono prodotti di laboratorio, ma fatti umani, di uomini e donne, con le loro qualità e le loro miserie. Capita così che, a dispetto di ogni sacro principio e persino di ogni saggia amministrazione, quando c’è, si muoia ancora in galera, nel mentre che la vita di uomini e donne è affidata alle cure, all’incuria o all’arbitrio di altri.

Di fronte a questa tragedia sempre incombente, per quanto è nelle mie responsabilità, ho fatto un punto d’onore della massima trasparenza e del massimo impegno dell’Amministrazione penitenziaria nel sostegno alle attività della magistratura inquirente e nell’accertamento di tutte le eventuali responsabilità amministrative di quanto è accaduto o dovesse accadere, sia esso di rilievo penale o no.

D’altro canto, le inchieste, i processi e finanche le condanne non restituiranno Aldo Bianzino e i suoi compagni di sventura alla vita e agli affetti dei loro cari, e sulle amministrazioni dello Stato, su chi le dirige e su chi ne risponde politicamente resterà l’onta di quanto accaduto. Bisogna, dunque, fare di più: lavorare, per quanto possibile, a potenziare le strategie di prevenzione degli eventi critici.

Ad agosto è entrata in vigore la circolare che riforma e potenzia il servizio di accoglienza dei detenuti in carcere. Ne stiamo monitorando l’applicazione: non è ancora a pieno regime (mancano in molti istituti spazi e personale per applicarla efficacemente) e chissà se sarebbe stata sufficiente a prevenire la morte di Aldo Bianzino (i detenuti nelle sezioni di accoglienza dovrebbero essere ospitati in "camere di due-tre posti", e dovrebbe essere garantita loro la permanenza fuori dalla cella nella misura più ampia consentita), ma è un primo passo nella giusta direzione.

Altrettanto va fatto in termini di formazione e aggiornamento del personale, non solo per il rispetto della dignità della persona privata della libertà, ma anche per una gestione attenta e responsabile degli stessi "eventi critici": per tornare al "caso Bianzino", se è vero quanto la compagna ha raccontato a noi, al pm e ai mezzi di comunicazione, al lutto della morte del marito, si sarebbe aggiunta l’onta di una amministrazione che tra i molti possibili avrebbe trovato il modo, per così dire, meno delicato per informarla della tragedia (al quarto colloquio, dopo tre ore e molte reticenze).

Altro ancora è possibile fare sul versante amministrativo. L’Ufficio ispettivo del Dap alle attività investigative ha affiancato finalmente - in ritardo di decenni - la prima approfondita analisi delle condizioni di contesto degli "eventi critici", dalla quale speriamo di poter sapere di più sui modelli organizzativi, gli ambienti detentivi, le relazioni personali, le condizioni soggettive che accompagnano il loro manifestarsi. Intanto, il Capo Dipartimento ha avviato la programmazione della messa in opera del Regolamento penitenziario del 2000, a lungo negletto e svillaneggiato dal precedente governo.

Senza dimenticare che, grazie all’iniziativa di questo governo, si è finalmente deciso che entro il 31 marzo 2008 l’assistenza ai detenuti passerà al Servizio Sanitario Nazionale, con un’aspettativa di miglioramento della qualità nella tutela della salute che è di per sé prevenzione di "eventi critici".

Un contributo ulteriore, infine, potrebbe venire dal Parlamento, se avesse la determinazione di portare a compimento l’iter del disegno di legge istitutivo del Garante delle persone private della libertà, già approvato dalla Camera. L’esperienza dei garanti nominati dalle Regioni e dagli enti locali ci dice dell’importanza di una figura di questo genere, dichiaratamente non giurisdizionale, attenta ai diritti dei detenuti e alle possibilità concrete del loro esercizio. Il sistema penitenziario nel suo complesso, dal personale alla magistratura di sorveglianza, non potrebbe che avvantaggiarsi della presenza pienamente legittimata di una figura terza, di prevenzione e composizione di sempre possibili conflitti tra chi è privato della libertà e chi, in nostro nome, è tenuto istituzionalmente a disporre quella privazione.

Giustizia: quasi 50mila detenuti; + 12mila nel dopo-indulto

 

Vita, 4 gennaio 2008

 

Le carceri italiane crollano. Collassano sotto il peso di 49 mila 442 detenuti: 6 mila e 200 in più rispetto a quelli previsti dal regolamento. Per farsi un’idea, da ottobre a dicembre 2007 sono finite in cella oltre mille persone al mese. E il 2008 parte con l’allarme lanciato a "L’espresso" da Ettore Ferrara, capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria): "La situazione sta diventando irrecuperabile. C’è un rubinetto aperto che allaga la casa, e tutti guardano senza intervenire".

Non è questione di Nord o Sud: il sovraffollamento è ovunque. Prendiamo San Vittore, a Milano. "Con due reparti chiusi per ristrutturazione, la capienza maschile è di 700 unità", racconta al settimanale in edicola domani Luigi Pagano, responsabile dei penitenziari lombardi. "Invece gli uomini sono 1.187, senza contare le 97 donne e i 77 ricoverati del centro clinico".

In Liguria, a Genova, e lo scenario è simile: la capienza limite, al carcere di Marassi, è di 450 posti. Ma il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, segnala la presenza di "oltre 600 detenuti", con una carenza stimata "di più di 120 agenti". Come in Sicilia, dove da agosto 2007 il tutto esaurito abbonda: nel carcere Piazza Lanza di Catania, ad esempio (399 detenuti contro i 245 previsti). Ma anche ad Agrigento (294 contro 253) e Barcellona Pozzo di Gotto (256 contro 216).

Da sempre le nostre prigioni scoppiano. Già nel 2002 i reclusi erano 56 mila, e a luglio 2006 sfondavano quota 60 mila. Poi però è arrivato l’indulto, e all’improvviso 26 mila persone sono tornate libere. "Il primo impatto -dice Pagano -è stato ottimo. Finalmente abbiamo tirato il fiato. E ragionato con tranquillità sull’impiego delle nostre forze".

Aggiunge Emilio Di Somma, vicecapo del Dap: "L’indulto c’entra poco con il fenomeno del sovraffollamento. Piuttosto, la percentuale media di recidiva, per gli ex detenuti, è attorno al 70 per cento. E chi esce di prigione viene aiutato poco, pochissimo. Dunque è inevitabile, nelle condizioni attuali, che le carceri si ingolfino. E che si attacchi l’indulto senza affrontare le vere cause".

Il primo punto scomodo è quello degli extracomunitari. Negli anni Novanta rappresentavano il 15 per cento della popolazione carceraria italiana. Oggi sono il 37 per cento, pari a 18 mila 454 persone provenienti da 144 paesi. "Un dato impressionante - commenta Ferrara - che resterà tale se non si mette mano alla Bossi-Fini, aiutando gli stranieri a vivere in maniera dignitosa". L’altro punto scomodo è la divisione in carcere tra chi è stato condannato e chi è in attesa di giudizio.

Su 49 mila 193 detenuti, ben 29 mila 137 rientrano nella categoria degli imputati, mentre 18 mila 569 sono i condannati e gli 1.487 internati (ossia ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari). Gran parte di chi è parcheggiato in cella, insomma, non conosce ancora il suo destino. E suo malgrado contribuisce al sovraffollamento.

"Perché fino alla condanna - ricorda Di Somma - i detenuti sono esclusi dai progetti di riabilitazione". Inoltre, aggiunge Vittorio Antonini, coordinatore a Rebibbia dell’associazione Papillon, "due terzi di coloro che hanno diritto alle misure di pena alternative se le vedono rifiutare". Il che, dice, autorizza un sospetto: che "sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza, influisca la pressione delle campagne pubbliche in materia di sicurezza"

Giustizia: Manconi; la sanità alle Asl è una grande riforma

 

Comunicato stampa, 4 gennaio 2008

 

Con la finanziaria per il 2008, è stato approvato il riordino della medicina penitenziaria e il trasferimento dell’assistenza sanitaria per i detenuti al Servizio sanitario nazionale. Sulla base di linee-guida approvate in Conferenza Stato-Regioni, le Asl assumeranno la responsabilità diretta della tutela della salute dei detenuti e quindi entro il 31 marzo passeranno loro i rapporti di lavoro e i beni relativi all’assistenza sanitaria fino ad oggi del Ministero della Giustizia.

Non è eccessivo dire che si tratta di una grande riforma per il nostro sistema penitenziario. Da una parte si afferma il principio della universalità del diritto alla salute che si attendeva da quando, nel 1998, con la riforma Bindi del Servizio sanitario nazionale, venne prefigurato quel trasferimento di competenze. Con questa riforma si riafferma la piena inclusione delle persone private della libertà nel sistema dei diritti di cittadinanza e dunque è garantito loro - al pari degli altri cittadini - il godimento di quella fondamentale prerogativa che è la tutela del diritto alla salute. D’altra parte, si apre ulteriormente il carcere ad altre amministrazioni pubbliche e ad altre professionalità, secondo un principio di corresponsabilità nella esecuzione penale al quale da tempo stiamo indirizzando l’azione di governo.

Ci attende ora una fase delicata, nella quale la qualità dell’assistenza sanitaria offerta ai detenuti dovrà essere attentamente monitorata per evitare qualsiasi vuoto organizzativo e, dunque, qualsiasi incertezza nei livelli di assistenza. Proprio a questo scopo continuerà a lavorare presso il Ministero della Salute la Commissione che ha ottimamente istruito il percorso fin qui compiuto. Ma anche grazie alla piena valorizzazione delle professionalità maturate nell’ambito della medicina penitenziaria, siamo certi che i detenuti nelle carceri italiane - a percorso compiuto e a conti fatti - potranno godere di una migliore assistenza sanitaria.

 

Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia

Giustizia: da "patria del Diritto"… a patria dell’impunità

di Maria Giovanna Della Vecchia

 

Il Giornale, 4 gennaio 2008

 

Il principale effetto dell’indulto è quello di aver prodotto "un tragico tour del reato". E la mancata certezza del diritto e della pena sta provocando "conseguenze gravi e molteplici sulla: sicurezza". Non ultima la sensazione, pericolosissima, che nel Belpaese rispettare la legge o violarla produca gli stessi effetti, cioè nessuno.

Giulia Bongiorno, penalista e dal 2006 anche parlamentare di An che ha fatto della critica all’indulto un suo forte cavallo di battaglia, interpreta "senza allarmismi" ma con giudizi inequivocabili il clima di insicurezza in cui vivono gli italiani, "rassegnati per il fatto che lo Stato non darà mai loro giustizia".

 

Gli italiani si sentono insicuri sotto molti punti di vista. Lei, da penalista, è un’osservatrice della situazione sotto il profilo della sicurezza intesa in senso stretto, la sicurezza legata al rischio di subire gli effetti della criminalità più o meno organizzata. È una sensazione giustificata dal punto di vista dei cittadini?

Non amo creare allarmismi ma è un dato di fatto oggettivo che in Italia non si riescano a celebrare processi in tempi ragionevoli: ciò ha conseguenze gravi e molteplici sulla sicurezza. Le faccio un esempio: chi delinque non solo resta in circolazione - e già questo è inammissibile - ma a livello psicologico trae una ulteriore spinta a delinquere sperimentando l’impunità. La risposta dello Stato dovrebbe essere un deterrente, un modo con il quale lo Stato ammonisca : "Io sono presente, controllo, vigilo e applico una pena a chi non rispetta le leggi". Ecco, questo deterrente è "tamquam non esset".

 

In tema di sicurezza di cosa hanno ragione di temere oggi gli italiani?

Quando chi delinque non viene sanzionato si crea una sorta di pericolosa equiparazione tra chi viola la legge e chi non la viola. Il pericolo non è quindi solo la criminalità che già esiste ma quella che si genera con questo lassismo. È come fossimo arrivati in una zona di confine; fino ad oggi i ritardi della giustizia pesavano sui cittadini e sullo Stato. Oggi, nell’intera collettività, si è diffusa la consapevolezza che chi sbaglia non paga: ciò sta producendo una nuova generazione di criminali indotta dal lassismo. È un elemento nuovo e molto pericoloso. Il nostro Paese da culla del diritto è diventato culla del reato.

 

Lei è cofirmataria di una proposta di legge sulla riorganizzazione e riqualificazione delle carceri e ha presentato interrogazioni sulla questione carceraria. Con l’indulto si è soprasseduto alla carenza di posti negli istituti di pena, decidendo dì svuotare quelli esistenti. Gli effetti si sono visti. Cosa deve fare la politica per risolvere la situazione e far sentire più sicuri i cittadini?

La politica deve affrontare i problemi anziché eluderli. Il Governo ha fatto la scelta peggiore che si potesse fare: con l’indulto sono stati rimessi in libertà soggetti condannati con pene definitive solo perché non vi erano strutture in cui ospitare i detenuti. Non è tollerabile questo tipo di provvedimento di clemenza per sfoltimento. Se il problema era costituito dalla mancanza di strutture occorreva costruirle. Sotto il profilo processuale poi si è creato un paradosso: oggi si celebrano processi la cui pena sarà cancellata al momento della emanazione della sentenza.

 

Sull’indulto il voto favorevole è stato trasversale agli schieramenti parlamentari. Lei come ha votato?

Personalmente ero convinta fosse un errore e l’ho contestato fortemente. Aggiungo che la quasi totalità dei parlamentari di An ha votato contro. Se il problema è che mancano le strutture, allora siano costruite.

 

Chi ne ha beneficiato sta tornando a riempire le carceri. Secondo lei come andrà a finire?

Se il Governo volesse confermare la linea assunta dovrebbe fare un nuovo indulto. Ma è ovvio che l’opinione pubblica insorgerebbe. Occorre creare nuove strutture per porre fine a quello che per me, prima rimettendo in libertà dei detenuti e poi con il loro ritorno in carcere, è stato un tragico tour del reato.

 

Sicurezza e immigrazione, qual è il suo punto dì vista?

La parola immigrazione non deve fare paura; anzi, l’immigrazione può e deve costituire una risorsa per il Paese. Il tema è che l’immigrato, al pari di tutti i cittadini, deve rispettare le regole e lo Stato deve avere la forza e le fermezza per imporle. Per me il problema quindi è a monte. Fare rispettare le regole. Invece in Italia le regole sono un optional e questo ha conseguenze anche sull’immigrazione. Abbiamo scoperto ormai che c’è chi sceglie l’Italia non come meta per vivere rispettando le regole, ma come meta ideale per delinquere senza il rischio della sanzione.

 

Diversi sondaggi registrano la tendenza di molti cittadini, soprattutto al Nord dove la presenza di clandestini è maggiore, a organizzarsi da sé per il controllo del territorio. Cosa ne pensa?

È la prova che ormai prevale la rassegnazione: si sono rassegnati al fatto che lo Stato non darà mai loro giustizia. Registro spesso il fenomeno nella mia attività professionale: soggetti che non sporgono querele in presenza dei presupposti, sapendo che la sentenza arriverà dopo anni, creditori che di fronte all’inadempimento allargano le braccia e non agiscono in giudizio, consapevoli che dovrebbero attendere tempi lunghissimi per la decisione.

 

Che consigli dà loro?

Sono convinta che la querela sia un segno di reazione che il singolo deve dare. Quindi da parte mia non ci sarà mai il consiglio di lasciar perdere, ma mi rendo conto che quando mi chiedono quante possibilità ci siano che il processo si concluda in tempi rapidi è necessario essere chiari e dire come stanno le cose. Una delle insicurezze degli italiani riguarda la giustizia, o meglio la certezza della pena. Per furto non si finisce in carcere, eppure i furti, ad esempio quelli in villa, sono fra i principali timori degli italiani. Tant’è che gli ultimi dati del Viminale dicono che nel secondo semestre 2007 i reati sono calati a eccezione dei furti.

 

Cosa ne pensa?

Sono valutazioni spesso basate su sondaggi e statistiche, di cui diffido perché indicano solo il denunziato: ma non è mai detto che il denunziato coincida con l’accaduto.

 

Da penalista e da parlamentare, le capita di vedere che la giustizia e la politica vadano su binari separati?

Direi che è uno spettacolo quotidiano. La giustizia è paralizzata e dovrebbe essere la priorità nell’agenda del Governo: il Governo invece, differisce, differisce, differisce. Non solo da avvocato e da parlamentare, ma anche da cittadina comune traggo grave disagio e senso di insicurezza nel vedere che il Governo non stabilisce e non affronta le priorità. Il Governo deve mettere all’ordine del giorno il problema dell’efficienza della giustizia come priorità assoluta.

Giustizia: intercettazioni e media, siamo all’ultima spiaggia

di Bruno Tinti (Procuratore Aggiunto a Torino)

 

L’Unità, 4 gennaio 2008

 

Voglio affrontare un aspetto che riguarda uno dei pericoli più gravi per il nostro Paese: il controllo dell’informazione. I casi dei giudici Forleo e De Magistris sono perfetti per spiegare quel che sta accadendo. Da moltissimo tempo (nel 1994 ci fu un’assai pubblicizzata indignazione per la fuga di notizie sull’invito a comparire notificato a Berlusconi mentre era a Napoli), a nessuno importa nulla del fatto che, da quel che si sa dei processi di cui parlano giornali e tv, vengano commessi molti reati; che chi forse li ha commessi aggredisca i giudici che lo processano; che queste aggressioni talvolta abbiano successo; che i giudici che fanno questi processi siano sottoposti a loro volta ad altri processi, penali e disciplinari.

Invece tutti si preoccupano che di queste cose, ohibò, si osi parlare, si scriva sui giornali (le tv in genere trascurano il tutto, impegnate come sono in programmi serissimi tipo Grande fratello); addirittura che si arrivi a mettere in scena i fatti, come ha fatto Annozero sul caso Forleo, rispettando il canovaccio, ma facendolo recitare da attori professionisti. Eva bene: se a nessuno frega niente dei possibili reati commessi dalla classe dirigente e dei relativi processi, allora parliamo di ciò che sembra essere davvero importante: le "fughe di notizie" e il dibattito che su queste notizie trafugate si svolge in alcune (poche) trasmissioni tv.

Faccio un esempio del tutto inventato: circa 500 persone tra gli addetti ai lavori (magistrati e avvocati) sanno che cosa è un leverage buy out. Quanti cittadini lo sanno? Mah, facciamo 5 mila. Queste 5.500 persone sanno dunque che, fino alla modifica dell’articolo 2358 del codice civile, l’acquisto di azioni di una società effettuato mediante prestiti o garanzie rilasciate dalla società stessa era proibito; e che adesso, invece, è consentito. Immaginiamo che, nel corso di un procedimento penale, si scoprisse, magari da intercettazioni, che questa modifica era stata discussa da Berlusconi e/o Tremonti (la nonna venne modificata quando c’erano loro) con uno o più imprenditori impegnati in scalate societarie e molto interessati a comprarsi alcune società facendosi fare da queste prestiti o garanzie, nel che consiste appunto il leverage buy out.

E immaginiamo che i due altissimi esponenti della classe dirigente dessero il via libera a questi loro amici, garantendo che la legge si sarebbe fatta presto e bene, in modo da consentire loro questo acquisto che, con quelle modalità (le garanzie e i prestiti da parte della società che volevano comprarsi), non sarebbe stato lecito. L’oggetto del processo penale sarebbe stato così tecnico che certamente non sarebbe stato compreso dalla quasi totalità dei cittadini; e, d’altra parte, il processo stesso sarebbe stato così lungo che una sentenza, anche solo di primo grado, sarebbe arrivata dopo molti anni dal fatto.

Ma si può davvero pensare che i cittadini non avessero il diritto di sapere, subito (forse di lì a qualche mese ci sarebbero state le elezioni), che i più alti esponenti del governo di allora facevano accordi clandestini (magari anche illeciti, ma questo l’avrebbero deciso i giudici) con amici loro, assicurando vantaggi scapito dei concorrenti?

Si può davvero pensare che la gestione privata del potere di legiferare attraverso il condizionamento del Parlamento da parte del Governo, sia circostanza che i cittadini devono ignorare? Ma questi cittadini come dovrebbero decidere se votare Tizio o Caio? Sulla base dei cartelloni pubblicitari o degli spot televisivi (magari subliminali)?

Supponiamo poi che i giudici civili e penali che si fossero occupati del caso fossero stati aggrediti (si capisce, verbalmente), vilipesi, minacciati, alla fine allontanati da quel processo, proprio mentre ne stavano venendo a capo; e supponiamo anche che, sballottati da queste violenze provenienti da tutte le parti, questi giudici si fossero lasciati andare un po’, avessero commesso qualche ingenuità, detto qualche parola di troppo, redatto provvedimenti suscettibili di critica. Si può davvero pensare che questa guerra combattuta dalla classe dirigente (magari innocente tecnicamente) per non essere assoggettata al controllo di legalità (che non significa condanna, significa accertamento) avrebbe dovuto essere nascosta ai cittadini? Si tratta di un esempio frutto della mia fantasia e della mia indignazione sul piano tecnico quando arrivò la riforma dell’articolo 2358 del codice civile. Ma è evidente che, in un caso come questo, nessuno potrebbe dire che i cittadini se ne devono stare zitti e buoni, ignari di quel che succede, lasciando lavorare politici e magistrati e attendendo di leggere, dopo qualche anno, le sentenze dei giudici su un fatto di cui ovviamente non capirebbero più niente.

Un po’ come i passeggeri di un treno che non si sa dove va, né quando né se si fermerà, perché tutto è in mano al capotreno e nessun altro deve metterci bocca. Allora, è tanto difficile da capire che solo l’informazione più completa e approfondita ci consente di vivere in un Paese democratico? Che la democrazia non consiste nel sistema di elezione dei governanti (se è per questo noi ormai siamo in una situazione di conclamata oligarchia), ma nell’assoggettamento di tutti i cittadini - governanti e governati - allo Stato di diritto?

Che il controllo sulla effettività di questa fondamentale, irrinunciabile regola di democrazia può avvenire solo attraverso l’informazione? Scendiamo ai casi concreti. Ma davvero non vogliamo sapere che Fazio e Fiorani concordavano al telefono la scalata di Antonveneta? Cioè: noi non vogliamo sapere prima del tempo (e quale? Dopo il primo grado, dopo l’appello, dopo la Cassazione, magari dopo il rinvio in appello e la nuova Cassazione, magari dopo la sentenza per prescrizione?) che il Governatore della Banca d’Italia appoggiava un banchiere (piccolo piccolo, un banchiere del quartierino) nell’acquisto di un grande istituto bancario con modalità particolarmente pittoresche?

Davvero non vogliamo sapere che Governatore e banchiere colloquiavano con esponenti del governo e della maggioranza di centrodestra, mentre l’assicuratore Consorte concertava con deputati e senatori Ds l’acquisto di Bnl da parte di Unipol? E perché il presidente di un partito dell’allora opposizione voleva "sognare" (in compagnia di chi?) se un furbetto del quartierino si comprava una banca? Sarà tutto regolare; ma che i vertici dei due maggiori partiti italiani abbiano interessi di questa rilevanza in operazioni finanziarie apparentemente fatte da privati, il cittadino 1o deve sapere.

Davvero non vogliamo sapere che Berlusconi raccomanda al Saccà qualche signorina nella speranza di ribaltare così (grazie a una signorina!) la maggioranza che sostiene il governo avversario? Che c’entra il processo penale o civile con questi fatti? Per meglio dire, certo che c’entra: si accerterà se questi fatti sono o no penalmente rilevanti; ma questo è un fatto tecnico, del tutto irrilevante per i cittadini.

Tutte queste cose, penalmente rilevanti o no (si vedrà), devono dunque interessare i cittadini; perché i cittadini hanno il diritto di sapere chi li governa, chi sta guidando il treno e dove li vuole portare. Se non lo sanno, se tutti glielo vogliono tenere nascosto, se i capotreni di ogni fazione strepitano quando non riescono a tenerglielo nascosto e congiurano per stabilire nuove regole che vietino ai vari addetti al treno di raccontare quel che hanno scoperto in sala macchine (anche quando non c’è più segreto di indagine), questo non è più un treno: è un carro bestiame. Ma c’è pure di peggio.

I giudici hanno sbagliato, forse, magari, chissà. Facciamo finta che la Forleo e De Magistris abbiano parlato troppo ed emesso provvedimenti criticabili. Quindi ce facciamo, li processiamo disciplinarmente e li trasferiamo? Chissà quante sentenze sbagliate o criticabili la Cassazione riforma ogni giorno: li processiamo tutti, i giudici che le avevano emesse? Ovviamente no: riformiamo le loro sentenze, magari scriviamo qualche inciso sulla loro eventuale impreparazione giuridica; ma gestiamo il processo "nel sistema". Non ci pensiamo nemmeno a processare, a delegittimare, a trasferire i magistrati.

E i cittadini non lo debbono sapere che, invece, alla Forleo e a De Magistris stanno succedendo proprio queste cose? E, se la risposta è "no, i cittadini non lo devono sapere" perché il processo si fa nelle aule giudiziarie o del Csm e alla fine vi sarà una sentenza emessa secondo giustizia, allora che facciamo alla Vacca?

Per chi se lo è dimenticato, Letizia Vacca sarebbe quella componente del Csm che ha svolto funzioni di indagine nella I Commissione che si occupa di Forleo e De Magistris: una via di mezzo tra il Pm e il vecchio Giudice Istruttore. Eppure, mentre faceva le indagini, andava a spiegare ai giornali e alle tv che i due sono "cattivi giudici" e vanno cacciati al più presto; anzi altri come loro saranno presto stanati e "colpiti". Questa non è una inammissibile, gravissima, vergognosa, delegittimante fuga di notizie e anticipazione di giudizio?

Nel Paese che ha reso lecito il leverage buy out; nel Paese che punisce il senegalese che vende il cd contraffatto con pene da 1 a 6 annidi reclusione (arresto in flagranza, intercettazioni telefoniche e circuito processuale privilegiato) e il falsificatore di bilanci di una società quotata con pene da 15 giorni a 4 anni (sempreché il falso non sia troppo piccolo: deve superare l’1% del patrimonio della società almeno, se no, scherziamo?, non è reato); nel Paese in cui i partiti ingeriscono nell’acquisto delle banche e i politici tentano di comprarsi altri politici; nel Paese in cui le Vacca anticipano le sentenze di condanna del Csm contro i giudici che stanno processando; nel Paese in cui il Csm non dice una parola per condannare questo comportamento di uno dei suoi componenti e prosegue nel giudizio come se nulla fosse successo; ecco, in un Paese così l’Associazione nazionale magistrati che fa?

Depreca le presunte "fughe di notizie" su questa o quell’inchiesta sui giornali e in tv e auspica che non vi sia contrapposizione tra le istituzioni. Ma dove vivete, cari colleghi dell’Anm? Ma non ve la ricordate la favola del lupo e dell’agnello? Ma non lo vedete che le Forleo, i De Magistris, le persone come noi stanno a valle e i lupi - o quelli che si cerca di capire se sono lupi - stanno a monte e continuano ad accusarci di intorbidargli l’acqua?

Ma soprattutto: non vi rendete conto che l’Anm non è un istituzione pubblica, ma il sindacato dei giudici? Lo sapete o no che il sindacato tutela i suoi iscritti? Purtroppo, sempre più spesso,l’Anm sembra essere intesa come l’anticamera del Csm: è il Csm infatti che deve osservare imparzialità, autonomia, indipendenza, e anche riservatezza certo; e, a parte la Vacca, mi consta che lo faccia.

Ma l’Anm, che ha indetto quattro scioperi sotto il governo Berlusconi, ora che governa l’Unione si mette a stigmatizzare, auspicare, precisare e tutto quell’ armamentario ipocrita che ci indigna (questo sì che indigna) quando lo sentiamo in bocca ai politici?

Negli anni 30 un certo Martin Niemoller scrisse una bellissima poesia: "Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio: non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici, io rimasi in silenzio: non ero un socialdemocratico. Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce: non ero un sindacalista. Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la sua voce".

Giustizia: Sappe; carceri sovraffollate e agenti stressati

 

Comunicato stampa, 4 gennaio 2008

 

"L’inchiesta dell’Espresso circa il fallimento dell’indulto del luglio 2006 - un provvedimento voluto dai 2/3 del Parlamento -, non fa che rafforzare quanto da tempo segnala il Sappe. Ora bisogna chiedersi perché il Parlamento non è intervenuto. Da mesi e mesi denunciamo la quotidiana difficoltà lavorativa delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, lo stress che essa produce e la necessità di Governo e Parlamento di "ripensare il carcere" con una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. Nessuno ha fato nulla e questo è il risultato: le carceri sono sovraffollate e gli agenti stressati. Poi non si domandino perché ci sono stati recenti casi di suicidio nel Corpo...".

È il commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, organizzazione più rappresentativa della Categoria con 12mila iscritti.

"Abbiamo parlato con i sordi" - aggiunge Capece - "il nostro appello dei mesi scorsi alla classe governativa e politica di ‘ripensare il carcere e di adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario non è stato ripreso da nessuno.

Parlammo di provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale esterna, che tengano in carcere chi veramente deve starci e potenzino gli organici di Polizia Penitenziaria cui affidare i compiti di controllo sull’esecuzione penale. Auspicammo una urgente svolta bipartisan di Governo e Parlamento per una nuova politica della pena.

Parlammo di affidare al Ministero della Giustizia, e quindi al Dap ed al Corpo di Polizia penitenziaria, l’adozione e il controllo del braccialetto elettronico, previsto dal nostro Codice di procedura penale ma non ancora attivo, nella consapevolezza che l’utilizzo di queste tecnologie eviterà di rendere evanescente e meramente teorica la verifica del rispetto delle prescrizioni imposte dall’autorità giudiziaria al momento dell’adozione delle misure alternative alla detenzione.

E sollecitammo di affidare il controllo delle misure alternative alla detenzione alla Polizia Penitenziaria, accelerandone quindi l’inserimento negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, vuole dire andare a svolgere le stesse funzioni di controllo oggi demandate a Polizia di Stato e Carabinieri, che in questo modo possono essere restituiti ai loro compiti istituzionali, in particolare il controllo del territorio, la prevenzione e la repressione dei reati, a tutto vantaggio dell’intera popolazione.

Proprio perché quella della sicurezza è una priorità per chi ha incarichi di governo e legislativi, auspicammo una larga intesa politica per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile. Nessuno ci ha ascoltati, le carceri tornano ad essere sovraffollate e gli agenti stressati..."

Giustizia: suicidi tra gli agenti, ma c’è chi strumentalizza...

di Marco Attoma (Assistente di Polizia Penitenziaria presso il carcere di Imperia)

 

www.riviera24.it, 4 gennaio 2008

 

Ritengo che la sigla sindacale che è intervenuta in merito, stia solo speculando o strumentalizzando delle tragedie ai fini di propaganda.

Mi chiamo Marco Attoma, Assistente di Polizia Penitenziaria in servizio presso il carcere imperiese nonché Segretario Regionale del Coordinamento Nazionale Polizia Penitenziaria, sindacato rappresentativo del Corpo.

Scrivo in merito agli articoli emersi in questi giorni circa i tragici eventi che hanno concluso, tristemente, il 2007 all’interno della nostra Amministrazione: 4 colleghi si sono tolti la vita nel mese di dicembre. Ritengo che la sigla sindacale che è intervenuta in merito, stia solo speculando o strumentalizzando delle tragedie ai fini di propaganda.

Dovete sapere che il vice commissario, il primo a mettere in atto il triste gesto a Modena, faceva parte del ruolo ordinario e quindi appena assunto e con pochissima esperienza nei penitenziari. Per cui, sembrerebbe assurdo dichiarare che il vice commissario "era stressato" dai problemi di carenza d’organico o presenza eccessiva degli extracomunitari. L’assistente di Imperia, mio grande amico ed ottimo poliziotto, avrà avuto mille motivi per commettere quel gesto ma, mi creda, sicuramente non era stressato dal lavoro. Stessa cosa vale per i colleghi di Verbania e Tempio Pausania.

La mia quasi quindicennale esperienza nella Polizia Penitenziaria e la carica sindacale che rivesto da più di 10 anni mi hanno insegnato che da quando sono stati creati i carceri ha avuto inizio la carenza cronica d’organico. È, senz’ombra di dubbio, vero che nelle carceri italiane la presenza di detenuti extracomunitari è elevata e che la differenza di etnie porta all’interno degli istituti non pochi conflitti però, è altrettanto vero, che qualche sigla sindacale facesse sindacato in maniera più seria e professionale e che, magari, lasciasse in pace i compianti colleghi e le loro rispettive famiglie senza alcuna strumentalizzazione di sorta per ricavare qualche adesione.

Non vi è alcun connubio tra i suicidi dei poliziotti penitenziari con le strutture carcerarie ed i loro rispettivi problemi o sindrome di burnout. I poliziotti penitenziari, per indossare la divisa, vengono selezionati attraverso bandi di concorso e sottoposti a rigorose visite mediche per cui, non possiamo assolutamente definire il poliziotto penitenziario come un disagiato del sistema carcere.

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.it, 4 gennaio 2008

 

Alfonso Figini, Gianfranco Zuncheddu e Mirgen Krep, dal carcere di Prato

Caro Riccardo, è da tempo che seguiamo la vostra rassegna stampa, nonché rubrica "Lettere" di Radio Carcere ed con nostro grande stupore, nella vostra rassegna del 19 dicembre 2007, abbiamo riscontrato e potuto leggere una lettera a voi pervenuta, da parte di un detenuto di Prato, con la quale lo stesso esprimeva le sue doglianze, e, forse anche quelle di altri suoi compagni di detenzione, per la presenza e l’inevitabile conseguenza dell’abbaiare dei cani del cosiddetto "canile" ubicato all’interno delle mura della Casa Circondariale di Prato. Abbiamo usato il termine "canile" perché è la parola usata nella lettera, ma a noi non piace tanto… ci dà un senso di tristezza. Noi lo abbiamo e lo denominiamo diversamente.

Innanzitutto vorremmo precisare che se noi detenuti, anche noi ristretti presso la stessa Casa Circondariale di Prato, ci permettiamo di "rispondere" o interferire nelle affermazioni del lagnante, questo è unicamente dovuto al fatto che noi facciamo parte integrante di quel progetto "Mi Fido di Te".

Detto progetto consiste nell’accudire ed offrire quel qualcosa in più di quanto il destino avrebbe riservato a tutte questi indifesi, cosiddetti amici dell’uomo, che nessuno voleva o che erano abbandonati, e, che attualmente e temporaneamente, ospitiamo qui con noi nella Casa Circondariale per poi cercare, in un ultimo momento, di poter darli in affidamento all’esterno a qualcuno con buone intenzioni. Secondo noi è uno stupendo progetto e soprattutto molto apprezzato dagli enti locali, nonché dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Toscana.

Dopodiché vorremmo anche fare presente che non corrisponde al vero che i cani abbaiano durante tutta la notte. I cani abbaiano unicamente quando sentono dei rumori anomali, quando vengono "disturbati" dal passaggio delle inevitabile ronde notturne, dallo sporadico passaggio notturno ed esterno di un automezzo di servizio pubblico con le sirene di emergenza accese, e, al momento quando noi detenuti-volontari che ci occupiamo di loro scendiamo la mattina presto per accudirli e preparare loro da mangiare.

Anche loro non vedono l’ora di uscire dalle loro gabbie per sgambettare un po’. Possiamo ben capire che alcune volte questo abbaiare possa disturbare chiunque di noi e ci scusiamo tanto per loro e chiediamo un po’ di comprensione e tolleranza. Dovete sapere che facciamo l’impossibile per tenerli il più calmo possibile e questo al costo di notevoli sacrifici, impegni e responsabilità da parte nostra. Diamo tanto, ma in contropartita riceviamo molto di più attraverso il loro affetto, la loro genuinità, la loro fedeltà e la loro originalità. Quindi affermare che i cani abbaiano tutta la notte non corrisponde assolutamente al vero.

Per quanto riguarda poi il problema dei topi e della derattizzazione, vogliamo ricordare a chiunque, e questo senza l’intento da parte nostra di voler giustificare o prendere le difese della Direzione di questa Casa Circondariale di Prato, che abbiamo personalmente notato che quest’anno vi sono stati ben quattro interventi, con relativi sopraluoghi da parte di una ditta specializzata, rispetto ad un unico intervento annuo degli anni precedenti.

E questo, sicuramente con delle spese quattro volte maggiori per quest’anno. Inoltre possiamo anche assicurare a chiunque che in ogni punto cosiddetto strategico del carcere vi sono stati collocati numerosi appositi contenitori contenenti del veleno per i ratti. Tuttavia secondo noi, pensiamo che il problema di questi ratti non potrà mai essere risolto al 100% e questo a causa dell’ampia area verde che circonda il carcere, dell’azienda agricola che ospita la nostra struttura e soprattutto per la nostra incivile, costante ed insistente brutta abitudine, nonché mania di buttare qualsiasi rifiuto domestico (soprattutto generi alimentari) dalle finestre delle nostre celle.

E tutto ciò, nonostante i numerosi sforzi da parte della Direzione e del Seminario per la Sensibilizzazione alle Pratiche ed alla Cura dell’Ambiente che si è svolto pochi mesi fa e presentato da noi stessi detenuti per fare capire a tutti noi l’importanza e le conseguenze del fenomeno. Quindi… poche parole a buon intenditore… la colpa è in grandissima parte solamente nostra se i topi bivaccano sui tetti ed le aree verdi sottostanti le nostre finestre. Se continuiamo di questo passo e con il freddo che fa non solamente i topi continueranno a girarci attorno, ma arriveranno anche i lupi!

 

Roberto, dal carcere di Catanzaro

Caro Riccardo, questa mia lettera è anche un messaggio per i detenuti ergastolani che stanno facendo la protesta per l’abrogazione del fine pena mai. Il messaggio è che noi tutti detenuti del carcere di Catanzaro siamo vicini agli ergastolani, tanto che per tre giorni abbiamo fatto lo sciopero della fame. Anche noi che non siamo condannati all’ergastolo sappiamo bene però cosa significa una detenzione senza speranza. Anche tre o quattro anni passati in carcere senza vedere la possibilità di un futuro sono piccoli ergastoli. Quindi forza con la vostra protesta. A te Riccardo i nostri auguri, che questo 2008 ti vedrà ancora più impegnato!

 

Angelo, dal carcere di Carinola

Egregio dottor Arena, sono in carcere da 10 anni e le scrivo per dirle la mia opinione in merito al dibattito sul dopo indulto. Si discute molto infatti sul fatto che diversi detenuti, usciti dal carcere con l’indulto, non sapendo dove andare ritornano a delinquere.

Ecco io a questo proposito credo che una delle cause di questo fenomeno debbano essere individuate nel modo in cui agisce il Dap del Ministero della Giustizia e in particolar modo sul fatto che il Dap spesso lascia che i detenuti scontino la pena in carceri lontanissime dal luogo di residenza della propria famiglia e ciò in aperta violazione della legge.

Il problema è serio. Infatti un detenuto che sconta il carcere senza incontrare mai i propri famigliari diventa una persona senza speranza, senza domani. Ho conosciuto tanti detenuti che per la lontananza hanno perso la propria famiglia, gli affetti, i punti di riferimento.

Ci sono detenuti che, stando in un carcere lontano dalla propria residenza, vedono la moglie o i figli molto raramente. Queste realtà consumano la persona detenuta, molto più che il carcere stesso. E, cosa ancore peggiore, generano rabbia e devianza. È come se il carcere contribuisse, concorresse a togliere al detenuto non solo la libertà ma anche qual bene così prezioso che è la famiglia. Di tutto questo il Dap è a conoscenza, ma nulla viene fatto per porvi rimedio. Con stima Angelo"

 

Una persona detenuta nel carcere di Brindisi

Caro Riccardo, ti racconto un fatto che ha riguardato un mio compagno detenuto semilibero qui nel carcere di Brindisi, che chiamerò F. Devi sapere che F., come molti di noi, è semilibero. Il che significa che la mattina esce dal carcere per lavorare e ci torna la sera.

Il fatto è che la moglie di F. di è ammalata di tumore, ragion per cui è stata operata da poco.

Martedì 4 dicembre F. tramite l’ufficio matricola del carcere ha chiesto di poter accompagnare la moglie a fare una visita medica, in quanto nell’ospedale di Brindisi si trovava un oncologo americano. La visita doveva avvenire oggi, martedì 11 dicembre alle ore 12.30. Purtroppo F. non ha ricevuto risposta dal magistrato di sorveglianza. F. ha fatto chiamare i carabinieri all’ufficio del magistrato di sorveglianza, che gli ha risposto che l’istanza di permesso depositata all’ufficio matricola non era arrivata. Purtroppo, il fatto è grave, ma non è isolato. Anche a me è capitato, e per ben due volte, che il magistrato di sorveglianza non ha potuto decidere su un mio permesso perché non gli era arrivato il fax dall’ufficio matricola. Lascio a te qualsiasi considerazione

Sicilia: anche nelle carceri dell’isola c'è il "tutto esaurito" 

 

Nettuno Press, 4 gennaio 2008

 

Da agosto 2007 si registra di fatto il tutto esaurito a Piazza Lanza di Catania, ma anche ad Agrigento e Barcellona Pozzo di Gotto. Una situazione che persiste da Nord e Sud nella nostra penisola.

Sono complessivamente 49.442 i detenuti nelle carceri italiane: 6 mila e 200 in più rispetto a quelli previsti dal regolamento. Il sovraffollamento regna da Nord a Sud, se si pensa che da ottobre a dicembre 2007 sono finite in cella oltre mille persone al mese. A Genova, presso il carcere di Marassi, la capienza limite è di 450 posti.

Ma il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, segnala la presenza di "oltre 600 detenuti", con una carenza stimata "di più di 120 agenti". In Sicilia, da agosto 2007 si registra di fatto il tutto esaurito: nel carcere Piazza Lanza di Catania, ad esempio (399 detenuti contro i 245 previsti).

Ma anche ad Agrigento (294 contro 253) e Barcellona Pozzo di Gotto (256 contro 216). Già nel 2002 i reclusi erano 56 mila, e a luglio 2006 sfondavano quota 60 mila. Fino a quando non è arrivato l’indulto, grazie al quale 26 mila persone sono tornate libere. A contribuire al sovraffollamento vi sarebbero la crescita del numero degli extracomunitari presenti in Italia e la divisione in carcere tra chi è stato condannato e chi è in attesa di giudizio.

Venezia: il carcere è affollato... e due reparti sono chiusi

 

Gente Veneta, 4 gennaio 2008

 

Sono momenti difficili per le carceri veneziane, la direttrice Gabriella Straffi è seriamente preoccupata: l’effetto indulto è scomparso poiché la popolazione detenuta sta crescendo in modo preoccupante in tutta Italia.

Nelle carceri maschile di Santa Maria Maggiore e femminile della Giudecca le presenze stanno raggiungendo i livelli precedenti all’indulto - 230 persone circa al maschile e 90 circa al femminile - e la convivenza è difficile da sopportare.

"Anche se la ristrutturazione del carcere maschile è quasi ultimata - spiega la Straffi - non riesco a riaprire due reparti: mancano almeno venti unità di personale, mantenendo gli attuali pesanti turni di otto ore. Nonostante le nostre richieste non c’è stato assegnato nuovo personale, mentre cresce il numero dei carcerati: al femminile, ad esempio, le presenze sono aumentate a 90 donne, e soprattutto è aumentato il numero di mamme con bambini.

Sono dieci i bimbi che ospitiamo attualmente, un numero eccezionale. Ma non si deve pensare che siano persone liberate con l’indulto che rientrano, le recidive sono poche. Soprattutto tra le donne sono solo il 4-5%. C’è un forte aumento della piccola criminalità e degli stranieri, ma il carcere non può essere la sola risposta: sono necessari prevenzione e controllo del territorio".

Questa situazione preoccupa la direttrice Straffi perché anche il carcere femminile deve essere ristrutturato. La struttura, infatti, è bella e piena di iniziative, ma vecchia e fatiscente. "È necessario un lavoro comune per trovare i finanziamenti per la ristrutturazione: vanno rifatti i servizi igienici (le docce sono insufficienti), le stanze sono troppo grandi, mancano reparti con stanze singole e la convivenza in stanze da 8-10 persone, con tanta diversità, è difficile. Contiamo sulla sensibilità dell’amministrazione centrale".

Positivo è poi il forte rapporto con la città e le istituzioni. "C’è uno scambio continuo di interventi - afferma la Straffi - e questo ci conforta e spinge chi lavora con me ad operare al meglio. Le difficoltà rimangono ma è piacevole pensare che una città abituata ad avere il meglio sotto tutti gli aspetti accolga con rispetto una struttura, come il carcere, considerata la spazzatura della società. Riscontriamo sempre un grande interesse per il nostro mondo e le iniziative che facciamo".

Gabriella Straffi fa un esempio dell’amore della città per le strutture penitenziari: "Al carcere maschile, per la trasformazione del capannone degli anni ‘50 - ‘60 in chiesa c’è stato un concorso di tanti a fare di più e meglio. E così siamo riusciti a trasformare un luogo molto brutto e fatiscente in uno spazio gradevole, che potremo utilizzare anche per altre attività, grazie alla possibilità di separare la zona sacra dell’altare dal resto della sala. La nuova struttura polivalente ci aiuterà a risolvere il problema cronico della mancanza di spazi comuni, consentendo spettacoli musicali e di recitazione nel rispetto del luogo sacro".

Il carcere maschile sta lentamente acquistando un volto nuovo: "Abbiamo iniziato - conclude la Straffi - i lavori nel 1998. Si è scelto di far funzionare sempre la struttura per evitare trasferimenti in massa che pesano alle famiglie delle persone detenute. Abbiamo privilegiato i reparti detentivi, ora stiamo finendo un reparto dove speriamo di aprire laboratori e dare lavoro ai carcerati.

Il lavoro è importante per uscire di cella, dare un contributo economico alle famiglie, ma soprattutto per dare dignità. Ci auguriamo di poter raggiungere con lavori semplici il maggior numero di persone".

Milano: cibi avariati alla mensa degli agenti di San Vittore

 

Dire, 4 gennaio 2008

 

L’assessore alla Tutela dei consumatori della provincia di Milano interviene sull’inchiesta della procura partita a seguito della denuncia della polizia penitenziaria. "È intollerabile rivalersi sui consumatori abbassando la qualità"

L’assessore alla Tutela dei consumatori della Provincia di Milano Francesca Corso, in merito all’inchiesta della Procura milanese sulla somministrazione di cibi avariati al personale di polizia penitenziaria di S. Vittore, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Bene hanno fatto gli agenti di San Vittore a denunciare la somministrazione di cibi avariati alla mensa della polizia penitenziaria del carcere e di altri istituti penitenziari lombardi.

E bene ha fatto la Procura di Milano a indagare in merito. La vicenda mette sotto i riflettori due problemi molto importanti: come si assegnano gli appalti, che garanzie si danno ai cittadini consumatori. Il caso di San Vittore, se confermato, ha rilevanza penale; ma più in generale è intollerabile che, davanti a contratti di appalto ritenuti insoddisfacenti, l’azienda si rivalga sui consumatori abbassando la qualità del prodotto. Occorrono contratti di qualità e controlli di qualità. Occorre - conclude Francesca Corso - chiarezza e trasparenza sugli appalti, a cominciare da quelli che riguardano servizi che possono mettere in discussione la salute dei consumatori, come quelli delle mense".

Viterbo: da Provincia corso di formazione per i detenuti

 

www.atlantidemagazine.it, 4 gennaio 2008

 

Partito il nuovo corso di formazione per detenuti. Un progetto che vede ancora una volta insieme Provincia di Viterbo e casa circondariale Mammagialla.

Il corso mira a formare tecnici, operatori e installatori per il fotovoltaico e si divide in due parti - una teorica e una pratica - che vedranno gli stessi detenuti installare pannelli fotovoltaici sul carcere. Il corso è finanziato dalla Provincia di Viterbo, mentre il ministero della Giustizia penserà alla realizzazione di un pannello fotovoltaico.

"È la prima volta - spiega l’assessore alla Formazione professionale Giuseppe Picchiarelli - che si effettua un corso di formazione all’interno del carcere in seguito al quale viene rilasciata una qualifica. Proprio in occasione quest’anno del 60° anniversario della Costituzione, credo occorra dimostrare sempre in modo maggiore la valenza di quel principio secondo il quale il carcere è un luogo di rieducazione e riabilitazione, non puramente punitivo".

Il corso è rivolto ai detenuti tra i 15 e i 50 anni, sono stati selezioni 15 partecipanti. La formazione e lo stage dureranno 800 ore. "Attraverso questo intervento, vogliamo fornire una possibilità concreta - continua Picchiarelli - agli ospiti della casa circondariale di Mammagialla di ricevere una formazione altamente qualificata, utile al momento della loro uscita. Crediamo infatti che sia profondamente utile un investimento concreto sui temi della scolarizzazione, della formazione e dell’arricchimento delle proprie competenze, proprio in un luogo come il carcere al cui interno, sono i dati a dircelo, è sempre più basso il tasso di scolarizzazione. Attraverso questo intervento crediamo si possa contribuire a ridurre quella cappa di disagio di cui sempre più spesso è vittima la popolazione carceraria. Si tratta inoltre di un intervento utile anche a sviluppare una sensibilità rispetto alle tematiche ambientali".

Anche il direttore della casa circondariale Mammaggialla, Pierpaolo D’Andria, plaude al corso di formazione. "Esprimo soddisfazione - dice - per questa nuova iniziativa che si colloca in un filone non estemporaneo che vede da molti anni Provincia e carcere uniti dall’obiettivo della risocializzazione del condannato. Il tema ambientale, fondamentale in questo progetto formativo, è ulteriormente condiviso anche nel progetto in fase di realizzazione del centro di raccolta differenziata dei rifiuti prodotti dall’istituto".

Genova: un detenuto bloccato mentre tenta di evadere

 

www.savonanews.it, 4 gennaio 2008

 

"È solo grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del personale di Polizia Penitenziaria che ieri a Marassi è stato sventato un clamoroso tentativo di evasione di un detenuto straniero dal cortile passeggi dell’ora d’aria". Inizia così il commento ufficiale di Michele Lorenzo, segretario regionale ligure del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, il più rappresentativo della Polizia Penitenziaria.

"I colleghi hanno bloccato il fuggitivo che, con l’aiuto di complici, tentava di scavalcare il muro di cinta con una corda lanciata dall’esterno del carcere. Bravissimi i colleghi di Marassi, pur lavorando sotto organico e in condizioni difficili.

Ora auspichiamo un’immediata ispezione finalizzata a capire perché l’Amministrazione regionale e i vertici dell’istituto di Marassi, hanno sottovaluto anzi tralasciato una nota della segreteria sindacale del Sappe che nel luglio scorso denunciava tutte le carenze di Marassi, compresa la mancanza di idonei sistemi di anti-scavalcamento e i ripetuti guasti al sistema di telecamere poste nella Sala Regia del carcere".

"Come segreteria regionale del Sappe", conclude Michele Lorenzo, "chiediamo che vengano accertate le responsabilità di chi aveva il dovere di accertare l’efficienza dei sistemi di allarme e comunque doveva destinare maggiore attenzione al sistema sicurezza in genere. Per questo attribuiamo precise responsabilità al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria che ha il compito di accertare che il sistema carcere funzioni in tutti i suoi aspetti senza tralasciare la sicurezza e la polizia penitenziaria.

In caso di evasione il poliziotto penitenziario di turno sarebbe stato indagato. È impensabile che nessuna responsabilità possa essere attribuita ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria indifferenti alle nostre sollecitazioni. Se omissioni ci sono state, e gravi, chi ne è responsabile deve pagare".

Pescara: due detenuti partecipano a Festival della Melodia

 

www.cronacadabruzzo.org, 4 gennaio 2008

 

A volte la musica è una grande occasione per dimenticare il passato burrascoso e rimettersi letteralmente in gioco. Può accadere che due detenuti partecipino ad una rassegna canora con un proprio brano. È quanto accadrà questa sera a Città Sant’Angelo. Con inizio alle 21.15, infatti, nel salone delle feste dell’hotel Miramare di Marina di Città Sant’Angelo, si svolgerà la finale regionale del festival della Melodia, Trofeo Mondo Convenienza. Una manifestazione che in passato ha visto partecipato illustri come Giò di Tonno e Piero Mazzocchetti.

All’evento saranno presenti anche due detenuti nel carcere San Donato di Pescara, che in tal modo avranno la possibilità, per un giorno, di lasciare alle spalle le sbarre e misurarsi con gli altri cantanti. L’iniziativa è stata presentata ieri mattina nella sala Figlia di Jorio presso la Provincia di Pescara alla presenza di un responsabile della Casa Circondariale di Pescara, l’assessore provinciale Antonio Di Pietro e Paolo Minnucci, responsabile dell’agenzia "Promozione Spettacolo" che organizza l’evento.

"La provincia è ben lieta - ha detto l’assessore di Pietro - di appoggiare questa iniziativa sia perché ha un’ottima tradizione come testimoniano gli illustri nomi che ne hanno caratterizzato le precedenti edizioni e sia per la presenza di due detenuti che danno uno spessore umano e di solidarietà all’evento".

Lo spettacolo sarà presentato da Bruno Barteloni e vedrà la partecipazione di undici artisti oltre ad alcuni ospiti d’eccezione tra cui spicca il tenore Piero Mazzocchetti, terzo classificato al festival di Sanremo e storico vincitore della rassegna canora nel 1997, con il brano "Corri corri" scritto da Marco Marrone.

Sarà presente anche Andrea Buccella, vincitore della finale nazionale del concorso svoltasi a Sanremo e secondo classificato alla finale del Festival Show. In gara ci saranno: Marco Corneli, Laura Zizi, Francesca Buontempi, Simone Giansante, Eleonora Morioni, Claudio Roncone, Gloria Castellini, Luca Ragnone, Alessandra Labbrozzi, Marcello Centorame ed Elio De Pasquale. L’ingresso è libero.

I primi cinque classificati del Festival della Melodia di questa sera accederanno di diritto alla finale nazionale del concorso che avrà luogo a fine febbraio a Sanremo in un evento promosso in collaborazione con l’associazione degli abruzzesi del centro ligure.

Diritti: sono circa 17 mila le persone senza dimora in Italia

 

Redattore Sociale, 4 gennaio 2008

 

La Caritas: "Fenomeno sottostimato". Presto un’indagine nazionale con Istat e Fiopsd. Aumentano gli stranieri e i minori; stabile il numero degli anziani, italiani i più vecchi.

Sono circa 17 mila le persone senza dimora in Italia, secondo l’ultima stima (2000) realizzata dalla Fondazione Zancan di Padova, su incarico della commissione di indagine sulla povertà allora in carica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Un dato sottostimato, secondo il giudizio della Caritas Italiana che oggi si è unita al richiamo della Fiopsd nel chiedere interventi urgenti e significativi contro le povertà estreme. Caritas e Federazione avvieranno con il contributo dell’Istat una nuova indagine nazionale.

Sulla base dell’esperienza dei propri centri d’ascolto la Caritas sottolinea che il fenomeno si concentra con maggiore intensità nelle aree metropolitane e colpisce maggiormente i maschi e i maggiorenni. Basso e stabile il numero di anziani mentre pochissimi sono ancora i minori, anche se "stanno aumentando (soprattutto nei grandi centri urbani) in seguito ai fenomeni di tratta e traffico di esseri umani". Si tratta spiega la Caritas di minori stranieri introdotti in Italia a scopo di accattonaggio, furto, prostituzione).

Aumentano anche gli stranieri: rispetto al totale dei senza dimora transitati presso i centri di ascolto Caritas, gli stranieri rappresentano circa il 70% (erano il 58,9% nell’indagine nazionale della Fondazione Zancan di 8 anni fa). "In soli sette anni, il numero di senza dimora stranieri è aumentato, anche a livello nazionale, a causa del forte aumento di flussi migratori "poveri" dai paesi dell’Est Europa".

Gli italiani hanno un’età media più elevata di quella straniera: 50 anni contro i 30-35. Nel caso degli italiani, si tratta spesso di persone che hanno alle spalle una storie di vita segnata da insuccessi affettivi, separazioni, perdita del lavoro, allontanamento da istituti di ricovero, ecc.

Nel caso degli stranieri ci troviamo invece di fronte a giovani adulti che dormono all’aperto o in ripari di fortuna per vari motivi legati all’esperienza migratoria; si tratta di clandestini nella prima fase di arrivo in Italia, immigrati che dormono in ripari di fortuna presso i luoghi di lavoro nero, immigrati in situazione di povertà economica pur in presenza di permesso di soggiorno. Il livello scolare è la scuola media per gli italiani e la scuola superiore per gli stranieri.

Droghe: l'eroina legalizzata e controllata non ucciderebbe

di Pietro Yates Moretti (Associazione per i Diritti degli Utenti e dei Consumatori)

 

Notiziario Aduc, 4 gennaio 2008

 

Nei giorni scorsi, cinque persone hanno perso la vita a Roma dopo essersi iniettati eroina troppo pura o "killer". Le autorità nel frattempo hanno fatto alcuni arresti, senza dubbio di piccoli spacciatori che poco o nulla hanno a che fare con chi questa sostanza l’ha prodotta, importata, tagliata, distribuita, venduta, ovvero le grandi organizzazioni criminali nazionali ed internazionali.

Non vi è dubbio che chiamarla "eroina killer" a qualcuno toglie un gran peso dalla coscienza. Il mostro, l’omicida, diventa infatti la sostanza chimica, e non quella scelta scellerata di lasciare che sia la criminalità organizzata a gestirne il commercio. Chi proibisce la tossicodipendenza è la vera causa del problema: invece di chimici, medici e operatori sanitari, la distribuzione di eroina è in mano ad irresponsabili alchimisti, boss mafiosi e spacciatori. Ed è proprio così che l’eroina diventa "killer", perché incontrollata ed incontrollabile fino a quando non giunge su un letto della rianimazione o un tavolo del medico-legale.

L’unica risposta alle emergenze quotidiane, alle overdosi, alle droghe "killer" è strappare il commercio di queste sostanze dalle mani della criminalità. Sia lo Stato, con il suoi sistema sanitario, a farsi carico dei tossicodipendenti, che così avrebbero di fronte un interlocutore fidato ed interessato ad aiutarli.

Nessun guadagno per le mafie, niente più overdosi accidentali o sostanze "killer", niente più piccola delinquenza per procurarsi la dose, niente più miliardi di euro in armi e personale di polizia impegnati in una guerra che non può essere vinta.

Cina: "no" di Amnesty all’utilizzo delle iniezioni letali...

 

Asca, 4 gennaio 2008

 

Nell’ambito della campagna "Pechino 2008", l’organizzazione protesta contro l’annuncio fatto dal governo di aumentare l’uso dell’iniezione in luogo della fucilazione. "Non è umano ed è contro lo spirito della Carta olimpica".

Amnesty International condanna l’annunciato aumento dell’uso dell’iniezione di veleno come metodo di esecuzione delle pene di morte in Cina e chiede al governo di Pechino di accelerare il passo verso l’abolizione.

"Questo annuncio non solo giunge a poche settimane di distanza dall’adozione della risoluzione dell’Onu che chiede una moratoria sulle esecuzioni, ma va anche contro lo spirito della Carta olimpica, che pone la salvaguardia della dignità umana al cuore del movimento olimpico. Non c’è nulla di degno o di umano nel fatto che lo Stato uccida, a prescindere dal metodo usato", afferma Daniela Carboni, direttrice dell’Ufficio Campagne e ricerca della Sezione italiana di Amnesty International.

Il segretariato internazionale dell’associazione si è rivolto direttamente al vicepresidente della Corte suprema del popolo, Jiang Xingchang, sfidandolo a spiegare perché l’iniezione di veleno dovrebbe essere un metodo di esecuzione più umano della fucilazione.

Un anno fa la Corte suprema del popolo ha ripristinato il proprio ruolo di revisione di tutte le condanne a morte emesse in Cina. Questa decisione potrebbe significare una riduzione del numero delle esecuzioni. Tuttavia, fa notare Amnesty International, l’assenza di trasparenza in materia di pena capitale rende tuttora difficile valutare se ci siano stati risultati positivi. Una significativa riduzione dell’applicazione della pena di morte, come primo passo verso la sua completa abolizione, è una delle richieste che Amnesty International sottopone al governo cinese in vista delle Olimpiadi di Pechino 2008.

Ecco le altre richieste: applicare tutte le forme di detenzione in accordo con le norme e gli standard internazionali sui diritti umani e introdurre misure che tutelino il diritto a un processo equo e prevengano la tortura; garantire piena libertà d’azione ai difensori dei diritti umani, ponendo fine a minacce, intimidazioni, arresti e condanne nei loro confronti; porre fine alla censura, soprattutto nei confronti degli utenti di Internet.

Santo Domingo: italiano detenuto senza prove da 1 mese

 

News Italia Press, 4 gennaio 2008

 

Accusato di essere un trafficante di cocaina perché ha conosciuto una ragazza trovata all’aeroporto con degli ovuli di cocaina. Si attende il pronunciamento del giudice.

Quella che doveva essere una classica vacanza da sogno si è trasformato in un vero incubo. Purtroppo questa non è la banale trama di un film thriller, ma ciò che realmente è accaduto ad un italiano partito per un viaggio a Santo Domingo.

"Ho incontrato Maurizio Russo in carcere, unitamente ad altri italiani detenuti, nel corso della visita natalizia che sempre facciamo ai nostri italiani che vivono questa amara esperienza. Mi è parso un giovane sereno, anche se tormentato" afferma Ermanno Filosa, Presidente del Comites di Santo Domingo. "Mi ha solo detto che è in carcere ingiustamente e che il suo avvocato gli aveva raccomandato di non confidarsi con nessuno".

Maurizio Russo è un panettiere e deejay genovese di 36 anni, residente da un anno e mezzo a Barcellona dove lavora presso una catena di panettieri. Qui ha conosciuto Valentina Pallandino, napoletana, ma residente nella città spagnole ed hanno deciso di concedersi questa vacanza nella Repubblica Dominicana.

Quello che Maurizio probabilmente non sapeva era che la ragazza non aveva intenzione di effettuare questo viaggio solamente per piacere, ma intendeva anche riportare indietro ovuli contenenti cocaina in modo da racimolare parecchi soldi. La sua amicizia con la donno è bastata perché venisse ritenuto anch’esso un trafficante di stupefacenti, nonostante non gli sia stato trovato nulla di illegale né nei bagagli né addosso.

Così Maurizio Russo è da un mese nelle carceri dominicane in condizioni veramente dure visto che si trova a dover condividere la propria cella con altre 5 persone di cui due accusate di omicidio e a dover sopportare le angherie dei suoi carcerieri.

Alessandro Russo, fratello di Maurizio, 28 anni ha fatto raccontato in un’intervista al Secolo XIX che Maurizio si è separato dalla ragazza conosciuta a Barcellona poco dopo essere giunti nei Carabi proprio perché spaventato dagli "strani giri" che essa frequentava.

Maurizio ha deciso di proseguire la vacanza con altri amici conosciuti sul posto salvo aver promesso alla ragazza che si sarebbero rivisti al momento dell’imbarco all’aeroporto Las Americas. Proprio qui, mentre effettuava il check-in per imbarcarsi sul suo volo è stato fermato senza alcuna spiegazione dalla polizia locale che gli ha mostrato Valentina Pallandino da dietro un vetro.

Lui ovviamente ha detto di conoscerla, ignaro che la ragazza fosse appena stata trovata con degli ovuli pieni di cocaina nascosti nel corpo e all’interno del bagaglio. A quel punto è stato tratto in arresto ed è iniziata la sua odissea giudiziaria.

"Costretto a dormire per terra, tra topi e sudiciume, a pagare per un piatto di minestra, per avere un materasso su cui adagiarsi, obbligato a pagare persino per avere la visita di un familiare", così Alessandro Russo, che attualmente si trova a Santo Domingo per assistere cercare di aiutare Maurizio, ha descritto le condizioni di prigionia del fratello.

 

Il Comites, Presidente, cosa sta facendo?

Collaboriamo con la autorità diplomatica consolare italiana e vigiliamo che sui vari casi nessun dorma.

 

Le autorità italiane fino a che punto possono intervenire davanti a casi come questi sulle autorità locali?

Rientra nei compiti della autorità italiane seguire le sorti di chi vive in carcere. Solitamente gli avvocati prendono contatto con i Consoli, e sollecitano interventi. Certo la giustizia deve fare il suo corso, secondo le regole del diritto locale. Apparentemente la Magistratura è indipendente, ma non può certo sottrarsi a mostrarsi scrupolosa quando l’imputato è uno straniero e quando è "sollecitata" sia da autorità locali che da autorità straniere. Mi risulta, comunque, che probabilmente una dettagliata relazione su questo caso dovrebbe essere sul tavolo del funzionario competente presso il Ministero degli Esteri italiano.

 

Presidente, le condizioni delle carceri nel Paese sono davvero così difficili?

Le condizioni delle carceri di questo Paese non sono buone. Devo osservare, però, che in alcune carceri già è in corso una modernizzazione che lascia ben sperare per l’immediato futuro. Una nota che fa riflettere: ho chiesto ai detenuti italiani con pena già definitiva se volevano scontare la pena in un carcere italiano, considerato che esiste una Convenzione tra l’Italia e la Repubblica Dominicana che favorisce lo scambio di luogo di detenzione. Mi è stato risposto di no, perché "la vita nel carcere dominicano è libera, e in Italia bisogna stare chiusi sempre in cella".

 

Gli italiani, o meglio gli stranieri in genere, sono trattati peggio?

La mia esperienza mi dice che il trattamento in carcere dipende molto dalle disponibilità economiche. E in apparenza non esiste un accanimento contro gli italiani e gli stranieri; al contrario: quando in carcere arriva uno straniero, la "regola del carcere" lo guarda con interesse perché si ritiene che lo straniero abbia più possibilità economiche e che quindi possa comprare un adeguato posto letto comodo, possibilmente una stanza con aria condizionata, alimenti buoni e sani, e godere di confortevoli "visite matrimoniali".

Il problema vero, a mio avviso, è a monte: nel momento del fermo di polizia. Non sempre, in verità, ci troviamo dinanzi a forze dell’ordine che sono autentiche rappresentati del sistema democratico. Notevoli sono le prevaricazioni, e l’indifferenza verso i diritti delle persone. Oggi le cose sono molto migliorate, ma solo 10-15 anni fa la polizia aveva un ruolo di corruzione e violazione sistematica dei diritti umani.

 

Quanti italiani passano nelle carceri del Paese ogni anno e per quali reati?

Attualmente nelle carceri dominicane vi sono una quindicina di italiani. Tutti coinvolti in fatti di droga. Non ho dati certi sul movimento annuale.

 

I rapporti con i parenti come sono regolati nel caso appunto di carcerati italiani che hanno parenti fuori dall’Italia?

I carcerati italiani possono ricevere visita dai parenti. Quando i parenti sono in Italia possono prendere contatto con il Consolato, inviare soldi che poi saranno consegnati al detenuto.

 

L’Ambasciata italiana a Santo Domingo ed il Ministero degli Affari Esteri da noi interpellati oggi non hanno rilasciato alcun commento sulla vicenda e non sembrano essere riusciti ad ottenere alcunché dalle autorità dominicane nonostante abbiano cercato di fare pressioni. Per ora si è in attesa di un pronunciamento del giudice il cui esito è incerto, nonostante non vi sia alcuna prova a carico di Maurizio, che continua a rimanere in carcere senza alcuna garanzia e senza vedersi rispettati i più basilari diritti.

Iraq: amnistia per 5.000 detenuti, ma non per omosessuali

 

www.gay.it, 4 gennaio 2008

 

Il parlamento di Baghdad ha presentato un progetto di legge che prevede l’amnistia per un quarto dei prigionieri nelle carceri di stato. Ma l’omosessualità è tra i reati che non ne beneficeranno.

Il governo iracheno ha inviato al presidente del parlamento la bozza di un progetto di legge che riguarda l’amnistia per alcuni detenuti che si trovano nelle carceri di stato. Lo riferisce il portavoce del governo, Ali al-Dabbagh. Non è certo una novità per gli iracheni: anche l’ex dittatore Saddam Hussein, una volta l’anno, liberava una certa quantità di galeotti.

Ma se pensavate che, destituito e anche ucciso Saddam il provvedimento sarebbe stato più equo, vi sbagliavate di grosso. Sotto la dittatura di Hussein l’omosessualità è stata legale fino al 2001, quando per pressioni dei gruppi religiosi estremisti la sodomia divenne reato.

Il nuovo progetto di legge esclude i prigionieri sotto custodia americana e coloro incarcerati per una serie particolare di reati come terrorismo, sequestro, furto di antichità per contrabbando, adulterio e, naturalmente, omosessualità. Esclusi anche i dirigenti dell’ex regime Baath di Saddam Hussein. Se sarà approvata senza modifiche, la legge porterà al rilascio di cinquemila detenuti sui ventimila ospitati nelle carceri statali, dice al-Dabbagh. L’esercito Usa ne detiene più o meno venticinquemila.

I parlamentari sunniti hanno criticato la bozza di legge perché limita molto il numero di coloro che potranno beneficiarne, come i detenuti accusati di terrorismo che rappresentano la maggior parte dei prigionieri. Altri temono invece che la bozza rimarrà arenata in parlamento e sarà ritardato il rilascio dei detenuti.

 

 

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