Rassegna stampa 14 gennaio

 

Bari: detenuto di 32 anni muore suicida nel carcere di Trani

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 14 gennaio 2008

 

Un detenuto tarantino - Andrea Mongelli, di 32 anni - si è tolto la vita impiccandosi in una cella del carcere di Trani. È avvenuto ieri sera ma se n’è avuta notizia solo oggi. L’uomo fu arrestato alla fine di aprile del 2007 per un tentativo di rapina compiuto tenendo in ostaggio il figlio di un poliziotto e minacciandolo con una siringa per farsi consegnare denaro. Per questo era stato condannato a 8 anni di carcere in primo grado.

A quanto si è appreso, Mongelli era rimasto solo in cella perché il suo compagno era stato trasportato d’urgenza in ospedale per un attacco di appendicite e si è impiccato alle sbarre legandosi attorno al collo il lenzuolo della branda su cui dormiva. Quando gli agenti di Polizia penitenziaria lo hanno trovato, l’uomo era già morto. Il Pubblico ministero di turno ha disposto l’autopsia, che sarà eseguita domani, per stabilire con certezza se si sia trattato di un suicidio.

Lo scorso anno, Mongelli seminò il panico nella frazione di Lido Azzurro, prendendo in ostaggio un bambino e minacciandolo con una siringa per costringere il genitore a consegnargli una somma di denaro. L’uomo non sapeva che di fronte a lui c’era un agente di Polizia fuori servizio. Successivamente, Mongelli si dette alla fuga contromano sulla strada statale Taranto-Grottaglie, ma fu inseguito e catturato.

Giustizia: criminalità, quando la percezione diventa reale

di Ilvo Diamanti

 

La Repubblica, 14 gennaio 2008

 

La Commissione Affari Istituzionali, presieduta da Luciano Violante, nei giorni scorsi ha invitato i direttori delle testate giornalistiche e delle reti televisive nazionali a spiegare perché la paura della criminalità continui a crescere mentre il fenomeno tende a ridimensionarsi.

Implicita - e neanche troppo - l’idea che la principale responsabile sia l’informazione televisiva. L’iniziativa ha provocato, da parte dei direttori e dei dirigenti radiotelevisivi, reazioni irritate. Largamente comprensibili e, a nostro avviso, giustificate. Tuttavia, la questione è sicuramente importante. E merita di essere affrontata, una volta di più.

Partendo dal problema di base: il divario fra i dati e le percezioni. Esiste davvero? A nostro avviso sì. L’abbiamo sostenuto altre volte e lo ribadiamo in questa sede. Anche se le statistiche variano, in base alla fonte e al dato rilevato. Si tratti del ministero dell’Interno, dell’Istat, di Eures-Ansa, delle autorità giudiziarie oppure, direttamente, delle Forze dell’ordine.

Comunque, negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell’insieme, non è cambiato. Semmai, in alcuni casi, particolarmente significativi, è calato. Dal 1991 al 2006, gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo (ministero dell’Interno): da 3,3 a 1,1 per 100mila abitanti. I furti in abitazione sono passati dallo 3,6 a 2,4 per mille abitanti. Gli scippi da 1,3 a 0,4 per mille abitanti. Sono cresciute, invece, le rapine: da 0,7 a 0,9 per 1000 abitanti. La percezione della minaccia criminale, invece, negli ultimi dieci anni è cresciuta in modo prepotente.

Nel 1997, l’Osservatorio Ispo (curato da Renato Mannheimer) faceva emergere come il 16% degli italiani indicasse la "criminalità" fra i due problemi più urgenti da affrontare. Due anni dopo, la quota di persone che riteneva urgente lo stesso problema raddoppiava: 35%. Più o meno la stessa percentuale rilevata nel 2002 (in una lista di temi un po’ diversa) da Demos. La cui indagine più recente (novembre 2007) pone la "criminalità" al primo posto fra le preoccupazioni degli italiani (40%).

Aggiungiamo che questa tendenza non è specificamente italiana, ma da noi risulta più acuta che altrove. Nell’indagine di Eurobarometro, condotta nello scorso autunno, la criminalità è considerata un problema prioritario dal 24% della popolazione, nell’insieme dei 27 Paesi della Ue; un dato stabile rispetto alla rilevazione primaverile. In Italia la stessa preoccupazione è, invece, denunciata dal 33% dei cittadini. Cinque punti percentuali in più rispetto al precedente sondaggio.

Il divario fra la misura e la percezione della criminalità, a nostro avviso, esiste. Ma spiegare l’insicurezza come un prodotto dell’informazione televisiva è sicuramente sbagliato.

In primo luogo, si tratta di una lettura riduttiva, fondata su termini e concetti che, negli ultimi anni, hanno cambiato significato, in modo profondo. Per quel che riguarda il fenomeno della "criminalità", le comparazioni con il passato sono improprie (lo ha notato, di recente, Nando Pagnoncelli). Trascurano il peso, dominante, dei reati che minacciano l’intimità, il domicilio, l’incolumità delle persone. Riassunti nelle definizioni di "microcriminalità" o di criminalità "comune". Ma per la gente "comune" questi reati, commessi negli ambienti di vita quotidiana, costituiscono, la vera "macro-criminalità". Gli stessi omicidi volontari (dimezzati dal 1990 al 2005: da 1695 a 601: Rapporto Eures-Ansa, 2006), d’altronde, avvengono soprattutto nella cerchia familiare e amicale (40%). Il senso di insicurezza è, quindi, cresciuto perché i reati di gran lunga più diffusi ci insidiano direttamente, da vicino. Personalmente. Noi, la nostra casa, i nostri cari.

Anche per quel che riguarda le responsabilità dell’informazione televisiva, occorre precisare. Di certo, la televisione è, oggi, il primo e principale mezzo di informazione. L’87% degli italiani afferma di seguire, ogni giorno, le notizie in tivù (Demos-coop, novembre 2007). Tuttavia, lo spazio dedicato dai telegiornali alla "nera" è limitato. Si va dal 2-3% del tempo complessivo, nel 2007, su Tg1, Tg3 e Tg4, fino al 4-5% sul Tg2 e su Studio Aperto (dati Geca Italia). Una frazione troppo piccola per incolparli di aver distorto la percezione degli italiani. È, semmai, utile allargare il campo all’intero sistema della comunicazione. Per quel che riguarda la televisione: ai rotocalchi di approfondimento, ai programmi che miscelano informazione e intrattenimento, alle trasmissioni popolari del pomeriggio e del mattino. È qui che i delitti di vita quotidiana occupano maggiore spazio. Al punto da divenire sequel di successo.

Inoltre, non dobbiamo trascurare gli altri media. I quotidiani e i settimanali. Non solo perché si rivolgono a un settore particolarmente informato. Ma perché, da quando si è affermata l’informazione su Internet, intervengono sui fatti, in tempo reale. Perché, inoltre, i giornalisti televisivi impostano i notiziari incalzati (e influenzati) dalle edizioni on-line dei quotidiani e dai Tg delle reti satellitari (Sky e Rai-News 24, in primo luogo).

Tuttavia, ricondurre lo scarto fra realtà ed emozione al ruolo (e alle responsabilità) dell’informazione significa ignorare almeno altri due "colpevoli". Altrettanto significativi. Il primo è il cambiamento del paesaggio urbano e sociale. Il rarefarsi delle reti di solidarietà, dei contatti personali, della fiducia. Le risorse che rendevano più "sicuro" il mondo intorno a noi. Ne abbiamo parlato altre volte: quando non conosciamo chi abita intorno a noi, viviamo chiusi in casa, blindati (porte, finestre, mura), armati, difesi da cani da guardia che ci separano dagli altri; quando il territorio circostante diventa inguardabile e inospitale.

Allora, è difficile non sentirsi inquieti, impauriti. Sperduti. Allora i media diventano sempre più importanti, perché costituiscono il principale, spesso unico canale di relazione con il mondo. E trasferiscono in casa nostra il mondo, con i suoi molteplici motivi di tensione e di paura.

Il secondo "colpevole" è l’ambiente che, nei giorni scorsi, ha "chiamato a rapporto" l’informazione radiotelevisiva: la classe politica. Perché, da un lato, usa la sicurezza e l’insicurezza come armi improprie, per catturare consensi. Alimentando e usando le paure come bandiere e, spesso, come clave. Mentre, dall’altro, non è estranea al sistema mediatico. Al contrario. I politici: sui media, li incontri ovunque.

Soprattutto in tivù. Quando si discute di immigrazione e del costo della vita. Quando irrompono i rifiuti di Napoli. Ma anche nella saga infinita dei delitti "di fuori porta". A Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. I politici: pronti a tutto pur di conquistare qualche minuto sugli schermi. Basterebbe chiedere ai direttori delle testate radiotelevisive (giornalistiche e non) quante telefonate ricevano, ogni giorno, da politici (destra o sinistra, non c’è differenza) bramosi di esternare i loro sentimenti e le loro opinioni sui fatti del giorno. In altri termini: di apparire.

Dietro allo scarto fra le misure e la percezione dell’insicurezza, quindi, non ci sono i tg o la tivù in sé. Ma il diverso rapporto fra comunicazione, informazione e vita quotidiana. Che è divenuto diretto e immediato. Le informazioni fluiscono in tempo reale e raggiungono le persone in ogni momento. Per cui, viviamo in un eterno presente. Gli eventi fluiscono, senza soluzione di continuità. Qualcuno sovrasta gli altri. Per una settimana, un giorno, magari un solo minuto.

Il ruolo di chi fa informazione, nel mondo dell’iperinformazione, per questo, è determinante. Nella babele di notizie, che fluiscono senza sosta, i media fissano il punto su cui si concentra l’attenzione di tutti. Come una torcia nella notte - ha suggerito Zygmunt Bauman - illuminano un fatto, un evento, una persona. Assecondati, anzi, sollecitati dal sistema politico, che da tempo ha sostituito la partecipazione con la comunicazione. E ha bisogno di dare un volto, un’identità, un nome all’incertezza incerta che alita nell’aria. E inquieta tutti. Certo, la realtà conta, ci mancherebbe. Ma, per "imporsi", deve bucare la notte.

Incendiare il buio. Altrimenti la notte, dopo un po’, cala di nuovo e inghiotte tutto e tutti. È questo il pericolo da evitare: che la "percezione" sia l’unico "fatto" significativo. Come ha rammentato Ezio Mauro, nel suo viaggio a Torino, intorno alla Thyssen. Dove ha incontrato gli operai. Invisibili, da tempo. Per diventare visibili hanno dovuto bruciare. In sette. Come torce. Ora che si sono "spenti", c’è il rischio che il buio li inghiotta di nuovo.

Giustizia: Turco; superare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari

 

Agi, 14 gennaio 2008

 

"Bisogna superare gli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) con il trasferimento della sanità penitenziaria dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello della Salute". Lo ha detto il ministro della Salute Livia Turco intervenendo, oggi, a Torino, ad un convegno sulla salute mentale, all’ospedale Molinette. "Questo significa - ha aggiunto il ministro Turco - che il servizio sanitario tornerà ad occuparsi della salute dei detenuti". Il ministro ha poi annunciato che è in preparazione la Seconda Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale. "Il tema centrale - ha spiegato - è una società che si faccia carico dei malati psichiatrici, perché siamo tutti poco normali e dobbiamo insieme costruire una normalità diversa. Bisogna combattere lo stigma - ha aggiunto - perché non è vero che una società è divisa tra normali e non normali. Tutti - ha concluso - siamo esposti alla fragilità".

Giustizia: Adriano Sofri in Tv; le galere sono discariche...

 

Corriere della Sera, 14 gennaio 2008

 

Le carceri "sono una specie di discarica, se pensiamo alla raccolta differenziata l’ultimo sacchettino, il più disgustoso, contiene il detenuto". Così Adriano Sofri in diretta tv, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa su Raitre. "Sono posti orribili, in cui l’impresa eroica è uscire vivi e migliorati nonostante la galera non grazie a" si è scaldato l’ex militante di Lotta continua condannato a 22 anni di galera per l’omicidio del commissario Calabresi, e ora detenuto a casa sua, a Firenze.

Adriano Sofri ha poi aggiunto: "Non mi aspettavo di andarci in tarda età, lo avevo messo in conto da giovane ma non mi aspettavo certo di andare in carcere in tarda età". "Permettimi di salutare i detenuti che stanno in una galera in cui ho vissuto nove anni e in cui forse tornerò a vivere. Vorrei aggiungere che i detenuti avrebbero una straordinaria predisposizione ad aiutare il prossimo".

Lasciata alle spalle la vigilia di polemiche nel centrodestra per la sua partecipazione al programma, Sofri ha conversato con il conduttore negli studi Rai a Milano. Una chiacchierata a tutto campo: dalla guerra di Bush in Iraq al ‘68 "da non celebrare ma tantomeno da denigrare", il problema dei rifiuti metafora più reale possibile dell’ambiente che non custodiamo più, l’amico Massimo D’Alema e il ricordo di Alexander Langer, il saluto ai compagni detenuti in quelle discariche umane che sono le carceri e le buone intenzioni che non sai mai dove ti possono portare, Gesù e il Vangelo.

Vittime del terrorismo: "amareggiati" - A caldo, subito dopo l’intervista, Bruno Berardi, presidente dell’associazione parenti delle vittime del terrorismo e della mafia, si è detto "amareggiato". Chiediamo al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che è il sommo custode dei diritti di tutti, di intervenire, come fece in precedenza per un’intervista a Franceschini sempre in tv. Bisogna fermare questa offesa alle vittime del terrorismo sulle reti della tv di stato", ha concluso Berardi.

Giustizia: Napolitano; niente grazia a chi vuole l'assoluzione

 

Corriere della Sera, 14 gennaio 2008

 

Sul caso della grazia a Bruno Contrada "non vi è stata alcuna marcia indietro, come si è volgarmente affermato da qualche parte, né tantomeno ho subito condizionamenti di sorta". La precisazione, pesantissima, è del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che risponde a una lettera inviata dal senatore di An Gustavo Selva. Nella missiva il senatore difende l’ex capo del Sisde di Palermo, condannato con sentenza definitiva a dieci anni di carcere, e richiede la concessione d’ufficio della grazia.

Sia chiaro, scrive Napolitano, che "non ha la grazia chi pretende l’assoluzione". Chi quindi si professa innocente e ingiustamente condannato non può avere la grazia. "Nella sua ieri mi chiede di concedere di ufficio la grazia al dottor Bruno Contrada, comunicandomi che questi le ha dichiarato, con decisa determinazione, che non presenterà mai domanda di grazia né ha mai autorizzato alcuno a farlo in sua vece: e ciò in quanto egli si sente in scienza e coscienza innocente dalle colpe che hanno portato alla sentenza definitiva di condanna".

"Quanto esposto nella sua lettera è in linea con le dichiarazioni più volte rese a organi di stampa da Contrada e dal suo legale - prosegue Napolitano - Questi, dopo avermi trasmesso - il 20 dicembre scorso una "implorazione in favore di Bruno Contrada", ha successivamente assunto che essa non andava considerata come domanda di grazia, ma solo come sollecitazione al Capo dello Stato perché attivasse motu proprio la procedura per l’atto di clemenza; ha inoltre precisato l’ intenzione - sua e del Contrada - di presentare ricorso per la revisione della condanna ritenuta profondamente ingiusta".

"Nell’esercitare il potere costituzionale di concedere le grazie e commutare le pene - scrive il capo dello Stato - mi sono sempre doverosamente attenuto ai principi indicati dalla Corte Costituzionale e ai precedenti che non fossero in contrasto" con quanto espresso nella sentenza della Consulta del 2006.

Quanto alla grazia che l’esponente di An sollecitava per Contrada, ritenendolo innocente rispetto all’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa che ha portato alla sua condanna, Napolitano ricorda che "la grazia non può mai costituire un improprio rimedio, volto a sindacare la correttezza della decisione penale adottata dal giudice". Non può essere, quindi, una scelta che va a "correggere" una sentenza penale, un quarto grado di giudizio. Ci sarebbe, in questo caso, un conflitto tra poteri dello Stato.

"È questa la ragione per la quale, nel prendere doverosamente atto che, a seguito delle dichiarazioni di Contrada e del suo legale, la "implorazione" dell’avvocato non doveva essere configurata come domanda di grazia, ho comunicato al Ministro della Giustizia, il 9 gennaio scorso, che la procedura aperta su quella base non poteva dunque avere ulteriore corso: non vi è stata pertanto alcuna "marcia indietro", come si è volgarmente affermato da qualche parte, né tantomeno ho subìto condizionamenti di sorta".

E infine, a proposito delle critiche di Selva circa la fondatezza della sentenza definitiva di condanna, "è evidente l’impossibilità per il Presidente della Repubblica di raccoglierle a qualunque titolo, esprimendo valutazioni indebite su una decisione della magistratura".

Giustizia: Sofri e Contrada sono... due "detenuti speciali"

di Domenico Giugni e Giuseppe Giliberti

 

L’Occidentale, 14 gennaio 2008

 

Le prigioni italiane sono di nuovo traboccanti. A breve il numero dei detenuti tornerà a superare quota 50.000 e l’effetto dell’indulto, in sostanza, svanirà del tutto, con buona pace di sostenitori e detrattori. Le polemiche che sono nate intorno ad un provvedimento, dapprima sostenuto e poi improvvisamente rinnegato dalla stragrande maggioranza delle forze politiche, verranno così restituite a quella sorta di oblio ad intermittenza in cui, del resto, da tempo versa anche la disastrosa situazione delle nostre carceri.

Ci sono, dunque, 50.000 detenuti, ma l’attenzione della stampa, della politica e della magistratura sembra concentrata soprattutto su due di loro: Adriano Sofri e Bruno Contrada. I destini, per molti versi simili e sotto altri aspetti opposti dell’ex leader di lotta continua e dell’ex funzionario del Sisde negli ultimi tempi si sfiorano di continuo, per poi riprendere, come se nulla fosse, ciascuno la propria strada.

Il caso ha voluto ancora una volta che, proprio mentre il Quirinale faceva sapere di aver revocato la procedura, avviata alla vigilia di Natale, per la concessione della Grazia a Bruno Contrada, la Rai confermasse che Adriano Sofri avrebbe concesso un’intervista in diretta nel corso della trasmissione "Che tempo che fa".

Accostare in questo modo due vicende così complesse e a loro modo drammatiche è brutale e, probabilmente, è il frutto di una semplificazione eccessiva e sbagliata. Eppure la coincidenza di oggi non è di certo l’unico tratto che accomuna le due storie, che, nel clamore degli episodi di cronaca da cui sono scaturite, come nel farraginoso iter giudiziale, presentano sorprendenti analogie.

Il processo di Sofri per l’omicidio Calabresi, esattamente come quello di Contrada per associazione mafiosa, è durato troppo a lungo ed entrambi sono passati attraverso continui ribaltamenti di verdetti che sembravano rimbalzare di Tribunale in Corte d’Appello, con ripetuti interventi della Corte di Cassazione, per poi chiudersi nell’incertezza del giudizio di rinvio. Il funzionario del Sisde, come il leader di lotta continua, si è sempre professato innocente ed il primo, al pari del secondo, è stato condannato in base a testimonianze sulla cui attendibilità si è discusso molto nelle aule giudiziarie, e ancor di più tra giornali e televisione.

Del resto, gli stessi reati contestati, quello di concorrente "esterno" in associazione di stampo mafioso per Contrada e quello di mandante "morale" dell’omicidio Calabresi per Sofri, hanno una connotazione in qualche modo vaga, che senz’altro ha contribuito a caratterizzare ancor di più in termini di incertezza le loro storie. In fondo alle rispettive vicende processuali, in ogni caso, è venuta fuori tutta la dignità di due condannati che, in nome della loro professata innocenza, hanno sempre rifiutato di avanzare la domanda di grazia.

Sia per Sofri che per Contrada il procedimento per la concessione dell’atto di clemenza ha comunque avuto avvio, ai tempi di Castelli e Ciampi, con il ministro di Giustizia leghista che si opponeva agli impulsi del presidente della Repubblica di area ulivista, e oggi, nell’era di Mastella e Napolitano, con i propositi di un guardasigilli ex Dc frustrati da un capo dello Stato di antica estrazione comunista.

Così, mentre Sofri è diventato la bandiera della sinistra che proponeva al Paese di lasciarsi alle spalle gli anni del terrorismo, senza riflettere su cosa ciò possa significare per chi ancora oggi piange dei morti valorosi ed innocenti, Contrada sembra, suo malgrado, assurgere ad emblema della lotta ad una giustizia che, su certi temi, è spesso apparsa malamente ispirata nella propria altalenante severità.

Tuttavia, è fortissima la sensazione che la strumentalizzazione intorno alla figura di Sofri sia stata più efficace di quella incentrata su Contrada. La malattia del primo è infatti valsa la concessione degli arresti domiciliari, sfociati nel permesso per una nuova apparizione televisiva, mentre il prolungato ricovero del secondo non ha avuto lo stesso effetto. Contrada, dunque, era in carcere, mentre Sofri parlava dai canali della Tv di stato.

Probabilmente, invece, il giorno della grazia non arriverà mai, né per l’uno né per l’altro, perché il Presidente Napolitano ha annunciato senza mezzi termini che non ci sarà provvedimento di clemenza per chi ancora invoca l’assoluzione. E soprattutto perché, quando ci sono di mezzo, sia pure indirettamente, interessi elettorali, la politica non ama fare sconti, nemmeno di fronte a vicende umane di questa portata.

Tutto sommato ciò non sarebbe un male, se solo il nostro sistema giudiziale non fosse così balordo da affidare ad un provvedimento di clemenza, piuttosto che al processo ordinario o alla sua revisione, l’unica opportunità di fare giustizia, in un senso o nell’altro, su due dei casi giudiziari più importanti della storia recente del nostro Paese.

Giustizia: i magistrati milanesi; siamo "socialmente inutili"

 

Corriere della Sera, 14 gennaio 2008

 

"Noi giudici? Lavoratori socialmente inutili". Il commento è parte di una lettera che settanta giudici dell’ufficio dibattimento di Milano stanno preparando in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. A riferirlo è il Corriere della Sera. "Oggi pm, avvocati e giudici percepiscono (tutti dallo Stato) lo stipendio - si legge nell’articolo - per fornire una giustizia penale del tutto inutile". "Troppi processi - sostengono i magistrati - per vari motivi non portano nessuna pena per i condannati. Non vogliamo carceri per tutti, ma un sistema repressivo che non reprime è una fabbrica che non produce".

"Per un buon 30% di processi si tratta di assolvere o condannare delle impronte digitali: stranieri mai identificati, che anni fa fornirono alla polizia un nome, ma che sono rimasti fantasmi". "Poi ci sono gli imputati identificati ma irreperibili, ignari di giudizi in contumacia che peraltro la Corte europea ritiene contrari al giusto processo. Ma il senso di inutilità si aggrava se si considera l’altro 40% di processi che, pur contro imputati identificati e avvisati, riguardano reati per i quali il destino è o la prescrizione o l’indulto in caso di condanna".

La lettera è già stata condivisa da una ventina di giudici milanesi e sarà discussa la prossima settimana per ottenere il massimo dei consensi tra i 70 magistrati del dibattimento che, tra prescrizioni, indulto e imputati non identificabili, difficilmente riescono a portare a termine dei processi e, per questo, si sentono "socialmente inutili".

Alla fine della discussione la lettera, redatta dal giudice Ilio Manucci Pacini, sarà trasmessa a tutti i capi degli uffici giudiziari milanesi. Il documento denuncia condizioni "preistoriche" in cui i giudici sono costretti a lavorare: "Per un buon 30% di processi - è scritto - si tratta di assolvere o condannare delle impronte digitali: stranieri mai identificati, che anni fa fornirono alla polizia un nome ma che sono rimasti fantasmi".

A questo va aggiunto il turno delle direttissime, con una trentina di arresti al giorno per reati che comportano pene tra i 3 e i 12 mesi e sono solo queste quelle "rigorosamente espiate". "Non vogliamo carcere per tutti, né siamo stati tutti contrari alle ragioni dell’indulto", è scritto nella lettera in cui si spiega, però, che "un sistema repressivo che non reprime" è "una fabbrica che non produce, è un ufficio che non rende un servizio e che gira a vuoto".

Intanto con uno sciopero e una contromanifestazione che si terrà a Roma il 23 gennaio, qualche giorno prima cioè delle cerimonie ufficiali di inaugurazione dell’anno giudiziario gli avvocati aderenti all’Unione delle Camere penali si preparano a protestare con iniziative senza precedenti contro quello che ritengono un "rito vetusto, ripetitivo e inutile" e che di fatto "esclude" la loro categoria dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Sinora si erano limitati a disertare le manifestazioni che si tengono in Cassazione (quest’anno il 25) e nelle Corti d’appello (il 26). Ma stavolta hanno deciso di alzare la posta con una propria inaugurazione nella quale forniranno i loro dati sulle "reali ragioni del malfunzionamento della giustizia".

Un’iniziativa che sarà accompagnata dalla contemporanea astensione dalle udienze; sarà insieme uno sciopero "tecnico", per consentire la più ampia partecipazione degli avvocati, e "politico", per marcare ancora più il dissenso.

Giustizia: Cassazione; "avanzo di galera", una diffamazione

 

Adnkronos, 14 gennaio 2008

 

Secondo la Suprema Corte, l’espressione supera il limite della continenza e va punita se è un’offesa generica. Respinto il ricorso di un 80enne che aveva sostenuto il diritto di critica.

Dire a qualcuno "sei un avanzo di galera" può costare una condanna per diffamazione. A stabilirlo è la Corte di Cassazione secondo cui l’utilizzo di questa espressione per denunciare la poca affidabilità di una persona rientra nel reato previsto dall’articolo 595 del codice penale. La Quinta sezione penale della Suprema Corte ha così confermato la condanna, oltre al risarcimento del danno della parte civile, per Serafino C., un ottantenne emiliano che, parlando con due amici nel giugno del ‘98, aveva definito, volendo metterne in risalto la scarsa affidabilità, "avanzo di galera" un ex collaboratore, Claudio R. Secondo la sentenza di piazza Cavour, è stato superato "il limite della continenza" richiesto dall’art. 596, comma 4 del c.p. tanto che "nella concreta fattispecie è stata esclusa la rilevanza dell’eventuale verità delle espressioni ingiuriose, trattandosi di offese generiche". La condanna per Serafino C. era già stata inflitta dalla Corte d’appello di Bologna, nel febbraio 2005. Inutile il ricorso in Cassazione con il quale l’imputato ha sostenuto di avere esercitato il diritto di critica nei confronti di una persona "non affidabile". Piazza Cavour ha condannato l’ottantenne anche al pagamento di mille euro alla cassa delle ammende.

Giustizia: Abi; come sono cambiate le rapine in banca...

di Nicola Borzi

 

Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2008

 

Non sono più affare da specialisti alla Dalton Russel, il rapinatore filosofo di "Inside Man", il film di Spike Lee, e nemmeno lo show mediatico da banditi dal cuore d’oro come il Sonny Wojtowicz di "Quel pomeriggio di un giorno da cani". Le rapine in banca sono piuttosto uno stillicidio che ogni anno conta 2.700 piccoli, rapidi "colpi" da poche migliaia di euro ciascuno. Le somme in gioco, però, sono ingenti: oltre 50 milioni di euro l’anno che, dal 1990 al 2006, hanno formato un grisbi di oltre 1,01 miliardi. Tanto che, per contenere i danni, le banche investono cifre enormi e studiano forme di de-materializzazione del contante previste dal Sepa, l’Area unica europea dei pagamenti.

Secondo Marco Iaconis, responsabile dell’Ufficio sicurezza anticrimine dell’Associazione bancaria italiana, "le rapine aumentano perché crescono gli sportelli sul territorio: in realtà però, come mostra il numero di reati ogni 100 sportelli, il fenomeno è stabile e attraversa in modo uniforme tutto il territorio nazionale, con picchi nei grandi centri urbani dove si concentra il maggior numero di agenzie. Parliamo solo di rapine, senza considerare quindi i furti notturni negli uffici, gli assalti ai furgoni portavalori o gli attacchi agli sportelli Bancomat".

La "professione" del rapinatore è cambiata negli anni. Per Iaconis "l’evoluzione tra le fila dei banditi, dopo la stagione del terrorismo e delle grandi bande organizzate degli anni 70 e 80, terminata la sanguinosa parabola della "Banda della Uno bianca" dall’87 al ‘94, vede oggi le rapine allo sportello opera di criminali improvvisati, che agiscono da soli o con pochi complici, quasi sempre con armi bianche come taglierini o coltelli".

A misurarsi con le rapine in banca sono ormai i criminali di mezza tacca, come il Ray Winkler della pellicola omonima di Woody Allen, destinati alla lunga a finire in manette: "Presto o tardi - afferma Iaconis - sette volte su dieci, i rapinatori sono arrestati", cioè quando sono catturati "pagano" anche per i reati commessi nel corso degli anni. Le rapine sono anche il motore di un grande business: "Per la sicurezza, le banche investono dai 700 agli 800 milioni l’anno, equamente divisi tra prevenzione nelle agenzie e sicurezza dei trasporti. Senza scordare che il 13-15% degli sportelli è controllato da addetti di agenzie di vigilanza, soprattutto al Centro-Sud".

"A influire sulla sicurezza, con la riduzione del numero di morti e feriti, ha giocato un grande ruolo la realizzazione dell’Ossif, l’Osservatorio sulla sicurezza fisica in banca creato da Abi e Forze dell’ordine, che promuove servizi sul tema, e l’ottantina di accordi provinciali tra Abi, Prefetture e Forze dell’ordine. È grande il dispiegamento di mezzi delle banche per aumentare la sicurezza allo sportello: dalla formazione e informazione ai dipendenti sino alla diffusione di nuove tecnologie di sicurezza, con l’avvento di telecamere digitali ad altissima risoluzione e di sistemi di rilevazione biometrici", conclude Iaconis.

Ma i sindacati non la pensano allo stesso modo. Secondo Landò Maria Sileoni, segretario generale aggiunto della Fabi, la Federazione autonoma dei bancari italiani, "la questione sicurezza è purtroppo una triste realtà con la quale clientela e lavoratori si confrontano. Sui clienti ricadono i costi di misure di sicurezza obsolete, sui lavoratori i rischi. È soprattutto un problema di ordine pubblico, poiché metà delle rapine d’Europa avviene in Italia.

Sconcerta che, in un Paese dove le banche hanno un peso rilevante, non esista una legge che imponga misure standard antirapina e rigide sanzioni. Anche i protocolli d’intesa concordati a livello territoriale fra Prefetture e aziende di credito mostrano evidenti scollature: non tutte le aziende vi partecipano, spesso è negato il coinvolgimento dei sindacati. Inoltre sono raramente rispettate le condizioni di manutenzione degli impianti di sicurezza e, talvolta, anche il coordinamento con le Forze dell’ordine", conclude Sileoni.

A influire sull’umore dei dipendenti è anche il nuovo design degli sportelli: scomparsi i cristalli antiproiettile, sparite quasi ovunque le fantascientifiche porte "a bussolotto", i clienti sono ormai a contatto diretto con gli sportellisti. Con tutti i rischi del caso. Proprio lo stillicidio di colpi ha reso le rapine una sorta di spettacolo. Come lo scorso 24 luglio a Milano quando due banditi, che in trenta secondi avevano "ripulito" un’agenzia nella zona nord della città, sono stati catturati appena usciti dalla banca. A volte ci scappa anche l’applauso, come in un film.

Verona: i nostri familiari costretti a stare alle intemperie

 

L’Arena di Verona, 14 gennaio 2008

 

"Manca una struttura esterna che accolga i nostri familiari in attesa di varcare la soglia del carcere di Montorio per venire a trovarci".

I detenuti della terza sezione della casa circondariale di Verona l’hanno scritto chiaro e tondo in una lettera consegnata al Vescovo, monsignor Zenti durante la sua recente visita in carcere, in occasione delle feste natalizie. I detenuti lamentano che i loro parenti sono costretti ad attendere fuori dai cancelli anche per lunghe ore in balìa delle intemperie del tempo sia in inverno che in estate. "In questo modo", viene riportato ancora nella lettera consegnata al Vescovo, "ci sembra palese che viene violata anche la loro privacy".

Chi passa davanti alla struttura può vedere, infatti, chi attende di visitare i detenuti. Ma non c’è solo il forte disagio per i parenti a preoccupare i detenuti della terza sezione di Montorio. C’è anche "la costante indifferenza delle istituzioni nei confronti del sovraffollamento", scrivono nella lettera consegnata al Vescovo. Un problema sentito e non poco dai carcerati di quella sezione di Montorio, considerato che "la nostra è una delle poche strutture del Veneto ad avere un settore protetto".

La terza sezione è diventata, quindi, la destinazione di parecchi detenuti, provenienti da tutto il nord Italia che non possono stare insieme con gli altri carcerati perché, per esempio, pentiti o appartenenti alla forze dell’ordine. In realtà, il problema del sovraffollamento si è ripresentato di nuovo in tutto il carcere di Montorio in queste ultime settimane negli stessi termini nei quali si era già manifestato prima dell’indulto, avvenuto nell’estate 2006.

I detenuti, infine, hanno presentato una terza richiesta forse la più "originale": "Vorremo avere a disposizione", hanno scritto al Vescovo, "un insegnante di canto da ricercare tra gli studenti di teologia che ci permetta di creare nel nostro piccolo un coro che possa animare sia gli incontri spirituali che le Messe". Alla fine, hanno mostrato al Vescovo il presepe che hanno preparato per le festività natalizie nella loro sezione.

Modena: anche il Sant’Anna tra carceri di nuovo affollate

 

www.emilianet.it, 14 gennaio 2008

 

Secondo Gianluca Borghi, consigliere regionale Pd, è già svanito l’effetto dell’indulto. Urgente il cambiamento della Bossi-Fini. Intanto Mastella annuncia nuove carceri e nuove depenalizzazioni, ma tutto ciò non basta.

"Le carceri sono strapiene, è già svanito l’effetto indulto. Bisogna modificare subito la Bossi-Fini e aprire alle misure di pena alternative". A dirlo é stato il consigliere regionale dell’Emilia-Romagna Gianluca Borghi (Pd) dopo una visita al Sant’Anna di Modena. Stamane erano 399 i detenuti della struttura, a fronte di una capienza di 222 persone. "La presenza di detenuti stranieri supera il 70% del totale - ha spiegato Borghi - una delle più alte percentuali italiane: è impossibile non cogliere come solo la modifica della legge Bossi-Fini sull’immigrazione potrà modificare questa situazione".

Non solo detenzione. "Occorre poi - ha continuato Borghi - favorire l’accesso a misure alternative al carcere già previste dalle leggi vigenti, ma troppo spesso sottovalutate dai giudici di sorveglianza". Una situazione che si ripercuote inevitabilmente anche sugli operatori penitenziari, per Borghi, "che anche a Modena sono ben al di sotto delle necessità: basti pensare che per una popolazione così ampia solo tre sono gli educatori. È comunque positivo, in questo quadro difficile - ha concluso - l’impegno del direttore della struttura Paolo Madonna, che sta mantenendo da tempo positive relazioni con gli enti locali (Comune e Provincia di Modena), con la Regione ed i volontari che operano all’interno del Sant’Anna".

Nuovi penitenziari in arrivo. Il Guardasigilli, dai microfoni della trasmissione "Radio anch’io", ha annunciato ieri lo stanziamento di 80 milioni di euro in tre anni a favore dell’edilizia penitenziaria previsto dalla legge finanziaria per costruire nuove carceri. In questo modo, ha detto Mastella "contiamo di recuperare 7.500 posti nello spazio di quattro anni". Peccato che dall’entrata in vigore dell’indulto a oggi sono già rientrati in carcere ben 7.594 detenuti, la maggior parte dei quali recidivi.

Depenalizzamo di più. Il ministro ha spiegato che oltre all’edilizia carceraria bisogna seguire la strada della depenalizzazione, sulla quale c’è stata "una disattenzione culturale negli ultimi tempi". Secondo il ministro bisogna evitare che chi deve restare in carcere pochi giorni si mescoli con chi deve scontare lunghi periodi di detenzione (cosa che è puntualmente accaduta dopo l’indulto). Tra l’altro, ha osservato, la depenalizzazione riguarderebbe piccoli reati come la droga e l’immigrazione clandestina.

Un po’ come le sardine. Ettore Ferrara, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha fornito, nel corso della trasmissione ha parlato della situazione carceraria italiana. Solo il 16% dei posti a disposizione dei detenuti delle carceri italiane è conforme al regolamento penitenziario del 2000. A disposizione dei detenuti ci sono pochissime celle singole, molto spesso le celle ospitano da tre a cinque detenuti. Secondo Ferrara senza indulto il sistema non avrebbe retto, visto che all’epoca dell’adozione del provvedimento nelle carceri c’erano 62 mila detenuti mentre oggi la quota si aggira intorno ai 49 mila.

La rieducazione, questa sconosciuta. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone (che si occupa di salvaguardare i diritti nel sistema penale), ha precisato che la situazione è parzialmente migliorata anche grazie al contestato indulto ma persistono molti problemi, come ad esempio la mancanza di educatori che sono solo trecento in tutta Italia, un aspetto che fa diventare un mito il principio della rieducazione del detenuto.

Bologna: un ex detenuto senza casa minaccia di suicidarsi

 

Bologna 2000, 14 gennaio 2008

 

Un uomo, originario di Napoli, ex detenuto, e che vive nel centro di accoglienza "Beltrame" di Bologna, ha fatto irruzione oggi pomeriggio verso le 15 nel bookshop della sala Farnese dove ha raggiunto una finestra, pronto probabilmente a buttarsi, ma una dipendente è riuscita a bloccarlo. Per cercare di convincerlo a scendere sono arrivati poi i vigili urbani in servizio a Palazzo D’Accursio, mentre all’esterno erano pronti i vigili del fuoco e i carabinieri. L’uomo, 50 anni, ha chiesto di parlare con politici o giornalisti per denunciare l’espulsione dal centro Beltrame, avvenuta dopo l’ultima lite avuta con un operatore della struttura. Per il weekend sarà ospitato da un altro centro sociale bolognese, mentre da lunedì tornerà al Beltrame.

 

La clamorosa protesta di un ex detenuto...

 

Comunicato stampa Papillon Bologna

 

La clamorosa protesta di un ex detenuto, al quale va tutta la nostra solidarietà, avvenuta sabato scorso 12/01 al palazzo comunale, dovrebbe far riflettere seriamente le istituzioni e la società civile sulle insormontabili difficoltà di reinserimento sociale e lavorativo di che esce dal carcere dopo aver scontato la pena.

Immediatamente dopo l’entrata in vigore dell’indulto la nostra associazione di detenuti sostenne che bisognava approfittare con grande solerzia dell’occasione per mettere mano al Codice Penale e all’Ordinamento Penitenziario con una profonda riforma tesa ad interrompere l’irruzione del penale nel sociale. Quindi a porre fine alla criminalizzazione degli esclusi riconoscendone il devastante danno sociale.

Al contrario gli "imprenditori della paura" di destra e di sinistra, a caccia di facile consenso elettorale, hanno continuato nella loro opera con la promulgazione, ieri e oggi, d’insensati "pacchetti sicurezza" e inasprimento delle pene. C’è persino chi sostiene una restrizione della Legge Gozzini che, a nostro avviso, pur insufficiente, consente di limitare la recidiva nei soggetti che ne usufruiscono; su questo punto le statistiche parlano chiaro.

Nell’immediato casa e lavoro per i detenuti in penalità esterna e per gli ex detenuti sono un punto imprescindibile da risolvere se si vuole più nuovi cittadini consapevoli e responsabili e meno devianza e criminalità sul territorio. È impensabile perciò, come normalmente accade, delegare disinvoltamente al volontariato e alla cooperazione sociale un problema che diviene ogni giorno più grave. È come tentare di svuotare il mare con un cucchiaino.

Quello che occorre è un rapido intervento del Governo su scala nazionale. "L’effetto indulto" è finito da tempo perché nulla o molto poco è stato fatto. 50.000 detenuti, ad oggi, segnano il fallimento delle politiche sicuritarie. Di nuovo oltre 60.000 saranno tra dieci mesi, dato il trend delle nuove entrate. C’è bisogno di aggiungere altro?

 

Per l’Associazione Papillon Bologna

Il Presidente, Valerio Guizzardi

Genova: domani un convegno sulle biblioteche carcerarie

 

Secolo XIX, 14 gennaio 2008

 

È un convegno importante quello di domani mattina in via Balbi 3 nella Biblioteca Universitaria perché mette le basi di un progetto all’interno delle carceri che può essere rivoluzionario. Comunque un’apertura salutare verso il mondo esterno, una osmosi fra reclusi e no. In questo caso lo strumento di libertà è la lettura.

E il ministero di Grazia e Giustizia, i suoi funzionari, gli esperti, si prepara ad avviare un collegamento, una integrazione fra le biblioteche che già ci sono in carcere, e alcune anche molto ben organizzate, e le biblioteche esterne. Quelle comunali, per intenderci. Le une devono entrare in sinergia con le altre. Non è una operazione semplice, ma va studiata e realizzata.

Il convegno si intitola "Galeotto... fu il libro. Lettura, biblioteche e carcere" e vede la presenza dell’assessore Milò Bertolotto, del presidente Associazione Italiana Biblioteche della sezione Liguria Francesco Langella, gran "condottiero" della De Amicis, Giovanni Salamone provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e i due direttori delle carceri genovesi Mazzeo di Marassi e Comparone di Pontedecimo e della casa circondariale di Chiavari Maria Milano. Chi si alternerà al microfono porterà esperienze interessanti: dagli stessi detenuti che svolgono funzioni di bibliotecari ad una biblioterapeuta, fino al presidente della Società Biblioteche Carcerarie della Germania e alle portavoci della biblioteca civica Berio.

Quindi tutti questi soggetti e i rispettivi patrimoni librari devono imparare a dialogare sistematicamente, anche se già Marassi e la Berio sono in collegamento. "Sarà necessario operare al fine di un consolidamento di un’alleanza forte con il territorio creando reti stabili che favoriscano l’inclusione delle biblioteche penitenziarie nel circuito delle biblioteche comunali provinciali e regionali" commenta il provveditore Salamone. Non dimenticando che la biblioteca penitenziaria "è un luogo deputato all’apprendimento".

Insomma il convegno sarà l’occasione per sancire intese, forme di collaborazione per l’inserimento delle biblioteche penitenziarie nel sistema integrato delle biblioteche locali.

Immigrazione: il ddl "Amato-Ferrero" in aula a febbraio

 

Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2008

 

"Il 18 gennaio i capigruppo della Camera si riuniscono per fare il calendario e nei giorni successivi ci dovrebbe essere il passaggio in Commissione Affari costituzionali: in questo modo il testo potrebbe essere discusso in Aula nell’ultima settimana del mese".

Gianclaudio Bressa, relatore alla Camera per il Partito democratico del disegno di legge 2976 di riforma dell’immigrazione che porta il nome dei ministri dell’Interno, Giuliano Amato, e della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrerò, spiega come e quando verrà modificata le Bossi-Fini (legge 189/2002).

Il dibattito non sarà semplice visto "che sono stati presentati 1.200 emendamenti: molti sono dell’opposizione e hanno un chiaro intento ostruzionistico". Lo scontro insomma sarà durissimo "anche perché quando si parla di immigrazione si confrontano e si scontrano culture diverse", dice Bressa.

Nel merito, il Ddl Amato-Ferrero arrivato per la prima volta in Commissione all’inizio dell’autunno "fa proprio lo strumento del decreto flussi e delle quote ma in un quadro più flessibile rispetto a quello disegnato dalla Bossi-Fini". Il decreto flussi sarà così usato "nell’ambito di una programmazione triennale: questo non impedirà - spiega Bressa - di aprire delle finestre intermedie in base alle esigenze del mondo del lavoro e alle pressioni che arrivano dall’estero". Uno strumento da usare secondo necessità, dunque.

Bressa sottolinea che primo scopo della riforma è quella di superare "le rigidità" dell’attuale sistema. Come? Semplificando le procedure per il rilascio del permesso di soggiorno che dovrebbe durare di più: il tutto con il coinvolgimento di comuni e province.

Gli ingressi in Italia saranno inoltre mediati da liste di collocamento nei Paesi di origine. E soprattutto, si punta - come già aveva fatto la legge Turco-Napolitano (Dlgs 286/1998) - sullo sponsor (il datore di lavoro che garantisce per il lavoratore straniero), e si introduce l’auto sponsorizzazione, vale a dire la possibilità da parte dello straniero di dimostrare un reddito adeguato per vivere in Italia.

Queste due figure, soprattutto l’auto sponsorizzazione, suscitano molte perplessità nell’opposizione. Bressa rassicura: "Chiederemo garanzie per evitare infiltrazioni della criminalità organizzata e abbiamo in mente di introdurre procedure online che garantiscano una maggiore trasparenza". Le nuove politiche sull’immigrazione non si esauriscono in questo provvedimento. Spiega Bressa che i lavori sul Ddl Amato-Ferrero non possono essere scissi dalla sorte dell’altro testo di cui è relatore, quello sulla cittadinanza breve (lo straniero la potrebbe chiedere dopo 5 anni e non 10).

"Con il testo sulla cittadinanza siamo più avanti - dice - perché gli emendamenti sono stati già discussi: adesso abbiamo anche la copertura finanziaria assicurata dalla Finanziaria 2008 che prevede l’istituzione di un fondo ad hoc per coprire i costi (del welfare ndr) per i nuovi cittadini: il testo dovrebbe andare in Aula all’inizio di febbraio".

Gran Bretagna: detenuti controllati da "chip" elettronici?

 

www.punto-informatico.it, 14 gennaio 2008

 

Cresce il consenso politico per l’impianto obbligatorio di chip sottopelle nelle braccia dei detenuti su suolo britannico. Ne dà notizia The Independent on Sunday che in un reportage racconta il crescente interesse dell’Esecutivo per quella che viene definita una "soluzione ottimale".

Archiviato il braccialetto elettronico, ritenuto poco efficace, il modo migliore per mantenere l’ordine all’interno degli istituti di pena parrebbe proprio un chip RFID permanente e leggibile attraverso appositi lettori mobili o installazioni fisse all’interno del carcere. Utile per aggiornare con un gesto i database sui movimenti tra carceri dei diversi detenuti, magari collegati a determinate bande criminali, oppure per verificare il rispetto delle condizioni di pena, per gestire gli orari del coprifuoco, dei tempi di utilizzo dei diversi servizi in carcere e via dicendo.

Stando al giornale, ci sono ministri del Governo che accarezzano l’idea di installare il chip nel più alto numero possibile di umani sottoposti a pena detentiva, o comunque a disposizioni coercitive perché riconosciuti colpevoli dei più diversi reati. Ciò darebbe anche vita ad un forte risparmio in termini di tempi e costi della gestione carceraria oltreché, ma questo appare già meno comprensibile ai sostenitori dei diritti dell’individuo, un impulso alla sicurezza degli istituti.

Come in Italia, anche nel Regno Unito uno dei problemi più grossi nelle carceri è la sovrappopolazione: solo pochi giorni fa sono stati posti in semilibertà 14mila detenuti a causa del sovraffollamento. E il chip RFID aiuterebbe anche in questo, consentendo una ottimizzazione delle risorse di sorveglianza e di controllo nonché una migliore gestione dell’andirivieni dei detenuti nelle varie aree del carcere. A questo si associa la costruzione di tre nuove "supercarceri" che nei progetti del Governo dovrebbero vedere la luce entro i prossimi sei anni e garantire l’ospitalità in "condizioni ideali" per 20mila detenuti.

Se i chip RFID attuali possono essere "letti" a brevi distanze, il futuro secondo fonti del ministero dell’Interno potrebbe vedere l’impianto di chip di nuova generazione, capaci ad esempio di funzionare come chip di localizzazione sul territorio. "Tutte le opzioni sono sul tavolo - ha spiegato un incaricato dell’esecutivo - e questa è una cosa che vorremmo adottare. Sono anni che vogliamo utilizzare questi sistemi perché sembrano offrire una soluzione ragionevole ai problemi che dobbiamo fronteggiare in questo settore. L’abbiamo esaminata e ci siamo tornati sopra, preoccupati anche degli aspetti etici e pratici della vicenda: quando si guardano le sfide che il sistema della giustizia deve affrontare ti rendi però conto che il momento giusto è arrivato".

A sostenere la posizione politica dell’Esecutivo è la cancellazione del grande progetto di tracking satellitare che era stato avviato negli anni scorsi per tenere traccia di un più alto numero di persone in semilibertà attraverso il braccialetto elettronico: una cancellazione che si deve sia alla frequenza con cui il segnale viene interrotto da ostacoli fisici, sia dal fatto che almeno 2mila persone sarebbero riuscite ad eludere il monitoraggio smanettando sul braccialetto o addirittura rimuovendolo.

Il chip a cui pensa l’Home Office è un dispositivo che i lettori di Punto Informatico già conoscono: si tratta di una variante del Veri Chip, una capsula che contiene un microcircuito, un’antenna di rame e un condensatore. Questo tipo di chip, come noto, è all’attenzione di molti paesi: negli Stati Uniti è stato dato il via libera per il suo utilizzo in ambito medico ma in stati come la California è stata vietata per legge qualsiasi procedura obbligatoria di impianto.

Ed è proprio su questo aspetto della vicenda che si concentrano le critiche dei sostenitori dei diritti umani riportate dall’Independent. Shami Chakrabarti, applaudita direttrice dell’organizzazione Liberty, non usa mezzi termini: "Se il ministero dell’Interno non capisce perché impiantare un chip in qualcuno è peggio che dotarlo di un braccialetto elettronico, allora non ha bisogno di un avvocato esperto di diritti umani, ha bisogno di una iniezione di buon senso. Degradare i condannati in questo modo nulla farà per la loro riabilitazione e nulla per la nostra sicurezza, dato che qualcuno troverà inevitabilmente un modo per aggirare questa nuova tecnologia". Un’affermazione che, alla luce di quanto accaduto nei mesi scorsi, appare tutt’altro che peregrina.

Sulla stessa linea d’onda anche Harry Fletcher, segretario generale della National Association of Probation Officers, secondo cui "questo è quel tipo di idea che di quando in quando arriva dal Ministero, ma chippare le persone come facciamo con gli animali domestici non può essere la via. Trattare le persone come buste di carne non mi sembra che rappresenti un miglioramento del sistema".

 

 

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