Rassegna stampa 19 gennaio

 

Giustizia: Prodi; la priorità è accelerare tempi dei processi

 

Ansa, 19 gennaio 2008

 

Romano Prodi, nel suo primo atto ufficiale da Guardasigilli, riceve a Palazzo Chigi i cinque sottosegretari alla Giustizia per fare il punto della situazione, il giorno l’assunzione dell’interim dopo le dimissioni di Clemente Mastella. Il presidente del Consiglio ha invitato i sottosegretari ad essere uniti in questo momento e a lavorare facendo gioco di squadra per accelerare i tempi della giustizia e quindi ridurre i tempi durate dei processi per venire in contro alle esigenze dei cittadini.

Ma nel frattempo si riacutizza la frattura fra l’Udeur di Mastella e l’Idv di Di Pietro. Dice il sottosegretario alla Giustizia Alberto Maritati, lasciando Palazzo Chigi al termine della riunione con Prodi: "Il presidente si prepara e si è preparato per affrontare con la massima delicatezza e serietà i problemi sul tavolo con noi ha discusso tutte le questioni essenziali. Ci ha chiesto cosa stiamo trattando nelle commissioni e quali sono i nostri progetti e le nostre proposte concrete. In particolar modo, ci ha chiesto quali sono i modi per poter accelerare i processi. All’inizio della riunione ha detto che questo è il perno della nostra azione: accelerare i tempi della giustizia. La giustizia in Italia non è possibile che sia lenta come è stato fino ad oggi".

Prodi, ha poi aggiunto il sottosegretario si è augurato un interim di "breve tempo". Ribadendo in sostanza quanto detto ieri, il premier ha auspicato le dimissioni di Mastella possano ancora rientrare, ma che ciò avvenga dopo che la magistratura abbia chiarito l’indagine che riguarda l’ex Guardasigilli.

Giustizia: Prodi ai 5 sottosegretari, serve una squadra coesa

 

Ansa, 19 gennaio 2008

 

Un incontro di poco meno di un’ora, durante il quale ha chiesto a tutti e cinque i sottosegretari di fare il punto sulle competenze di ciascuno, privilegiando la necessità di accelerare i tempi della giustizia, e sollecitando tutti a lavorare in un gioco di "squadra coesa". Il giorno dopo aver assunto l’interim come ministro della Giustizia dopo le dimissioni di Clemente Mastella, il premier Romano Prodi ha convocato a Palazzo Chigi i sottosegretari del dicastero di Via Arenula: Luigi Scotti (ex presidente del Tribunale di Roma), Luigi Li Gotti (Idv, noto avvocato, ha difeso numerosi pentiti di mafia), Luigi Manconi (Pd), Daniela Melchiorre (in area diniana, sostituto procuratore militare a Torino), Alberto Maritati (Pd).

"A tutti noi ha chiesto di lavorare facendo gioco di squadra, e di esser coesi, perché il nostro attuale ministro fa anche altro", ha riferito Maritati. "Spero di restare per breve tempo al ministero della Giustizia", ha esordito Prodi, secondo il racconto dei partecipanti all’incontro. Il premier ha così nuovamente auspicato quanto detto ieri alle Camere, e cioè che Mastella torni a Via Arenula dopo che sarà chiarita la vicenda giudiziaria che lo riguarda.

Al ministero della Giustizia, tuttavia - dove Prodi è atteso nel pomeriggio per incontrare i capi dei dipartimenti - i più stretti collaboratori del leader dell’Udeur stanno facendo gli scatoloni e stanno smobilitando. Seppure Mastella non dovesse tornare, come sembra probabile, l’interim di Prodi viene dato non di lungo periodo. Sicuramente - sostengono negli ambienti del dicastero di Via Arenula - toccherà al premier, in qualità di Guardasigilli, prendere la parola, alla presenza del Capo dello Stato, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, il prossimo 25 gennaio. Poi si vedrà.

Nel frattempo, all’interno del "gruppo coeso" dei cinque sottosegretari sembra rafforzata la posizione di Scotti. "Prodi lo ha oggi indicato come ‘senior’ del gruppo", ha riferito Li Gotti. "Ed è ragionevole e scontato che sia cosi", concorda Manconi, che fa notare: "Non solo Scotti è il più anziano d’età e di esperienza al ministero (dove negli anni Ottanta ha ricoperto l’incarico di capo dell’ufficio legislativo, ndr), ma visto che il rapporto con la magistratura è in questo momento il punto di maggiore sofferenza, l’ex presidente del Tribunale di Roma è sicuramente la persona più adatta" a ricoprire un ruolo di coordinamento del gruppo dei sottosegretari. Incarico, questo, che però - puntualizza Maritati - "non mi risulta sia stato assegnato ufficialmente".

Per favorire il gioco di squadra, i sottosegretari si avviano ad intensificare le riunioni con i tecnici del ministero, in primis con il capo di gabinetto del ministero, Stefano Mogini, designato dall’ex ministro Mastella. "Durante la prima riunione - sottolinea Li Gotti - faremo il punto sulla relazione che Prodi ci ha chiesto di stendere sui temi di competenza di ciascun sottosegretario". Informatizzazione dei processi penali e civili, i cui tempi sono proverbialmente lunghi; ufficio per il processo; situazione delle carceri italiane: giustizia minorile; gestione del personale, amministrativo e giudiziario: questi i problemi che, da oggi, Prodi si troverà sul tavolo di ministro della Giustizia.

Giustizia: Mastella; sostenetemi o ci sarà la crisi di Governo

 

Affari Italiani, 19 gennaio 2008

 

"Ad un passo dalla crisi", titola il quotidiano di partito di Clemente Mastella, Il Campanile. L’Udeur ha messo sul tavolo il suo ultimatum, prendere o lasciare: "Se martedì la maggioranza non vota una mozione di totale condivisione di quanto ha detto Mastella in aula, allora non c’è più maggioranza e i nostri voti non si contano più", dice secco il capogruppo Mauro Fabris. E la conseguenza è chiara e immediata: i tre voti dell’Udeur, essenziali a Palazzo Madama, non contribuiranno a salvare dalla sfiducia il ministro verde Pecoraro Scanio, quando mercoledì si voterà a Palazzo Madama sulla mozione della Cdl. "Ovvio che se il centrosinistra vota contro il mio ministro, noi non votiamo per il ministro di un altro partito", spiega Fabris.

A quel punto i verdi usciranno a loro volta dalla maggioranza, perché "la sfiducia a Alfonso è la sfiducia a tutto il nostro partito", dice il capogruppo Angelo Bonelli, e sarà la Caporetto dell’Unione. Neppure un galleggiatore rotto a ogni tempesta come Romano Prodi riuscirebbe a evitare l’inabissamento della zattera del governo.

La sfida di Mastella è rivolta innanzitutto a Di Pietro, per il quale sottoscrivere le parole dell’ex ministro della giustizia, con tanto di aspre critiche alla magistratura, e votarle in aula è un boccone indigeribile. "Noi quella roba non possiamo votarla. Ormai si andrà a votare ad aprile", assicura il capogruppo dipietrista Donadi. I verdi sono pronti a dare tutta la solidarietà del mondo a Mastella, in cambio di quella a Pecoraro, ma Rifondazione ha qualche problema in più: "Quella dell’Udeur è una richiesta del tutto inedita", dice Russo Spena.

La situazione, confusa quanto mai prima, è questa. E la settimana che si apre rischia di essere esiziale per Prodi, che continua a tentare disperatamente di stemperare: ripete che l’interim sarà "breve", lascia intendere che una poltrona nel governo è sempre pronta a riaccogliere Mastella, assicura che la sua relazione sullo stato della giustizia "rappresenta la posizione di tutto il governo", incontra a lungo il furioso Di Pietro e cerca di trovare una mediazione che tenga insieme il ministro ex pm e l’ex ministro neo-inquisito. Offre a Mastella di scrivere nel testo che verrà votato "che ti diamo atto di aver sempre ben operato".

Ma alla radice di tutto il caos e le tensioni ormai ingovernabili nella maggioranza non c’è l’idiosincrasia tra Di Pietro e Mastella, né la bomba giudiziaria scagliata da Santa Maria Capua Vetere, non c’è neppure l’immondizia campana e le responsabilità di Pecoraro. C’è la legge elettorale, e quel "dialogo" tra Pd e Forza Italia che Mastella (spalleggiato da Prodi) ha avversato con tutte le sue forze, per impedire una riforma destinata a penalizzare i piccoli partiti. E in molti, nella maggioranza, leggono nell’ultimatum Udeur un messaggio rivolto innanzitutto a Berlusconi, il cui succo è questo: se davvero vuoi andare al voto anticipato, con l’attuale legge, rinuncia alla trattativa con Veltroni e noi stacchiamo la spina al governo. "Il Pd di Veltroni ha sfasciato l’Unione preferendo il dialogo con Berlusconi a noi", dice Fabris. "Ora tocca a Berlusconi valutare bene cosa vuole".

Giustizia: "tagliata" scorta Mastella, ora ha "solo" 48 agenti

 

Ansa, 19 gennaio 2008

 

Dimessosi da ministro della Giustizia, Clemente Mastella non ha più diritto al massimo di vigilanza, ora passata dal livello 1 al livello 2. La scorta del leader dell’Udeur è stata dunque "tagliata": non più tre macchine al seguito ma "solo" due, mentre gli uomini della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria che vigilano sulla sua sicurezza sono passati da 18 a 12 (da moltiplicare per 4 turni sulle 24 ore). Restano ancora operative a Ceppaloni, dove risiede Mastella, 16 unità della Polizia di Stato e 32 unità della Polizia Penitenziaria, che il Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica di Benevento aveva a suo tempo assegnato per vigilare sui luoghi frequentati dall’ex Guardasigilli, che di Ceppaloni è anche sindaco.

Per revocare (o limitare) quella disposizione servirebbe una nuova riunione del Comitato Provinciale, ma a presiederlo non potrebbe essere il prefetto di Benevento, Giuseppe Urbano, sospeso dall’incarico perché indagato nell’ambito dell’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere in cui sono coinvolti Mastella, sua moglie Sandra Lonardo e i vertici dell’Udeur della Campania.

Giustizia: D’Alema; politici e giudici, non è scontro di "caste"

di Antonio Macaluso

 

Corriere della Sera, 19 gennaio 2008

 

"Politici e giudici, non è scontro tra caste" D’Alema: un errore buttare all’aria il lavoro sulla bozza Bianco. Il referendum? Non risolve Lancia l’idea di un grande patto tra le principali forze sociali del Paese; evita accuratamente di bollare le nuove tensioni tra magistrati e politici come scontro tra caste - "piuttosto esiste un problema comune di classi dirigenti" -;rilancia la necessità delle riforme sulla base della bozza Bianco e dei progetto costituzionale di cui si discute alla Camera; richiama al dialogo il mondo laico e quello cattolico.

 

Ministro D’Alema chi ha ragione, Mastella o i magistrati? Stiamo tornando al’92, alla crisi della prima Repubblica?

"Io credo sia stato completamente sbagliato in questi anni il modo dì impostare il confronto tra politica e magistratura, tra mondo economico e magistratura e così via. La chiave di interpretazione della crisi come conflitto tra poteri, corporazioni, caste - in cui quella più debole è la casta eletta dal popolo, quella politica è sbagliata. Ed un’analisi errata, che per di più eccita uno scontro corporativo, impedisce di trovare vie d’uscita. Io credo, viceversa, che ci sia una crisi della classe dirigente del Paese, un prevalere di particolarismi, a volte un venir meno della misura che è anche un venir meno dei senso della responsabilità. Il problema, dunque, mi pare più ampio e profondo. Da questo punto di vista, mentre nel ‘gela magistratura appariva come l’indice del senso dello Stato contro l’arroganza del ceto politico, oggi questa raffigurazione apparirebbe semplicistica e spesso non vera".

 

Questa inchiesta, quella che ha coinvolto la famiglia del ministro Mastella, la convince o no?

"Non conosco le carte. Dalle ricostruzioni e dalle dichiarazioni che ho ascoltato, gli arresti effettuati mi sembrano una forzatura incomprensibile".

 

Aveva ragione Berlusconi quando voleva la separazione delle carriere dei magistrati?

"Il punto non è questo. Anche perché la magistratura giudicante ha sempre dimostrato una notevole autonomia e senso dell’equilibrio. Non dimentichiamo che molti di questi casi di cui si discute finiscono con clamorose assoluzioni. Naturalmente, a volte, senza che lo si sappia e dopo aver rovinato la vita di una persona".

 

Stavolta, il ministro della Giustizia ci ha rimesso il posto.

"Un atto di serietà e responsabilità, tenuto conto che Mastella aveva avuto una grande solidarietà in Parlamento, ben al di là dei confini della maggioranza. Ha dimostrato, come in altre circostanze, di essere una persona seria".

 

Per il governo, comunque, è un duro colpo in una situazione già difficile di una maggioranza provata…

"La maggioranza è provata dal fatto di avere numeri ristretti al Senato. Proprio per questa condizione di partenza, la sua tenuta finora risulta eccezionale. E certo c’è una difficoltà del governo, c’è un’opposizione divisa, c’è una legge elettorale sub iudice. Ma io credo che l’emergenza più grave che dobbiamo affrontare, pena il rinchiudersi in un atteggiamento autoreferenziale, sia il malessere sociale del Paese. C’è una sofferenza di tante famiglie, in particolare quelle monoreddito e comunque di lavoratori dipendenti.

 

Questa situazione rappresenta anche il più grande freno allo sviluppo e al rilancio dell’economia…

Mentre recuperiamo competitività internazionale, anche in settori di tecnologia avanzata - fenomeno che impressiona all’estero - soffriamo di una contrazione dei consumi e di una caduta di aspettative. Allora è essenziale un rilancio dell’azione di governo, che coinvolga le forze fondamentali del Paese, non in una logica di contrapposizione.

Occorre intervenire sul potere d’acquisto, migliorare la condizione delle famiglie, puntare Sulla, crescita della produttività. Il governo dovrebbe promuovere un nuovo Patto tra le forze fondamentali del Paese, mettendoci di suo una riduzione della fiscalità sul lavoro, che consenta un miglioramento delle retribuzioni e un rilancio dell’innovazione e della formazione, essenziali proprio per vincere la sfida della competizione internazionale".

 

Con quali energie e risorse?

"Si tratta dì chiamare a raccolta il mondo della cultura, dell’impresa, del lavoro. Si possono mobilitare grandi risorse, penso ad esempio ad istituzioni come le Fondazioni bancarie, che già investono nella ricerca e potrebbero farlo in modo più coordinato ed efficace intorno a grandi progetti nazionali, volti a sostenere le nostre eccellenze, a potenziare le posizioni di leadership: un’azione forte di questo tipo potrebbe consentirci di affrontare meglio i rischi di una crisi internazionale di cui si avvertono le avvisaglie".

 

E la riforma elettorale? Il momento delle schermaglie è finito: ora, osi fa o si va al referendum…

"Certo. Anche se il referendum non risolverebbe, non è il giudizio di Dio. Il sistema elettorale che ne verrebbe fuori rischia di creare ulteriore confusione".

 

Meglio fare la legge, dunque..

"Certamente, ma comunque anche in caso di referendum, il Parlamento dovrebbe intervenire. La Camera ha approvato in commissione una riforma costituzionale che si ispira al modello tedesco, con il voto favorevole della maggioranza e l’astensione dell’opposizione. Il che lascia pensare che ci sia un certo grado di convergenza, se le cose hanno un senso. Questa riforma non prevede il presidenzialismo, prevede il rafforzamento dei poteri del premier e vi è inoltre un’intesa per introdurre la sfiducia costruttiva.

Ora ci si aspetterebbe, in un Paese ben ordinato, dove c’è un minimo di logica, che il Senato lavori su una riforma elettorale coerente come quella delineata nella bozza Bianco, la quale non è affatto una fotocopia del sistema tedesco, ma il tentativo di adattare quel sistema al nostro Paese, alle caratteristiche del nostro sistema politico. Operazione che ho sempre sostenuto e sostengo, essendo favorevole, ad esempio, ad un voto unico per il collegio uninominale e per il proporzionale, piuttosto che ad un doppio voto. Adesso sarebbe un errore sprecare questa opportunità, buttando all’aria il lavoro fatto alla Camera e al Senato in modo ragionevole e coerente".

 

Ma Berlusconi non ne vuole sentire parlare…

"In realtà, il problema è che non si capisce se Berlusconi voglia fare le riforme o le elezioni, non tanto il merito della legge elettorale, tema sul quale ha espresso cinque opinioni diverse nelle ultime settimane. Inviterei Berlusconi a continuare in modo costruttivo il dialogo per le riforme nell’interesse del Paese".

 

Se ci si avvierà al referendum, Rifondazione Comunista minaccia la crisi…

"Non ho sentito questa minaccia e non credo si arriverebbe a questo. Una ritorsione contro il governo sarebbe solo autolesionismo".

 

Se ci sarà crisi, esiste l’ipotesi di un governo istituzionale?

"Chi sta in un governo non fa scenari di nuovi esecutivi, è eticamente incompatibile. Stiamo lavorando per rilanciare l’azione di questo governo".

 

Anche se tanti la considerano sempre l’uomo che trama. Sabato prossimo c’è il decennale della sua Fondazione, Italianieuropei, e in molti ci vedono la nascita della corrente nel Partito democratico...

"Sono un complottatore talmente raffinato che abbiamo progettato dieci anni fa questo evento allo scopo di creare oggi una nuova corrente. Si direbbe un complotto lungimirante...".

 

Le prime mosse del Pd l’hanno convinta?

"Stiamo lavorando, discutendo, ci stiamo confrontando".

 

Litigando...

"Sbaglia e di molto chi continua a descrivere un Veltroni accerchiato da emissari dei vecchi partiti, peraltro gente eletta democraticamente. Una raffigurazione dannosa anche per Veltroni, perché lo rappresenta in balia di complottardi".

 

Ma neanche si può parlare di una brigata di vecchi amici...

"C’è discussione su molti temi come è normale nel momento in cui nasce il nuovo partito".

 

Uno dei punti delicati della discussione riguarda il concetto di laicità e, più in particolare, i rapporti con la Chiesa. Il cardinal Bertone si è spinto a dire che si trattava meglio con l’ex Pci…

"È un errore raffigurare questi problemi come esclusivamente italiani. In realtà il tema del rapporto tra agire politico, scelte legislative e fedi religiose è un problema mondiale. Basta pensare a quello che succede negli Stati Uniti o, per altri aspetti, nel mondo musulmano. Sono la stessa crisi e insicurezza nel tempo in cui viviamo e la caduta delle grandi "visioni laiche" del mondo, che hanno sorretto l’agire politico, a proporre in modo nuovo questo tema. Bisogna rifuggire dalla tentazione dell’integrismo da una parte e dall’altra. Questo vale per i laici ma anche per la Chiesa. Guai se non vedessimo quale straordinaria risorsa etica e politica sia la presenza cristiana nella società italiana, ma sarebbe anche un grave errore da parte dei cattolici considerarsi come i monopolisti dell’etica. C’è un’etica laica della responsabilità e della libertà con cui si deve dialogare. Ma proprio per questo, i laici sbaglierebbero a chiudersi in una posizione minoritaria e rancorosa. Inoltre, il legislatore non può mai dimenticare che le leggi sono per tutti e devono quindi riflettere un compromesso accettabile per tutti".

 

Domani alcuni esponenti del Pd saranno in piazza San Pietro in risposta alla chiamata del cardinal Ruini…

"Anche io una volta ho risposto all’appello ad andare in piazza San Pietro, in quel caso era per la pace. Laicamente e liberamente si può scegliere l’appello al quale aderire".

Giustizia: tortura, quel buco nero della democrazia italiana

di Stefano Galieni

 

Liberazione, 19 gennaio 2008

 

Nel marzo 2007 una notizia di quelle che avrebbe potuto aprire giornali e notiziari televisivi italiani passò pressoché inosservata nel paese, mentre ebbe grande risalto nel resto d’Europa. Mauro Palma, fra i fondatori della rivista e poi dell’associazione Antigone, era stato eletto presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumane o degradanti.

Non era un caso: in Italia si ignora quasi dell’esistenza di una struttura simile, la si considera un orpello affatto necessario. Tanto è che alla richiesta reiterata di costruire un Comitato italiano sul modello di quello europeo non si sono levate voci di entusiasmo, c’è stato chi ha fatto notare che si sarebbe trattato dell’ennesimo, costoso, inutile baraccone e chi ha alzato le mani dicendo che da noi non esistono alla fonte problemi riconducibili alla tortura istituzionalizzata. Peccato che in numerose occasioni, organismi internazionali super partes, abbiano dedicato pagine o sezioni dei propri rapporti per stigmatizzare quello che è avvenuto e continua a verificarsi in Italia in quelli che sono i "nostri luoghi oscuri" parafrasando James Ellroy.

Diritti e castigo il volume curato da Susanna Marietti e Gennaro Santoro (pp. 256, euro 10) e pubblicato dai Cantieri di Carta per le edizioni Intra Moenia, prova a sollevare il velo ipocrita che occulta una componente in crescita di queste realtà opache. Si tratta di due rapporti (2004 e 2006) sulle istituzioni totali italiane realizzati dal comitato, e arricchiti da alcune riflessioni/interviste inedite di Zygmunt Bauman, Loic Vacquant e Mauro Palma, nonché da vari contributi.

I funzionari del Comitato - il cui acronimo in Italia è per una coincidenza dal forte valore simbolico (CPT) - hanno l’autorità di entrare in qualsiasi momento lo desiderino negli istituti in cui la libertà personale è limitata: carceri, servizi psichiatrici diagnosi e cura, commissariati, questure e, appunto, Cpt.

La situazione italiana è da sempre sotto attento monitoraggio, alle visite effettuate (1995, 2000, 2004, 2006) hanno fatto seguito sempre rapporti consegnati alle autorità competenti, zeppe di valutazioni e di raccomandazioni e risposte dei governi che si sono susseguiti negli anni. A leggere i resoconti sembra di veder emergere tutti gli stereotipi di una istituzione totale: punizioni inutili, carenze e disagi che si accaniscono soprattutto sui più vulnerabili. Un campionario di nefandezze che non può essere mitigato dal linguaggio asettico con cui vengono riportati e denunciati casi singoli e collettivi e che lasciano intravedere solo una parte infinitesimale del circuito punitivo. I pestaggi alle manifestazioni di Napoli (marzo 2001), le torture di Genova, le deportazioni in Libia, le condizioni di trattenimento a Lampedusa e le sofferenze inflitte, a volte per ragioni poco chiare in carcere in regime di 41bis, sono solo alcuni fra gli aspetti affrontati.

Nonostante le visite effettuate dal Comitato fossero annunciate, i funzionari si sono trovati ugualmente di fronte a evidenti violazioni delle libertà personali. Il Comitato denuncia ogni elemento critico, ma rileva che in quest’ultima fase molte cose sono cambiate, e sembra iniziato un percorso di messa a trasparenza di luoghi e procedure. Un passo importante ma ancora insufficiente, restano infiniti buchi neri, come il sovraffollamento carcerario, la preponderante reclusione in attesa di giudizio, la insufficiente preparazione degli operatori, un regime insomma che resiste alle modifiche del proprio essere.

Nelle risposte che questo governo ha dato al rapporto pare di scorgere un progetto di rinnovamento culturale che coinvolge i centri di permanenza temporanea - si parla espressamente di riduzione dei tempi di detenzione e del loro numero - e si adombra la possibilità che il disegno di legge fermo dalla scorsa legislatura in Senato - che istituirebbe un Comitato italiano e un difensore civico indipendente dotato di ampi margini di manovra - possa divenire legge effettiva.

Ottime intenzioni che rischiano forse di essere messe a dura prova dalle recenti misure sulla sicurezza e sulle espulsioni varate dal governo e dall’intero "pacchetto sicurezza", che finirà presto all’esame del Parlamento. A maggior ragione quindi emerge la necessità di strutture di controllo nazionali, indipendenti dall’esecutivo, che abbiano la facoltà in ogni momento in cui la attività dello Stato si troverà a caratterizzarsi in maniera repressiva, di verificare in che maniera e fino a che punto i diritti umani siano stati salvaguardati, principio etico, culturale e politico basilare per uno stato realmente democratico.

Il pessimismo realista di questi ultimi anni porta a dar ragione a Bauman quando afferma - nella preziosa e densa intervista realizzata per il volume - che gli Stati, non potendo più garantire sicurezza sociale, investono nella promessa, spesso vana di una "sicurezza individuale" riservata a coloro che occupano, all’interno della società, posizioni comunque minimamente garantite. E ha ragione Imma Barbarossa, che nella breve introduzione, focalizza "un vero e proprio cambio di civiltà, di senso comune di massa [...] il concetto di una legalità intesa come difesa di egoismi corporativi. L’imprenditoria della paura che riflette un simile meccanismo, è ben lungi dal produrre sicurezza ma rabbie, infelicità e solitudini".

Sanità: Colombini; su riforma bene Governo e Parlamento

 

Comunicato stampa, 19 gennaio 2008

 

Dichiarazione stampa dell’On. Leda Colombini, Presidente Forum Nazionale per il diritto alla salute in carcere. Riforma Sanità Penitenziaria: Ora cessino le resistenze di pochi e avanzi il diritto di tutti, quello alla salute.

La legge finanziaria 2008 conferma la piena competenza dei servizi sanitari regionali nell’assicurare l’assistenza sanitaria negli oltre 200 istituti penitenziari italiani e dispone l’immediato trasferimento delle funzioni dal Ministero della Giustizia alla Salute. Dal primo di gennaio, infatti, il Ministero della Giustizia ha cessato di esercitare la competenza sanitaria per le persone detenute ed il Servizio Sanitario Nazionale, ope legis, entra di fatto nel sistema di governo del complicato mondo penitenziario.

Una straordinaria affermazione dell’universalità del diritto alla salute anche nei luoghi di detenzione. Per 50.000 cittadini momentaneamente privati della libertà personale questa decisione può rappresentare una vera e propria chiave di volta per l’avvio di un processo più ampio di riforma dell’istituzione carceraria che da ora dovrà misurarsi alla pari, e non più da una prospettiva di esclusività, con un’altra importante istituzione democratica, il Servizio Sanitario Nazionale.

Ora, così come la legge finanziaria prevede, si apre un percorso di concertazione Istituzionale/Sindacale per la ripartizione del finanziamento appostato dalla legge di bilancio (157,8 milioni di euro per il 2008 - 162,8 milioni di euro per il 2009 - 167,8 milioni di euro per il 2010), per la presa in carico ai servizi sanitari regionali della strumentazione, degli arredi e dei locali in uso per l’assistenza in carcere, per il trasferimento del personale sanitario penitenziario nel Contratto Collettivo Nazionale della Sanità pubblica; percorso che dovrà esaurirsi entro il 31 Marzo p.v. con l’emanazione di appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Sarà determinante, ad avviso del Forum e delle tante Associazioni che lo compongono, il rispetto dei tempi indicati dalla Finanziaria e l’atteggiamento costruttivo e pragmatico di tutti gli attori sociali ed istituzionali coinvolti nel percorso: i Ministri della Salute e della Giustizia, che dovranno dare coerenza e concretezza alle loro apprezzate manifestazioni di condivisione sulla riforma; la Conferenza delle Regioni, che dovrà assicurare la giusta attività di indirizzo e coordinamento per garantire condizioni omogenee e soddisfacenti per l’assistenza sanitaria in tutte le 205 carceri italiane; le organizzazioni sindacali e le Agenzie per la contrattazione nel pubblico impiego per trasferire al Servizio Sanitario Regionale gli oltre 4.000 lavoratori penitenziari ad oggi impegnati nel servizio di assistenza sanitaria in carcere.

Giustizia: Sicilia; il Presidente Cuffaro condannato a 5 anni

 

Affari Italiani, 19 gennaio 2008

 

Il Presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, è stato dichiarato "colpevole" nel processo per le talpe alla Dda di Palermo e condannato a 5 anni di reclusione. La sentenza è stata emessa dalla terza sezione penale del Tribunale, presieduta da Vittorio Alcamo. I giudici si erano ritirati in camera di consiglio alle 9.45 di mercoledì scorso.

Nel processo per le talpe alla Direzione distrettuale antimafia, il presidente della Regione era imputato di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto. Cuffaro, contrariamente a quanto egli stesso aveva annunciato, ha assistito alla lettura della sentenza nell’aula bunker di Pagliarelli.

Non mi dimetto - "Resto Presidente della Regione: non ho mai favorito la mafia. Quello che farò lo sapete già. Domani alle 8 sarò al mio tavolo da lavoro. Mi sento un po’ più confortato perché sapevo di non essere colluso con la mafia e di non aver mai atto niente per favorire la mafia. Il fatto che anche una corte per cui ho avuto grande rispetto me lo abbia riconosciuto, questo è di molto conforto.

Assieme ai miei avvocati leggeremo la sentenza e ricorreremo in appello perché anche questi residui capi di accusa possano essere spigati alla corte di appello che ci giudicherà". Questo il primo commento del presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, nell’aula bunker di Pagliarelli subito dopo la sentenza che lo ha condannato a 5 anni nel processo per le talpe alla Dda, escludendo l’aggravante di aver agevolato la mafia.

Le altre condanne - È quella dell’imprenditore della sanità Michele Aiello, condannato a 14 anni, la pena più pesante. Aiello era accusato di aver costituito una rete di informatori per carpire notizie riservate su indagini antimafia. Il maresciallo del Ros dei carabinieri, Giorgio Riolo, è stato condannato a 7 anni. Lorenzo Iannì, dipendente dell’Ausl 6, ex dirigente del distretto di Bagheria accusato di truffa sanitaria ha avuto 4 ani e 6 mesi, come il medico radiologo Aldo Carcione. L’ex vicequestore Giacomo Venezia è stato condannato a 3 anni.

Le reazioni - Palazzo Chigi non commenta la sentenza di condanna: le fonti della Presidenza del Consiglio si limitano a ribadire "il pieno rispetto per l’autonomia della magistratura".

Esprime invece soddisfazione per l’esclusione dell’aggravante del favoreggiamento alla mafia per Cuffaro il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa: "Siamo compiaciuti che già dalla sentenza di primo grado sia stata esclusa ogni forma di collusione del Presidente Cuffaro con la mafia - scrive Cesa in una nota - Nell’esprimere piena solidarietà all’amico Toto sono certo che egli saprà ulteriormente dimostrare nei prossimi gradi di giudizio la sua estraneità ai fatti contestatigli". Analogo il commento del leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: "Da sempre sappiamo che Cuffaro non è colluso con la mafia. Da oggi lo ha certificato anche un tribunale della Repubblica. Sono certo che in appello cadranno anche le altre imputazioni".

"Ieri Mastella, oggi Cuffaro", ha commentato Silvio Berlusconi, ribadendo che serve "un risanamento di tutto l’ambito giudiziario". "Credo che gli italiani esprimano già con i numeri dei sondaggi - ha aggiunto - che siamo nella piena patologia e che c’è da fare un risanamento di tutto l’ambito giudiziario molto in profondità".

Mentre il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro invita ad aver rispetto delle sentenze e della magistratura: "Non serve prendersela con la magistratura che fa semplicemente il proprio dovere. Bisogna impedire che si arrivi davvero alla crisi della democrazia. E l’unica soluzione è quella di mettere a punto un codice etico da proporre come patto con gli elettori".

Il presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, nel processo per le talpe alla Dda, era accusato di quattro tipi di reato per due episodi diversi. I reati sono il favoreggiamento, semplice e aggravato, e la rivelazione di segreti delle indagini, semplice e aggravata dall’agevolazione di Cosa Nostra. In origine i fatti contestati erano tre, ma poi i pm Maurizio De Lucia e Michele Prestipino, durante la requisitoria, avevano dichiarato di voler circoscrivere le accuse solo ai due rimasti, e cioè le fughe di notizie che hanno agevolato il medico-boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, e l’imprenditore della sanità, Michele Aiello, ritenuto dagli inquirenti un prestanome di Bernardo Provenzano.

L’episodio Aiello è descritto ai capi N e O della rubrica del processo. La prima contestazione è in concorso con altre persone, "per il delitto di cui agli articoli 110, 81 capoverso e 326 codice penale, per avere - con più azioni

esecutive del medesimo disegno criminoso - in concorso con altri soggetti ignoti e con Borzacchelli Antonio, maresciallo dell’Arma in aspettativa perché eletto deputato dell’Assemblea regionale siciliana, rivelato ad Aiello Michele, anche con l’intermediazione di Rotondo Roberto, notizie che dovevano restare segrete perché concernenti i procedimenti e le attività di investigazione in corso nei confronti dello stesso Aiello, di Ciuro Giuseppe e di Riolo Giorgio. In Palermo e Bagheria, il 20 ed il 31 ottobre 2003".

Giustizia: Contrada; ricorso in Cassazione per differimento

 

Affari Italiani, 19 gennaio 2008

 

I legali di Bruno Contrada hanno presentato ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale di sorveglianza di Napoli di respingere il differimento dell’esecuzione della pena per gravi motivi di salute dell’ex funzionario del Sisde, che è detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere per scontare una condanna a 10 anni per concorso in associazione mafiosa.

Nella richiesta, l’avvocato Giuseppe Lipera scrive che "non si può negare che Contrada versi in una condizione di gravità dell’infermità fisica", che "il suo diritto alla salute è stato violato" e che "si è palesemente lesa la sua integrità fisica e la sua salute". Il penalista ricorda anche che "i medici del carcere sostengono reiteratamente che le condizioni di Contrada sono incompatibili con la detenzione". Secondo il legale "il tribunale ha seguito un percorso non corretto nel giudicare lo stato di salute di Contrada perché non ha tenuto in considerazione il quadro clinico complessivo, ma ogni singola patologia". Nelle richiesta si chiede infine che il ricorso "venga trattato con la massima sollecitudine, viste le gravissime patologie e l’età avanzata di Contrada"

Gran Bretagna: misure alternative e sorveglianza elettronica

di Floriano Fattizzo (traduzione)

 

The Indipendent, 19 gennaio 2008

 

Il Ministero della Giustizia inglese sembra interessato ad utilizzare una nuova tecnologia satellitare per affrontare il problema della sicurezza dei cittadini e della sovrappopolazione carceraria. Delle minuscoli "pulci elettroniche" sarebbero inserite chirurgicamente sotto la pelle dei criminali sottoposti a misure alternative al carcere per controllare i loro spostamenti e il rispetto delle prescrizioni orarie.

Gli spychips sono minuscoli microchip, grandi quanto due chicchi di riso, che utilizzano la tecnologia Rfid, che verrebbero impiantate sottopelle sul retro di un braccio con un ago ipodermico. Contengono in una capsula di vetro il microchip, un’antenna di rame ed un trasmettitore che viene attivato quando si trova nelle vicinanze di un apposito lettore. Attualmente vengono utilizzati prevalentemente su animali domestici o bagagli, di modo che sia possibile rintracciarne la posizione in qualunque momento.

Il monitoraggio, per via satellitare (simile a quello già in funzione per la ricerca delle auto rubate), secondo gli esperti del ministero della giustizia britannico, permetterebbe una sorveglianza continua e potrebbe essere una valida risposta alla sovrappopolazione delle prigioni. Sul fronte delle prigioni, la situazione è abbastanza grave: la popolazione carceraria cresce vertiginosamente, e già si progettano tre enormi prigioni da costruire entro il 2014.

Attualmente il monitoraggio avviene tramite bracciali posti alla caviglia con tecnologie di telefonia mobile, su 17 mila individui (sia condannati che n attesa di giudizio), ma nonostante questo almeno 2000 criminali all’anno eludono la sorveglianza.

Le violazioni sono passati da 11,435 nel 2005 a 43,843 nel 2006 - un aumento di 283 %. Tale sistema di sorveglianza , che si sostiene sulla tecnologia del portatile, può essere difettoso ad esempio quando c’è un guasto nella rete. Inoltre sperimentazioni di controllo satellitare sono state accantonate dopo che lo scorso anno un rapporto ne aveva evidenziato l’inaffidabilità. Tale sistema di " prigione senza sbarre" non riusciva ad esempio a rintracciare gli utilizzatori di tali dispositivi quando erano all’ombra di costruzioni alte.

La prospettiva di poter utilizzare gli spychips nell’ambito dell’esecuzione penale, è considerata da alcuni entusiasmante, secondo la logica preferita dal mondo politico, sicurezza = controllo, e quindi massimo controllo = massima sicurezza. L’esperienza però insegna che questo è solo un lato della medaglia. Tale proposta sta sollevando da più parti dubbi e critiche in merito alla effettiva praticabilità e ai suoi risvolti etici.

I dettagli di questa opzione, tesa a rafforzare la sorveglianza dei criminali britannici, ha determinato una forte reazione degli operatori di probation e delle associazione per la tutela dei diritti civili. Per Shami Chakrabarti, direttore di Liberty, intervistato dall’Indipendent, affrontare i problemi della Giustizia in questo modo non solo non faciliterà la riabilitazione di chi commette un reato ma si rivelerà poco utile anche per garantire la sicurezza dei cittadini. Per Harry Fletcher, della National Association of Probation Officers, questa è una delle tante idee che ogni tanto nascono nel dipartimento, ma usare "l’etichettatura elettronica" sulle persone allo stesso modo dei nostri animali domestici non può essere la strada da seguire. Trattare la gente in questo modo non sembra un progresso del sistema.

Tra gli oppositori al progetto c’è chi sostiene che tale tecnologia non è infallibile e non è stata ancora sperimentata a sufficienza. Si prevede che prima o poi compariranno uno o più escamotage che permetteranno di aggirare la sorveglianza, estraendo il microchip o disattivandolo come sostiene Liz McIntyre, esperta in materia di privacy, che un suo collega è già riuscito a compiere una clonazione: "Può scontrarsi con una persona con il microchip e assorbire il suo segnale in pochi secondi".

Altri sostengono inoltre che l’informazione, per quanto utile, è limitata: sapere dove si trova una persona non equivale a sapere cosa sta facendo in quel momento. Un crimine può avvenire anche in una zona non necessariamente etichettata come "pericolosa" (ovvero scuole, parchi giochi e le precedenti abitazioni).

La VeriChip Corp., l’azienda a capo del mercato americano, ha venduto 7.000 microchip Rfid in tutto il mondo, che a loro dire vengono già oggi usati in differenti settori: sanità, industrie, istituzioni governative. I microchip sono stati anche usati per verificare se un VIP all’entrata di un night club è già registrato: in questo caso il prezzo delle consumazioni viene detratto da un conto prepagato. Ma già si pensa al futuro: impianti che possono vibrare, trasmettere messaggi, scatenare piccoli elettroshock o funzionare da microfono per la ricezione delle conservazioni. Per Liz Mc Intere, la gente potrebbe stupidamente ignorare tutti questi svantaggi e incubi futuristici dato che l’etichettatura viene proposta per i criminali come gli assassini e gli stupratori. Ma noi potremmo essere i prossimi.

Afghanistan: i dannati di Bagram, ecco l’altra Guantanamo

di Ivan Bonfanti

 

Liberazione, 19 gennaio 2008

 

Sono passati sei anni dal 12 gennaio del 2002, quando la prima tuta arancione fece la sua comparsa nella base navale americana di Guantanamo. Il carcere allestito dalle autorità Usa nell’enclave statunitense a Cuba non è però l’unico centro di detenzione oggetto di polemiche e dell’attenzione dei gruppi per i diritti umani; lo scandalo delle torture nella prigione irachena di Abu Ghraib, i centri segreti in Polonia e Romania, i rapimenti di sospetti e le extraordinary renditions nei Paesi alleati, i trasferimenti di prigionieri nelle prigioni di regimi amici mediorientali per sottoporli ai "trattamenti speciali", torture e vessazioni. E poi "l’altra Gitmo", come viene chiamata un’altra base americana consacrata a rinchiudere i prigionieri della guerra al terrorismo, quella nell’antica città di Bagram, a Nord Est di Kabul, nel mezzo del turbolento Afghanistan.

Un centro di detenzione in tutto e per tutto simile a quello di Guantanamo. Solo che a Guantanamo i riflettori sono entrati e qualche cosa è stato cambiato. A Bagram tutto è rimasto come sei anni fa. Era stato messo in piedi con lo scopo ufficiale di "monitorare" le attività della guerriglia, ovvero un centro per i primi interrogatori dei sospetti, una specie di anticamera per Guantanamo. È diventato una centro di prigionia a sé stante e ospita attualmente 630 prigionieri. E a sentire i racconti di chi ne è uscito le condizioni non sono diverse da quelle, atroci, a cui sono sottoposti i prigionieri a Guantanamo.

Nella primavera del 2005, a seguito di accuse, poi fondate e documentate, che hanno messo in luce episodi di detenuti morti, torture e casi di strane "sparizioni" di prigionieri, gli Stati Uniti pressati dal Congresso hanno cercato di passare al governo afghano il controllo del centro. Solo che grazie a una serie di cavilli burocratici e amministrativi la prigione è rimasta all’oggi sotto controllo americano.

E allo stesso modo, secondo un recente documento confidenziale dell’International Committee od the Red Cross, (Icrc - la Croce Rossa Internazionale), a Bagram continuano anche le torture e il maltrattamento dei prigionieri. Il rapporto della Icrc cita "un regime carcerario oppressivo", mancanza di informazioni sulle basi legali della detenzione, "prigionieri lasciati per giorni e settimane in isolamento" e "sottoposti in alcuni casi a trattamenti crudeli vietati dalle Convenzioni di Ginevra".

I nomi degli arrestati non vengono comunicati neppure alle famiglie, alcuni "vengono nascosti durante le ispezioni della Croce Rossa alla prigione". "Bagram è come Guantanamo, né meglio né peggio - conferma Hina Samshi della American Civili Liberties Union (Aclu) - e l’amministrazione Bush non si è accontentata di limitare il suo regime di detenzioni illegali a Guantanamo, l’ha voluto ribadire anche con Bagram".

Le prime accuse su Bagram emersero all’inizio del 2005, quando il New York Times ottenne un documento di 2mila pagine dell’esercito Usa riguardante la morte di due civili afghani disarmati, morti sotto custodia dei militari a Bagram nel 2002. La successiva precisazione delle autorità, "sono morti per cause naturali", fu presto sconfessata da un’altra indagine del maggiore quotidiano di New York, che raccolse testimonianze e prove che misero in evidenza come le due morti avvennero per omicidio.

Anche i giudici militari alla fine conclusero che si trattò di omicidio; i prigionieri vennero incatenati, appesi a dei ganci e infine percossi fino alla morte. Le autopsie rivelarono traumi di entrambi i prigionieri alle gambe, con i medici che descrissero un trauma così forte da essere paragonato all’investimento da parte di un autobus. L’indagine che in seguito venne portata avanti dalla Corte militare riconobbe colpevoli 28 persone, tra soldati e riservisti, accusandoli di comportamenti criminali e chiedendo pene detentive per "omicidio negligente", quello che nel codice italiano è l’omicidio colposo.

Anche grazie a questa vicenda, gli Stati Uniti decisero di costruire in Afghanistan un nuovo carcere che rispondesse agli standard internazionali, con una operazione da 30 milioni di dollari che incluse addestramenti specifici per le guardie locali, porte aperte agli ispettori internazionali, un team di esperti legali per prevenire ogni possibile obiezione dei gruppi per i diritti umani. Ma il problema è che in Afganistan si combatte e allargare le prigioni non basta per ospitare sempre più prigionieri.

E così il nuovo carcere si è riempito in fretta mentre i 630 di Bagram sono rimasti lì. Anche perché gli afghani hanno rifiutato di includere il benché blando status di "enemy combatant", coniato dall’amministrazione Bush per i detenuti di Guantanamo. Quelli di Bagram non hanno neppure quello; sono tenuti rinchiusi e basta. Ufficialmente sotto controllo afghano, nei fatti sotto la sorveglianza dei militari americani.

"Certo, dopo lo scandalo di Abu Ghraib e dopo l’approvazione, da parte del Congresso, della risoluzione Detainee Treatment Acty del 2005 le cose sono un po’ cambiate anche a Bagram - riconosce Samshi di Aclu - ma senza la definizione di una legislazione adeguata e tenendo aperte queste strutture i tragici errori del passato rischiano di ripetersi ogni giorno. Anche perché temo che non tutti i prigionieri siano sottoposti allo status previsto dall’Atto congressuale. Del resto - precisa l’attivista Usa per i diritti umani - sappiamo che la Cia ha avuto sotto il suo controllo i cosiddetti prigionieri fantasma, gente detenuta in segreto, nascosta persino alla Croce Rossa Internazionale, detenuta in un complesso chiamato "la cava del sale" in Afghanistan, un luogo che continua ad essere tenuto in un oscuro e inquietante alone di mistero".

La settimana scorsa una Corte Usa ha respinto il ricorso dei quattro cittadini britannici detenuti a Guantanamo, stabilendo in sostanza il "non luogo a procedere" contro i responsabili del Pentagono e le autorità militari che i quattro avevano chiamato in causa accusandoli di aver praticato torture e violenze. I quattro furono tenuti a Guantanamo per oltre due anni senza accuse ufficiali e senza prove della loro colpevolezza. Una volta fuori avevano chiesto 10 milioni di dollari di rimborso contro Rumsfeld e compagnia, ma secondo i giudici gli ex prigionieri non hanno diritto di citare in giudizio le autorità Usa.

Il sesto anniversario della prigione di Guantanamo - argomento ignorato da tutti i candidati alla nomination per la Casa Bianca - è stato invece accolto da Amnesty International (Ai) per rilanciare la campagna per chiudere il centro di detenzione. Col sostegno di oltre 1.200 parlamentari di ogni parte del mondo, Ai ha presentato all’amministrazione statunitense un piano d’azione per porre fine alle detenzioni illegali. Il piano d’azione, si legge in una nota, consiste in 13 raccomandazioni per far cessare queste pratiche che violano i diritti umani, senza compromettere la capacità del governo di combattere il terrorismo.

A Guantanamo tuttavia non sembra tirare aria di chiusura. Anzi, la trasformazione da prigione provvisoria a centro di detenzione dall’aspetto permanente è stata completata nello scorso con l’apertura di Camp 6, un carcere da 160 posti costato 37 milioni di dollari. Il 66% dei prigionieri - due su tre - adesso sono rinchiusi a Camp 5 e 6, in strutture che ricordano le prigioni federali americane (non a caso sono ispirate rispettivamente a un carcere dell’Iowa e alla prigione di Lenawee, in Michigan). Un altro piccolo contingente si trova ancora nei più vecchi campi 1 e 4, mentre i 2 e 3 sono ormai vuoti.

"Da qualche parte nelle due prigioni - spiegava tempo fa l’Ansa durante una visita in esclusiva alle installazioni - ci sono personaggi che fino al settembre 2006 erano chiusi in celle della Cia di cui l’America negava anche l’esistenza: lo stratega dell’11 settembre Khalid Sheikh Mohammed, il suo braccio destro Ramzi Binalshibh, il terrorista asiatico Hambali e altri 11 presunti leader di Al Qaida, che presto compariranno per la prima volta di fronte a una corte a Guantanamo per valutare il loro status di combattenti nemici". Degli 800 detenuti arrivati a Guantanamo in 5 anni, metà sono stati trasferiti nei loro paesi o rilasciati e altri 85 sono già stati dichiarati pronti a lasciare la base. Per i 300 che restano, i "duri e puri" che hanno rifiutato qualunque collaborazione con le autorità militari americane, si profila un futuro da sepolti vivi.

 

 

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