Rassegna stampa 8 novembre

 

Giustizia: facciamo attenzione all’uso della custodia cautelare

di Arturo Salerni e Gennaro Santoro (Settore Carcere del Prc - Antigone)

 

Aprile on-line, 8 novembre 2007

 

Se passasse la proposta approvata dal Cdm sul carcere preventivo, la popolazione nei penitenziari crescerebbe a dismisura generando un imbarbarimento dei rapporti sociali e nessuna efficace risposta alle esigenze di sicurezza che esistono nelle nostre comunità. Secondo i dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, attualmente su oltre 46mila persone presenti nelle nostre carceri circa il 60% è in attesa di giudizio. Un numero così elevato - unico nel contesto europeo - cozza con il rispetto della presunzione di non colpevolezza "sino alla condanna definitiva", sancito dall’art. 27 della Costituzione.

La loro incidenza determina inoltre un peggioramento delle condizioni di vita dell’insieme dei detenuti (col rischio di trattamenti inumani e degradanti, proibiti dalle convenzioni internazionali e dalla costituzione), ed impediscono di avviare efficacemente percorsi virtuosi di inserimento sociale dei detenuti, così come previsto dalla costituzione. Se, nel disegno costituzionale, il ricorso alla pena carceraria doveva essere considerato l’extrema ratio, nell’ambito del sistema penale la custodia cautelare - e vieppiù la custodia cautelare in carcere - dovrebbe essere l’assoluta eccezione.

Il tema della custodia cautelare ha invaso l’agenda del legislatore negli ultimi trent’anni della storia del nostro paese, quasi fosse il segnale di un’apertura garantista o al contrario di una stretta a fronte di vere o presunte emergenze criminali.

Il codice di procedura penale del 1930 non poneva limiti alla durata della custodia preventiva, in armonia con l’ideologia dominante dell’epoca fascista che non teneva in alcun conto le garanzie e gli interessi dell’imputato di fronte alla pretesa punitiva dello stato autoritario. A seguito di una sentenza della Corte Costituzionale sulla contrarietà ai principi costituzionali della mancanza di un termine finale sicuro, nel 1970 con la legge Valpreda si stabilirono limiti massimi di carcerazione per ogni fase processuale. Poi iniziò la fase dell’emergenza degli anni di piombo e si arrivò a termini massimi di carcerazione preventiva superiori agli undici anni. È quindi continuato un balletto schizofrenico, fatto di innalzamenti e riduzioni.

Col codice di procedura del 1989 e poi nel 1995 si fissano con maggiore chiarezza gli elementi in presenza dei quali possono essere disposte misure cautelari (pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga, concreto pericolo di commissione di gravi delitti). In ogni caso "la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata", salvo che si tratti di delitti di mafia (nel qual caso la custodia cautelare è sempre disposta in carcere). Gli ondeggiamenti - tra garanzie e durezza emergenziale - hanno attraversato anche la vicenda della custodia cautelare per i malati di AIDS, ed in generale contraddistinguono, più di altre, questa materia. Qui si inserisce la corsa ai "pacchetti sicurezza", che abbiamo già vissuto nella legislatura 1996-2001 e che oggi si ripropone con ulteriore virulenza ma anche con tanto pressappochismo.

Se dovesse passare, per restare al tema della custodia cautelare, la proposta approvata dal Consiglio dei Ministri per cui la custodia in carcere è sempre disposta nel caso di procedimenti penali per reati come incendio boschivo, furto in abitazione, furto con strappo è evidente che la popolazione carceraria crescerebbe rapidamente e a dismisura in modo tale da rendere ingestibile nel giro di pochi mesi la situazione. La situazione pre-indulto (il superamento della soglia dei sessantamila prigionieri) sarebbe un ricordo celestiale. A pagare sarebbero sempre di più coloro che non hanno i mezzi per difendersi e si accentuerebbe in maniera irreversibile la funzione del carcere quale contenitore della devianza legata alla miseria ed all’emarginazione sociale. Ci allontaneremmo da qualunque possibilità di intervenire sui nostri penitenziari per creare trattamenti umani ed efficaci e percorsi di risocializzazione. Si negherebbero in toto gli intenti contenuti nel programma dell’Unione.

L’abbandono della strada del contenimento della pena carceraria e della risocializzazione, insieme all’allontanamento dal terreno delle garanzie per gli imputati, genererebbe soltanto una spirale di imbarbarimento dei rapporti sociali e nessuna efficace risposta alle esigenze di sicurezza che esistono nelle nostre comunità.

Giustizia: nessuna mediazione, questo decreto non è votabile

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Il Manifesto, 8 novembre 2007

 

Il decreto legge sulle espulsioni non è votabile. Non lo è per ragioni giuridiche, politiche, culturali. Intervenire in materia penale con la decretazione di urgenza significa accettare l’idea che lo stato di diritto modifichi se stesso a causa di estemporanei eventi criminosi. I cultori del diritto penale ci direbbero che non può esserci crimine, per quanto efferato, che giustifichi la rottura dell’ordinarietà della legislazione penale. Mai ci saremmo immaginati che un governo di centro-sinistra arrivasse a tanto.

Se l’avesse fatto la destra avremmo parlato di decreto fascista e razzista. I prefetti d’ora in avanti potranno procedere a espulsioni, sottratte di fatto al controllo giurisdizionale, nei casi in cui "un cittadino dell’Unione o un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, abbia tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l’incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l’ordinaria convivenza".

Si tratta di una previsione generica e pericolosa, che potrebbe giustificare deportazioni di massa. Chi, senza commettere reato, compromette la dignità umana e non è compatibile con l’ordinaria convivenza? L’ubriaco, il lavavetri, il medicante, il povero? Sicuramente i rom, probabilmente i rumeni. La dicitura è vaga e priva di garanzie minime per il destinatario del provvedimento. La pericolosità che deve dare adito a provvedimenti repressivi non può che essere quella sancita dal codice penale. Altrimenti si entra nel campo del diritto penale sostanziale tipico dei Paesi illiberali (si pensi ai codici penali degli ex paesi comunisti).

Si tratta di una norma violenta, in continuità culturale con la Bossi-Fini. Una norma in palese contrasto con lo spirito e i contenuti del disegno di legge governativo Amato-Ferrero di riforma del testo unico sull’immigrazione, in contrasto con la filosofia dei trattati comunitari e della mai approvata, ma molto lusingata, Costituzione europea. Nel decreto viene previsto anche l’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino comunitario che per tre mesi vive in Italia senza sostentamento. Cacciare una persona solo perché priva di reddito significa opporsi ai flussi migratori infra-europei di persone povere.

È come se nell’Italia degli anni ‘50 avessimo vietato ai meridionali di andare a trovare lavoro al nord o se nell’Europa degli anni ‘80 avessimo vietato agli studenti di andare a vivere per qualche mese a Londra. Sui contenuti del decreto non c’è mediazione o tentativo emendativo che tenga. È da rispedire indietro al governo. Le forze della sinistra radicale possono in parlamento permettersi di farlo, anche se al governo, dove ogni astensione poteva venire strumentalizzata di fronte alla tragedia della donna violentata e ammazzata a Roma, hanno votato il decreto. Ma ora il parlamento può e deve riordinare le priorità, e la prima di esse è la cancellazione dell’orrenda Bossi-Fini. Proprio a Fini, recatosi in doppio petto a Tor di Quinto, è stata preparata un’autostrada per diventare sindaco della capitale.

Giustizia: quando l’emergenza suggerisce le scelte politiche

di Guido Savio (Avvocato a Torino)

 

www.radiocarcere.com, 8 novembre 2007

 

A seguito di un gravissimo e raccapricciante fatto di cronaca nera, il Governo italiano ha emanato un decreto legge che prevede la restrizione del diritto alla permanenza e libera circolazione dei cittadini comunitari nel nostro paese. Per la verità, tali previsioni erano già contenute in uno dei disegni di legge del "pacchetto sicurezza" approvato qualche giorno fa dal Consiglio dei ministri; ma, quel che ha indotto il ricorso alla decretazione d’urgenza è, appunto, l’omicidio della Sig.ra Reggiani. Se si considera che, fino al giorno prima del terribile fatto di sangue, i presupposti della decretazione d’urgenza non si ritenevano sussistenti, è ovvio che tale scelta sia stata determinata dallo sdegno dell’opinione pubblica, conseguente al fattaccio. Siamo all’ennesima legislazione emergenziale, sull’onda della cronaca nera.

Ma forse c’è qualcosa di più: c’è la ricerca della legittimazione popolare e politica, utile a compattare maggioranza ed opposizione in questa delicata fase della vita del Governo Prodi.

Nel merito, va ricordato che il decreto legge riguarda solo i cittadini comunitari ed i loro familiari, che possono pure essere extracomunitari, e che la relativa disciplina, che il D.L. modifica in parte, è stata adottata il 6 febbraio scorso ed è frutto dell’attuazione, tardiva, di una direttiva comunitaria del 2004: dunque ci sono vincoli comunitari da osservare. Il diritto alla libera circolazione dei cittadini dell’U.E. e dei loro familiari e la libertà di soggiorno nei Paesi membri non possono essere derogati, né si possono allontanare mendicanti e lavavetri, posto che il soggiorno è libero per i primi tre mesi, dopo di che è prevista solo la possibilità di iscrizione anagrafica. E l’allontanamento può essere solo disposto per gravi motivi di ordine pubblico.

Il Governo italiano, consapevole di questi vincoli comunitari, è intervenuto proprio ampliando il concetto di pubblica sicurezza, sino a prevederne motivi "imperativi", ravvisabili in quei comportamenti che compromettano la dignità umana e l’incolumità pubblica sì da rendere la permanenza in Italia del cittadino comunitario incompatibile con l’ordinaria convivenza. Il requisito della "imperatività" dei motivi di pubblica sicurezza, comporta l’allontanamento immediato, utilizzando istituti previsti dalla Bossi-Fini per i non comunitari.

Il punto è che queste definizioni di motivi imperativi di pubblica sicurezza sono talmente ampie e generiche da poter comprendere un’ampia gamma di comportamenti, sol che si esca dai dettami e dalle condotte di vita consuetudinari ( anche la maleducazione presenta profili di incompatibilità con l’ordinaria convivenza), con conseguente ampio potere discrezionale in capo all’autorità di pubblica sicurezza.

Ed allora, orinare sui cassonetti, fare chiasso sulla pubblica via, mendicare ai semafori, vendere cianfrusaglie, prostituirsi, guidare senza patente, sono tutte condotte astrattamente idonee a compromettere la dignità umana e minare l’ordinaria convivenza? Magari a Treviso sì e a Palermo no, con conseguente disparità di trattamento non solo sul territorio nazionale, ma tra cittadini comunitari ed extracomunitari per i quali la nuova disciplina non si applica.

Il decreto legge richiama espressamente istituti della Bossi-Fini che, fino all’altro giorno, il Governo in carica voleva superare. Dobbiamo amaramente constatare che all’incapacità sostanziale delle amministrazioni, specie dei grandi centri urbani, di governare il fenomeno migratorio con politiche di inclusione, si risponde sempre con la stessa ricetta: espulsioni, detenzione amministrativa, illeciti penali, come se questa formula fosse la panacea di tutti i mali e che cinque anni di Bossi-Fini, sentenze della Corte costituzionale comprese, non avessero insegnato nulla.

Che senso ha attribuire la competenza per la convalida degli accompagnamenti al giudice di pace, quando non solo il progetto di riforma governativo della Bossi-Fini la attribuiva al togato, ma pure lo stesso decreto la attribuisce, per il caso di ricorso, al tribunale?

Nell’attesa della convalida e dell’esecuzione dell’allontanamento il comunitario sarà trattenuto in un Cpt, ma i centri di detenzione amministrativa non dovevano essere superati? Il progetto di riforma del Ministro Amato, e prima ancora le conclusioni della commissione De Mistura, istituita dallo stesso dicastero, non prevedevano la loro sostanziale riduzione? È curioso che, per superare i centri di permanenza temporanea, ora si possano trattenere anche i cittadini comunitari.

Certo, i problemi della sicurezza, reale e percepita, sono importanti, ma quel che pare inaccettabile è il metodo di politica legislativa utilizzato. Non solo per la decretazione d’urgenza. È una miope politica dell’oggi che non ricorda l’esperienza di ieri e non si preoccupa del domani.

Giustizia: caso Cordì, alla Camera si discute di morti in carcere

 

Ansa, 8 novembre 2007

 

Sono 70 fino ad oggi i detenuti morti in carcere per cause naturali nel 2007; l’anno scorso furono in tutto 84. Non sono disponibili dati, invece, sui detenuti usciti dal carcere in sospensione pena per malattia e poi morti in ospedale o a casa perché si tratta di fatti avvenuti al di fuori del contesto carcerario. Lo ha detto il ministro per l’attuazione del programma, Giulio Santagata, rispondendo al question time alla Camera al deputato della Rosa nel Pugno, Sergio D’Elia, a proposito del caso di Antonio Cordì, esponente della ‘ndrangheta sottoposto al 41 bis e malato da tempo di cancro, morto l’8 agosto, un giorno dopo essere stato scarcerato.

Santagata, riferendo quanto comunicato dal Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria, ha affermato che "la sequenza dei fatti non dimostra alcuna violazione dei diritti del Cordì e non suggerisce altri accertamenti sulla condotta della magistratura di sorveglianza". Il regime detentivo speciale per Cordì, ha spiegato il ministro, "è stato confermato pur in presenza della patologia sanitaria, poiché ritenuto necessario dalla Dda di Reggio Calabria per lo spessore criminale del soggetto e del suo ruolo di vertice, non affievolito dalla malattia, in una organizzazione di carattere mafioso".

Cordì era stato scarcerato il 30 aprile scorso perché trascorresse sei mesi di detenzione domiciliare nel reparto di oncologia dell’ospedale Cardarelli di Napoli. L’11 giugno il magistrato aveva negato la detenzione domiciliare a Locri ritenendo che le condizioni del detenuto richiedessero cure ospedaliere. "Il 7 agosto - ha spiegato Santagata - il magistrato di sorveglianza di Napoli, sulla base della relazione sanitaria ricevuta il 6 agosto, sospendeva provvisoriamente l’esecuzione della pena alla luce del peggioramento delle condizioni di salute del condannato".

Giustizia: nel carcere di Termini Imerese siamo all’anno 1914

 

www.radiocarcere.com, 8 novembre 2007

 

Termini Imerese. La piazza centrale. Sulla destra c’è via Zara. Pochi passi a piedi ed ecco nella città l’inferno. Il carcere "Cavallacci" di Termini Imerese. Data di costruzione 1914. Fuori è un oscuro edificio, con la facciata fatiscente. Dentro è come una casa abbandonata, con i muri scrostati e pieni di muffa. Nel carcere di Termini Imerese ci sono rinchiusi 76 detenuti. Tra loro 53 sono in attesa di giudizio, e solo 23 sono condannati. 114 agenti li sorvegliano e pare che sia adottato alla lettera il c.d. metodo "Asinara" (ex carcere sardo).

Severità a dir poco eccessiva, burocrazia sopra ogni cosa, persone comprese. Non a caso di recente Salvatore 65 anni, detenuto analfabeta, si è visto negata la telefonata con la moglie (consentita dalla legge) solo perché non aveva redatto apposita domandina. "Marescià! Ma io nun sacciù scrivire!" - "‘U regolamendo palla chiaro, devi fa ‘a domandina!". Morale: niente domandina, niente telefonata.

Le celle del carcere di Termini Imerese, ospitano fino a 8 detenuti, che restano lì chiusi per 22 ore al giorno. Topi e blatte gli fanno compagnia. Puzza esce dai bagni delle celle. Un cesso alla turca e un lavandino. Puzza entra dalle finestre delle celle. I fumi tossici delle vicine raffinerie. Nel carcere di Termini Imerese, dove c’è ferro, c’è ruggine. Le brande, i rubinetti, le inferiate. Tutto è datato 1914.

Questa è la storia di Giovanni. "Mi chiamo Giovani, ho 52 anni, è stato detenuto per 8 anni nel carcere di Termini Imerese. "A Termini Imerese i detenuti unni cacano manciano!" (dove fanno i bisogni mangiano). "Il carcere è su due piani. Al piano terra ci sono le celle singole. Veri e propri buchi. Un metro e mezzo di larghezza per tre metri di lunghezza. C’è un pisciatoio con un muretto alto fino alle ginocchia, che quando passa l’agente vede il detenuto che fa i bisogni. Un po’ di luce entra da una finestrella, che sta a sei metri di altezza e che noi chiamiamo bocca di leone. Poi una branda, murata e un tavolino murato. Io sono stato per dieci giorni in quella cella e stavo per impazzire.

Al primo piano ci sono le celle c.d. comuni. Queste sono grandi 4 per 4. Anche lì in alto c’è una finestrella. In un angolo una tazza e un lavandino. Nel carcere di Termini Imerese non si conosce la parola bidè. Noi eravamo in otto detenuti dentro una cella così. E la situazione oggi non è molto diversa.

I letti a castello sono a tre piani e chi sta all’ultimo piano per non cadere di notte si lega al letto con una cinta! Dentro sta cella ci si muove a turno. Non c’è spazio per tutti. Così mentre 2 detenuti si muovono, gli altri 6 devono stare sulla branda. E d’altra parte non c’è soluzione. Noi 8 detenuti restavamo in cella per 22 ore al giorno. Sempre chiusi. Io per 8 anni ho vissuto così.

D’estate c’era un caldo infernale e d’inverno tanto freddo. Nel carcere di Termini Imerese il riscaldamento, i termosifoni proprio non ci sono. E l’umidità mista al freddo ti spezza le ossa. Stai lì sempre con il mal di testa e con il raffreddore. La notte per dormire io, come molti altri, mi mettevo i giornali sotto al pigiama per riscaldarmi.

Per otto anni il mio svago maggiore è stata l’ora d’aria. Un cortiletto di 15 metri quadri e lì dentro 20 detenuti ammucchiati. Intorno a noi mura altissime e sopra solo un pezzetto di cielo. Lo spazio era talmente poco che non riuscivamo neanche a camminare.

Nel carcere Cavalacci anche il mangiare è quello di una galera di cent’anni fa. Durante la settimana mangiavamo solo minestrina e pollo. La domenica: mortadella e pane raffermo. Quando ci davano 30 grammi di carne, era una festa per noi detenuti. Per il resto la cosa che non manca nel carcere di Termini Imerese è la disperazione e spesso c’è chi per ottenere un po’ di attenzione da fuoco alla cella.

Io da poco sono uscito dal carcere a Termini Imerese, ma penso ancora a chi sta lì dentro. Penso a quei detenuti che da una settimana stanno facendo lo sciopero della fame. Non chiedono la libertà, ma solo di non essere tratti come bestie. Chiedono di essere detenuti in un carcere che non li privi anche della dignità."

Giustizia: quale verità avremo per la morte di Aldo Bianzino?

 

Alternativ@Mente, 8 novembre 2007

 

Intervista a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, di Alessandro Ambrosin.

Aldo Bianzino, 44 anni, di professione falegname è morto. Non era un terrorista, non era un pedofilo, non era uno psicopatico omicida. Ma coltivava e si fumava la marijuana. Il suo corpo inanime è stato rinvenuto in una cella d’isolamento dell’Istituto penitenziario Capanne di Perugia il 14 ottobre, due giorni dopo l’arresto.

Aldo, rinchiuso con l’accusa di coltivazione e detenzione di canapa Indiana, avrebbe dovuto incontrare il 15 novembre il giudice titolare dell’inchiesta per l’interrogatorio preliminare. Dal un primo referto, redatto dal personale medico del carcere, le motivazioni del decesso sono riconducibili a malattie cardiache. Ma successivamente, viene scoperto che Aldo non è morto per cause accidentali, anzi. Il suo corpo presenta evidenti segni di lesioni traumatiche. Il fegato e la milza spezzate, quattro ematomi celebrali e due costole fratturate. Il giudice Petrazzini, che conduce l’indagine su Aldo Bisanzio per detenzione di droga, apre subito un’inchiesta per omicidio volontario.

Nel frattempo, il Comitato Verità e Giustizia per Aldo ha organizzato un sit-in davanti al carcere di Perugia sabato 10 novembre dalle 15.30. Abbiamo incontrato Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone.

 

Da questo episodio viene da domandarsi quali siano i metodi praticati all’interno delle carceri. Un fatto che inevitabilmente apre il capitolo sul trattamento dei detenuti. Come commenti l’epilogo di questa vicenda?

"L’inchiesta aperta su Bianzino per omicidio è per adesso un’inchiesta contro ignoti. Saranno le indagini a stabilire chi sono i responsabili. Certo è che, comunque siano andate le cose, non è il solo omicida materiale a essere coinvolto. Una quota di responsabilità è collettiva. Da un lato, di una collettività rintracciabile nell’istituto e, dall’altro, della collettività del sistema penitenziario. Quanto alla prima, chiunque sia il colpevole ha potuto contare quanto meno su comportamenti omissivi da parte di altri. Quanto alla seconda, io non credo a responsabilità esclusivamente individuali, a singoli elementi devianti di un sistema complesso come quello carcerario. Credo piuttosto a un brodo di coltura dove matura la possibilità di certi comportamenti.

Se il messaggio che viene dato agli operatori penitenziari è quello di una diffusa illegalità nel rispetto dei diritti dei detenuti, se la violenza all’interno delle carceri è diffusamente tollerata e in qualche caso perfino incitata, se il segnale lanciato centralmente è che lo spirito di corpo è più importante della vita di un uomo, allora anche l’estrema periferia, il singolo agente o il singolo medico penitenziario che certifica il falso, potrà vivere il suo mandato secondo questa ispirazione".

 

Esistono casi analoghi?

"Un episodio così cruento è difficile ritrovarlo nel passato. Ma le inchieste per maltrattamenti nelle carceri sono decine e decine. Molte finiscono nel nulla, altre vedono conferire promozioni di ruolo alle persone coinvolte al fine di toglierle dal posto di lavoro originario. L’inchiesta più colossale è quella su Sassari. Nel 2000, alla casa circondariale di San Sebastiano, ci fu una pacifica protesta dei detenuti. A seguito di ciò, l’amministrazione decise uno sfollamento generale verso altri istituti sardi. Durante il trasferimento, circa trenta detenuti furono brutalmente maltrattati, trascinati nudi per terra, presi a calci e a pugni. Il processo di primo grado si concluse con pene ridicole".

 

La vostra Associazione, impegnata da anni su questo fronte come si adopera per contrastare questo fenomeno?

"Nel 1998, Antigone ha creato un Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia. Siamo autorizzati dal Ministero della Giustizia a visitare periodicamente tutte le carceri del territorio nazionale. La filosofia dell’Osservatorio è proprio quella della prevenzione: più il carcere è visitato dalla società civile, più è reso luogo aperto all’esterno e non opaco, maggiore sarà la tutela delle persone che in esso vivono. Noi pubblichiamo ogni due anni un Rapporto sulle carceri nel quale raccontiamo anche tutti gli episodi di violenza che vi accadono, che denunciamo pure al Consiglio d’Europa. In casi particolari ci siamo costituiti parte civile nei processi".

 

Lo Stato dovrebbe garantire l’incolumità del trattamento del carcerato. Le nostri leggi italiane cosa prevedono rispetto alla vita reale all’interno di un carcere?

"Le leggi prevedono tante cose che non vengono rispettate. Ben sette anni fa, è entrato in vigore un nuovo regolamento penitenziario che prescriveva una serie cose rimaste inattuate. Erano norme di buon senso, che volevano andare nella direzione di considerare la pena non un periodo di tempo morto e inutilizzabile bensì un momento di reintegrazione sociale delle persone condannate. Un esempio tra tutti: venivano previsti mediatori culturali per gli stranieri, che costituiscono oltre il 30% della popolazione detenuta. Come pensare di rieducare, come dice la nostra Costituzione con un termine che non amo particolarmente, se neanche ci preoccupiamo di capirci linguisticamente? Quanto allo specifico della violenza, l’Italia sarebbe obbligata da accordi sovranazionali firmati e ratificati a prevedere il crimine specifico della tortura, quando la violenza è effettuata da qualcuno che non aveva bisogno di sequestrare la propria vittima per maltrattarla visto che già lo Stato gli attribuiva il compito di custodirla. Ma la legge che introdurrebbe questo reato nel nostro codice penale è ferma in Parlamento".

 

La famiglia di Bianzino si costituirà parte civile. Tuttavia, l’episodio si è verificato all’interno di un istituto penitenziario. Un luogo per lo più sconosciuto dalla società civile. Nonostante ciò, credi si potrà fare chiarezza sull’episodio e rendere giustizia?

"Credo che il caso Bianzino possa costituire uno spartiacque tra il prima e il dopo. Al Governo ci sono forze di centrosinistra, e il sottosegretario Luigi Manconi ha dichiarato che non permetterà che non si faccia luce su questa vicenda. Si ha oggi la possibilità di dare un segnale netto di inversione di tendenza: il carcere non è più un luogo separato, dove la violenza si può usare perché tanto all’esterno non viene notata. Della violenza carceraria si parla, su di essa si fanno inchieste portate fino in fondo, i suoi responsabili vengono identificati".

Giustizia: prevenzione, misure alternative più efficaci di carcere

 

Redattore Sociale, 8 novembre 2007

 

Nel 2006 ne hanno beneficiato 45.546 le persone, provvedimenti revocati sono nel 4% dei casi. Nel 1991 ne usufruivano circa 5.000 soggetti, nel 2005 la quota è salita a 45.000.

Le misure alternative sono più efficaci del carcere. È quanto affermano i dati diffusi oggi a Roma dall’ordine nazionale degli assistenti sociali. Sono state 45.546 le persone affidate nel 2006 ai servizi alternativi al carcere, come l’affidamento in prova, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Di queste soltanto il 4% è stato soggetto a revoca, perché la persona ha commesso un nuovo reato o perché si è resa irreperibile. Non solo, ma secondo una ricerca della direzione generale esecuzione penale esterna del Dap, su 8.817 casi di affidamento in prova che hanno avuto termini nel 1998, solo il 19% delle persone è tornato a delinquere dal 1998 al 2005. Risultati molto positivi, che evidenziano la maggiore efficacia di tali misure soprattutto se confrontati con i dati relativi ai detenuti che hanno scontato tutta la pena all’interno del sistema penitenziario. Nello stesso arco di tempo analizzato, e cioè dal 1998 al 2005, i detenuti scarcerati sono stati recidivi nel 68,45% dei casi. Misure che funzionano quindi ma che secondo l’ordine sono ancora poco riconosciute. L’affidamento in prova, come le altre misure di detenzione alternative sono infatti oggi considerate alla stregua di un premio per i detenuti. Un paradosso inaccettabile per gli assistenti sociali, soprattutto a fronte di una sistema carcerario in crisi per il problema del sovraffollamento.

"Le misure alternative hanno come obiettivo la piena reintegrazione sociale della persona. L’accento è posto su due concetti fondamentali, la responsabilizzazione del condannato e la territorializzazione della pena, cioè sulla risoluzione del problema nel contesto in cui esso si è generato. I dati a nostra disposizione confermano l’efficacia di tali misure alternative. L’inclusione e la coesione non sono solo parole ma concetti che generano risorse per le persone e per la comunità tutta" -ha detto Franca Dente, vicepresidente del consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali, intervenendo oggi a Roma al convegno sul tema delle misure alternative alla detenzione.

Negli ultimi anni la crescita delle misure alternative è stata costante ed esponenziale. Se nel 1991 usufruivano di tali misure circa 5.000 soggetti, nel 2005 la quota è salita a 45.000. Un dato importante che secondo Fiorella Cava, presidente dell’Ordine degli assistenti sociali va tenuto ben presente: "Vogliamo contribuire in ogni modo all’ammodernamento e alla riorganizzazione del sistema giustizia e appoggiamo l"intento di rafforzare la legalità sul territorio, ma non va dimenticato che tutto questo passa anche, e oggi forse soprattutto (vedi la questione del sovraffollamento carcerario) attraverso le sanzioni e le misure non detentive. Anzi esse vanno potenziate attraverso maggiori risorse finanziarie e un aumento dell’organico degli assistenti sociali che debbono rimanere le figure centrali e titolari del trattamento".

Giustizia: Margara; i poliziotti non devono stare negli Uepe

 

Redattore Sociale, 8 novembre 2007

 

Il presidente, Alessandro Margara: "La tipicità delle misure alternative è rappresentata dal contributo del servizio sociale. Dentro l’Uepe dovrebbe esserci una persona che accompagna e che non è un poliziotto, ma un operatore sociale".

"La tipicità delle misure alternative è rappresentata dal contributo del servizio sociale. Dentro l’Uepe dovrebbe esserci una persona che accompagna e che non è un poliziotto, ma un operatore sociale. L’affidamento al servizio sociale prevede il reinserimento delle persone, mentre l’attività della polizia rileva solo l’inosservanza delle regole. La questione del controllo è demagogica, insisto nel dire che non appartengono alla polizia penitenziaria queste mansioni, ma che si creerebbe un sovraffollamento su funzioni che sono già coperte". Ribadisce così il suo no all’ipotesi di riorganizzazione delle misure alternative al carcere Alessandro Margara, presidente della fondazione Michelucci. Un cambiamento che prevede la collaborazione della polizia penitenziaria negli uffici dell’esecuzione penale esterna, responsabili delle misure alternative alla detenzione, e quindi un ulteriore controllo sul sistema.

Una correlazione degli ambiti operativi poco gradita però dall’ordine nazionale degli assistenti sociali, per il timore che venga così sminuito il mandato professionale del servizio sociale. Pur appoggiando l’intento di rafforzare e ammodernare il sistema giudiziario, gli assistenti sociali chiedono al governo maggiori risorse perla categoria, che deve, secondo loro rimanere unico titolare del trattamento. Non è dello stesso avviso però Riccardo Turrini Vita, direttore generale dell’Ufficio esecuzione penale esterna, che ha sottolineato invece come sia necessario valutare la questione solo quando la collaborazione sarà già avviata. "È giusto tutelare i professionisti" -ha detto- "ma chi decide quali professionisti devono stare in maniera esclusiva in un ufficio? Non si può parlare di controllo solo in termini di stigmatizzazione. Il sistema si può ricostruire parlando di specificità reciproche".

L’ordine nazionale degli assistenti sociali ha fatto inoltre appello al ministero della Giustizia e al Governo, affinché nella discussione sul pacchetto sicurezza e sulla legge finanziaria, vengano stanziate maggiori risorse per l’Uepe, come maggiore investimento nelle politiche di prevenzione e inclusione sociale.

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 8 novembre 2007

 

G. dal carcere di Bologna

"Cara Radio carcere, qui nel carcere di Bologna la situazione si fa sempre più difficile. A causa del sovraffollamento, siamo in 950 detenuti in un carcere che ne potrebbe contenere solo 480, nelle celle hanno iniziato a mettere la terza branda, per il terzo detenuto. Molti dei nuovi giunti sono stranieri, altri sono italiani, ma sono analfabeti e molto poveri. Lo spazio per vivere in cella è minimo e non di certo sufficiente per poter vivere con un pò di dignità.

Non ci resta che vivere ammassati, come maiali, senza neanche gli armadi per metterci i vestiti. In tutto questo il malessere aumenta e anche il nervosismo. Le dico solo che io, come altri detenuti, non facciamo neanche più l’ora d’aria per la nausea che ci prende ogni volta che dobbiamo rientrare in cella. Siamo condannati a stare in una cella sovraffollata e senza poter lavorare. È questa una vita terribile. E una condanna che si definisce da sé".

 

Giuseppe, Fabio, e Alfredo dal carcere di Lanciano

"Caro Riccardo, è tanto che ti seguiamo, ma è la prima volta che ti scriviamo. Devi sapere che del carcere di Lanciano nessuno si occupa eppure tante sono le cose che non vanno. Vedi, mentre la direttrice e la polizia penitenziaria si comporta bene e ha rispetto di noi detenuti, quello che ci manca è un’attenzione vera dell’educatore. Qui ce né solo uno che fa il bello e il cattivo tempo. Noi siamo tutti e tre giovani e abbiamo voglia di rifarci una vita, non vogliamo buttarla in galera, ma come facciamo se nessuno ci aiuta? Come facciamo se neanche l’educatore ci tende una mano? È questo il punto. Sui giornali si parla tanto dei recidivi e di chi semilibero commette reati, ma di noi detenuti che vogliamo cambiare ma che non veniamo aiutati parli solo Tu? Noi speriamo tanto che queste nostre parole arrivino all’orecchio del Ministro Mastella o di qualcuno al Ministero. Aspettiamo nella speranza di non buttare via le nostre vite. Ti salutiamo con tanta stima".

 

Fortunato dal carcere di Vercelli

"Cara Radio Carcere, mi chiamo Fortunato e ho 50 anni e mi trovo detenuto qui nel carcere di Vercelli. Qui le celle sono fatte per una sola persona ma ci stiamo in due. E ti dirò non è neanche questo un grande problema. Il problema è che al carcere di Vercelli non viene fatta manutenzione da 7, 8 anni. Morale molte celle hanno i muri scrostati, ammuffiti e inzuppati d’acqua. Spesso l’acqua scende dal soffitto delle celle e crea delle vere e proprie pozzanghere sul pavimento. Ti lascio immaginare col freddo che fa come siamo costretti a vivere. Come se non bastasse da un po’ di tempo alle finestre delle nostre celle hanno messo una fitta rete metallica, che impedisce l’ingresso di luce e aria. Poi, l’acqua dei rubinetti delle celle dovrebbe essere potabile e molti detenuti la bevono solo perché non si possono comprare quella minerale. Ma la verità è che spesso quell’acqua esce nera dai rubinetti. Anche lavarsi è un problema, visto che c’è solo una doccia che deve servire a 60 detenuti. Ora domando: chi mai riuscirà a smantellare questa macchina impazzita e inefficiente che è la giustizia e il carcere?".

Sardegna: gravi ritardi in attuazione di intesa col Ministero

 

Ags Media, 8 novembre 2007

 

Gravi e preoccupanti ritardi nell’attuazione del protocollo d’intesa, sottoscritto tra il Ministero della Giustizia e la Regione Sardegna, per programmi d’intervento a sostegno delle esigenze delle comunità nelle quali insistono gli istituti di pena, vengono denunciati dalla consigliera socialista Maria Grazia Caligaris (Sdi - Partito Socialista), segretaria della Commissione Diritti Civili, in un’interrogazione al Presidente della Regione Renato Soru.

Tenuto conto che sono trascorsi circa due anni dalla firma del protocollo e non si è avuta alcuna informazione sui diversi impegni assunti, Caligaris chiede di conoscere "le cause e le eventuali responsabilità dei ritardi" dopo le energie profuse per la predisposizione ed il conseguimento dell’Intesa. Secondo la consigliera non sono stati concretizzate iniziative per dare tempestiva esecuzione al protocollo che riveste notevole importanza sociale e che ha suscitato attese e speranze negli operatori, nella popolazione detenuta, nelle famiglie coinvolte e nel volontariato".

La Regione si è impegnata - sottolinea Caligaris - ad "istituire una Commissione interistituzionale permanente con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nell’attuazione del protocollo e di due componenti della Seconda Commissione Consiliare". Il protocollo prevede inoltre l’attivazione di "una Segreteria Tecnica Regionale a supporto della Commissione nell’attuazione dell’intesa e di un Osservatorio regionale sulle condizioni della popolazione detenuta in attesa di giudizio e in esecuzione di pena sia all’interno degli istituti che all’esterno.

Si tratta - afferma l’esponente socialista - di un documento innovativo nella considerazione delle problematiche connesse al rapporto tra cittadini detenuti e comunità. Sono infatti previsti programmi di "formazione congiunta rivolti al personale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, del Dipartimento della Giustizia Minorile, degli Enti Locali, delle Aziende Usl" e di "informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle aree di intervento del protocollo".

Per la formazione e l’aggiornamento è stata altresì individuata l’istituzione di "un gruppo misto che terrà conto delle esigenze sia del personale appartenente alle diverse professionalità, che del volontariato e del Terzo Settore, delle tipologie di utenza, del loro modificarsi delle caratteristiche socioculturali del territorio". Annualmente infine sono previste verifiche sull’attuazione. L’attuazione del protocollo - conclude Caligaris - consentirebbe tra l’altro finalmente di conoscere il numero dei detenuti sardi, in esecuzione di pena o in attesa di giudizio, rinchiusi nelle case circondariali e mandamentali della Penisola e i costi annui sostenuti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per le traduzioni".

Milano: no agli ormoni gratuiti per i detenuti transessuali

 

Ansa, 8 novembre 2007

 

"Condividiamo totalmente la posizione dell’assessorato alle Politiche sanitarie della Regione Veneto, che ha espresso la propria contrarietà alla decisione di fornire gratis ormoni ai detenuti transessuali".

Lo afferma l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia Luciano Bresciani. "Innanzitutto gli ormoni ai transessuali non tutelano la salute dei carcerati ma potrebbero al contrario provocare dei danni per l’assunzione dei farmaci stessi. Inoltre - continua l’assessore Bresciani - tale prestazione non è prevista nei provvedimenti del Ministero della Salute attinenti ai Livelli essenziali di assistenza (Lea) e pertanto non può essere finanziato né dal Fondo sanitario nazionale né da quello regionale".

"È noto infatti che la politica carceraria è di competenza del Ministero della Giustizia -sottolinea Luciano Bresciani - Ci si dimentica questo quando si chiede alle Regioni di organizzare negli ospedali reparti per i carcerati, quando si chiedono cure per i carcerati utilizzando fondi dedicati ai cittadini residenti regionali, e lo si dimentica anche quando si chiedono, come in questo caso, cure ormonali non previste dal Ministero della Salute". "Insomma, siamo alle solite: Roma cerca di graffiare altri soldi alle Regioni e per farlo manda avanti piccoli pedoni avendo già perso gli alfieri".

Lodi: ora è necessario avviare dei processi di cambiamento

di Stefania Mussio (direttore della Casa Circondariale di Lodi)

 

Il Cittadino, 8 novembre 2007

 

La Casa circondariale di Lodi è un piccolo istituto che però, purtroppo, condivide problemi che affliggono oramai da tempo tutte le realtà carcerarie: sovraffollamento, carenza di organico, di mezzi e altre difficoltà che ci obbligano, a volte, a lavorare in condizioni davvero precarie. Ma non ci si può e non ci si deve fermare a questo. Credo che il cronicizzarsi di un problema debba indurci a trovare il modo per imparare a gestirlo.

Qui a Lodi si sta facendo o, in tanto si sta imparando a farlo. Nella realtà penitenziaria, infatti, si possono fare molte cose e tanti possono essere gli spunti di novità: credo sia un dato positivo perché indice di risorse di idee. Le novità sono fonte di crescita e così dovrebbero essere vissute e accolte soprattutto in un istituto, come quello di Lodi che vive il duplice cambiamento del direttore e del comandante di reparto.

Per me è un’esperienza in cui desidero impegnarmi per accrescere e valorizzare ogni aspetto che richiede la mia responsabilità. Garantire la legalità ed essere coerenti e credibili non è affatto semplice: ma è la sfida che ogni giorno la polizia penitenziaria si trova ad affrontare in un contesto di esistenze sofferte, drammatiche, a volte paradossali ...ad occhio umano. Sono talmente tante e tali le contraddizioni che è fin troppo facile lasciarsi prendere dallo scoramento.

È lì allora che si misura il vero coraggio, che è quello di resistere e di essere tenaci e creativi. Tutti devono dunque contribuire al cambiamento. Riconosco con gratitudine lo forzo e l’impegno di quanti sono aperti alle novità e perseverano nel loro lavoro. Non ci si deve demotivare o credere che non vi siano momenti e motivi di crisi: ciò che non deve prevalere è la resistenza e la sfiducia di fronte al cambiamento. Non sono certo necessari cambiamenti repentini e disorganici: non servono e non sono utili ad una realtà complessa come quella del carcere.

Una organizzazione complessa in cui si incontrano e si intersecano il lavoro del personale medico e infermieristico, di quello contabile, di quello di chi è preposto all’area educativa e del trattamento, dell’area amministrativa, del nostro cappellano e di chi svolge il compito della sicurezza, la nostra polizia penitenziaria; tutti per un lavoro che si vuole qualitativamente migliore e più responsabile. Tuttavia è necessario, se si crede e si vuole, avviare processi di cambiamento con determinazione. Ognuno di noi ha la responsabilità di come sarà la sua giornata. Se un cambiamento si sta avviando è, infatti, per migliorare la qualità del lavoro e del servizio, nella consapevolezza che i cambiamenti richiedono tempo, pazienza, caparbietà e sacrificio.

Queste qualità non mancano agli operatori di polizia penitenziaria e, forse più di quanto loro stessi siano consapevoli di avere, le dimostrano nel momento del bisogno e delle difficoltà. Io lo vedo, specie in chi più da vicino comprende e collabora in questo progetto di rinnovamento. Ringrazio sin da ora quanti operatori della polizia penitenziaria insieme contribuiranno a realizzare gli obiettivi istituzionali in una quotidianità più serena in cui riconoscere comuni priorità.

Uno degli obiettivi dai quali, nel mio impegno, non posso prescindere è quello di definire e valorizzare i ruoli, le esperienze e le responsabilità: potenziare la conoscenza reciproca dei compiti, dei diritti e dei doveri, avviare un confronto costruttivo in cui partecipare è condividere e non essere spettatore. Non è importante quello che si fa o ancor di più quello che si dice di fare: è importante come si fa un lavoro, come si lavora insieme.

Un lavoro difficile e complesso è accettato nella misura in cui è condiviso e, ancora, se adempiuto con serietà. Questo è straordinario. Questo è ciò che definisco unico: troppo spesso definiamo straordinari eventi che in modo estemporaneo possono caratterizzare la nostra quotidianità e nei quali riversiamo in modo speciale le nostre energie. Credo piuttosto che la vera straordinarietà sia nel sostenersi e nel perseverare in una continua crescita professionale e umana.

Per me oggi, a soli due mesi dal mio arrivo continuativo a Lodi, diventa questo anche un tempo di particolare ringraziamento. Vorrei ricordare tutti: le autorità che dirigono e coordinano le istituzioni con le quali è costante l’interazione professionale e la positiva collaborazione per garantire, con noi la legalità. Tutte le istituzioni territoriali, che conosco ancora poco ma che, attraverso i loro operatori ho, in qualche occasione, già avuto modo di apprezzare cogliendone lo sforzo e l’impegno alla cooperazione.

Un territorio vivace nel volontariato che, tuttavia, auspichiamo di poter coinvolgere sempre di più nelle nostre progettualità e che per questo sia preparato in modo da affrontare con estrema consapevolezza e pazienza le questioni del mondo penitenziario. Un particolare ringraziamento sento di esprimere a quanti da tempo, da anni, dedicano tempo ed energie, in modo gratuito e solidale ai detenuti del carcere di Lodi. Le differenti associazioni di volontariato, ognuna con il proprio carisma, tutti gli operatori da loro coinvolti nei servizi a disposizione dei detenuti, i giovani che sovente animano momenti ricreativi e culturali, sono per noi energia preziosa di sostegno e di rinforzo del nostro lavoro.

Un pensiero di ringraziamento anche alle organizzazioni sindacali a cui chiedo il loro contributo per il lavoro che ci aspetta. Un sentito grazie a chi ha collaborato con buona volontà all’allestimento della festa, a quanti lo hanno fatto in modo silenzioso e generoso, come sempre in tempi ridotti e con risorse contenute.

Si è fatto molto, con grande disponibilità. Infine, un grazie particolare alle nostre famiglie, che forse troppo spesso si fanno carico anche del fardello di patire con noi gli aspetti frustranti di un lavoro difficile ed impegnativo. Un pensiero al comandante di reparto uscente, l’ispettore Ciaramella, che in questi molti anni ha condiviso con il personale un lavoro di onori ma più spesso di oneri: ha garantito continuità e sono certa che nei momenti difficili ha saputo resistere e proseguire.

Al nuovo comandante Alborghetti, che tanto ha già fatto, l’augurio a svolgere un servizio paziente, credibile, solidale e carico di umanità. Un servizio in cui impiegare energie e risorse per condividere una nuova progettualità in cui la persona sia al centro del nostro agire. Un ultimo pensiero agli agenti e operatori che stanno partecipando alla festa attraverso il loro lavoro quotidiano, a coloro che in questo momento sono in servizio e che ci permettono di essere qui a festeggiare.

Chiavari: progetto di "area verde" per i familiari dei detenuti

 

Agi, 8 novembre 2007

 

Avrà alberi, aiuole, un prato, giochi e panchine come un piccolo parco pubblico, ma dentro le mura del carcere, per accogliere bambini e ragazzi delle famiglie in visita ai parenti detenuti nella Casa Circondariale di Chiavari. La nuova "Area Verde" sarà finanziata dalla Provincia di Genova con uno stanziamento iniziale di 5.000 euro e una quota ulteriore per completare gli interventi nel 2008, accogliendo la richiesta e il progetto della Direzione dell’istituto penitenziario del Tigullio.

La delibera, approvata dalla giunta provinciale su proposta del presidente Alessandro Repetto, "prosegue le iniziative e gli interventi avviati, nell’ambito delle competenze della Provincia, dalla Commissione speciale carceri dell’ente per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti - ha detto Milò Bertolotto, assessore provinciale alle carceri - e coinvolge direttamente i detenuti nella riqualificazione degli spazi interni all’istituto penitenziario destinati ad accogliere i loro figli e familiari in visita per i colloqui".

L’Area verde sarà allestita in una zona, attualmente non utilizzata, all’interno delle mura dell’istituto penitenziario, "in modo da garantire la massima sicurezza" ha sottolineato Bertolotto. L’area sarà attrezzata con un gazebo per i picnic, terrari per alberelli di limoni e alloro, uno scivolo e altri giochi e alcune panchine attorno a un piccolo prato d’erba sintetica.

Bologna: all’Ipm torna il teatro, ma c'è un'incognita sui fondi

 

Dire, 8 novembre 2007

 

Bologna - Nono spettacolo per i ragazzi del carcere minorile di Bologna, il "Pratello", ma "speriamo che non sia l’ultimo". L’opera che va in scena quest’anno è King Lear, ma un altro "copione" si ripete: il problema dei finanziamenti. Il che fa dire all’organizzatore dell’iniziativa, Paolo Belli, che, ancora una volta, "non sappiamo se l’anno prossimo lo spettacolo si farà" perché "è difficile poter iniziare a lavorare se non si sa nemmeno se e quanti soldi si hanno a disposizione". Questo nonostante "attività di cinque mesi al Pratello, materiali, messa in scena e repliche costino in totale 135 mila euro".

La convenzione triennale con il Comune e la Provincia di Bologna "che hanno sempre sostenuto le attività teatrali del carcere minorile con fondi cospicui", è scaduta il 31 dicembre 2006. Gli assessorati di entrambi gli enti (per esempio quello alla cultura della Provincia ha dato 3.500 euro, il Comune 8.000 euro) contribuiscono in misura e maniere diverse, ma manca la continuità che era garantita dalle convenzioni.

Dunque, va avanti Belli, senza il finanziamento da parte del fondo europeo Equal (quasi il 50% del totale), quello della Fondazione Vodafone per 35 mila euro, senza l’aiuto delle fondazioni bancarie di Bologna, Carisbo e del Monte, di Manutencoop, "il progetto non si sarebbe potuto portare a termine".

Eppure il teatro nelle carceri è stato lodato stamane in conferenza stampa dal dirigente del centro di Giustizia Minorile della Regione, Giuseppe Centomani, dal presidente del Tribunale dei minorenni Maurizio Millo, dall’Unione Europea e dal ministero della Giustizia. Perché è una esperienza pedagogica e di vita. Il Comune di Bologna, garantisce Laura Tagliaferri, responsabile del settore Cultura, sta lavorando per coinvolgere anche il ministero per i Beni e le attività culturali.

Comunque vada, a Bologna a Milano e a Palermo quest’anno andrà in scena in tutti e tre i carceri minorili, "Fool bitter fool", tratto da una tragedia di William Shakesperare, "Re Lear" appunto. Al Pratello toccherà dal 4 al 16 dicembre e le modalità sono quelle di ogni anno: è necessario prenotare personalmente all’info point di via del Pratello 23 dal lunedì al giovedì dalle 9.30 alle 12.30 e il martedì dalle 15.30 alle 17.30. Lo spettacolo è a posti limitati e la sottoscrizione va a favore delle attività del teatro.

Immigrazione: Santagata fa il punto su criminalità romena

di Mauro W. Giannini

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 8 novembre 2007

 

Quanti sono i Rumeni che delinquono in Italia e quali tipologie di reato hanno commesso gli stranieri detenuti nelle carceri italiane? È la domanda posta ieri alla Camera dalla Deputata Paola Balducci in collegamento con i recenti episodi di violenza e la sicurezza urbana.

Il Ministro per l’attuazione del programma di Governo, Giulio Santagata, ha detto che "alla data del 5 novembre scorso presso gli istituti penitenziari italiani erano presenti 17.942 detenuti stranieri. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fatto presente che, di essi, 14.218 sono cittadini extracomunitari, 3.712 sono cittadini dell’Unione europea e 2.744 (pari al 15.29 per cento) sono cittadini rumeni (si tratta, quindi, del 15.29 per cento su 17.942 detenuti stranieri totali)".

Quanto ai dati relativi alle più frequenti tipologie dei reati commessi da cittadini rumeni, al 30 ottobre scorso, "la percentuale di cittadini rumeni detenuti per ciascuna tipologia di reato era quella riportata dalla tabella che ho portato e che mi premurerò di fornirle. I dati più significativi sono i seguenti: il 50.5 per cento era detenuto per reati contro il patrimonio, quasi il 26 per cento per reati contro la persona, il 4.23 per cento per reati contro la pubblica amministrazione e il 3.75 per cento per reati in materia di prostituzione".

Santagata ha anche ricordato che "il Governo ha introdotto nell’ordinamento alcune disposizioni rivolte ad assicurare, nel rispetto della normativa europea, celerità ed effettività dell’esecuzione degli allontanamenti dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari quando tali provvedimenti siano adottati per motivi di pubblica sicurezza" e che "il Ministro Mastella ha recentemente incontrato il Ministro della giustizia della Romania, con il quale ha realizzato un accordo che consentirà all’Italia di richiedere nominativamente il trasferimento nelle carceri della Romania dei detenuti rumeni condannati con sentenza definitiva in Italia e raggiunti da un provvedimento di espulsione affinché scontino in Romania l’intera pena residua. In una riunione tenutasi a Bucarest il 31 ottobre si è convenuto che, sulla base dell’accordo, saranno trasferiti, entro la fine dell’anno, i primi cento detenuti. Si prevede di poterne trasferire altri duecentotrenta nel corso del 2008. Nuovi incontri con il Ministro rumeno sono previsti a partire dalla prossima settimana per concordare ulteriori misure che rafforzino la cooperazione bilaterale nella lotta alla criminalità".

Nella sua replica, la deputata Balducci ha detto che "la soluzione al problema della criminalità, anche quella legata ad individui isolati o a gruppi criminali provenienti dall’estero, è necessariamente connessa al corretto funzionamento della giustizia italiana, che risente di un grave deficit di efficienza: lentezza dei processi e perdita della certezza della pena sono due mali con i quali un sistema giudiziario moderno non può convivere a lungo. La sicurezza rappresenta un diritto inalienabile per il cittadino, che sia italiano oppure no".

Tuttavia, ha osservato l’on. Balducci, "La mobilità è diventata un elemento caratterizzante delle società contemporanee e ancor più nelle comunità sovranazionali, come l’Unione europea, che costituisce un esempio unico di lungimiranza politica ed ideale, capace di unire i popoli, anche assai diversi, con l’obiettivo di farne un’entità politica unitaria ispirata ai valori della democrazia e dell’inclusione.

La condizione di disagio sociale, coniugata alle conseguenze proprie dell’abbattimento delle frontiere, ha prodotto però un naturale fenomeno d’immigrazione, che richiede oggi una regolamentazione intelligente, centrata su questi punti: certezza del diritto, rigore nell’applicazione del principio di legalità e capacità di governo dei flussi migratori". La parlamentare verde ha concluso che "sicurezza e accoglienza non rappresentano due valori antitetici. Le leggi non possono mai discriminare singoli individui o comunità, né possono comprimere i diritti umani".

Estero: attivare numero verde per tutelare i detenuti italiani

 

Asca, 8 novembre 2007

 

"Non è pensabile che nell’arco di poche ore la vita di un nostro connazionale e dei propri familiari possa essere drammaticamente stravolta. È urgente attivare un numero verde per la tutela dei diritti dei nostri connazionali all’estero". Questo l’appello lanciato da Marco Zacchera, responsabile Esteri di An e vicepresidente del Comitato per gli italiani all’Estero della Camera, ospite del notiziario radio televisivo di Rai International "Italia chiama Italia" a cura del vice direttore Maurizio Bertucci.

"Non è pensabile - afferma Zacchera - che nell’arco di poche ore la vita di un nostro connazionale e dei propri familiari possa essere drammaticamente stravolta e che ciascuno di noi possa ritrovarsi in un qualsiasi carcere del mondo senza un interprete, un avvocato, e la minima tutela dei diritti umani; per non parlare del mancato patrocinio gratuito, che voglio ricordare, l’Italia garantisce sia ai cittadini comunitari che stranieri".

"Spero" - conclude Zacchera - "che il governo nella prossima finanziaria si ricordi anche della tutela dei diritti degli italiani all’estero partendo dall’attivazione di un numero verde d’emergenza permanente in seno alla Farnesina così come avviene per i casi di disastri e calamità".

Argentina: dopo i detenuti parte la protesta delle guardie

 

La Voce D’Italia, 8 novembre 2007

 

Ancora incerte le cause dei 32 morti (forse 100 i feriti) dopo l’ammutinamento avvenuto domenica scorsa nel principale penitenziario della città di Santiago del Estero, capitale della stessa provincia, nel nord argentino. Per le autorità penitenziarie le cause della tragedia sono da attribuite ai detenuti, che durante la tentata fuga, iniziata dal padiglione 42, avrebbero appiccato fuoco ai materassi, bloccando le porte d’accesso.

La versione delle autorità argentine è stata però smentita dai reclusi che, in una lettera inviata alla stampa, sostengono che è la reazione delle guardie alle loro proteste è stata sproporzionata: "ci hanno sparato addosso lasciando morire per terra i feriti", sostengono nella lettera, citando anche i nomi dei militari ritenuti responsabili. A confermare la versione dei detenuti intervengono le dichiarazioni del medico del penitenziario, Silvia Rodriguez (all’emittente locale Radio Panorama), che ha smentito la versione dell’evasione.

L’unica causa certa è proprio l’ammutinamento dei detenuti, durata quasi 24 ore, per protestare contro la riduzione delle ore di visita dei familiari e per sottoporre all’attenzione pubblica le cattivi condizioni in cui vivono all’interno del carcere. Infatti, gli internati al momento della tragedia erano 465, in una struttura che può ospitarne al massimo 180.

Appena terminata la protesta dei detenuti, martedì è iniziata quella delle guardie del penitenziario, che si sono rifiutate per molte ore di ricevere ordini dalle nuove autorità Federali, arrivate proprio quel giorno in sostituzione alla precedente direzione carceraria provinciale. I parenti delle guardie penitenziarie hanno dichiarato di sentirsi minacciati dai familiari dei detenuti, creando così un allargamento al di fuori dal recinto carcerario. Per normalizzare la situazione, sia all’interno che all’esterno dell’unità carceraria, è stata inviata sul posto la Getoar, l’Unità speciale delle Guardie di Fanteria, assieme ai vigili del fuoco.

 

 

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