Rassegna stampa 31 dicembre

 

Giustizia: carceri affollate ad obsolete, è emergenza continua

di Veronica Grembi e Alberto Zanardi

 

www.lavoce.info, 31 dicembre 2008

 

Le carceri italiane sono sovraffollate e obsolete: difficile garantire accettabili condizioni di vita per personale e detenuti, e perseguire l’obiettivo della riabilitazione. È necessario accantonare la logica dell’emergenza continua distinguendo tra misure di impatto immediato e politiche di lungo periodo. L’ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse, con la chiusura di istituti fortemente sottoutilizzati, può portare in tempi relativamente brevi a risparmi di spesa strutturali. Ma serve poi la costruzione di nuovi penitenziari, più grandi e più efficienti.

Le nostre carceri scoppiano, come prima e, in prospettiva, ancor più di prima. L’indulto del 2006 aveva concesso una boccata d’ossigeno al cronico sovraffollamento di cui soffre il sistema penitenziario italiano. Dopo appena due anni la popolazione carceraria è quasi ritornata ai livelli pre-indulto: nel giugno scorso i detenuti erano poco più di 54mila, il 91 per cento di quelli presenti nel dicembre 2005, con una crescita di mille unità al mese.

Di contro, di carceri nuove se ne costruiscono poche: negli ultimi dieci anni la capacità ricettiva è cresciuta soltanto del 5,5 per cento. Con il risultato che l’Italia contende alla Grecia la palma europea di sistema carcerario più sovraffollato: a giugno del 2008 per ogni 100 posti di capacità regolamentare si contavano quasi 142 detenuti. Una quota significativa di istituti mostra poi i segni dell’età: il 20 per cento dei penitenziari italiani è stato costruito prima del 1900. È allora evidente come in carceri così sovraffollate e obsolete sia ben difficile garantire accettabili condizioni di vita, tanto per il personale quanto per i detenuti, e perseguire in modo credibile l’obiettivo della riabilitazione.

Misure per oggi e per domani. Come uscire da questa situazione? Si tratta innanzitutto di accantonare la logica dell’emergenza continua distinguendo tra misure di impatto immediato e politiche di lungo periodo, valutandone per ciascuna costi e benefici.

Delle prime, si sta discutendo intensamente in questi giorni, soprattutto si discute della cosiddetta probation, la "messa alla prova". Si tratta della possibilità da parte degli incensurati accusati di reati lievi, quelli punibili fino a due anni nella versione più recente della proposta, di evitare il processo impegnandosi a svolgere lavori di pubblica utilità che, se vanno a buon fine, estinguono completamente il reato. Una misura che potrebbe contribuire a frenare le nuove entrate nel circuito carcerario.

Tuttavia, anche qualora attuato, questo intervento, al pari dell’indulto, non basta. Occorre certamente avviare una politica lungimirante di edilizia carceraria che aumenti la capienza del sistema penitenziario e al contempo adegui le strutture a standard elevati di sicurezza e vivibilità.

La costruzione di nuove carceri dovrebbe peraltro ispirarsi a una serie di criteri-guida. Innanzitutto, seguendo le linee già preannunciate dal ministero, si dovrebbe diversificare la tipologia degli istituti penitenziari prevedendo strutture diverse dai carceri tradizionali, più leggere, e pertanto meno costose e disponibili in tempi più rapidi, per i detenuti in attesa di giudizio e ritenuti non pericolosi. In secondo luogo, è necessario puntare su nuovi penitenziari più grandi rispetto alla dimensione prevalente nell’attuale panorama italiano. Oggi la capienza media delle nostre carceri è bassa: più dell’80 per cento degli istituti ha meno di 300 posti. Valutazioni sulle possibili economie di scala e indicazioni dall’esperienza internazionale suggeriscono che significativi guadagni di efficienza, ovvero minori spese per detenuto, sarebbero realizzabili in istituti più grandi. C’è poi il problema dell’attuale localizzazione territoriale dei penitenziari che non è allineata alla distribuzione della popolazione in generale e alla mappa dei reati commessi: ben il 40 per cento degli istituti sta al Sud, risultato tra l’altro del riadattamento a fini carcerari di conventi, castelli e antichi palazzi. È poi auspicabile che, per ottenere le risorse necessarie alla costruzione di nuovi e più efficienti penitenziari, l’amministrazione proceda alla dismissione degli immobili che, per la loro particolare collocazione geografica, presentano un elevato valore commerciale.

Efficienza nella gestione del personale. Guadagni di efficienza e risparmi di spese sono realizzabili in tempi anche più brevi, agendo sull’esistente, attraverso miglioramenti gestionali e razionalizzazioni nella distribuzione degli organici. Se si tiene conto che per far funzionare il sistema penitenziario sono impegnati 43mila agenti di polizia penitenziaria con una spesa per il personale di 2,9 miliardi di euro, l’80 per cento del totale dell’amministrazione penitenziaria, si capisce come la gestione del personale sia l’elemento-chiave dell’efficienza in questo comparto. Tra i diversi penitenziari esistono divari assai marcati nei costi per detenuto, non giustificati dalla composizione della popolazione carceraria ospitata o dal particolare sovraffollamento di certi istituti.

Guardando a un indicatore sintetico come il rapporto tra unità di polizia penitenziaria e detenuti si va da un minimo di 0,26 a un massimo di 2,74. Anche il confronto tra territori mostra differenze non trascurabili: al Sud gli agenti per detenuto sono del 13 per cento più numerosi rispetto alla media nazionale, mentre il Nord segna un 17 per cento sotto la media. Uno sforzo di ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse, con la chiusura di istituti fortemente sottoutilizzati, può portare in tempi relativamente brevi a risparmi di spesa strutturali e non effimeri, stimabili in prima approssimazione in almeno un centinaio di milioni.

Giustizia: Grosso; la riforma deve essere dal lato del cittadino

di Antonio De Frenza

 

L’Espresso, 31 dicembre 2008

 

L’arresto e la scarcerazione del sindaco Luciano D’Alfonso, le indagini della magistratura in Toscana, in Basilicata e a Napoli a carico di imprenditori e politici, e prima ancora gli arresti e la scarcerazione del presidente della Regione Ottaviano Del Turco, hanno rimesso al centro del dibattito politico la riforma della giustizia. Ne abbiamo parlato con il professor Carlo Federico Grosso, avvocato ed ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

 

Professor Grosso in un intervento sulla Stampa ha scritto che le inchieste di Catanzaro, Salerno e Pescara sono "tre pagine poco esaltanti di esercizio del potere giudiziario". Perché?

"Sulla Stampa ho detto che alcune iniziative di alcune procure non giovano sicuramente all’immagine della magistratura nel suo insieme. Le ragioni delle perplessità che possono nascere in chi non è addentro alle questioni specifiche delle singole indagini sono diverse. Ad esempio ha colpito le modalità con cui la Procura di Salerno ha concretamente realizzato il primo sequestro. Ha colpito come la Procura di Catanzaro ha reagito immediatamente con il contro sequestro, in un’attività giudiziaria nella quale non era probabilmente nemmeno titolata a intervenire. A Pescara ha colpito l’assunzione di un provvedimento cautelare sulla base di una certa imputazione e la rapidissima scarcerazione susseguita tra l’altro a un radicale cambiamento dello stesso capo d’imputazione. Ed ha ulteriormente colpito il fatto che il provvedimento cautelare assunto sulla base di un’imputazione caduta abbia determinato un gravissimo scossone, con le dimissioni del sindaco".

 

Da queste e altre vicende si è aperto un dibattito nazionale sulla necessità di riformare la giustizia e in particolare di riequilibrare i poteri tra politica e magistratura. Su questo aspetto lei ha già avuto modo di esprimere alcune perplessità.

"Credo che occorra nettamente distinguere diversi problemi: tutti siamo d’accordo sulla necessità di intervenire con una profonda riforma del sistema della giustizia, perché la giustizia non funziona, i processi sono troppo lunghi, le sentenze di condanna molte volte non sono eseguite con un effettivo sconto di pena. Dunque è necessario un intervento sul codice di procedura penale e sul codice di procedura civile e sull’organizzazione degli uffici giudiziari per ottenere un rimedio a queste disfunzioni frequentissime.

Il problema è che quando di questi tempi si parla di riforma, molti politici intendono tutt’altro: cioè che la magistratura e in particolare le procure abbiano troppi poteri e che occorra dunque incidere sul complesso di questi poteri, per rendere la magistratura meno aggressiva e la sua azione più spuntata".

 

Ma sulla questione del riequilibrio dei poteri sembra che maggioranza e opposizione stiamo convergendo…

"L’attuale maggioranza ritiene che occorra realizzare un riequilibrio dei poteri tra politica e magistratura a garanzia di un’attività politica più libera. All’interno del Pd, qualche esponente di tale partito in effetti sembra orientato a creare ponti con la maggioranza. Gli organi ufficiali del partito hanno invece, almeno fino a questo momento, sostenuto che occorre intervenire intanto sul terreno dell’efficienza del sistema giustizia, in modo da restituirgli certezza ed effettività. In questa prospettiva sono stati elaborati diversi disegni di legge e diverse proposte atte a raggiungere appunto questo obiettivo. Sempre il Pd è stato molto cauto nell’avallare eventuali linee di riforma costituzionale in grado di incidere sui rapporti tra i diversi poteri dello Stato".

 

Però sul tema per esempio delle intercettazioni o dell’obbligatorietà del processo penale si è cominciati a dialogare...

"Quello sulle intercettazioni è un tema particolare che si inserisce in un discorso generale. Ma prima di rispondere all’ultima domanda vorrei tornare sul riequilibrio dei poteri. Perché ritengo che se il riequilibrio dei poteri significa togliere o diminuire l’indipendenza e la libertà dell’attività giudiziaria, per censurare o intralciare il controllo sulla legalità degli atti della politica, beh credo si debba essere radicalmente contrari. Noi siamo eredi dell’Illuminismo, lo stato è uno stato di diritto, in cui c’è il parlamento che legifera, il governo a cui spetta la funzione esecutiva e una magistratura indipendente che garantisce l’osservanza della legge".

 

Ma che fare di fronte a iniziative del tipo di quelle che ha criticato sulla Stampa?

"Se nell’esercizio dell’attività giudiziaria si manifestano inutili arroganze, eventuali abusi, disattenzioni, evidentemente bisogna trovare rimedi per evitare che episodi di questo tipo si ripetano e rischino di diventar frequenti".

 

Ritiene in particolare che l’obbligatorietà dell’azione penale possa essere causa di arbitrio nell’azione giudiziaria?

"Oggi le notizie di reato sono molte numerose, le procure non sempre sono in grado di affrontarle tutte e di fatto sono obbligate a scegliere. Quindi abbiamo alcune indagini portate avanti con velocità, altre in maniera più lenta, e ci sono singole procure che preferiscono dare preferenza a certi profili di indagine. Così qualcuno dice che di fatto non c’è obbligatorietà, ma c’è una scelta discrezionale in ciascun ufficio di procura. In questa prospettiva molti ritengono che occorre cambiare radicalmente il sistema, cioè procedere annualmente alla determinazione dei reati che devono essere obbligatoriamente trattati con priorità".

 

Ma questo criterio potrebbe funzionare?

"Questo è un grosso problema. Infatti si discute se le priorità debbono essere stabilite dal Parlamento, oppure dal Parlamento dopo avere sentito le opinioni delle singole procure della Repubblica, e su quale possa essere in questa programmazione il ruolo del Consiglio superiore della magistratura. Come vede, le idee su come organizzare le scelte di priorità non sono ancora definite del tutto.

Io comunque sono in ogni caso preoccupato, perché non vorrei che la politica finisca per avere un peso determinante nella scelta dei reati che devono essere ogni anno perseguiti, ovvero negletti. D’altra parte mi domando che cosa significhi decidere che un reato, perché di minore o scarsa importanza, deve essere non perseguito in un determinato periodo storico. Se il reato è bagatellare, non varrebbe la pena, allora, di fare la scelta più drastica, cioè di depenalizzarlo?"

 

Torniamo ai magistrati. Uno dei problemi è quello sull’accesso alla professione e sulla valutazione delle capacità. Come affrontarlo?

"È un discorso che si collega al problema dell’arroganza e dell’arbitrio, e che dà l’impressione che una parte, della magistratura, una parte soltanto di essa ovviamente, non sia adeguata sul piano tecnico e professionale e su quello comportamentale. Mi domando allora se non si debba cominciare a cambiare il sistema dell’accesso oggi basato esclusivamente su un concorso che si fonda sulla conoscenza di alcuni dati tecnici. Forse una valutazione complessiva della preparazione, ma anche della moralità e dell’attitudine andrebbe fatta".

 

Professore, a proposito delle inchieste che stanno coinvolgendo molti amministratori locali del Pd si è parlato di giustizia ad orologeria. Come giudica questa tesi?

"Tutte le volte che ci sono state azioni giudiziarie clamorose, magari condotte a ritmi serrati, s’è gridato al complotto nei confronti dei poteri forti. Può anche darsi che in qualche caso ciò sia avvenuto. Ma sono certo che la maggioranza della magistratura sia formata da persone serie e che non sia il caso di parlare di complotto".

 

In queste ore il sindaco di Pescara sta riflettendo se ritirare le dimissioni dalla sua carica, visto il provvedimento di scarcerazione adottato dal gip. In questo caso lei pensa che sia opportuno che un sindaco sottoposto a un’indagine così pesante possa tornare a svolgere la sua funzione pubblica?

"È molto difficile rispondere perché si sono diversi aspetti da valutare. Dal punto di vista del giudizio politico non c’è nessun ostacolo a riconoscere che un sindaco che ha dato le dimissioni sia del tutto legittimato a ritirarle, quando la caratura dell’imputazione cambia e il provvedimento del magistrato viene revocato. È più difficile rispondere dal punto di vista delle conseguenze giuridiche. A riguardo occorre valutare con attenzione quali sono state le specifiche motivazioni della revoca del provvedimento di custodia cautelare, perché se esse risultano collegate in modo molto stretto al fatto che nei confronti di un sindaco dimissionario non esiste più l’iniziale pericolo di reiterazione del reato, evidentemente ogni discorso del ritiro delle dimissioni diventa delicato".

Giustizia: Berlusconi; la riforma darà anche benefici economici

 

Il Velino, 31 dicembre 2008

 

Secondo il Cavaliere "è il momento giusto per fare riforme che non incidono drammaticamente sui costi pubblici, come quella della giustizia, del processo civile e di quello penale, oltre che delle intercettazioni telefoniche. Grazie a queste riforme l’Italia potrà avere grandi benefici sul piano della modernità, ma anche sotto il profilo economico. Oggi i tempi della giustizia civile sono incompatibili con qualsiasi attività economica.

Cinque anni per ottenere un pagamento legittimamente dovuto, altrettanti per una causa di lavoro, otto anni per un fallimento: sono ostacoli che scoraggiano molte imprese straniere a investire in Italia. Per questo abbiamo subito messo mano alla riforma del processo civile, che è già stata approvata da un ramo del Parlamento".

Le novità non si fermano al processo civile. "All’inizio nel nuovo anno, nella prima seduta del Consiglio dei ministri, presenteremo anche la riforma della giustizia, per separare gli ordini dei magistrati giudicanti da quelli dei pubblici accusatori: questi ultimi, che chiameremo "avvocati dell’accusa" dovranno avere gli stessi doveri e gli stessi diritti degli avvocati della difesa. Solo così il giudice sarà veramente terzo, con un concorso e una carriera diversa da quella dei pm, e potrà garantire ai cittadini un giusto processo. Quanto alle indagini, restituiremo alla polizia giudiziaria il ruolo che aveva sino al 1989 mentre ora l’iniziativa è interamente nelle mani dei pm, che sono di fatto sottratti a ogni controllo, con conseguenze devastanti. Come tutti hanno potuto constatare anche nella recente contesa tra le procure di Salerno e di Catanzaro".

Basta con il teatrino delle intercettazioni. "Dovranno essere consentite solo per le indagini riguardanti i reati più gravi, per quelli con pene previste sopra i 15 anni, come il terrorismo internazionale e il crimine organizzato di stampo mafioso. L’abuso delle intercettazioni come reti a strascico per acquisire notizie di reato con in più il consueto teatrino mediatico-giudiziario che viola un diritto primario dei cittadini come la privacy emette in piazza tutto ciò che si dice al telefono, anche quando non ha alcuna rilevanza penale, dovrà cessare una volta per tutte. Non c’è vera democrazia in un Paese in cui i cittadini non possono esprimersi liberamente al telefono senza il timore di essere intercettati".

Tangentopoli nel Pd. "Sono sempre stato garantista con tutti, specialmente nei confronti dei nostri avversari politici. Ho anzi espresso pubblicamente l’augurio che le accuse si potessero ridimensionare. Non entrerò mai nel merito di accuse che attendono ancora tre gradi di giudizio. So bene per esperienza diretta che certe accuse sollevano grandi polveroni mediatici, per poi finire in niente. Però è certo. La sinistra pensava di essere diversa, di avere una sorta di monopolio dell’etica. Non è mai stato vero nel passato, non è vero oggi".

Dietro la nuova tangentopoli la mano di Di Pietro? "Non sono un esperto di complotti e non ho informazioni tali da poter esprimere giudizi su un’ipotesi come questa. So però che in Italia ci sono duemila pm fuori da ogni controllo. Affermare che ora sono pilotati da Di Pietro mi sembra una sciocchezza assoluta".

Giustizia: stretta in vista su responsabilità civile dei magistrati

di Giovanni Negri

 

Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2008

 

Stretta in vista sulla responsabilità civile dei magistrati. Il ministero della Giustizia ha in cantiere un intervento di riforma della legge (la n. 117 del 1988) che, nel 1988, sulla scia dell’approvazione di un contestato referendum, che per certi versi anticipò molti dei temi oggi al centro del dibattito pubblico sulla necessità di un riequilibrio tra politica a magistratura, ha introdotto nel nostro ordinamento il principio della responsabilità a carico di giudici e pubblici ministeri. Ad annunciarlo, in Parlamento, davanti alla commissione Giustizia della Camera, è stato il sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellari, che, rispondendo a un’interrogazione ha chiarito che il progetto sarà avviato subito dopo l’approvazione delle modifiche al Codice di procedura civile che sono attualmente in discussione al Senato dopo avere ottenuto il voto della Camera.

L’anticipazione del sottosegretario non ha messo in evidenza quali saranno i punti sui quali si concentrerà l’intervento, anche perché l’inizio dell’anno porterà invece il varo del più volte annunciato disegno di legge con le modifiche al Codice di procedura penale. Alcuni elementi, però, sono all’attenzione dell’Ufficio legislativo del ministero. A partire da un considerazione di ordine generale, e cioè che una legge che vent’anni fa aveva sollevato molte preoccupazioni all’interno della magistratura per i potenziali effetti dirompenti sugli equilibri dell’azione giudiziaria è stata di fatto disinnescata e resa inoffensiva.

A testimoniarlo ci sono i dati disponibili, di stessa fonte ministeriale, che certificano con evidenza l’esiguità dei provvedimenti di accoglimento delle richieste di risarcimento avanzate dai cittadini. Meno di 100 in quasi 5 anni. Troppo pochi anche di fronte alla possibilità per lo Stato di rivalersi comunque nei confronti del magistrato che sbaglia. Anche perché i casi in cui questo è possibile sono circoscritti al dolo e alla colpa grave. Nessuno spazio alla colpa semplice o a danni provocati da particolari forme di negligenza.

Se poi si tiene conto del fatto che la domanda di risarcimento danni deve essere sottoposta comunque al filtro di ammissibilità da parte dei tribunali, il pericolo di una chiusura corporativa da parte della magistratura diventa molto concreto. A non volere tenere conto poi del fatto che la stragrande maggioranza dei magistrati (circa il 90%) ha, in quanto aderente all’Anni, una polizza assicurativa che la mette al riparo dalle eventuali rivendicazioni del ministero.

A svuotare poi ulteriormente di significato le misure sulla responsabilità e a convincere della necessità di una riforma ci si sono messe le disposizioni che da qualche anno ammettono il risarcimento del danno per l’eccessiva durata del processo. Le cause proposte davanti alle Corti d’Appello per fare valere il principio costituzionale della ragionevole durata sono in continuo aumento e, anche se non chiamano direttamente in giudizio un profilo di responsabilità del magistrato, di certo hanno contribuito a indirizzare molte domande di risarcimento a un altro e forse più redditizio contesto.

È allora probabile che, in un contesto nel quale si moltiplicano le richieste di associare un maggior grado di responsabilità al potere giudiziario, anche in conseguenza degli effetti spesso difficilmente rimediabili delle sue decisioni, la riflessione si concentri su un possibile allargamento delle ipotesi di rivalsa dello Stato, su un ripensamento del filtro di ammissibilità, sulla precisazione dei parametri sui quali determinare il risarcimento stesso. Ma soprattutto potrebbe essere riconsiderata quella esclusione dell’attività di interpretazione delle norme e di valutazione del fatto e delle prove dal perimetro dei casi che possono dare luogo a responsabilità.

Giustizia: Anm; primi a volere i controlli, ma serve equilibrio

 

Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2008

 

"Siamo i primi a volere i controlli, ma attenzione al rischio di paralisi dell’attività giudiziaria". Luca Palamara, Presidente dell’Anm, accoglie con perplessità l’annuncio del Governo di future modifiche alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati.

 

Dottor Palamara, non teme che ancora una volta la magistratura sia contestata per quello che a molti appare un arroccamento corporativo?

Nessun timore. Sottolineo ancora una volta, in questi giorni, che si pensa sempre di affrontare la crisi della giustizia in Italia con misure che riguardano uno solo dei protagonisti, il magistrato, trascurando quegli interventi sul processo e sull’efficienza che più volte abbiamo segnalato. Fatta questa premessa, non credo che modifiche in senso più restrittivo delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati potrebbero condurre a un miglioramento dell’azione giudiziaria. Anzi rischierebbero di essere controproducenti.

 

Questa però è un’obiezione vecchia di almeno vent’anni...

Ma il pericolo per l’attività giudiziaria è sempre attuale. Pensiamo solo a un altro campo, come quello della colpa medica, dove il chirurgo è soggetto a pressioni fino a qualche tempo fa inedite per effetto dell’esplodere delle cause per colpa medica. Che fa? Non opera? Anche il magistrato che si trovasse esposto al proliferare di richieste di risarcimento si troverebbe di fronte a dilemmi quasi del tutto analoghi.

 

Ma lo sa: l’accusa a questo punto è che la magistratura ancora una volta intende sottrarsi a verifiche sul suo operato.

Non direi. E glielo dimostro: i segnali che arrivano dal nuovo ordinamento giudiziario vanno in una direzione diversa. Massima disponibilità a controlli sulla professionalità come quelli che arriveranno ogni quattro anni, riducendo di molto il peso dell’anzianità nella progressione in carriera. L’importante è che il sistema si assesti su una posizione di equilibrio tra esigenze diverse senza che ne esca compromessa l’efficienza.

Giustizia: "caso Romeo"; è vero... ho finanziato la Margherita

di Fulvio Milone

 

La Stampa, 31 dicembre 2008

 

Diciotto dicembre, carcere di Poggioreale. Alfredo Romeo, finito in cella da appena un giorno, compare davanti ai suoi accusatori. Con lui ci sono gli avvocati Francesco Carotenuto e Bruno Von Arx. Dall’altro lato del tavolo siedono il giudice per le indagini preliminari Paola Russo e i pm Vincenzo D’Onofrio e Raffaello Falcone. Comincia così il primo, lungo round fra il detenuto eccellente e i magistrati che lo incalzeranno per 4 ore e mezza per sapere come e quando il re di Napoli è diventato il signore incontrastato di "Magnanapoli", l’uomo che secondo l’accusa avrebbe corrotto mezzo mondo politico napoletano.

Lusetti? "Un fanfarone". Un interrogatorio a tratti drammatico, con Romeo che, sotto un fuoco di fila di domande, ammette anche i suoi contatti con i Palazzi Romani: "Sì, ho finanziato la Margherita". "Singoli candidati o il partito?", chiedono i magistrati. "In trasparenza credo, ma non...", balbetta lui. E quanto ha dato, insistono i pm. "Non mi ricordo esattamente quanto e come", è la risposta. E con Rutelli, che rapporti c’erano? "No, no, personali, diretti, nessuno!", risponde l’imprenditore. Era lui, Rutelli, il "grande capo" menzionato nelle telefonate intercettate e al quale Romeo voleva raccomandare un assessore suo amico, Giorgio Nugnes, morto suicida un mese fa? È vero, proseguono i magistrati, che "lei, Romeo, si accheta con il fatto che Rutelli le avrebbe consegnato di suo pugno un invito al congresso?". Lui nega, ma non spiega. E quando gli chiedono conto della sua "sponsorizzazione" a favore di Nugnes presso il parlamentare Pd Renzo Lusetti, risponde: "Lusetti era la persona più vicina a Rutelli".

Ma poi, dello stesso Lusetti, dice: "Millantava sempre, era un fanfarone". Si riprende, Romeo, solo quando gli chiedono di Pomicino: "Mi chiamava dalle 5 alle 6 volte alla settimana", spiega con disinvoltura.

Le pressioni dei politici. La tesi di Romeo, ad ogni modo, è che erano loro, i politici, che chiedevano e facevano pressioni, non lui che pretendeva appalti: "Io sono cercato, non cerco". "Rifiuto gli incarichi dalla mattina alla sera con il Comune di Napoli", dice e dipinge i suoi interlocutori, gli assessori della Giunta Iervolino, come delle "cavallette": "Guardi signor giudice, io le spiego solo una cosa: noi oggi abbiamo un credito di venti milioni, il Comune non ci paga da due anni e questo era uno dei motivi principali che mi teneva in condizione di estrema diffidenza e estrema attenzione... Non so se ci sono le intercettazioni... dove io dico ai vari assessori che non intendo partecipare alla gara per la gestione dell’edilizia scolastica (uno degli appalti nel mirino dei giudici, ndr)... non ci credevamo, ma su quella abbiamo ceduto".

Insomma, Romeo quegli appalti d’oro non li voleva neanche. "L’ho sempre detto, lo dico all’assessore Gambale (in prigione anche lui, ndr): io non partecipo". E aggiunge di avere avvertito anche un altro amministratore, Di Mezza: "Dici al sindaco che questa cosa non mi interessa". Ma gli amministratori, insiste Romeo, premevano e chiedevano, sembrava non sapessero fare altro.

Le conversazioni con Bocchino. Le telefonate intercettate, però, lo smentiscono. Come quella al deputato di An Italo Bocchino, che il giudice gli contesta durante l’interrogatorio: proprio lì dove Romeo chiede al suo interlocutore di intervenire per convincere alcuni consiglieri della destra a ritirare degli emendamenti che potrebbero bloccare gli appalti. "Non ho mai chiesto di ritirare, ho sempre spiegato... le ragioni tecniche in base alle quali si poteva portare avanti un’operazione rispetto ad altre operazioni".

L’operazione era la sua, naturalmente. Ma Romeo sostiene con forza che in realtà, al Comune, lui ricopriva un ruolo di advisor, nient’altro. E poi, gli emendamenti erano solo "delle provocazioni": "Provate a leggere tutto questo vissuto e gestito da un imprenditore che è presente a Napoli e che è al centro di una serie di pressioni, provocazioni e vari atteggiamenti di partiti. Io voglio dire, sono umano come tutti quanti e quindi se arrivano provocazioni di questo tipo...".

Roma, la sua "fidanzata". E parla, l’imprenditore arrestato, anche degli appalti con il Comune di Roma per la gestione degli immobili durante la Giunta Veltroni: "Era stato voluto dall’amministrazione Veltroni perché il Comune che problema aveva? Era trasferire la responsabilità di tutti i sinistri civili, penali, in capo a un soggetto esterno alla pubblica amministrazione": E dice di essere stato bravissimo, in quel campo: "Abbiamo ridotto i sinistri del 50 per cento...".

Ma Romeo insiste sulla diffidenza che giura di avere sempre nutrito nei confronti della classe politica napoletana, e parlando di sé in terza persona spiega: "Romeo è bravo... Come mai dal 1990 a Napoli non ha altri incarichi (appalti, ndr)? Mentre a Venezia ne abbiamo tre, a Milano ne abbiamo quattro, a Napoli uno solo!". Ma i magistrati continuano a muovergli una serie di contestazioni, come quella che riguarda un incontro con il ministro della pubblica istruzione del Governo Prodi, Fioroni. Chiede il pm: "In una delle conversazioni fra lei e l’assessore Gambale pare vi siate recati dal ministro Fioroni. C’è stato l’incontro"? Romeo: "Sì". Pm: "Di cosa dovevate parlare?". Romeo: "Chiacchiere da corridoio... Ci ha ricevuto per tre minuti". Pm: "Al ministro avete regalato un quadro?" Romeo: "No, no". Pm: "A chi l’avete regalato quel quadro (se ne parla durante una telefonata intercettata ma senza riferimento al nome del destinatario del dono, ndr)?". "Onestamente non mi ricordo".

Giustizia: Iervolino; suicidio di Nugnes è stato atto di dignità

di Fulvio Milone

 

La Stampa, 31 dicembre 2008

 

Sfilano davanti ai magistrati gli amici e i nemici di Alfredo Romeo: i primi come indagati, gli altri come semplici testimoni. In entrambi i casi, i verbali degli interrogatori svolti nei giorni immediatamente successivi all’arresto dell’imprenditore offrono uno spaccato poco edificante del mondo politico napoletano e nazionale.

Il sindaco e il suicidio. Rosa Russo Iervolino ha un diavolo per capello quando, il 23 dicembre, viene sentita come persona informata sui fatti. E si lascia sfuggire parole pesanti come macigni a proposito del suicidio di un suo assessore, Giorgio Nugnes, implicato nelle indagini sugli incidenti per la discarica a Pianura e nell’inchiesta sugli appalti di Romeo: "Il suicidio di Nugnes lo leggo come un sussulto di dignità che probabilmente sarebbe mancato ad altri... Se l’avessi incrociato (al Comune, dove si recò poco prima di impiccarsi, ndr) non avrei esitato a rimproverarlo bonariamente e a mollargli, pur maternamente, anche due sganassoni".

Il sindaco ce l’ha a morte con gli amministratori della sua giunta, quelli finiti sotto inchiesta e che, nelle telefonate intercettate, parlavano male di lei. Li definisce degli "sfrantummati" (tradotto dal dialetto napoletano: smidollati, buoni a nulla, ndr). Come Giuseppe Gambale, assessore e sodale di Romeo, che palava di lei come di "una scema". Iervolino lo descrive con soave perfidia: "Il mio rapporto è nato all’epoca in cui egli era un componente della Rete di Leoluca Orlando e divenne parlamentare e membro del Governo. Un ragazzo che fece una rapida carriera politica ed era ella schiera di coloro che venivano definiti "giustizialisti".

È un focolarino (movimento cattolico fondato da Chiara Lubich, ndr), per cui non potevo che ritenerlo una persona onesta. Alla luce di quello che ho letto in questi giorni mi devo ricredere". Iervolino prosegue parlando di Romeo: "L’ho personalmente conosciuto nell’autunno del 2001, si presentò come gestore del patrimonio comunale.

Nel Natale di quell’anno giunse alla mia segreteria particolare un rotolo di cachemire di Rubinacci (esclusivo negozio di abbigliamento di Napoli, ndr). Il mio capo della segreteria telefonò per far ritirare quel presente". Ma il sindaco rivela, soprattutto, il vero motivo per cui non andò in porto il capitolato del mega-appalto Global Service che Romeo voleva aggiudicarsi. Non per mancanza di copertura finanziaria (400 milioni di euro), ma "perché già c’erano i sentori dell’indagine in corso, essendovi stata un’acquisizione di atti al Comune".

Rutelli e il "cazzeggio". Il 17 dicembre, giorno dell’arresto di Romeo, piomba a Napoli il senatore Francesco Rutelli. È arrabbiatissimo per alcune notizie che lo vogliono coinvolto nell’inchiesta. Nell’ordine di arresto per Romeo si parla di lui che, però, non è affatto indagato. L’ex leader della Margherita chiede e ottiene un incontro con i magistrati che gli chiedono dei chiarimenti.

"Ho conosciuto Romeo come uno dei più grandi imprenditori a livello nazionale nel settore immobiliare", dice, e aggiunge: "Non so se sia un iscritto, ma non escludo, anzi ritengo verosimile, che possa aver finanziato il partito". Rutelli ce l’ha con Renzo Lusetti, parlamentare del Pd pesantemente chiamato in causa per una serie di telefonate con Romeo. Lusetti diceva che sarebbe intervenuto presso il partito per favorire Romeo e i suoi amici? "Lusetti è molto esuberante... andando magari al di là di ciò che è la realtà, è portato a riferire cose che sono molto aleatorie...".

Ancora su Lusetti: "Per i rapporti fra lui e Romeo dovrei poter parlare fuori verbale". I magistrati gli chiedono chiarimenti su alcune telefonate in cui l’imprenditore arrestato parla di un "grande capo" che dovrebbe sistemare "delle cose a Roma", dove l’imprenditore vincerà poi un appalto grazie a una sentenza del Consiglio di Stato. "Non mi riconosco nel grande capo - dice Rutelli -. Conosco Paolo Troiano (giudice del Consiglio di Stato di cui si parla negli atti dell’inchiesta, ndr), ma non ho mai avuto rapporti di collaborazione con lui". E alla fine non si trattiene: "A me sembra un grande cazzeggio", commenta quando i pm gli leggono il testo di un’altra intercettazione.

L’assessore e Fioroni. Giuseppe Gambale viene interrogato il 20 dicembre, tre giorni dopo il suo arresto. Per l’accusa è lui il più fedele collaboratore e complice di Romeo. I pm gli chiedono se è vero che accompagnò l’imprenditore da Giuseppe Fioroni, all’epoca ministro dell’Istruzione del Governo Prodi. Lui conferma: "Romeo era scocciato di andare al Ministero da solo, senza sapere da dove entrare.

Aspettammo due ore e ci vedemmo per dieci minuti". I pm vogliono sapere come fossero i rapporti fra l’imprenditore e il ministro, e Gambale risponde: "Aveva rapporti con Rutelli e la corrente rutelliana... Romeo era nel consiglio di amministrazione di Europa (il giornale della Margherita, ndr), quindi in qualche maniera partecipava alla vita del partito".

"Con Rutelli o Fioroni?", insistono i magistrati. Risposta di Gambale: "Voleva conoscere anche l’altra corrente del partito". Altra domanda: Con De Mita aveva rapporti?". "Non lo so", ribatte l’assessore che, quando il magistrato gli chiede se Romeo avesse interesse ad allargare "le sue conoscenze politiche", spiega lapidario: "Fioroni era una corrente e Rutelli era un’altra corrente. De Mita giocava in proprio".

Il nemico di Romeo. "Contro Romeo ho condotto una vera e propria guerra che purtroppo non ha sortito alcun risultato". Così, il 23 dicembre, l’ex assessore comunale al Patrimonio Mario Rosario Di Costanzo comincia la sua deposizione davanti ai pm. E racconta di come "sin dal 1998 iniziai a segnalare alla società (di Romeo che gestiva il patrimonio immobiliare del Comune, ndr) alcune inefficienze".

Ma Di Costanzo incontrò resistenze forti alle sue denunce "per l’accondiscendenza dimostrata da alcuni consiglieri i quali, mi veniva riferito, avevano alcuni parenti in aziende collegate alla Romeo". Le anomalie "attinenti quell’impresa - aggiunge Di Costanzo - furono da me segnalate all’allora sindaco Antonio Bassolino, che istituì subito un’apposita Commissione i cui lavori misero in luce problemi nella manutenzione degli immobili e chiese un ribasso del 32 per cento".

Le denunce continuarono. "Nel 2001, incontrando la Iervolino, la misi in guardia: "Stai attenta alla Romeo perché lì finisce male: sono troppo diffuse, continue e insistenti le voci di collusioni di quell’azienda con consiglieri comunali e dirigenti di partito". Registrai uno stupore a mio parere ingiustificato da parte sua". Sì, perché la Iervolino "non poteva non conoscere le vicende della Romeo", conclude Di Costanzo che si lascia andare a una considerazione amara: "Ho constatato che a Napoli l’espressione "fare politica" significa sostanzialmente assicurare favori e quindi portare voti. Per questo motivo, in considerazione della mia attività poco popolare, non potevo trovare un elevato gradimento".

Giustizia: detenuto 3 anni, poi prosciolto; nessun risarcimento

 

Ansa, 31 dicembre 2008

 

Non spetta alcun risarcimento a Florian Sulzenbacher, un altoatesino di 36 anni che fu accusato dell’omicidio di una giovane austriaca e trascorse quasi tre anni in carcere prima che il vero assassino confessasse il delitto. I legali avevano chiesto un risarcimento di 495 mila euro, ma la Cassazione ha stabilito che la somma non gli spetta. In aula durante il processo, aveva tenuto un comportamento definito mendace.

Viene così sancito quanto aveva stabilito la Corte d’Appello di Bolzano, che aveva respinto la domanda di risarcimento: Sulzenbacher non uccise Carmen Wieser, ma attuò una serie di comportamenti processuali che potrebbero configurarsi come una colpa grave e perciò non gli spetta alcun risarcimento per la detenzione. Con le sue dichiarazioni - così la Corte d’Appello - rese in pratica possibile l’errore di attribuirgli il delitto.

Giustizia: Marzouk scarcerato; cercherò di ricominciare vivere

 

Ansa, 31 dicembre 2008

 

Azouz Marzouk, padre e marito di due delle vittime della strage di Erba, ha lasciato il carcere di Vigevano dove ha finito di scontare una pena a 13 mesi patteggiata per spaccio di droga. "Cercherò di ricominciare a vivere" le sue prime parole. Azouz, che aveva accanto a sé i suoi legali, Roberto Tropenscovino e Renato Panzeri, ha detto che è sua intenzione rimanere in Italia "per avere giustizia per mia moglie, mio figlio, mia suocera, per Valeria Cherubini e per Mario Frigerio". Quest’ultimo è l’unico sopravvissuto alla strage.

"Sono soddisfatto per l’ergastolo", ha aggiunto in riferimento alla sentenza con la quale i suoi ex vicini di casa, Olindo Romano e Rosa Bazzi sono stati condannati all’ergastolo con tre anni di isolamento diurno per l’eccidio dell’11 dicembre del 2006. "Sono soddisfatto ancor di più per la loro separazione - ha detto il tunisino -. Meno per quanto è successo dopo". Il riferimento alla possibilità di incontrarsi per i coniugi seppur in due carceri diverse.

Uno dei suoi legali, Roberto Tropenscovino, ha spiegato che Azouz rimarrà in una località segreta, "lontano dalle telecamere" in attesa dell’udienza in Cassazione, che si terrà presumibilmente in primavera, a proposito della espulsione posta come condizione perché Azouz patteggiasse la pena. "In quella sede si deciderà la legittimità di questa sentenza di patteggiamento". Azouz, giubbotto scuro, berretto di lana nero, aveva con sé il borsone con i suoi effetti personali. Si è poi allontanato a bordo dell’auto del suo avvocato.

Ragusa: per le Feste attività socio-ricreative rivolte ai detenuti

 

La Sicilia, 31 dicembre 2008

 

L’isolamento psicologico dei detenuti si avverte maggiormente in occasione delle festività natalizie, così l’assessorato provinciale alle Politiche Sociali, anche quest’anno, ha dato vita ad una serie di attività socio-ricreative rivolte agli ospiti delle Case Circondariali di Ragusa e Modica.

Si tratta d’iniziative di spessore sociale che puntano al reinserimento sociale dei detenuti e che sono stati pianificati dall’assessore Raffaele Monte. Una serie di rappresentazioni teatrali e musicali per consentire anche a chi è soggetto a restrizioni della libertà personale a partecipare attivamente a iniziative a sfondo

sociale. Una prima iniziativa riguarda lo spettacolo musicale curato dal coro "Mater Dei" di Ispica, mentre, per sabato 3 Gennaio è previsto uno spettacolo teatrale curato dalla compagnia "L’allegro palcoscenico" di Modica. Entrambi gli spettacoli saranno realizzati all’interno della casa circondariale di Ragusa. Alla popolazione detenuta di Modica, sono stati donati delle schede telefoniche per parlare con i propri cari e dei panettoni.

"L’obiettivo di queste iniziative - ha dichiarato l’assessore Monte - è di lenire la tristezza e la lontananza che vivono i detenuti ristretti nelle carceri della Provincia soprattutto in occasione di momenti che per le persone libere sono di festa". Queste manifestazioni vogliono essere un contributo, piccolo ma significativo, per alleviare questo distacco".

Piacenza: Assessori in visita augurale al carcere delle Novate

 

Sesto Potere, 31 dicembre 2008

 

Nei giorni scorsi, gli assessori alle Politiche Sociali di Comune e Provincia di Piacenza, Giovanna Palladini e Paola Gazzolo, si sono recate presso la Casa Circondariale di Piacenza per porgere gli auguri per le festività natalizie alla direttrice Caterina Zurlo. Nel corso dell’incontro, sono state affrontate le problematiche relative al carcere di Piacenza, sottolineando in particolare il fatto che, rispetto allo scorso anno, il numero dei detenuti è aumentato di circa un centinaio di unità.

Nell’occasione, hanno accompagnato Giovanna Palladini e Paola Gazzolo anche Brunello Buonocore, incaricato per le attività comunali a favore della popolazione detenuta, Valeria Parietti dell’associazione di volontariato penitenziario Oltre il Muro, Mara Verderi dell’associazione La Ricerca e, in rappresentanza della Caritas Diocesana, il direttore Giuseppe Chiodaroli e Massimo Magnaschi. Erano inoltre presenti Anna Barbieri e Sergio Driganti, responsabili del nucleo soci della Coop Nordest, che anche quest’anno ha scelto di mettersi al fianco delle istituzioni e delle associazioni, garantendo il dono di un panettone da un chilogrammo distribuito il giorno di Natale in ogni cella, accompagnato da un messaggio di auguri in cui si sottolinea che, dall’esterno, non ci si dimentica delle persone detenute in carcere, con l’auspicio di un loro tempestivo reinserimento nella comunità.

A questo proposito, come hanno riferito Massimo Magnaschi e Brunello Buonocore, che hanno consegnato i panettoni alle struttura delle Novate il 24 dicembre, alcuni detenuti sono rimasti stupiti dell’iniziativa e favorevolmente sorpresi. Il biglietto di auguri, tradotto in varie lingue, è stato firmato da Comune di Piacenza - Settore Servizi Sociali e Abitativi, Associazione Oltre il Muro, Caritas Diocesana, Comunità Papa Giovanni XXIII, Conferenza di S. Vincenzo e S. Anna e Associazione La Ricerca, oltre a Coop Consumatori Nordest, sezione soci di Piacenza.

Napoli: il ministro Maroni "regala" 5.000 telecamere alla città

 

Italia Oggi, 31 dicembre 2008

 

Un regalo tecnologico, per Napoli: il ministro dell’interno Roberto Maroni ha pensato a qualcosa di speciale, per il comune guidato da Rosa Russo Jervolino. Con un avviso di gara del dipartimento della Pubblica Sicurezza, direzione centrale dei servizi tecnico logistici e della gestione patrimoniale, il Viminale ha pianificato una procedura ristretta accelerata "per la progettazione, fornitura e messa in opera di un sistema di gestione, registrazione e controllo di cinquemila telecamere su circa sessanta aree territoriali e servizi di installazione personalizzazione configurazione e assistenza operativa presso il centro di gestione di Napoli".

Una gara (che sarà aggiudicata "in favore dell’offerta economicamente più vantaggiosa") per la quale le domande di partecipazione possono essere spedite entro il prossimo 12 gennaio, e precisamente non oltre le ore 14. Curiosamente, al Viminale c’è chi maligna dicendo "senz’altro è un appalto che non interessa il gruppo Romeo, anche se ha per oggetto la città di Napoli". E quelle telecamere serviranno moltissimo, per controllare il territorio.

Genova: senzatetto muore di freddo, davanti al "Carlo Felice"

 

Corriere della Sera, 31 dicembre 2008

 

Il cadavere di un senzatetto, morto probabilmente di freddo durante la notte, è stato ritrovato martedì mattina sotto il grande portico all’ingresso del Teatro Carlo Felice, nel cuore di Genova. L’uomo era privo di documenti. Sul posto sono intervenuti, oltre ai soccorritori del 118, vigili urbani, carabinieri ed il medico legale Aurelio Strizzoli, che dovrà accertare età e causa del decesso. L’allarme al 118 è stato dato alle 10 da un altro senzatetto che dormiva sotto il portico del teatro assieme alla vittima. Quando ha provato a scuotere il compagno per svegliarlo, si è reso conto che era morto.

La polizia municipale, che ha il compito di pattugliare la zona quando le temperature sono particolarmente rigide, ha spiegato di non aver notato l’uomo nella ronda notturna tra lunedì e martedì. Secondo i suoi compagni di strada, la vittima era straniera, forse dello Sri Lanka e aveva circa 42 anni. "Ci corichiamo dietro la colonna uno addosso all’altro per ripararci dal freddo" dice Felipe, che poi denuncia: "I carabinieri chiamati da quelli del Carlo Felice ci hanno preso le coperte per farci andare via".

Immediata la smentita di Amiu, l’azienda municipale dell’igiene urbana, e carabinieri. Anche il Comune di Genova, tramite l’assessore ai servizi sociali Roberta Papi, ha smentito che sia stato mai chiesto ai netturbini dell’Amiu di rimuovere i giacigli di fortuna realizzati dai barboni negli angoli di quello che è uno dei punti più centrali e frequentati della città. L’accusa rivolta dai compagni del clochard morto si riferisce probabilmente a ciò che accade in occasione di concerti o rappresentazioni liriche, quando la direzione del teatro Carlo Felice chiede all’Amiu di ripulire il portico dai rifiuti lasciati anche dai senzatetto.

Immigrazione: il migrante diventa capro espiatorio della crisi

di Maurizio Ambrosini

 

www.lavoce.info, 31 dicembre 2008

 

In tempi di recessione, fermiamo i nuovi ingressi di lavoratori immigrati: è una proposta illusoria e dannosa. In primo luogo perché i decreti flussi non consentono l’arrivo di nuovi migranti, ma danno la possibilità di regolarizzare la propria posizione a chi è già in Italia e ha un lavoro. E una simile norma nulla potrebbe verso i lavoratori neo-comunitari.

Quanto alle badanti, servono di continuo nuove forze per rispondere alla domanda. Si tratta però di una discussione utile alla propaganda politica perché individua un capro espiatorio delle difficoltà che si annunciano.

La proposta di bloccare i nuovi ingressi di lavoratori stranieri non è stata accolta, ma se ne è discusso e ha assunto un netto rilievo politico. Alla fine, si è comunque arrivati a una riduzione di 20mila unità negli ingressi programmati.

Braccia per agricoltura e industria. È necessaria un’osservazione preliminare: l’Italia è uno dei pochi Stati europei ad ammettere esplicitamente e a programmare annualmente l’ingresso per ragioni di lavoro di immigrati che non siano altamente qualificati o destinati a ricoprire posti di lavoro stagionali. Rispetto ai contesti europei centro-settentrionali, il nostro mercato del lavoro, come quello di altri paesi dell’Europa meridionale, si è mostrato molto più bisognoso di manodopera per una serie di occupazioni, generalmente manuali, che non hanno più trovato una risposta adeguata nell’offerta di lavoro nazionale. Il nostro mercato del lavoro, in altri termini, richiede braccia in misura maggiore dei nostri partner continentali. Con una recessione in atto, ci si può però domandare se non sia il caso di voltare pagina: i posti di lavoro disponibili, benché di mediocre qualità, dovrebbero essere lasciati agli italiani o eventualmente agli immigrati già regolarmente residenti che dovessero averne bisogno? Benché l’idea possa apparire ragionevole ed economicamente fondata, la sua applicazione sarebbe foriera di effetti perversi e risulterebbe di fatto irrealizzabile. Vediamo perché.

L’ipocrisia dei flussi. Primo e fondamentale problema. I decreti flussi, in realtà, non fanno entrare nuovi lavoratori, ma servono a regolarizzare lavoratori di fatto già entrati e inseriti nel mercato del lavoro italiano, presso imprese e famiglie. Lo hanno ammesso candidamente in Tv, vantandosene, gli ultimi due presidenti del Consiglio. Un anno fa sono state presentate domande di autorizzazione all’ingresso per circa 740mila persone, mentre soltanto 170mila hanno potuto regolarizzare la propria posizione. La sospensione del decreto avrebbe significato non arrestare gli ingressi, bensì annullare la possibilità di emergere e di entrare a far parte del mercato del lavoro legale. Il taglio di 20mila autorizzazioni non riduce i nuovi ingressi, bensì impedisce a 20mila persone già presenti e occupate in Italia di mettersi in regola. I lavoratori immigrati oggi irregolari, ma occupati, continuano a esserlo. E le imprese che li impiegano continuano a fare concorrenza sleale a quelle con lavoratori in regola. Contribuisce a questo esisto l’indebolimento delle ispezioni sui luoghi di lavoro, disposto dall’attuale governo,. Anche nelle famiglie, quanti non riescono a rientrare nei decreti flussi continuano a lavorare senza diritti, con sofferenza per loro e con riflessi negativi per salari e condizioni di impiego di altri.

Un freno alla possibilità di regolarizzarsi potrebbe avrebbe come effetto il rientro in patria? L’esperienza degli altri paesi riceventi, e dell’Italia di precedenti periodi difficili, come quello dei primi anni Novanta, non conforta questa previsione. È assai improbabile che l’immigrato che perde il lavoro per effetto della crisi, rientri in patria. L’emigrazione è un grande investimento, personale e familiare, ed è difficile che un migrante accetti di ritornare indietro sconfitto. La crisi inoltre colpisce anche le economie dei paesi d’origine, compromettendo la possibilità di aprire un’attività in patria o anche di trovare un lavoro.

Secondo problema. Ogni anno l’emanazione del cosiddetto "decreto flussi" sugli ingressi autorizzati è sollecitata dal ministero degli Esteri, perché serve come moneta di scambio con i paesi con cui abbiamo sottoscritto accordi per il rimpatrio degli immigrati espulsi, un’operazione già di per sé difficile e costosa, che in caso di mancata collaborazione diventerebbe pressoché impossibile. Alle ragioni economiche per l’apertura, si accompagnano dunque forti ragioni politiche, che toccano per di più uno dei punti più sentiti dall’opinione pubblica e più enfatizzati dall’attuale coalizione di governo.

Terzo problema. I decreti flussi autorizzano l’ingresso di lavoratori giuridicamente extracomunitari. Una sospensione toccherebbe solo loro, non i lavoratori che provengono da paesi neo-comunitari, come Romania, Polonia, Bulgaria. Ci sono poi i ricongiungimenti familiari degli immigrati regolarmente residenti, che comportano l’arrivo di coniugi in età da lavoro: non va dimenticato che il 50,4 per cento degli immigrati sono donne. In un paese democratico, rispettoso dei diritti umani, difficilmente i ricongiungimenti possono essere fermati. È quindi abbastanza illusorio credere, o far credere, che con la sospensione del decreto flussi, si fermerebbe l’immigrazione. Più probabilmente, si sostituirebbe un tipo di immigrazione con un altro.

Quarto problema. Buona parte dei posti di lavoro che gli immigrati occupano non solo sono di modesta qualità, ma sono destinati essenzialmente a immigrati neo arrivati, senza famiglia, senza legami sociali, senza conoscenze del nostro paese. L’esempio tipico sono le assistenti domiciliari. Quelle che con un termine molto riduttivo delle effettive responsabilità loro affidate chiamiamo "badanti". Queste lavoratrici, una volta ottenuto il sospirato permesso di soggiorno, di norma tendono a uscire da un ambito così costrittivo, pesante psicologicamente e inconciliabile con una vita privata normale. Appena possono, passano a lavorare in residenze per anziani, a impiegarsi come colf a ore e altro ancora. Servono quindi di continuo nuove forze per rispondere alla domanda. Per bloccare sul serio le assunzioni di nuove assistenti domiciliari dall’estero, bisognerebbe cambiare il modello di assistenza agli anziani, ma i costi sarebbero molto maggiori. Che siano sopportati dalle casse pubbliche o da quelle private, in tempi di crisi non sembra una soluzione destinata a fare molta strada. Non a caso, la quota di ingressi relativa alle assistenti domiciliari non è stata intaccata.

Quinto problema. Sappiamo che gli stili di vita non si adeguano subito e neppure automaticamente alle minori disponibilità di reddito. Per le idee relative ai lavori desiderabili, la vischiosità è ancora maggiore. Il lavoro, infatti, non è solo un modo per guadagnarsi da vivere, ma anche posizione sociale, immagine di se stessi di fronte agli altri. Non è affatto detto che gli italiani rimasti senza lavoro farebbero la coda per occupare i posti degli immigrati nei cantieri edili, nelle fonderie, negli allevamenti, nelle famiglie. In ogni caso, occorrerebbe parecchio tempo, mentre la manodopera, quando serve, come per esempio nelle attività stagionali legate all’agricoltura o al turismo, serve subito.

Per tutte queste ragioni, la proposta di chiusura delle frontiere era non solo ingannevole, ma dannosa. Ed è stata recepita solo parzialmente, in un gioco di mediazione puramente politica. Può però servire alla propaganda di partito, in questi tempi di crisi, perché individua i capri espiatori delle difficoltà che si annunciano. Non aiuta invece a perseguire gli interessi effettivi del paese.

Immigrati: La Russa frena Maroni; da Lega solo propaganda

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 31 dicembre 2008

 

"I politici della Lega quando hanno un compito, tendono ad assumerlo in esclusiva, dimenticandosi che il problema "sicurezza" riguarda anche altri ministri, non solo quello dell’Interno". Ignazio La Russa rivendica così, di fronte al partito di Bossi, e in particolare al titolare del Viminale Roberto Maroni, il doppio titolo che ha, sia come reggente di An, sia come ministro della Difesa di parlare di ordine pubblico e di emergenza immigrazione clandestina.

 

Ministro La Russa, dopo gli ultimi sbarchi a Lampedusa Maroni chiede linea dura con la Libia, lei, invece, frena: cosa sta succedendo?

"Per mille motivi che non tocca a me spiegare perché non li conosco, c’è un ritardo della Camera a ratificare il "trattato di amicizia" firmato da Berlusconi e Gheddafi che prevede, fra tanti impegni anche onerosi per l’Italia, il pattugliamento congiunto delle coste libiche".

 

Quando dice che bisogna rispettare i tempi "levantini" dei libici, però, sembra dare ragione a Gheddafi.

"Mai detto che ha ragione Gheddafi. Sono stato più volte invitato in Libia, ma ho sempre rifiutato finché non è chiara la situazione del rapporto bilaterale. La mia allusione alla mentalità araba è riassunta nel proverbio "vedere cammello, dare soldi".

 

Finché noi non adempiamo al nostro dovere di ratificare l’accordo italo-libico, perché mai il Colonnello dovrebbe far partire i pattugliamenti?".

 

Questa è la terza lite tra lei e Maroni da quando siete al governo. La prima era sull’impiego dei militari nelle città, la seconda quando Maroni disse che in Campania c’è la "guerra civile". Ora il titolare del Viminale l’accusa di occuparsi di "sicurezza" dai tropici mentre lui è in Padania.

"Un ministro dell’Interno non dovrebbe vantarsi di fare il proprio dovere, è chiaro che non può fare vacanza fra natale e Capodanno e a Ferragosto. Ma dietro a questa caduta di tono sulle vacanze, una sciocchezza, non c’è polemica, ma una difformità di vedute. Non dobbiamo offrire un alibi a Gheddafi e fargli dire ma se voi non ratificate, perché dovrei essere io ad adempiere per primo?".

 

Se è così semplice, è strano che non sia dello stesso parere il ministro dell’Interno.

"Maroni ci arriva benissimo, e anzi nel suo cuore mi dà certamente ragione. Lui, però, ha fatto prevalere il rapporto che il suo partito ha con l’opinione pubblica interna. La Lega ci ha abituati a questo: prima di tutto la ricerca del consenso".

 

Non è la prima volta che i toni fra Lega e libici sono tesi. Nei rapporti difficili fra Maroni e Libia pesa forse ancora la tensione che ci fu quando l’ex ministro leghista Roberto Calderoli mostrò una vignetta anti-islam sulla maglietta, scatenando una rivolta a Bengasi?

"Non credo che il motivo sia quello. Penso piuttosto che Maroni agisca nel solco della tradizione leghista che consiste nel calcare la mano per far vedere che la Lega è la più intransigente contro l’immigrazione clandestina. E dal punto di vista verbale è stato così. Io mi sono permesso di dire che siamo altrettanto intransigenti. Ma in più noi vogliamo anche il risultato".

 

Anche Maurizio Gasparri, di An e capogruppo Pdl alla Camera, sembra sulla linea di Maroni: ieri ha dichiarato "linea dura contro i ricatti libici, se non cessano le partenze di clandestini dalla Libia, niente trattato e niente strade".

"Sulla tolleranza zero contro l’immigrazione clandestina noi di An non siamo secondi a nessuno. Ma una cosa è la propaganda politica con enunciazioni forti che non fermano l’immigrazione clandestina. Un’altra è la soluzione di problemi. Dobbiamo capire qual è la strada migliore per ottenere il risultato di stoppare gli sbarchi. Per me, prima dobbiamo adempiere in toto. Dopo, possiamo alzare la voce coi libici non con parole, ma con i fatti. Se anche in seguito alla ratifica dell’accordo la Libia continuasse a non pattugliare le coste, allora applicheremo tutte le sanzioni e le ritorsioni perché non potrebbero più dire "siete voi italiani in difetto".

Droghe: Radicali a Gasparri; non fare di tutti i Ser.T. un fascio

 

Notiziario Aduc, 31 dicembre 2008

 

Ieri Maurizio Gasparri ha dichiarato: "Le Regioni sono latitanti. Non versano fondi alle comunità. Non fanno prevenzione. Sono colpevoli di un lassismo che fa dilagare la droga. I Sert sono un disastro totale". A questo proposito Giulio Manfredi (Comitato nazionale Radicali Italiani), scrive: "Con lo stile e la classe che tutti gli riconosciamo, Gasparri ha fatto di tutti i Sert un fascio, e li ha condannati senza appello.

Non conta che i servizi per le tossicodipendenze abbiano avuto nel 2007 oltre 171.000 soggetti in trattamento (fonte: Relazione del Governo al Parlamento, giugno 2008), dei quali solo un decimo (16.433) sono poi stati ospitati in comunità. Non conta che facciano questo sempre con l’acqua alla gola, perché è risaputo che il Sert è l’ultimo nella scala delle scelte di finanziamento dei direttori generali delle Aziende sanitarie.

Non conta che ora i Sert debbano occuparsi direttamente anche dei detenuti tossicodipendenti e alcolisti. Non conta che in questi ultimi dieci anni (dall’approvazione della legge di riforma n. 45 del 1999 e del successivo atto di intesa Stato-Regioni) il centro-destra abbia governato per più tempo del centro-sinistra sia a livello centrale sia in numerose Regioni. Quello che conta, per Gasparri e per Giovanardi, è farsi belli agli occhi di alcune comunità di riferimento, a qualunque costo.

Perché Gasparri e Giovanardi non visitano mai un Sert o un carcere, né a Natale né nel resto dell’anno? Magari scoprirebbero cose e persone da cui potrebbero imparare qualcosa di meglio o di diverso della Cristoterapia predicata (ma non so se praticata) da Don Gelmini".

Droghe: il Cardinale Sepe (Napoli); chi spaccia rinuncia a Dio

 

Notiziario Aduc, 31 dicembre 2008

 

"Chi smercia droga e chi insegue il guadagno facile ha rinunciato ad accogliere nel suo cuore Dio che nasce. È il monito che l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, ha lanciato celebrando la messa all’interno del carcere di Poggioreale. Sepe ha voluto ricordare ai detenuti presenti nella chiesa della casa circondariale - quasi tutti giovanissimi - che l’uomo ha sempre la possibilità di liberarsi dal peccato, dalla violenza. Ma noi cosa facciamo per accogliere Dio che nasce? Dobbiamo dire no, no ad una vita fatta di rimorsi, di paura, di rancori".

Un vangelo, un corano e un paio di manette aperte sono state offerte dai detenuti all’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, nel corso della messa celebrata oggi nel penitenziario di Poggioreale. "Il mio augurio è che la Chiesa sia sempre accogliente e che, in collaborazione con le istituzioni, via aiuti a crescere anche civilmente". ha detto il cardinale ai detenuti. "L’essere oggi in mezzo a voi - ha aggiunto - risponde a un mio bisogno che nasce dal cuore ma vi voglio far sentire anche la presenza viva della Chiesa, del vescovo e di quanti operano operano qui". I detenuti hanno poi voluto donare al cardinale un quadro - un paesaggio - opera di un detenuto con una cornice realizzata nel laboratorio di falegnameria del penitenziario. L’arcivescovo, invece, ha donato ai detenuti presenti un rosario.

Zimbabwe: in carcere per "banditismo" 16 attivisti diritti civili

 

Agi, 31 dicembre 2008

 

Un tribunale ordinario di Harare ha disposto la proroga della custodia cautelare in carcere a carico dell’attivista umanitaria Jestina Mukoko, di altri militanti del suo gruppo per i diritti civili Zimbabwe Peace Project e di diversi oppositori politici: in totale sono sedici le persone che dovranno restare in prigione, fino alla pronuncia della Corte Suprema dell’ex Rhodesia sugli addebiti a loro carico.

Mukoko e gli altri detenuti sono accusati di terrorismo, banditismo e, più in particolare, di aver reclutato individui e di averli fatti sottoporre ad addestramento militare in vista di un tentativo di colpo di stato per rovesciare il presidente Robert Mugabe, al potere ininterrottamente da 28 anni. Rilasciati invece due dissidenti sospettati di reati di minore gravità.

La leader del gruppo umanitario era stata arrestata a casa il 3 dicembre scorso, prelevata da ignoti che si erano qualificati come poliziotti; altrettanto era avvenuto dopo qualche giorno ad altri esponenti del medesimo movimento. Ci sono però reclusi che appartengono alla principale forza di opposizione nello Zimbabwe, l’Mdc o Movimento per il Cambiamento Democratico: erano spariti dalla circolazione già alla fine di ottobre, ma il regime ha sempre smentito fossero stati incarcerati. I giudici ordinari non si sono pronunciati sul merito delle accuse, rinviando la decisione alla Corte Suprema.

 

 

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