Rassegna stampa 2 gennaio

 

Giustizia: dal messaggio del Presidente Giorgio Napolitano...

 

Ansa, 2 gennaio 2008

 

"…Ci preoccupano giustamente l’insicurezza e la criminalità; ci preoccupano difficoltà e fenomeni legati a una immigrazione in rapida crescita. Non si possono tuttavia ignorare i risultati ottenuti colpendo i vertici delle organizzazioni mafiose, o conseguendo una diminuzione di vari tipi di reato: si tratta di risultati di cui va dato merito alla magistratura e alle forze dell’ordine, apprezzandone l’impegno sempre rischioso e garantendo loro mezzi adeguati. Ma quel che più conta, perché ciascuno possa fare la sua parte, è liberarsi dalle paure che non fanno ragionare e dai particolarismi che non fanno decidere.

La paura può far dimenticare i limiti e i diritti da rispettare nell’azione che va condotta a tutela della sicurezza dei cittadini; la paura può far degenerare la fondata richiesta dell’osservanza della legge e delle regole da parte degli immigrati in minaccia inammissibile di violazione della libertà di culto per tutte le confessioni religiose e della dignità di quanti, provenienti da paesi lontani e vicini, operano nel nostro paese soddisfacendone esigenze e domande concrete…".

Giustizia: 12 idee per la giustizia penale e la detenzione...

 

"Radio Carcere" su "Il Riformista", 2 gennaio 2008

 

L’abuso della misura cautelare

 

Molti sono i nodi irrisolti della giustizia penale: dalla effettività della difesa dei non (o dei meno) abbienti, alla durata ragionevole del processo, dalla scarsezza delle risorse al numero eccessivo di avvocati. Lo stato delle cose, per di più, sta andando per il peggio, visto che, nell’incapacità di risolvere i problemi sociali, e quindi di prevenire il crimine, si moltiplicano le ipotesi di reato e si aggravano le pene. Ma il nodo irrisolto che crea più danni, e più sofferenze, è quello della custodia cautelare, spesso usata solo a fine di pressione psicologica.

Il Tribunale della Libertà, ha fallito il suo compito perché interviene a cose fatte, dopo il giudizio del Gip e del Pm: rarissimamente rimette in libertà. Ma un cambiamento è urgente perché non accada più che il carcere sia inflitto talora con troppa leggerezza. Si deve introdurre il contraddittorio anticipato, in base al quale il Gip, se necessario, dispone il fermo dell’indiziato, lasciando poi al Tribunale di decidere, valutato le prove in contraddittorio, se emettere l’ordinanza custodiale. Sarebbe opportuno altresì ripensare l’istituto della cauzione che commisurandola alle condizioni economiche della persona.

 

Gaetano Pecorella (PDI)

 

La pubblicazione degli atti d’indagine

 

I problemi che rendono la nostra Giustizia non degna di un Paese civile sono innumerevoli e non è facile sceglierne uno tra tanti. Cerco, quindi, di essere realista. Un problema che va risolto al più presto è quello della vergognosa diffusione, via stampa o tv, delle testimonianze, intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione, con gravi danni per la privacy e, soprattutto, per le indagini. I tempi possono essere brevi, in quanto è già in fase avanzata l’approvazione in Parlamento di un provvedimento che, per quanto possibile, potrebbe risolvere il problema.

Si smetterà, così, di confondere, il diritto-dovere di informare con quello di violare impunemente la legge; e di considerare che il contenuto di un atto, non più coperto dal segreto, possa essere diffuso lecitamente. Troppi, infatti, dimenticano che è reato pubblicare "atti di un procedimento penale di cui la legge vieta la pubblicazione" (art. 684 c.p.) e confondono, più in mala che in buona fede, gli atti non più coperti dal segreto con gli atti che possono essere diffusi. Eppure l’art. 114 del codice prevede, tra l’altro, in modo chiaro che "è vietata la pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare

 

Giuliano Pisapia (Rifondazione Comunista)

 

Utilizzare le caserme come carceri

 

Credo sia giusto accendere i riflettori sulla necessità di poter contare su carceri adeguate per garantire la dignità e la possibilità di recupero dei detenuti. Questo servirebbe nel contempo ad evitare che si possa ripetere l’errore dell’indulto che, come era facile prevedere, per far fronte al sovraffollamento ha creato nel Paese una forte condizione di "insicurezza avvertita", un aumento dei delitti e ha solo tamponato il problema delle condizioni di vita all’interno dei luoghi di detenzione, oggi praticamente identiche a quelle antecedenti l’indulto.

Con il disegno di legge n° 839 di questa legislatura, presentato al Senato prima dell’indulto da Ugo Martinat, che assieme a me lo ha illustrato in conferenza stampa alla Camera, proponevamo di utilizzare le numerose caserme militari oggi dismesse in tutto il territorio nazionale e di destinarle, con un modesto intervento, all’accoglienza ed al pernottamento di detenuti semiliberi o assegnati al lavoro esterno. Tale misura potrebbe essere concessa ad un numero di casi assai superiore all’attuale, prevedendo al contempo un serio inasprimento della pena per l’eventualità di violazione degli obblighi ad essi connessi. Il problema del sovraffollamento potrebbe trovare inoltre, un forte aiuto dalla auspicata decisione di affidare anche al Corpo di Polizia Penitenziaria il compito di controllare i sottoposti alla detenzione domiciliare.

 

Ignazio La Russa (Alleanza Nazionale)

 

Chiudere il Regina Coeli

 

"Qui non c’è più decoro le carceri d’oro ma chi l’ha mai viste chissà chiste so’ fatiscenti pè chisti fetienti" (De André).

Solo i poeti riescono, con poche parole, ad evocare mondi e pezzi di vita che diversamente andrebbero a lungo raccontati. La canone è del 1990, sono passati quasi vent’anni ed fatico ancora a capire dove siano queste famigerate carceri d’oro. Sovraffollamento, fatiscenza delle strutture, le pessime condizioni igieniche delle celle, la cronica mancanza di personale, insomma tutto il contesto odierno riporta ad un livello di anarchia e solitudine disperanti. Ho visitato istituti nel cuore delle città, come San Vittore a Milano, o Latina o la stessa Regina Coeli, che scoppiano e cadono a pezzi, da chiudere e riconvenire in strutture destinate ad altri usi. Io ad esempio come impegno per il 2008 lancerei una campagna a favore della chiusura di Regina Coeli; cos’altro bisogna aspettare dopo centinaia di verbali Asl che attestano lo stato di degrado critico e la mancanza di condizioni minime di vivibilità, con intere sezioni prive di riscaldamento, un supporto psicologico quasi assente, nonostante interventi di ristrutturazione effettuati negli ultimi anni?

 

Roberto Giachetti (PD)

 

Rinnovare la magistratura

 

Le urgenze che la politica della giustizia si troverà all’ordine del giorno sono anzitutto di sistema. La legge Mastella sull’ordinamento giudiziario ha affrontato, male, solo alcuni particolari problemi, ha accantonato i più importanti e soprattutto non ha avviato una riforma organica. Oggi si agita molto il tema delle riforme istituzionali, ma singolarmente nessuna attenzione è data alla riforma del sistema giustizia, che richiede una forte impostazione politica e culturale.

Il punto di partenza è la riflessione sulla collocazione della Magistratura nel quadro istituzionale da un punto di vista non solo normativo, ma in primo luogo politico-sociale. E sempre più avvertita una sovra ordinazione della Magistratura rispetto alle istituzioni politiche. Decisivo è il problema del regime elettorale del Csm, in cui non si devono trasmettere posizioni di potere cristallizzatesi al suo esterno, quello delle "correnti" dell’Anm. Uno degli aspetti più negativi della legge Mastella riguarda i magistrati "fuori ruolo", fenomeno che oggi manca di una qualsiasi normativa, con conseguenze assai gravi nei rapporti fra politica e giurisdizione. Il rinnovamento della Magistratura è la madre di tutti i problemi della giustizia. L’ignorarlo comprometterebbe ogni riforma di settore.

 

Oreste Dominioni (Uncp)

 

Riformare il sistema delle notifiche

 

Prefiggersi un miglior funzionamento della giustizia penale in tempi brevi, significa affrontare problemi che non comportino scontri ideologici, politici o istituzionali. Quindi se da un canto si dovrà guardare con attenzione a temi fondamentali quali la necessaria oralità del dibattimento o la immutabilità del Giudice, dall’altro occorre nel breve affrontare questioni pratiche, nodi del sistema. Il meccanismo notificatorio costituisce una delle principali ragioni della paralisi del processo: un impianto da riesaminare, sia nei sui principi, sia nei mezzi che devono esser assicurati alla giustizia. Occorre quindi rivedere le norme che impongono la notifica a mani dell’indagato, imponendo a questi una responsabilizzazione, dopo essersi assicurati che conosca l’esistenza di un procedimento a proprio carico; dovrà valutarsi la possibilità di domiciliazione necessaria presso il difensore che dovrà esser esonerato, anche deontologicamente, di eccessivi adempimenti che ne paralizzerebbero l’attività. Per quel che riguarda i mezzi, la modifica legislativa che sottrasse la Polizia Giudiziaria al compito di comunicazioni urgenti e il sottodimensionamento degli Ufficiali Giudiziari mostrano le carenze di un sistema che fa sì che quasi il 30% dei processi siano rinviati per difetti di notifica.

 

Paolo Auriemma (Magistrato)

 

Riscrivere le regole della prescrizione

 

Una rivisitazione del regime della prescrizione del reato non appare più rinviabile. L’istituto, fondato in origine sul principio della non protraibilità all’infinito dell’istanza punitiva pubblica, è diventato in concreto un terzo modo "ordinario" di concludere il processo penale accanto all’assoluzione e alla condanna. Ne deriva una dispersione inaccettabile di risorse (il giusto processo previsto dalla Costituzione è un bene pubblico prezioso in senso economico) ed una ulteriore spinta alla inefficienza complessiva del sistema, trattandosi di un esito obiettivamente favorevole al reo e perciò a volte perseguito.

La prescrizione potrebbe essere riportata alla sua natura originaria considerandola rilevante solo fino alla pronuncia di primo grado, che ottempera all’obbligo del vaglio giurisdizionale e rimette alle parti l’accettazione o meno della decisione. Da quel momento, dunque, le parti non potrebbero più avvalersi di una protrazione del processo da esse voluta; protrazione che andrebbe resa irrilevante e solo incidente su un nuovo e ulteriore termine integralmente da svolgere nella successiva fase nel rispetto del parametro della ragionevole durata del processo.

 

Nicola Di Grazia

 

Affrontare il sistema delle impugnazioni

 

Per impostare riforme che abbiano no un senso, senso, occorre avere una idea forza, senza la quale un qualsiasi intervento di carattere "emergenziale" è destinato ad accrescere la frammentarietà e le incoerenze dell’attuale sistema. La mia è questa: adeguiamo il processo agli standard degli altri paesi europei, recuperando, al contempo, il nesso contraddittorio/processo accusatorio.

Come? In pratica si dovrebbe cominciare da alcune evidenti criticità. La prima: non è decente processare chi ha una presenza solo "virtuale" nel processo, come gli irreperibili ed una parte degli attuali contumaci. Sul punto vi sono in campo molti eccellenti progetti. Basterebbe approvarli. La seconda: ridurre le notifiche. Una volta garantita all’imputato la piena conoscenza del processo a suo carico, le notifiche successive vanno fatte al difensore, come peraltro accade ovunque nel mondo. La terza: riformare l’appello.

Non ha alcun senso avere un processo orale e garantito in primo grado, il cui esito può però esser capovolto in secondo grado sulla base del solo esame delle carte. Quando una sentenza è seriamente viziata, si rifaccia il processo. Negli altri casi l’esito di primo grado non sia modificato.

 

Stefano Pesci

 

Troppo lunghi i processi penali

 

La durata eccessiva dei processi è il problema principale della giustizia italiana. Ai magistrati viene chiesto di "produrre di più", senza attenzione verso la qualità delle decisioni.

Quanti processi, però, un magistrato può ragionevolmente definire nel rispetto di standard accettabili di giustizia? Per i giudici amministrativi il problema è stato già risolto da sette anni stabilendo il lavoro massimo esigibile, per evitare che l’eccessiva quantità di decisioni si traduca in una diminuzione di qualità delle sentenze. Per i magistrati ordinari non esiste un’analoga norma. Il rischio è quello di danneggiare i cittadini: la quantità diminuisce la qualità della giustizia, che invece deve essere valorizzata prima di tutto.

Nell’interesse comune si deve rimediare all’irrazionale assenza di standard medi di produttività per ciascun magistrato ordinario. La c.d. riforma "Mastella" ha imposto al Csm di individuare parametri quantitativi e qualitativi dei processi, ma non sono stati ancora fatti passi concreti in tal senso. Nel frattempo domandiamoci se per il cittadino è meglio avere dalla magistratura una decisione "qualunque" purché rapida o una decisione "giusta" in tempi ragionevoli.

 

Aldo Morgigni e Alessandro Pepe

 

Serve il Garante nazionale per i detenuti

 

Un auspicio per il 2008? Se dovessi ragionare in astratto, senza tener conto del quadro politico e del contesto di governo, non avrei dubbi e direi che la giustizia italiana ha bisogno di un nuovo codice penale che riducendo i reati e l’entità delle pene possa essere il primo pilastro di una riforma complessiva nel segno dell’efficienza, della ragionevolezza e, solo di conseguenza, della tanto evocata certezza della pena. Ragionando, invece, con concretezza e realismo, alla luce della tumultuosa situazione parlamentare, la speranza è che vadano in porto i due provvedimenti più vicini alla approvazione, ossia l’introduzione del crimine di tortura nel codice penale e l’istituzione di un’autorità indipendente di controllo dei luoghi di detenzione. In un frangente storico dove tanta e inusitata enfasi è stata data alla questione sicurezza i diritti umani costituiscono la frontiera da preservare con tutte le forze.

 

Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone)

 

Migliorare la magistratura di sorveglianza

 

La Magistratura di Sorveglianza respinge oltre i 2/3 delle istanze presentate dai detenuti che hanno scontato la parte di pena necessaria per poter chiedere permessi premio, semilibertà e affidamento in prova ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Ancor più alta è la percentuale degli ergastolani che pur avendo raggiunto i 26 anni previsti per chiedere l’applicazione della libertà condizionale, si vedono respinte le loro istanze.

Il più delle volte, le motivazioni dei rigetti si riferiscono ai precedenti penali e non già all’attualità di una possibile pericolosità sociale. Ebbene, noi riteniamo che così come è legittimo chiedere la "certezza della pena ", è ancor più giusto chiedere la "certezza del diritto", ossia la garanzia che insieme alla difesa della collettività la Legge difenda anche i Diritti dei condannati.

Ecco perché chiediamo al Parlamento e alla magistratura di riuscire a trovare insieme l’equilibrio necessario per rispettare il dettato delle leggi oggi vigenti sulle misure alternative e sulla liberazione condizionale. Che si rigettino le misure alternative a chi palesemente non le merita, le ci concedano agli altri.

 

Vittorio Antonini (Associazione Papillon - Rebibbia)

 

Attenzione ai detenuti malati

 

Tra i tanti mali che affliggono il carcere un nodo da affrontare nel 2008 è senz’altro la drammatica situazione di molti malati. Il carcere è come un vaso di Pandora che nasconde le più stridenti contraddizioni: contiene uomini e donne in apparenti per il mondo, visibili solo dal dentro delle mura. Senza dimora, né documenti, è assai difficile la presa in carico da parte dei servizi territoriali. Quando sono in carcere non si riesce a far loro avere la carta d’identità, quando sono liberi questo è un motivo di non accesso ai servizi. Stili di vita sbagliati hanno compromesso i rapporti con i familiari.

Sono malati di Aids, anziani, persone con grave disagio psichico, con una sola prospettiva: l’attesa delfine pena. Il criterio custodialistico prevale su quello curativo, ma è anch’esso patogeno, così si risponde al dolore con farmaci che "fanno stare buoni". Se il giudice ne dichiara l’incompatibilità col carcere, non si trovano strutture socio-sanitarie disposte ad accoglierli. Si parla di allarme sicurezza, ma nuove pene e nuove carceri non regaleranno sicurezza alla società se non si mettono in atto politiche sociali che riducano le fragilità e rispondano ai veri problemi.

 

Stefania Tallei (Comunità S. Egidio)

Giustizia: le politiche della sicurezza... con ruoli capovolti

di Marco Menduni

 

Il Secolo XIX, 2 gennaio 2008

 

La magistratura si è presa da tempo il ruolo di supplenza di una politica che non c’è. Per le forze dell’ordine il discorso è opposto: è la politica (che non c’è) a delegare la soluzione dei problemi ai quali non sa offrire risposte. Affidando a una serie di slogan le fibrillazioni che giungono dalle città sul tema della sicurezza. Alcuni esempi? Il "controllo del territorio", la "polizia di prossimità", il rituale appello "meno agenti negli uffici, più agenti sulle strade". Tutte parole che potrebbero voler dire tutto e invece non significano nulla, quando si scende nella pratica delle cose.

L’altra sera il capo della polizia, Antonio Manganelli, parlando agli uomini di alcune questure collegate in video conferenza (la scelta di Milano non appare certo casuale, perché è proprio il Nord la nuova frontiera dell’emergenza nazionale) ha offerto alcuni spunti di riflessione davvero non banali. E ha messo a nudo il re, sia pure con il garbo che è riconosciuto alla persona.

"Come posso - ha detto in parole povere Manganelli - mandare più uomini sulle strade, quando il solo impegno che ci è richiesto sull’immigrazione ha moltiplicato per cinque gli uomini impegnati in pratiche burocratiche negli uffici stranieri?". E il capo della polizia ha fatto grazia di alcuni altri problemini che dalla politica discendono.

I fondi: dare la caccia ai delinquenti (l’ha ammesso, pubblicamente, anche il ministro dell’Interno Giuliano Amato) è difficile, quando manca anche la benzina per far marciare le volanti. E vogliamo dimenticare la boutade dell’indulto, che ha trasformato i primi sei mesi dell’anno in un incubo per i cittadini, costringendo le forze dell’ordine a fare a guardia e ladri per tornare al punto di partenza?

Le carceri sono di nuovo strapiene, qualche migliaio di italiani sono stati vittime di reati che si sarebbero potuti evitare e gli uffici dei pm sono strapieni di cartaccia esattamente come prima. Anzi, di più.

Manganelli auspica una politica della sicurezza che tenga insieme tutte le componenti della società. Che le metta a confronto, che le faccia dia-logare. E davvero un Paese ben strano quello nel quale è il capo della polizia a lanciare un appello del genere. E davvero un Paese ben strano quello in cui, com’è accaduto a Genova, è un prefetto (parliamo di Giuseppe Romano, andato in pensione da pochi giorni) a "costringere" intorno a un tavolo gli amministratori e gli operatori della sicurezza per trovare un minimo di filo comune.

Un Paese in cui i risultati di una strategia dell’immigrazione per lo meno avventata sono sotto gli occhi di tutti. Con una politica che ha fidato nella chimera di un’integrazione che sarebbe arrivata da sola, basandosi (nel caso migliore) sull’illusione di una bontà connaturata nell’uomo, quando non (nel caso peggiore) sulla falsa convinzione che le regole dell’economia sarebbero state sufficienti a sistemare le cose.

Ora i problemi sono affidati, guarda caso, al "controllo del territorio", panacea universale che dovrebbe risolvere disagi sociali, tensioni razziali, degrado e insicurezza Mentre la pressione della burocrazia, invece di allentarsi per liberare forze, italianamente si moltiplica. Che il capo della polizia, garbatamente, lo faccia notare è positivo. Che questo appello possa servire a qualcosa è, purtroppo, molto dubbio.

Giustizia: quattro agenti suicidi, pesano i problemi sociali

 

Redattore Sociale, 2 gennaio 2008

 

Parla Francesco Quinti, sindacalista della Cgil, che evidenzia i costi della vita, la necessità di spostamenti e i conseguenti contraccolpi familiari, il mancato ricambio generazionale. E preoccupa il coinvolgimento negli Uepe.

Quattro casi di suicidio tra il personale della Polizia Penitenziaria. Sono avvenuti tutti durante il mese di dicembre a ridosso del Natale e di Capodanno. I sindacati lanciano l’allarme e ora si tenta di capire se esistono correlazioni con i problemi di organizzazione delle carceri e in generale con l’attività professionale.

"Nessuno dei casi di suicidio che sono avvenuti tra gli agenti penitenziari è stato finora ancora spiegato. Non sappiamo quindi se sono legati direttamente a qualche motivo di disagio, ma è potrebbero essere l’ennesimo segnale di un’emergenza nel Corpo della polizia penitenziaria. Secondo i sindacalisti del settore, questa emergenza potrebbe essere anche amplificata dal prossimo coinvolgimento della polizia penitenziaria nelle misure alternative al carcere".

Risponde così alle nostre domande sui casi di suicidi tra i poliziotti penitenziari Francesco Quinti, sindacalista Cgil della polizia penitenziaria. Uno dei casi di suicidio ha coinvolto un commissario comandante abbastanza giovane che era stato appena trasferito da Modena a Bologna. Non si conoscono quindi le motivazioni che potrebbero stare dietro il tragico gesto.

Un altro caso di suicidio ha riguardato invece un agente penitenziario in servizio in un carcere del nord Italia. Anche su questo episodio non si sa molto, anche se i colleghi dell’agente avevano parlato di una difficile situazione familiare legata a una separazione.

In ogni caso il disagio tra i poliziotti che lavorano in carcere è evidente e molti sono i problemi sociali che coinvolgono la categoria. Sempre secondo Francesco Quinti, uno dei problemi più grossi riguarda gli alti costi degli affitti e in generale della vita.

"I poliziotti penitenziari percepiscono stipendi che si aggirano (con gli straordinari) sui 1.400 euro mensili. Se sono in servizio nelle carceri del nord sono costretti a vivere in caserma o a pagare affitti che vanno dagli 800 euro a mille euro al mese. La maggior parte degli agenti provengono dal Sud e quindi non hanno la possibilità, se sono sposati di trasferire le loro famiglie vicine al carcere dove lavorano. La vita famigliare diventa spesso un inferno".

L’altra questione che bisognerebbe affrontare con urgenza riguarda il personale nel suo complesso e il mancato ricambio generazionale. "Sta infatti aumentando il numero dei poliziotti che per ragioni di salute (in base all’articolo 75 della legge 433 del 1992) chiede il trasferimento in uffici o comunque al ruolo civile. Senza nuovi ingressi, dunque, i trasferimenti ridurranno ulteriormente gli effettivi in carcere aumentando il disagio.

Con l’indulto la pressione sul Corpo della polizia penitenziaria si era parzialmente (e provvisoriamente) ridotta, visto che i detenuti sono non sono più i 62 mila della fase pre-indulto. Ora però si è di nuovo sfiorata quota 50 mila".

Per quanto riguarda il coinvolgimento della polizia penitenziaria nella gestione dei detenuti in misure alternative al carcere il Dap ha parlato di un migliaio di poliziotti che saranno impegnati nella nuova funzione in via sperimentale. Secondo i sindacati, però, alla fine si potrebbe arrivare anche a 2.000 poliziotti.

Giustizia: Milano; ci sono 20 mila prosciolti che non lo sanno

di Luigi Ferrarella

 

Corriere della Sera, 2 gennaio 2008

 

Esercizio di aritmetica: se i giudici nel 2007 risultano aver fatto più sentenze del 2006, deciso più rinvii a giudizio, scritto più archiviazioni, e ridotto di 20 giorni la durata media dei loro processi, com’è che l’arretrato dell’ufficio Gip del Tribunale di Milano sembra essersi raddoppiato in un anno secondo le statistiche ufficiali? Perché la giustizia dà i numeri.

E alla lotteria delle statistiche giudiziarie può accadere, come appunto segnala il caso limite di Milano, che i finti risparmi esibiti a monte ai cittadini contribuenti (ad esempio lasciando preda di gravi carenze di organico le nevralgiche cancellerie) a valle generino una clamorosa distorsione ottico statistica, il cui costo sociale viene fatto pagare ai cittadini utenti.

Per forza che all’ufficio Gip, in vista dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il 26 gennaio, i conti non tornavano: nella realtà l’arretrato è sceso da 29.000 a 23.000 procedimenti a carico di persone note, ma nella fiction della statistica ufficiale le tabelle ne vedono pendenti ben 44.000 solo perché ne contano ancora 20.000 che invece sono già stati definiti dai magistrati.

E le tabelle li contano perché, sebbene i giudici li abbiano già da tempo esauriti con provvedimenti di archiviazione, le cancellerie in sofferenza non sono ancora riuscite a registrarli, costrette come sono ad accantonare lo "scarico" di queste archiviazioni per concentrare tempo ed energie sui fascicoli più urgenti (come quelli con detenuti).

Mette nero su bianco, in una relazione sui "maggiori investimenti" che "basterebbero a innestare un circolo virtuoso", il capo dei gip milanesi, Filippo Grisolia: "La continua emorragia di risorse umane del personale amministrativo", oltre ad altri "notevoli danni all’efficienza dell’ufficio ", ha "creato la semiparalisi di alcuni uffici, quali ad esempio quelli addetti alle archiviazioni".

Così, il fatto che l’arretrato sembri crescere, con pendenze oggi a quota 43.947 contro le 28.738 di 12 mesi fa, non contrasta con "il rilevante aumento di produttività dei giudici", ma dipende dal "depotenziamento dell’ufficio centrale che dall’inizio del 2006 non è stato in grado di tenere il passo con la registrazione dei provvedimenti di archiviazione già emessi" dai giudici: "sicché allo stato può ritenersi, in base a un calcolo grossolano, che circa 20.000 di questi provvedimenti siano in attesa di essere registrati, e quindi "esauriti" a tutti gli effetti".

La controprova sta in un esempio invece positivo: è bastato il prestito di "un sottufficiale messo temporaneamente a disposizione dal Questore" per "eliminare l’arretrato relativo ai dissequestri": e quindi per non far continuare a spendere invano allo Stato le centinaia di migliaia di euro dei compensi ai custodi di auto e beni sotto sequestro da una vita. Può esistere un’azienda che abbia (peraltro vaga) consapevolezza soltanto di quanta merce all’ingrosso entri nei propri stabilimenti, ma ignori che fine facciano i propri prodotti?

Per sbalorditivo che sia, l’amministrazione della giustizia versa proprio in questa materiale ignoranza dell’esito del proprio processo produttivo. Con la conseguente difficoltà di auto-correggersi, di migliorarsi, di distribuire meglio le risorse. Non solo: in mezzo ai numeri inattendibili, c’è la vita delle persone.

Per esempio di queste 20.000 che, in passato indagate ma nella realtà oggi già prosciolte dai giudici, formalmente si ritroveranno ancora indagate fino a quando la loro archiviazione non verrà registrata. E un analogo costo sociale pagano, per restare a un altro caso-limite a Milano, le 300.000 persone che avevano sporto alle forze dell’ordine altrettante denunce contro ignoti per furti d’auto o in casa. Per le statistiche, 300.000 denunce in più. O anche 300.000 in meno. Dipende.

Perché per molti mesi queste denunce sono sì esistite fisicamente, in carta e inchiostro nell’ufficio che in Procura registra appunto le denunce di reato dopo le indicazioni impartite dai procuratori aggiunti; ma formalmente non sono mai esistite, e quindi non sono ancora state prese in carico e coltivate dalle indagini di alcun pm, perché mai sono state registrate nel Registro Generale informatico. Perché?

Perché a fare quello che pomposamente è chiamato "servizio di data entry", ovvero a immettere i dati nell’archivio elettronico della Procura, invece dei 22 cancellieri che facevano questo lavoro anni fa, oggi in servizio effettivo si ritrovano solo 7 impiegati. Che, come ovvio, nella registrazione delle denunce danno la priorità a quelle contro persone identificate. Così la massa di denunce contro ignoti, che una città come Milano produce al ritmo di 500 al giorno, periodicamente diventa una montagna dalla vetta non più scalabile.

Alla fine dal ministero, come in altri casi nel passato, è arrivato un mini stanziamento-extra per appaltare a una ditta privata il servizio di assorbimento dell’arretrato da questo limbo. Dove, nel frattempo, il cittadino ha comunque già pagato una "tassa" senza saperlo. Se la denuncia non viene registrata, infatti, non parte l’indagine; ma se non inizia, nemmeno può finire con quel certificato di "chiusura indagine" necessario a ottenere dalla propria assicurazione il risarcimento per il furto in casa o l’auto rubata. Un corto circuito che una previsione della terza "lenzuolata" delle liberalizzazioni si propone di neutralizzare, prevedendo che chi subisce un furto d’auto non debba più aspettare il certificato del Tribunale per ricevere il rimborso dall’assicurazione.

Giustizia: Contrada in carcere, spera in differimento pena

 

Ansa, 2 gennaio 2008

 

Bruno Contrada tornerà nel carcere militare di S. Maria Capua Vetere, dove è detenuto per scontare la condanna a 10 anni per concorso in associazione mafiosa. È infatti arrivato il nulla osta del giudice di sorveglianza per il suo trasferimento dall’ospedale Cardarelli di Napoli, dove era ricoverato nel padiglione Palermo.

Lo ha reso noto il suo legale, avvocato Giuseppe Lipera. Nei giorni scorsi, l’ex funzionario del Sisde, condannato per concorso esterno alla mafia, aveva chiesto di tornare in carcere o di essere trasferito nell’ospedale militare del Celio per le cure e lunedì scorso il suo avvocato, aveva presentato un’istanza in questo senso al tribunale di sorveglianza.

 

Dichiarazione di Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia

 

Con riferimento alle ultime notizie relative allo stato di detenzione del dottor Bruno Contrada si ricorda che - nel caso venisse accertata l’incompatibilità delle sue condizioni con il regime carcerario - la norma prevede il provvedimento di differimento della pena. Misura che risulta già adottata in numerosi altri casi: nel 2007 sono state ben 286, di cui 115 uomini e 171 donne, le persone che hanno ottenuto il differimento della pena.

Giustizia: Mastella; opera d’arte scambiata per minaccia

 

La Repubblica, 2 gennaio 2008

 

Non era una minaccia ma un’opera d’arte il manichino incaprettato destinato al Guardasigilli Clemente Mastella. Il cessato allarme arriva da Ezio Locatelli, parlamentare bergamasco di Rifondazione comunista. "Nessun pacco intimidatorio nei confronti del ministro della Giustizia Clemente Mastella è stato inviato da Bergamo. La notizia è destituita di qualsiasi fondamento" ha spiegato il parlamentare. Il pacco era stato intercettato la mattina del 31 dicembre in un ufficio postale di Roma e aveva creato molto allarme: qualcuno aveva addirittura ipotizzato l’avvertimento di un detenuto.

"Si tratta in realtà di un pacco regalo spedito dall’ artista bergamasco Giovanni Bianchini - ha aggiunto Locatelli - senza alcuna minaccia, e contenente un’opera d’arte". L’opera in questione è un pupazzo realizzato con dello scotch, che rappresenta le vittime delle cosiddette "extraordinary rendition", uomini arrestati dai servizi segreti americani e ora ingiustamente detenuti nelle carceri di mezzo mondo con l’accusa di terrorismo. È la sorte capitata ad Britel Abu Elkassim, cittadino italo-marocchino, sposato con una donna italiana e residente a Bergamo. Il pacco fa riferimento proprio alla sua vicenda, e alla campagna di sensibilizzazione partita proprio da Bergamo per chiederne la liberazione.

"La notizia ci ha molto preoccupati - ha detto Maurizio Mazzucchetti, esponente locale di Rifondazione Comunista - Non riusciamo ancora a spiegarci come mai sia stato possibile un tale fraintendimento. Bianchini è un artista noto, che ha già esposto le sue opere a Bergamo. Il suo è stato un gesto per lanciare un messaggio ed invitare alla riflessione". Probabilmente la distanza fisica tra Bergamo e Roma è tale da non essere stata ancora coperta dalla fama dell’artista. Nell’indicazione del mittente c’erano la scritta in italiano "www.giustizia e libertà per Kassim.net" e un appello in arabo per la liberazione dell’uomo. Solo che questa è stata scambiata per una rivendicazione anziché per la firma dell’artista e relativa campagna di sensibilizzazione.

Kassim è stato arrestato nel 2002 in Pakistan con l’accusa di essere un terrorista appartenente ad Al Qaeda. Nel 2004 è stato trasferito in Marocco, dove è in carcere, condannato a nove anni per i reati di associazione sovversiva e per tenuta di riunioni non autorizzate, e a novembre ha cominciato uno sciopero della fame. Nei giorni scorsi il sindaco di Bergamo Roberto Bruni si è appellato al presidente del Consiglio Romano Prodi e al ministro degli Esteri Massimo D’Alema per chiedere un intervento del governo italiano, facendo seguito alla richiesta di grazia presentata da tempo da parlamentari italiani ed europei a re del Marocco Mohammed VI.

Airola: all’Ipm una giornata speciale, tra sport e amicizia

 

Il Mattino, 2 gennaio 2008

 

Il Forum Provinciale della Gioventù in collaborazione con la Provincia di Benevento e i fiduciari comunali del Coni e Centro Servizi Sociali della Regione Campania, organizza una giornata di solidarietà e sport che si svolgerà presso l’istituto penitenziario minorile di Airola il 3 gennaio 2008. La manifestazione è finalizzata alla promozione dei valori sociali, attraverso la pratica dell’attività sportiva, intesa come un momento altamente socializzante.

L’idea nasce per dare un contributo al recupero sociale e formativo dei ragazzi dell’Istituto e, nello stesso tempo, aiutare i giovani dei forum comunali della provincia di Benevento a fermarsi e riflettere su se stessi e sul tema, particolarmente importante per il nostro futuro, quale è quello dell’"educazione alla legalità".

A questo mira l’iniziativa che si è potuta concretizzare grazie alla collaborazione del già presidente del Forum regionale, Costantino Caturano, e della sociologa Stefania Rinaldi. L’iniziativa intende perseguire le sue finalità attraverso la proposta di giochi ed attività ricreative (quali piccole lezioni di danza popolare, murales, tombolata, partita di calcio), che consentano tramite il dialogo, la cooperazione ed il confronto e la riscoperta di valori importanti. Già fissato il programma della giornata che avrà inizio alle ore 10 con l’arrivo dei ragazzi dei forum nell’istituto. Quindi le attività ricreative (murales, lezioni di danza popolare). Dopo il pranzo la tombolata musicale, e la partita di calcio. La conclusione è fissata per le 18.30.

Immigrazione: figli di immigrati, mandiamoli tutti a scuola

di Tito Boeri

 

La Stampa, 2 gennaio 2008

 

Il 2008 sarà sicuramente un nuovo anno di forte immigrazione. Rischia di essere anche un anno di mancata integrazione. A Milano, proprio alla vigilia di Natale, il Comune guidato da Letizia Moratti ha annunciato che chiuderà l’accesso alle scuole materne ai figli degli immigrati in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno.

Date le persistenti complessità della nostra legge sull’immigrazione (non doveva la riforma della legge Bossi-Fini essere una delle priorità nell’agenda di questo governo?) sono molti gli immigrati, da anni in Italia e per lungo tempo "regolari", che attendono anche fino a un anno per il rinnovo del loro permesso di soggiorno. I loro figli non potranno più integrarsi con gli altri bambini italiani, imparare la nostra lingua e le nostre regole di convivenza civile.

In Veneto diverse amministrazioni comunali guidate dal Carroccio intendono introdurre quote al numero dei figli di immigrati iscritti alle scuole elementari. Dato che, in questi centri, quasi solo gli immigrati fanno figli, le quote" significano impedire ai figli degli immigrati di andare a scuola. E una "battaglia di civiltà", secondo il vicepresidente della Regione Veneto, Luca Zaia.

Peccato che gli "incivili" facciano ricco il nostro Paese: il 50 per cento della nuova occupazione creata nell’ultimo anno sono lavori di immigrati, che hanno contribuito ad almeno un quarto della nostra crescita economica negli ultimi dodici mesi. Li tratteremo come i dittatori di Pechino trattano la manodopera che arriva dalle campagne cinesi. Vogliono proprio mandare i loro figli a scuola? Bene, che se la paghino! Non importa se questo ci condanna ad avere cittadini senza neanche la licenza elementare. Non importa se questo significa ritardare, se non impedire del tutto, l’integrazione.

In tutti i Paesi di immigrazione si fa di tutto per convincere gli immigrati a mandare i loro figli a scuola. Da noi stiamo cercando di fare esattamente il contrario. L’integrazione degli immigrati avviene per generazioni successive, soprattutto mediante l’accesso all’istruzione. Come messo in luce da diversi studi (tra cui un recente lavoro di Alan Manning e Sanchari Roy della London School of Economics), alla seconda se non alla terza generazione, gli immigrati che sono andati a scuola nel Paese che li accoglie hanno lo stesso senso di identità e appartenenza nazionale di coloro che hanno nonni e genitori nati in quel Paese.

Tutti gli immigrati, di tutte le nazionalità e religioni. Sì, anche i musulmani. Letizia Moratti e i sindaci leghisti del Nord-Est vogliono, invece, che i figli di immigrati rimangano diversi e, ancor più, si sentano diversi da noi.

Sapevamo che la miopia è un difetto comune nella nostra classe politica, tanto a livello nazionale che locale. Eravamo consapevoli del fatto che molte amministrazioni comunali sono gestite con orizzonti di brevissimo periodo, alla ricerca del consenso immediato. Ce ne eravamo resi conto dal modo con cui molti Comuni stanno gestendo il loro debito, compiendo operazioni in derivati, quali transazioni su tassi di interesse e acquisto di opzioni a prezzi non congrui, pur di abbellire i loro bilanci, imponendo un maggior costo del debito alle amministrazioni (e generazioni) future.

Ma nel caso della gestione del debito dei Comuni si poteva anche attribuire parte delle colpe a una mancata consapevolezza e conoscenza del funzionamento di strumenti finanziari complessi, quali appunti i derivati. Poteva essere un problema non solo di miopia, ma anche di incompetenza.

Nel caso della chiusura delle scuole ai figli degli immigrati, invece, gli amministratori locali non possono non essere consapevoli delle conseguenze di ciò che stanno facendo. E non dicano che lo fanno per tutelare le fasce deboli della popolazione da loro amministrata! Le persone a basso reddito hanno tutto da guadagnare da una rapida integrazione degli immigrati che popolano i quartieri in cui vivono, dalla loro adozione delle nostre regole e stili di vita, dal poter facilmente comunicare con loro.

Vero che i figli degli immigrati competono con i figli degli italiani meno ricchi nell’accesso alle scuole materne, ma questo problema può essere affrontato solo espandendo l’offerta di asili nido, come hanno fatto purtroppo in questi anni solo alcune regioni italiane, significativamente non quelle oggi all’avanguardia nel combattere l’integrazione degli immigrati. Invece di chiudere le scuole elementari agli immigrati, bisognerebbe premiare gli insegnanti che in queste scuole, pur fra maggiori difficoltà, riescono a completare i programmi formativi. Sarebbe un riconoscimento del ruolo sociale fondamentale che questi insegnanti oggi hanno nel nostro Paese.

Per difendere le categorie più deboli bisogna combattere l’immigrazione irregolare e clandestina, che non paga le tasse e che può finire per essere contigua alla microcriminalità. Ma non è certo escludendo ì figli degli immigrati dalle scuole che si riuscirà in questa battaglia. Al contrario, si rischia solo di fomentare la marginalità e la criminalità. Per combattere in modo efficace l’immigrazione clandestina c’è solo una strada da percorrere: intensificare i controlli sui posti di lavoro, dove gli immigrati irregolari si recano tutti i giorni.

Negli Stati Uniti l’intensificazione di questi controlli nell’ultimo anno sta portando a una vera e propria "auto-deportazione" (il termine usato dai media statunitensi) di immigrati clandestini, soprattutto messicani, che hanno deciso in questo Natale di tornare a casa per sempre, comprando un biglietto di sola andata per Aguascalientes o qualsiasi altro centro rurale da cui provengono.

Perché allora i sindaci che dicono di voler combattere la piaga dell’immigrazione illegale non rivolgono le loro attenzioni agli ispettorati del lavoro, spingendoli a intensificare i controlli sui posti di lavoro nel loro Comune, perché non chiedono ai loro concittadini di aiutarli nel segnalare il lavoro irregolare degli immigrati?

Un sospetto ce l’abbiamo: forse tra i loro grandi elettori ci sono anche coloro che assumono illegalmente manodopera immigrata e vogliono pochi controlli sui posti di lavoro per non pagare i contributi sociali e tenere basso il costo del lavoro. C’è solo un modo per convincerci del contrario: ci dimostrino coi fatti che non è vero.

Droghe: Cento; contro overdose sì a "eroina pubblica"

 

Notiziario Aduc, 2 gennaio 2008

 

"Basta con l’eroina killer, serve una somministrazione pubblica". È la proposta fatta dal deputato dei Verdi Paolo Cento, sottosegretario al ministero dell’Economia. "Con il quarto tossicodipendente morto a Roma in tre giorni si sta verificando una vera e propria emergenza sociale e sanitaria.

Di fronte al rischio di una diffusione dell’eroina killer che provoca overdose è necessario una forte iniziativa per tutelare la salute e la vita dei tossicodipendenti. Si superi il tabù e si prenda una decisione straordinaria come quella di sperimentare a Roma la somministrazione pubblica nei Sert di eroina ai tossicodipendenti che ne facciano richiesta per un periodo limitato a superare questa emergenza. "Non bisogna ragionare sulle urgenze, fuori da un contesto. La priorità è una legge che riorganizzi i servizi sulle tossicodipendenze, potenziandoli. In quel contesto, il Parlamento può valutare eventuali sperimentazioni".

Così il direttore dell’agenzia delle tossicodipendenze del Comune di Roma Guglielmo Masci ha commentato la proposta del deputato verde. "La mia è una risposta problematica, bisogna rivedere tutta la situazione delle tossicodipendenze, rivedere i piani regionali e nazionali. Nell’ambito di un rilancio dei servizi dei Ser.T. si può ragionare su eventuali sperimentazioni".

Iran: tre impiccati per possesso di 170 grammi di eroina

 

Notiziario Aduc, 2 gennaio 2008

 

Altri tre uomini condannati a morte per traffico o spaccio di stupefacenti sono stati impiccati oggi in Iran sulla pubblica piazza. Le tre esecuzioni pubbliche, scrive l’agenzia Irna, sono avvenute a Qom, città santa sciita 130 chilometri a sud di Teheran. Sul patibolo sono saliti Safar Ali Nazari-Ashkar, di 36 anni, Sohbatollah Maleki, di 39, e Habib Oliali, di cui non è stata resa nota l’età. I tre erano stati arrestati lo scorso anno separatamente perché trovati in possesso di quantità di eroina in quantità che variano dai 170 ai 590 grammi. In Iran la legge prevede la pena di morte per persone trovate in possesso di oltre 30 grammi di eroina o cinque chilogrammi di oppio.

Gran Bretagna: un aumento del 37% dei detenuti suicidi

 

Apcom, 2 gennaio 2008

 

I casi di suicidio nelle carceri britannici sono aumentati del 37%, a causa soprattutto del sovraffollamento. I dati diffusi dal ministero della Giustizia, riportati oggi dalla stampa britannica, indicano che sono stati 92 i detenuti a togliersi la vita nel 2007, contro i 67 del 2006. Otto le donne, contro le tre del 2006 e sette i detenuti con meno di 21 anni, contro i due dell’anno precedente.

Il più giovane era Liam McManus, 15 anni, che si è impiccato a novembre. Un aumento registrato dopo due anni di calo dei casi di suicidio e definito "il costo umano della crisi delle prigioni" da un’associazione che chiede la riforma del codice penale, Howard League For Penal Reform. L’aumento della popolazione carceraria ha costretto il governo a lanciare lo scorso anno la cosiddetta "Operazione tutela", ospitando i detenuti nelle celle delle questure e delle corti di giustizia. Quindi sono stati rimessi in libertà oltre 10.000 prigionieri, per alleggerire la pressione sul sistema. Oggi, il sistema carcerario conta 80.707 detenuti.

Iraq: parlamento discuterà amnistia per 5mila detenuti

 

Apcom, 2 gennaio 2008

 

Il governo ha inviato al presidente del parlamento la bozza di un progetto di legge che riguarda l’amnistia per alcuni detenuti che si trovano nelle carceri irachene. Lo riferisce il portavoce del governo, Ali Al-Dabbagh. Il progetto di legge esclude i prigionieri sotto custodia americana e coloro incarcerati per una serie particolare di reati come terrorismo, sequestro, furto di antichità per contrabbando, adulterio e omosessualità. Esclusi anche i dirigenti dell’ex regime Baath di Saddam Hussein.

Se sarà approvata senza modifiche, la legge porterà al rilascio di 5mila detenuti, dice Al-Dabbagh. Il governo iracheno tiene in carcere circa 20mila persone, l’esercito Usa ne detiene più o meno 25mila. I parlamentari sunniti hanno criticato la bozza di legge perché limita molto il numero di coloro che potranno beneficiarne, come i detenuti accusati di terrorismo che rappresentano la maggior parte dei prigionieri. Altri temono invece che la bozza rimarrà arenata in parlamento e sarà ritardato il rilascio dei detenuti. Molte leggi importanti, come le misure che riguardano la suddivisione degli introiti del petrolio e quelle che relative all’autorizzazione a rivestire cariche governative per i membri dell’ex partito Baath, aspettano da mesi di essere discusse.

Stati Uniti: attentò a Ford, esce dopo 32 anni di carcere

 

Ansa, 2 gennaio 2008

 

Sara Jane Moore, che aveva tentato di assassinare il presidente Ford, è stata posta oggi in libertà condizionale dopo 32 anni passati dietro le sbarre. Ora settantasettenne, Sara Jane Moore era detenuta nel carcere federale di Dublin, a est di San Francisco, dove scontava l’ergastolo, ha riferito la direzione delle carceri. La portavoce Felicia Ponce non ha fatto riferimento ai motivi della scarcerazione.

Sara Jane Moore era a circa un metro da Gerald Ford davanti a un albergo di San Francisco quando, il 22 settembre 1975, gli sparò contro. Un ex-marine, Oliver Sipple, che si trovava vicino alla donna, riuscì a spostarle il braccio e la pallottola passò sopra la testa del presidente. Due settimane prima, un’altra donna, Lynette "Squeaky" Fromme, discepola di Charles Manson - condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’attrice Sharon Tate e altre sei persone -, aveva tentato di uccidere il presidente a Sacramento. Condannata all’ergastolo, è ancora in carcere a Fort Worth, in Texas.

 

 

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