Rassegna stampa 17 maggio

 

Giustizia: Messina (Cnvg); speriamo nel nuovo Codice penale

 

Redattore Sociale, 17 maggio 2007

 

Nella relazione d’apertura della IV Assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, il presidente Claudio Messina traccia il quadro del carcere dopo l’indulto e chiede scelte coraggiose per il riordino del sistema.

"Il carcere è la nostra avanguardia, è da lì che ripartiamo spesso per un viaggio a ritroso nell’ingiustizia. L’ingiustizia che genera situazioni deviate, sofferenze, danni e lutti che nel carcere si vorrebbero riparare, con i risultati che conosciamo". Lo ha dichiarato Claudio Messina, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, in apertura della IV Assemblea nazionale in corso a Roma, da oggi a sabato prossimo, presso l’Università di Roma Tre. Nella sua relazione, Messina ha tracciato un ampio quadro di tutte le contraddizioni sociali che chiedono di essere affrontate attraverso percorsi di giustizia, ha parlato di indulto, incidenti sul lavoro, tratta, disagio delle famiglie, precarietà, tossicodipendenza, facendo risaltare "la voglia di cambiare le regole del gioco, affinché tutti i soggetti possano avere identiche chance in una partita equa". In particolare, secondo Messina, le speranze di cambiamento sono riposte nella riforma del Codice penale: "Vorremmo che fosse riscritto e concepito per la riabilitazione della persona chiamata a rispondere del peso della sua colpa. Da molto tempo si parla di riduzione del danno, di giustizia riparativa, di mediazione penale. Quanto è difficile andare in quella direzione, ma è lì che bisogna andare".

Indulto. Messina ha definito l’indulto "un atto di coraggio", spiegando approfonditamente le motivazioni del suo giudizio. "Sono passati appena dieci mesi dal varo dell’indulto - ha detto - quel provvedimento eccezionale votato da oltre due terzi del parlamento, che subito dopo è stato però demonizzato da molti come fosse "la madre di tutte le disgrazie".

Tanta ipocrisia e demagogia, disastri annunciati e fatalmente smentiti dai dati sulla recidiva, calcolata al 12 per cento. Approssimativo, piuttosto, il modo con cui politica e istituzioni hanno gestito la fase di esodo in massa dalle carceri, che non ha dato a nessuno il tempo di organizzarsi e di predisporre un piano "salvagente" a tutela di coloro che non sapevano come sopravvivere. Eppure il volontariato ha saputo ancora una volta fare la sua parte, ha dovuto supplire a carenze vistose del sistema. Se non altro, l’indulto è stato un coraggioso atto di giustizia, nel riconoscere i limiti del sistema carcere.

Ma lo è stato anche per aver affrontato le critiche dell’opinione pubblica, montate da una campagna stampa non favorevole, tanto puntuale nell’enfatizzare reati commessi da indultati, quanto disinteressata a tutto il duro lavoro di sostegno e ai faticosi percorsi di reinserimento. Un’informazione certamente incompleta, più attenta a rincorrere diatribe politiche, che non a segnalare i veri problemi che da troppo tempo attanagliano il sistema penitenziario, come il trattamento, i percorsi formativi, il lavoro, la sanità, la tossicodipendenza, le madri con bambini in cella, gli ospedali psichiatrici giudiziari, per citare solo i grandi titoli".

Istituzioni. "Bisogna però dire che l’indulto ha smosso le acque stagnanti del carcere, sollecitando dibattiti e prese di posizione, non solo nel volontariato ma anche nelle istituzioni. Presso il ministero della Giustizia si è riattivata la Commissione nazionale consultiva per i rapporti con le regioni, gli enti locali e il volontariato, quest’ultimo da noi rappresentato con 3 membri e altri delegati in vari gruppi operativi, che stanno iniziando la loro attività in questi giorni. Il governo ha proposto di abrogare gli articoli della ex Cirielli che riguardano ingiusti inasprimenti per i recidivi. Inoltre si è riaperto il dibattito sul trasferimento delle competenze della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, e qualcosa si sta muovendo in alcune regioni. La stessa Regione Lazio ha pronta una sua importante legge in materia. Nelle carceri della Lombardia non ci sono più mamme con bambini in cella: si stanno sperimentando nuove forme di controllo in case famiglia a custodia attenuata. Pare che finalmente si voglia attuare appieno la legge Basaglia del 1978, andando verso il graduale superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, dove attualmente sono parcheggiate, senza alcuna prospettiva di reinserimento, anche centinaia di persone ritenute non più pericolose. Niente ancora, invece, sul fronte tossicodipendenze e quindi sulla modifica della Fini-Giovanardi, altra legge esclusivamente repressiva, che non serve ad alleggerire il problema ma a riempire le carceri".

Il Garante. "Un significativo risultato si è ottenuto con l’istituzione della Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani e del Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale. A nostro avviso, però, la figura del garante dei detenuti, pur necessaria per l’insufficiente azione dei magistrati di sorveglianza, e affermatasi per iniziativa di molte amministrazioni regionali e locali, per i limitati poteri che le sono conferiti resta una soluzione di compromesso, di mediazione, ma non risolutiva di quanto attiene al riordino dell’intero sistema penale e penitenziario. Il Volontariato giustizia da tempo lo reclama a gran voce. Inutile rattoppare qua e là, meglio confezionare un abito nuovo con gli accorgimenti che l’esperienza suggerisce. Per questo le nostre maggiori aspettative sono riposte nella Commissione parlamentare per la riforma del Codice Penale, per la quale auspichiamo un rapido iter, scelte coraggiose, innovative, destinate a incidere positivamente sulla prevenzione e nel sistema sanzionatorio".

Commissariati di polizia penitenziaria. "Alquanto infelice invece la decisione di aprire commissariati di Polizia Penitenziaria, in via sperimentale, presso una serie di Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna. C’è il timore - o la certezza - di un giro di vite che a noi pare del tutto inopportuno, visto che le misure alternative sono una garanzia di recupero e reinserimento di gran lunga superiore al carcere. Tali misure vanno anzi incentivate, ma così si rischia di far prevalere l’aspetto sanzionatorio rispetto a quello trattamentale, in nome di un controllo che viene già ampiamente assicurato da polizia di stato e carabinieri".

Immigrazione. "Sul fronte immigrazione si stanno fortunatamente aprendo scenari legislativi migliori rispetto alla tanto criticata Bossi-Fini. Sono stati almeno previsti dei correttivi a quella legge che ha contribuito in modo assai rilevante a riempire le carceri. Eppure si registrano tanti dissensi, minacce referendarie contro le aperture legislative introdotte dai ministri Amato e Ferrero, che in verità si sono limitati a prendere atto dell’iniqua situazione esistente e a ricercare soluzioni più razionali e condivisibili.

È chiaro che i grandi flussi migratori sono fenomeni complessi, destabilizzanti, che creano allarme sociale e anche problemi di convivenza e integrazione. Ma non è certo alzando le barricate, criminalizzando lo straniero che si realizza la giustizia. Non dobbiamo vedere tutti come potenziali nemici. Il nostro sistema produttivo si avvale del lavoro di 3 milioni di stranieri. Le badanti che si prendono cura dei nostri anziani. Se poi queste persone non possono ottenere il permesso di soggiorno va da sé che devono arrangiarsi col lavoro nero, esponendosi, proprio per questa loro debolezza, anche a vili ricatti e disumani sfruttamenti. L’integrazione è un processo lento, all’inizio crea turbolenze, ma poi le culture si mescolano necessariamente per riportare in equilibrio il livello di convivenza".

Sicurezza sul lavoro. "Si fa un gran parlare, in questo periodo - come fosse un fatto nuovo - della sicurezza sul lavoro, di fronte ai 1.200 infortuni mortali in un anno, agli innumerevoli incidenti, alle malattie professionali che si sviluppano in sordina, insomma di fronte alla insufficiente tutela dei lavoratori, anche di quelli in regola.

Noi ci aspettiamo dal governo politiche di giustizia nel mondo del lavoro perché la prosperità delle aziende non si gioca sulla pelle degli uomini. Tanti giovani che usciranno da questa stessa Università si troveranno con una bella laurea da incorniciare e da dimenticare, perché dovranno piegarsi all’inganno dei contratti a progetto, accettare mansioni sottopagate, dimenticarsi la previdenza sociale. Una cosa è la flessibilità, altra cosa la precarietà. Altro che Dico e unioni di fatto! Si tratta di un falso problema su cui si specula troppo. Il nemico numero uno della famiglia in crisi è l’insicurezza, la povertà, la mancanza di serie politiche incentivanti.

Tratta. La società mostra un volto sempre più arrogante, violento e soprattutto i bambini, i giovani tendono ad assorbire quel tipo di atteggiamento che li allontana dal senso di cittadinanza e di solidarietà, per relegarli in uno sterile individualismo. Ogni giorno storie di persone ridotte in schiavitù, individui anonimi, la cui disperazione commuove sempre meno. Ci può essere traffico più odioso di quello degli esseri umani?

Lo scandalo della tratta, una vergogna esibita sfacciatamente e impunemente sulle nostre strade che non tocca la coscienza degli uomini indifferenti, colpevoli quanto gli sfruttatori. Leggi inadeguate, prevenzione e controlli troppo sporadici, lasciano che siano ancora una volta le nostre associazioni e i nostri volontari a farsi carico, come possono, del dramma di queste donne, spesso bambine, che non hanno fatto quella scelta di vita, come molti ipocritamente affermano.

Disagio. "Nella vita cosiddetta normale, di ogni giorno, notiamo un impoverimento in ogni senso. Lo vediamo e tocchiamo con mano. Spesso, all’improvviso, va in scena il dramma. I delitti che avvengono in famiglia sono in aumento, superano addirittura quelli di mafia e criminalità organizzata (6 su 10 nel 2005), secondo il rapporto Eures 2006. Negli ultimi cinque anni ben 1.200 morti tra le mura domestiche. Ciò dimostra che il disagio psicologico si sviluppa entro scenari di apparente normalità, ma resta un fatto privato. C’è un preoccupante abbassamento della soglia di sopportazione e di autocontrollo. E poi uno stato sociale che si volatilizza, politiche per la famiglia assai leggere".

Volontariato. "Il volontariato giustizia va ad occuparsi delle situazioni più pesanti, guarda in faccia Caino ma non dimentica Abele. I nove organismi nazionali riuniti aderenti alla nostra sigla sono realtà importanti che si distinguono per le modalità e i campi dove prevalentemente esercitano la loro azione. Così come le nostre 18 Conferenze Regionali, che riuniscono tante altre associazioni e gruppi, minori solo per diffusione territoriale, ma altrettanto attive, capillarmente impegnate negli stessi settori".

Giustizia: Pavarini; la via italiana per la gestione della sicurezza

 

Redattore Sociale, 17 maggio 2007

 

Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’Università di Bologna e consulente per il Comune, commenta i patti che verranno firmati in diverse città italiane. "I sindaci non hanno poteri per intervenire direttamente".

In Italia la strada sembra essere sempre la stessa quando si affronta il tema della sicurezza, a prescindere dall’appartenenza politica dei governi: trovare un equilibrio tra ordine pubblico, controllo e assistenza. Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’Università di Bologna, di recente consulente alla sicurezza e al degrado per il Comune di Bologna, commenta così i patti di sicurezza che da domani verranno firmati in diverse città italiane.

 

Qual è la sua valutazione su questo genere di strumenti?

I patti o i contratti sulla sicurezza non sono nulla di nuovo o di originale. Sono semplicemente uno strumento che fa sedere attorno a un tavolo polizia e carabinieri - attraverso il ministero degli Interni e della Difesa -, enti locali e servizi. Tutti insieme siglano un patto, un impegno coordinato su oggetti ben definiti. In questo caso, a Milano riguarderanno la Chinatown, a Roma i campi nomadi. Si tratta di un impegno condiviso a collaborare insieme su certe problematiche, che chiaramente variano città per città.

 

Da dove nasce, secondo lei, il problema sicurezza nelle nostre città, che negli ultimi mesi sembra davvero peggiorato?

È inevitabile che il processo migratorio comporti problemi connessi all’ordine e alla sicurezza, da che mondo e mondo è così. Dopodiché il problema è che la sofferenza rimane tutta a livello delle città, gli effetti ricadono interamente sulle città. La questione principale è che i sindaci non hanno poteri per intervenire direttamente sull’ordine pubblico. Per questo è stato inventato lo schema dei protocolli, dei patti, che firma il sindaco insieme al ministero dell’Interno, e quindi con le forze dell’ordine.

 

Qual è la direzione da seguire, secondo la sua esperienza come consulente sulla sicurezza a Bologna?

In Italia la strada è sempre la stessa, a prescindere da governi di destra o di sinistra: e cioè trovare un equilibrio tra ordine pubblico e assistenza, ovvero farsi carico delle situazioni di bisogno e controllare il territorio. Una via molto italiana, un po' a metà. Diverso, invece, il rilievo che assumono i fatti e l’effetto mass mediologico che hanno. E questo è un’altra questione da tenere presente quando si affronta il tema della sicurezza.

 

Carabinieri e poliziotti di quartiere, mediatori dei conflitti… Se ne sente parlare sempre più spesso nelle nostre città.

Sono una delle tante risorse messe in campo per seguire questa via italiana nella gestione della sicurezza. Sulla loro efficacia è difficile esprimersi. I mediatori, ad esempio, dovrebbero avere un’adeguata professionalità, cosa che non sempre accade. Il loro ruolo, infatti, dovrebbe essere quello di porsi in maniera neutra tra le parti in conflitto.

Giustizia: finito l’effetto indulto, le carceri sono già affollate

 

Panorama, 17 maggio 2007

 

A quasi dieci mesi dall’approvazione dell’indulto i detenuti stanno aumentando in modo preoccupante. L’associazione Antigone pubblica un rapporto in cui si fa il punto sulla popolazione carceraria. Gli osservatori, deputati e consiglieri regionali del Prc-Se e membri di Antigone, hanno visitato dal 15 febbraio a oggi 23 istituti di pena. Prima dell’indulto i detenuti erano 61.246 (per una capienza regolamentare di 43 mila persone), ne sono usciti grazie alla misura approvata a luglio 2006 26.201. Nel gennaio 2007 nelle prigioni italiane c’erano 39.157 persone, che sono diventate 42.702 a oggi (il 35% è straniero). Questo anche se solo il 12 per cento degli indultati ha commesso un nuovo reato, contro un tasso fisiologico di recidiva che è del 68 per cento.

Il rapporto di Antigone denuncia anche che in nessuno degli istituti visitati finora il regolamento penitenziario viene applicato correttamente e che l’assistenza sanitaria è spesso carente. Il dato che desta maggiore preoccupazione è quello sugli psicofarmaci: ne fa uso il 50 per cento dei carcerati.

Giustizia: custodia cautelare; in 14mila dentro senza condanna

 

www.radiocarcere.com, 17 maggio 2007

 

Quattordicimila. Il numero di coloro che popolano le patrie galere senza essere mai essere stati condannati. Non un processo. Non un giudizio. Neanche quello di primo grado. Persone non colpevoli. Non scontano una pena. Il loro procedimento è ancora nella fase delle indagini preliminari.

Sedicimila. Il numero dei detenuti che scontano un pena. Giudicati colpevoli al termine del processo. Sedicimila e quattordicimila. Sostanzialmente equivalenti. Il numero dei colpevoli equivale a quello dei non colpevoli. Stessi edifici, identici luoghi ospitano sia chi deve scontare una pena sia chi invece è detenuto per motivi cautelari.

Custodia cautelare. Questa la strana espressione che giustifica la privazione della libertà per quattordicimila persone non colpevoli. Espressione di difficile comprensione. Un gentile surrogato di carcere preventivo. La reclusione per prevenire l’inquinamento delle prove, la fuga e la commissione di nuovi reati. Non colpevoli, ma reclusi per prevenire. Il dato normativo vorrebbe che il giudizio di colpevolezza possa essere pronunciato solo al termine del processo. La custodia cautelare è applicata a persone non colpevoli, per garantire l’esatto svolgimento del processo. La realtà giudiziaria è diversa.

Il giudizio cautelare nella realtà è un giudizio di colpevolezza. Il carcere nelle indagini preliminari non per prevenire, ma per punire. Custodia cautelare e pena diventano, nella realtà, equivalenti. Colpevoli li hanno giudicati sia il pubblico ministero che ha chiesto l’arresto sia il giudice che lo ha disposto. Colpevoli li considera l’opinione pubblica. Ipocrita è sostenere che codesti hanno perso la libertà per motivi attinenti alla fuga, all’inquinamento delle prove e alla commissione di altri reati.

La lettura di quasi tutti i provvedimenti ne è prova. È sufficiente misurare il rapporto tra parole spese in ordine alla valutazione della colpevolezza e quelle spese circa la necessità di prevenire. Solitamente il novanta per cento è dedicato al primo giudizio e il restante al secondo. Un giudizio di colpevolezza. Un giudizio emesso durante le indagini preliminari. Un giudizio sommario. Un giudizio che condanna e punisce. La custodia cautelare che perde i suoi connotati tipici e assume quelli della pena. Illegittimo. Forse Illecito.

Ma soprattutto pericoloso. Il rischio: l’errore giudiziario. Il rischio che nelle maglie della giustizia rimanga impigliato un innocente. Che il carcere spalanchi il suo portone a persone che non hanno commesso nessun reato. Rischio già alto nel giudizio che consegue al processo. Rischio che si eleva proporzionalmente laddove il giudizio di colpevolezza viene emesso nella fase delle indagini preliminari. Fase gestita solo dall’accusa. Nella quale non vi è un effettiva difesa.

E soprattutto fase in cui le prove, quegli elementi idonei a dimostrare colpevolezza e innocenza, sono incomplete. Rignano Flaminio e l’arresto di un alto Magistrato. Fatti che hanno determinato un’accesa discussione. L’argomento proprio la custodia cautelare. Discussione sviluppatasi su più livelli e che interessa anche gli addetti hai lavori. Proposte di modifica delle norme sono state avanzate. Certificano il malfunzionamento della custodia cautelare. Prima di curare è necessario capire il male.

La custodia cautelare per punire. Una reazione al fatto che il processo non assicura più la condanna del colpevole e l’applicazione della pena. Una reazione spesso sollecitata dall’opinione pubblica. Soprattutto laddove il reato suscita un maggiore allarme sociale. La custodia cautelare come strumento investigativo, per costringere il recluso a rendere dichiarazioni utili alle indagini. Non intellettualmente onesto disconoscere l’utilizzazione di questo strumento per questo fine. Le dichiarazioni delle persone arrestate spesso colmano lacune investigative o aprono nuovi scenari. I due strumenti investigativi più utilizzati sono le dichiarazioni di persone arrestate e le intercettazioni telefoniche. Strumenti riguardo ai quali si registrano i maggiori abusi.

La custodia cautelare utilizzata per fini che non sono quelli assegnategli dalle norme codicistiche. Questo il male. Modificare le norme non è la cura. È solo necessario garantire l’applicazione di queste. Una corretta applicazione della legge probabilmente non avrebbe determinato né Rignano Flaminio, né l’arresto del Magistrato di cassazione. Non nascondiamoci dietro la banale affermazione che si devono conoscere gli atti per valutare.

È evidente che in entrambi i casi, a prescindere dalla colpevolezza o dall’innocenza, gli arresti domiciliari, se non le altre misure, avrebbero garantito la prevenzione di qualunque pericolo eventualmente esistente.

Non le norme pertanto devono essere modificate, ma coloro che le applicano impropriamente. Eventualmente si devono modificare le norme nel senso però di assicurare che il processo dia una risposta alla domanda di giustizia in tempi accettabili. Tempi che anche laddove non causino l’impunità, prescrizione, procurino una risposta talmente tardiva da non rispondere all’esigenze della collettività.

Una processo ragionevolmente veloce eliminerebbe probabilmente l’utilizzo della custodia cautelare come pena. Una proposta. Riconsiderare il sistema delle impugnazioni, incidere sull’esecutività della pena e ridurre l’applicazione della custodia cautelare. Riequilibrerebbe il sistema. Farebbe recuperare quelle garanzie che il processo cautelare cancella. E garantirebbe un processo più giusto.

Giustizia: è "custodia cautelare" o "espiazione anticipata"?

di Gianfranco Viglietta (Sostituto Procuratore Generale in Cassazione)

 

www.radiocarcere.com, 17 maggio 2007

 

Periodicamente alcune vicende giudiziarie turbano l’opinione pubblica che non riesce a comprendere perché autori di gravissimi reati, secondo notizie di stampa, restano in libertà, o persone arrestate per reati infamanti, con grande clamore, sono poi in brevissimo tempo scarcerate e assolte. La perplessità e i dubbi dell’opinione pubblica sono del tutto legittimi. È inutile dire che il fenomeno è fisiologico, come fanno alcuni magistrati. Lo sarebbe se i casi di arresto e di immediata carcerazione per mancanza di indizi fossero un evento del tutto eccezionale. Ma così non è.

Il codice prevede che la custodia in carcere, prima della sentenza definitiva, sia possibile per reati di una certa gravità, se sussistono nei confronti della persona sottoposta all’indagine gravi indizi di colpevolezza, ed esistono alcune esigenze c.d. cautelari, e cioè il pericolo che l’inquisito inquini le prove o si dia alla fuga, o commetta altri reati, e che non siano sufficienti per impedirglielo misure meno gravi, come gli arresti domiciliari o l’obbligo di soggiorno. Infine, esistono le misure interdittive, cioè la possibilità di sospendere l’indagato da una professione. Viceversa per i reati di terrorismo e di criminalità organizzata la custodia in carcere in attesa del processo è la regola per legge.

Perché allora la custodia in carcere è così frequente, perfino quando gli indizi appaiono dubbi? Le ragioni sono complesse. Provo ad elencare le principali, senza per questo voler giustificare gli errori dei giudici.

Questo paese non ha mai avuto una vera cultura della garanzie, della giurisdizione e dell’efficienza del processo. Di fronte a fatti che sono o appaiono gravi l’opinione pubblica, in ciò eccitata da larga parte della stampa, vuole un colpevole ad ogni costo, subito e in prigione. Dovere del giudice è resistere ai condizionamenti ambientali, ma non tutti ci riescono. Specialmente da quando i processi sui casi più clamorosi si fanno in televisione, interrogando le vittime dei reati, la pressione sul Pm e sul giudice è fortissima. Tutta la stampa, ad esempio, ha condannato le due ragazze rumene per omicidio volontario, compresa la minore (di cui, tra l’altro, sarebbe vietato pubblicare nome e foto), eppure mi sembra ci siano molte cose da accertare ancora. Altre volte manca nel codice lo strumento più opportuno e meno gravoso per svolgere le indagini.

Per il caso delle maestre di Rignano, al di là della valutazione sugli indizi, comunque se le accuse fossero state vere si poneva il problema di tutelare gli altri bambini. Lo strumento migliore e meno doloroso sarebbe stato sospendere le insegnanti dall’insegnamento fino a che le indagini non avessero chiarito la situazione. Ma il codice consente la misura interdittiva fino a due mesi soltanto, mentre la carcerazione preventiva può durare anni. È logico tutto ciò?

La spinta dell’opinione pubblica e della stampa (ricordate le accuse al padre del bambino marocchino per la strage di Erba), tendono a costruire il mostro che canalizzi le paure e le insicurezze collettive. D’altra parte è anche comprensibile che il pubblico non possa aspettare dieci anni, fino alla sentenza definitiva, per sapere la probabile verità. Il c.d. giustizialismo si nutre dei ritardi e delle inefficienze e corrompe le culture.

Paradossalmente poi il codice consente con una certa larghezza le misure cautelari prima del processo, ma dopo la condanna in primo grado e in appello l’arresto è possibile solo in casi del tutto eccezionali. Si diffonde così la logica (illegale) della carcerazione preventiva come espiazione anticipata della pena, e il giudizio verte molto più sulla gravità del reato che sulle esigenze cautelari.

Sia ben chiaro, il giudice che commette errori gravi o volute forzature in materia di libertà personale dovrà risponderne nelle sedi opportune. Ma per risolvere il problema occorrono alcune condizioni, tutte a dire il vero lontane dal realizzarsi: rivedere il processo penale, realizzarne la ragionevole durata e prevedendo l’applicazione delle misure cautelari da parte di un giudice collegiale, nonché ampliando i casi di provvisoria eseguibilità della sentenza di primo grado o almeno d’appello (salvo potere di sospensione da parte del giudice dell’impugnazione) estendendo l’uso delle misure non custodiali e limitando la carcerazione ai reati di sangue e di mafia e terrorismo durante le indagini. Estendere la cultura delle garanzie nell’opinione pubblica e nella stampa, evitando sensazionalisti, campagne mediatiche e processi sommari.

Giustizia: custodia cautelare... per ottenere le confessioni

di Gaetano Pecorella (Ex Presidente Commissione Giustizia della Camera)

 

www.radiocarcere.com, 17 maggio 2007

 

Probabilmente, facendo un confronto con altri ordinamenti, al nostro livello di civiltà giuridica, scopriremmo che la durata della custodia cautelare in Italia ha il record della lunghezza e, forse, anche del numero di detenuti: la causa di ciò è che, com’è purtroppo noto, i nostri processi penali durano all’infinito, tant’è che l’Europa ci ha ripetutamente condannato, e la custodia cautelare è mantenuta, spessissimo, per tutta la durata del procedimento.

Negli Stati Uniti, ad esempio, non soltanto i processi sono molto rapidi, anche perché a giudizio vanno pochi imputati, patteggiando oltre il 90% di loro, ma l’istituto della cauzione consente di limitare al massimo il numero dei detenuti in attesa di giudizio. In Francia vi è un’altra garanzia: è il contradditorio anticipato, che consiste in una udienza che precede l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare, in cui si esaminano in contradditorio le prove sia dell’accusa che della difesa.

Naturalmente vi è il fermo provvisorio, ma soltanto in presenza del pericolo di fuga. In Italia, niente di tutto questo: la persona viene prelevata dalla sua abitazione, spesso all’alba, spesso con un grande spiegamento di forze, non di rado con la presenza di giornalisti e telecamere. Portato in carcere, nei casi più gravi non può avere neanche contatti con l’avvocato e la sua unica difesa consiste nel rendere un interrogatorio al giudice: è un atto inutile perché l’arrestato non conosce le prove a suo carico, non è in grado di predisporre prove a difesa e comunque è talmente traumatizzato che difficilmente potrà dire qualcosa a sua discolpa.

Tant’è che, se ci fossero le statistiche, potremmo constatare che assai raramente, dopo questo interrogatorio, l’arrestato viene rimesso in libertà. A chi scrive, in 40 anni di professione, non è mai accaduto. Non è che manchino, rispetto alla libertà personale, le norme di garanzia: al contrario, a partire dalla Costituzione, che afferma solennemente che la libertà personale è inviolabile, e che dichiara l’imputato non colpevole sino alla sentenza di condanna, le norme sono tante e rigorose.

Si pensi che l’arresto è consentito solo in presenza di gravi indizi di reità, se vi è un concreto pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. Dunque, alla custodia cautelare in carcere si dovrebbe ricorrere solo eccezionalmente e laddove altre misure meno afflittive non siano sufficienti: mi riferisco agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di presentarsi, alla polizia giudiziaria, ad alcune misure interdittive, come la sospensione da un ufficio o servizio.

È l’uso che si fa della custodia cautelare a rappresentare una vergogna, nel nostro Paese, perché al carcere si ricorre, troppo spesso, con il solo obiettivo di far confessare l’imputato, o di indurlo ad accusare altri, dando inizio così a una catena di nomi, in cui entrano tanto i colpevoli che gli innocenti. Non per nulla la carcerazione preventiva è stata definita da un criminalista, la dolce tortura, e cioè la tortura dei tempi moderni, non fatta con tenaglie roventi, ma privando una persona della sua libertà, della sua dignità, del suo lavoro, della famiglia, in sostanza del presente e del futuro.

Talvolta, poi, la scelta del carcere, o della cella, serve a rendere questa tortura ancora più feroce, perché, l’arrestato pur di sfuggire alla violenza di certi criminali, con i quali è costretto a convivere, è disposto a dire qualunque cosa, e a carico di chiunque. Si inserisce in questo quadro il ruolo fondamentale svolto dalla stampa nel trasformare l’arrestato, da presunto innocente, in presunto colpevole.

Conosciamo tutti certi titoli: "fermato l’assassino", "trovato il mostro". Chi ha vissuto situazioni come queste, conosce l’amara esperienza di vedersi "sbattuto in prima pagina", notizie infamanti sulla sua persona, sulla sua vita privata, sulla sua famiglia, per poi ritrovarsi, dopo qualche anno, in una delle ultime pagine di quello stesso quotidiano, dove si dice che un Tribunale lo ha assolto.

Sono convinto che serva a poco prevedere sanzioni nei confronti dei giornalisti, che danno quelle notizie, prima di ogni accertamento da parte di un giudice, in base alle accuse del pubblico ministero, e, per di più, violando il segreto dell’indagine: serve una coscienza professionale che trasformi in principio morale il rispetto degli altri, di tutti gli altri.

Giustizia: Ass. Papillon; per non essere cittadini di serie B

 

Aprile on-line, 17 maggio 2007

 

Pubblichiamo il documento con cui i carcerati del penitenziario romano propongono alle istituzioni alcune misure pratiche per progredire sulla strada della civiltà giuridica. Su questo testo è iniziata una raccolta di firme tra i detenuti di vari centri.

 

Al Presidente del Senato e a tutti i senatori

Al Presidente della Camera e a tutti i deputati

 

La visita del Presidente Napolitano a Rebibbia è la manifestazione concreta di un’idea alta della Giustizia, che sa coniugare il sacrosanto diritto dei Cittadini alla sicurezza quotidiana con la finalità rieducativa e risocializzante della pena sancita formalmente dalla nostra Costituzione e dalle Leggi vigenti.

Considerando le difficoltà che questo difficile equilibrio incontra ogni giorno dentro le carceri, negli uffici giudiziari e nei Tribunali di Sorveglianza, ci permettiamo di sottolineare alcune nostra proposte che ci auguriamo incontrino Senatori e Deputati di tutti i partiti che abbiano la sensibilità e l’intelligenza necessarie per trasformarle in proposte di Legge sulle quali ricercare il più ampio consenso nei due rami del Parlamento.

Attualmente vi sono oltre 22.000 (ventiduemila) detenuti in attesa di giudizio. Per la prima volta in Italia, la quantità dei detenuti giudicabili ha superato quella dei condannati definitivi e la maggioranza di essi proviene dal mondo dell’emarginazione e della tossicodipendenza. Le statistiche ci dicono che ogni anno oltre la metà dei detenuti giudicabili vengono assolti per non aver commesso il fatto, il che vuol dire, ad esempio, che oggi, 8 maggio 2007, nelle galere italiane vi sono oltre undicimila innocenti! Noi riteniamo sia giunta l’ora che il Parlamento inizi una seria riflessione sull’uso (e soprattutto sull’abuso) che si fa della custodia cautelare in carcere.

Attualmente vengono respinte dalla Magistratura di Sorveglianza oltre i 2/3 delle istanze presentate dai detenuti che hanno scontato la parte di pena necessaria (1/4, 1/2 oppure 2/3 ) per poter iniziare a chiedere di usufruire dei permessi premio, della semilibertà e dell’affidamento in prova ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche, ossia per poter usufruire dei passaggi graduali previsti dalle Leggi in vigore per facilitare la risocializzazione verso l’esterno del detenuto. Il più delle volte, le motivazioni dei rigetti si riferiscono ai precedenti penali e non già all’attualità di una possibile pericolosità sociale. Ebbene, noi riteniamo che così come è legittimo chiedere la "certezza della pena", è ancor più giusto chiedere la "certezza del Diritto", ossia la garanzia che insieme alla difesa della collettività la Legge difenda anche i Diritti dei condannati. Ecco perché chiediamo al Parlamento di fissare per Legge dei limiti alla discrezionalità del Magistrato di Sorveglianza, stabilendo l’automaticità dei cosiddetti "benefici" previsti dalle Leggi, e la possibilità del Magistrato di rigettarne la concessione soltanto quando siano documentate e seriamente provate l’attualità dei collegamenti con il mondo del crimine e la volontà di reiterazione del reato. Soltanto su questa strada sarà possibile ottenere finalmente un’applicazione integrale ed uniforme delle Leggi vigenti (Gozzini, Simeone-Saraceni, etc.) su tutto il territorio nazionale e per tutti i detenuti.

Nelle Repubblica Parlamentate l’unico sovrano è il popolo, o per essere più precisi gli elettori che designano i propri rappresentanti nel potere legislativo. Il Diritto non è quindi una concessione del Sovrano, bensì uno strumento di governo della società che ha origine dagli interessi, dal conflitto e dalle aspirazioni delle varie componenti del popolo stesso. Ecco perché, ogni singolo Cittadino è al tempo stesso fruitore e agente attivo del Diritto su tutto il territorio nazionale senza eccezioni, qualunque siano le sue idee politiche e religiose o la sua fedina penale.

Il carcere non è quindi un territorio extra giudiziale e i detenuti debbono anch’essi essere considerati Cittadini fruitori e agenti attivi del Diritto e non già cittadini di serie B che possono al massimo aspirare alla tutela di qualche Garante di turno che (anche quando è in perfetta buona fede) il più delle volte è assolutamente disarmato davanti alla continua limitazione che subisce il Diritto nelle carceri, sia ad opera dell’amministrazione penitenziaria che ad opera della Magistratura di Sorveglianza.

Noi chiediamo quindi che il Senato della Repubblica, durante l’ormai prossima discussione sul cosiddetto "Garante Nazionale dei Detenuti", abbia il coraggio di modificare il debole, confuso e sostanzialmente inutile testo uscito dalla Camera ( là dove di fatto lascia inalterata la discrezionalità assoluta del Magistrato di Sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria), stabilendo invece che ogni singolo Cittadino detenuto abbia finalmente il Diritto di proporre appello anche avverso quei pronunciamenti del Tribunale di Sorveglianza e quei provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria che oggi sono inappellabili, anche quando violano platealmente i Diritti dei Cittadini detenuti.

Noi continuiamo ad avere fiducia nel lavoro svolto dalla commissione incaricata di elaborare il nuovo Codice Penale e ci auguriamo che essa riesca ad elaborare un testo che da un lato cancelli finalmente la barbara pena dell’ergastolo (portando la pena massima ai trenta anni) e dall’altro preveda l’applicazione già in sentenza per una larga fascia di reati di tutte quelle pene alternative che siano in grado di garantire la sicurezza sociale dei liberi Cittadini senza far passare il condannato per un inutile e anzi dannoso periodo di carcere. Su questa strada ci auguriamo che tutte le forze politiche sappiano trovare l’unità necessaria per varare il nuovo codice e inaugurare il nuovo corso con un indispensabile provvedimento di amnistia. Noi siamo convinti che queste poche, concrete proposte rappresenterebbero piccoli ma importanti passi in avanti sulla strada della civiltà giuridica.

Polizia Penitenziaria negli Uepe: Sappe; il progetto va avanti

 

Comunicato Sappe, 17 maggio 2007

 

"L’incontro programmato tra il Sappe, le altre OO.SS dei Comparti Sicurezza e Ministeri e Amministrazione Penitenziaria per esaminare la bozza del Decreto Ministeriale concernente l’intervento della Polizia Penitenziaria nell’esecuzione penale esterna è stato solamente rimandato e non annullato, come sembrano far credere certe organizzazioni di assistenti sociali. Il progetto deve andare avanti.

Quello di lunedì scorso è stato un primo incontro interlocutorio, durante il quale il Sappe ha ribadito con fermezza la propria posizione. Se la pena evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva, anche la Polizia Penitenziaria dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. È infatti davvero pretestuosa e incomprensibile la posizione espressa da alcuni assistenti sociali e addirittura da un Sindacato confederale della Polizia Penitenziaria contro la previsione di costituire Nuclei territoriali di Polizia Penitenziaria presso gli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna".

Lo dichiara la Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Organizzazione più rappresentativa dei Baschi Azzurri con 12mila iscritti, che invita il Ministro della Giustizia Mastella "ad andare avanti in questo progetto e a farsi portavoce di questa importante riforma strutturale penitenziaria presso la compagine Governativa, in modo tale da prevedere lo stanziamento di adeguati fondi per il Corpo di Polizia Penitenziaria che garantiscano in particolare nuove assunzioni."

"Continuiamo a non comprendere le resistenze a impiegare il Corpo attivamente nell’area delle misure alternative alla detenzione. La Polizia Penitenziaria ha pieno titolo a svolgere questi importanti compiti. È superfluo soltanto specificarlo, ma la Polizia Penitenziaria negli Uepe andrà a svolgere esattamente le stesse funzioni che oggi svolgono Polizia e Carabinieri, che in questo modo possono essere restituiti ai loro compiti istituzionali, in particolare il controllo del territorio, la prevenzione e la repressione dei reati, a tutto vantaggio dell’intera popolazione. E per fare questo, la Polizia Penitenziaria dovrà essere organizzata in propri Nuclei territoriale, con a capo unità del Corpo con compiti di coordinamento e di impiego del Personale. Essere contro questo futuro professionale per il Corpo vuol dire essere miopi o in malafede, soprattutto chi dice che i Poliziotti Penitenziari negli Uepe debbano fare solamente gli autisti, i centralinisti, gli uscieri…".

Lettere: i detenuti scrivono a Riccardo Arena (Radio Carcere)

 

www.radiocarcere.com, 17 maggio 2007

 

Sonia, dal carcere di Torino

Caro Arena, nel 1991 sono stata condannata. Nel 2001 mi è arrivata l’esecuzione della pena. Dopo 10 anni! Dovevo scontare 2 anni e 2 mesi. Dopo un po’ mi sono gravemente ammalata, mi hanno operato all’utero ed hanno anche fatto in tempo ad accusarmi di evasione per poi prosciogliermi. Tornata finalmente in libertà, mi sono trovata un posticino per aprire un ristorante, ma mentre andavo in questura per i permessi mi hanno detto che dovevo scontare una misura di sicurezza detentiva. "Solo un anno" mi dissero…, passa in fretta… sta di fatto che io sono ancora qui, nel carcere di Torino, senza condanna ma sul presupposto (mai verificato) che io sono pericolosa. A giugno 2007 tutto dovrebbe finire… ma sai com’è, chi ha vissuto un’esperienza come la mia..sa che all’ingiustizia non c’è mai fine. Ti abbraccio, Riccardo.. continua così.

 

Nicola, dal carcere di Taranto

Caro Riccardo, qui nel carcere di Taranto anche dopo l’indulto nulla è cambiato. Anzi per alcuni aspetti stiamo anche peggio. Mancano i farmaci, anche i più banali, non c’è attività sportiva o lavorativa per noi detenuti..non c’è niente, come prima dell’indulto stiamo in cella 22 ore al giorno. La nostra unica occupazione è guardare fuori dalla finestra della cella o vedere la tv. Educatori o simili qui nel carcere di Taranto teli puoi scordare.

Come se non bastasse quando andiamo a fare il colloquio con le nostre famiglie, ci troviamo a sbattere contro il vetro divisorio, appoggiato a un muretto… la legge lo vieta ma qui a Taranto c’è. In piccole celle stiamo in 4 detenuti…, ammucchiati come prima dell’indulto. Celle piccole e umide, dove ci piove dentro.. come prima dell’indulto… 20 giorni fa è morto un nostro compagno, qui a Taranto… infarto.. nessuno ne ha parlato. Col 2007 tutto è rimasto come prima e così sarà con gli anni a venire. Per la cronaca sono 6 mesi che ho presentato istanza di indulto ma la Procura Generale di Bari non mi ha ancora risposto… 10 istanze gli ho mandato, eppure silenzio… Ma questa politica le riforme quando le farà? Da destra a sinistra sono tutti uguali, parlano solo per avere potere… Ciao Riccardo, con affetto.

 

Michele e i suoi compagni, dal carcere Opera

Caro Riccardo, qualche mese stavamo in celle e guardavamo la Tv e durante una puntata di Porta a Porta si parlava del delitto di Erba. A un certo punto si diceva che in Italia dopo pochi anni uno torna libero, anche se condannato a tanti anni di galera. Mastella, Castelli, il giudice Vigna tutti lì a sentenziare. Beh, noi ti rispondiamo con la nostra realtà, nello stile di Radio Carcere. Io, Michele sto in carcere da più di 9 anni. Sebastiano, Gaetano e Giovanni sono in carcere dal 1981 Vincenzo, Antonio e Orazio dal 1982 e così via… c’è l’imbarazzo della scelta. Le nostre vite, i nostri errori e la nostra galera è qui ad Opera ad affermare la verità. Caro Riccardo tutti noi ti salutiamo con stima.

 

Mimmo, dal carcere di Nuoro

Ciao Riccardo, ho 47 anni e sono di Taranto. Mi trovo in carcere da 15 anni. Prima ero nel carcere di Taranto, poi Sulmona e ora Nuoro, che è a dir poco disastrato. Qui nel carcere di Nuoro io sto nella sezione di AS, dove le celle sono per così dire, di antica concezione, antiche prigioni. Si tratta di piccole stanzette fatiscenti di circa 16 mq. In quelle piccole cellette ci stanno 3, 4 e anche 5 detenuti. I letti a castello sono ovviamente ammassati e poco è lo spazio che ci rimane per muoverci, per vivere. Il bagno è un angolo, davanti alle brande e senza porta. Dentro un buco per terra.. ovvero un cesso alla turca, e un piccola lavandino.

Dalla finestra della nostra cella entra di tutto perché è vecchia. Vento, pioggia e topi. Sì i topi che qui nel carcere di Nuoro sembrano i veri padroni dell’istituto. Lavoro o attività ricreative zero. L’unico svago è l’ora d’aria che dobbiamo fare in una specie di gabbia all’aperto. Per quanto riguarda il diritto alla salute in carcere, qui a Nuoro si può dire fatiscente come la cella. Io per esempio sono mesi che chiedo una visita da un dentista e ancora non si è visto nessuno. Io aspetto, non ho scelta, ma nel frattempo non quasi più denti! Per quanto riguarda la c.d. rieducazione, ti dico solo che qui mancano educatori, volontari e assistenti sociali. Io sono arrivato qui il primo agosto e fino ad oggi nessuno mi ha chiamato nessuno! Ecco caro Riccardo, questi sono alcuni aspetti del carcere di Nuoro, un carcere abbandonato e lasciato al buon cuore dell’operatore penitenziario di turno.

Infine voglio anche io lasciare la mia testimonianza per rispondere a chi dice che in Italia la certezza della pena non c’è. Io, Mimmo sono in carcere dall’aprile del 1993 e non sono mai uscito. Mai. Un caro saluto a te Riccardo.

Lettere: Paolo da Tolmezzo; sono in "41-bis" da ormai 15 anni

 

www.informacarcere.it, 17 maggio 2007

 

Oltre all’ergastolo, sono tante altre le storture figlie di tutte quelle leggi emergenziali che, sorte ormai 15 anni fa, sono finite per diventare leggi ordinarie nell’indifferenza generale perché vanno a colpire una categoria di detenuti considerata ormai solo dal punto di vista repressivo, dove in nome della abusata parola "Sicurezza" non trovano posto le garanzie assicurate alla stragrande maggioranza dei detenuti. Mi riferisco al famigerato 41-bis. Vi sono sottoposto dal 1992 e non c’è verso di poterne uscire.

Nel 2003, il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, ne disponeva la revoca ma, dopo soli 10 giorni, con un atto degno delle peggiori dittature, il ministro me lo riapplicava con le stesse motivazioni già censurate dal Tribunale. Il Tribunale aveva stabilito, con delle indagini disposte autonomamente, che non vi erano riscontri oggettivi sui pretesi collegamenti con la criminalità organizzata sostenuti dal ministero. Faccio ancora ricorso ed ancora una volta il Tribunale de L’Aquila mi dà ragione. Vengo allora trasferito a Voghera in sezione EIV dove, dopo 14 mesi, il ministero torna ancora "alla carica" riapplicandomi il 41 bis, nell’agosto 2005. Da allora mi trovo qui, dove per competenza giurisdizionale i ricorsi vengono discussi dal Tribunale di Sorveglianza di Trieste.

Qui i miei ricorsi vengono sistematicamente respinti con tesi che sposano pedissequamente le argomentazioni del ministero. Nelle motivazioni di rigetto si sostiene, in sostanza, che "solo con un atto di abiura ed una piena collaborazione con lo Stato sarebbe dimostrata", da parte mia, "la cessazione dei collegamenti". Questo a dispetto delle varie sentenze della Corte Costituzionale la quale sostiene che l’onere di dimostrare i collegamenti con la criminalità organizzata deve cadere sempre sull’amministrazione e non spetta al detenuto la dimostrazione dell’avvenuta cessazione degli stessi.

Voi saprete cosa vuol dire essere detenuto da 17 anni, 15 dei quali trascorsi al 41-bis, fatta eccezione del periodo trascorso a Voghera. Alla faccia di chi dice (ipocritamente), che con l’ergastolo in Italia si esce dopo pochi anni. L’ergastolo ed il 41-bis sono degli strumenti diabolici usati solo con l’intento di distruggere psicologicamente il condannato.

Quando mai mi sono stati applicati tutti quegli interventi di "trattamento penitenziario", belli e nobili da leggere sulla carta, ma che di fatto vengono omessi quotidianamente?

Credo che in nessuno Stato europeo, oltre l’Italia, si tolleri e si concepisca una situazione del genere. Che colpa mai hanno commesso le mie persone care con le quali è vietato abbracciarsi al colloquio, perché divisi da un vetro da quasi 15 anni? Non è forse barbarie, questa, da equiparare a quella che lo Stato condanna con le sue pene?

 

Paolo Amico, Carcere di Tolmezzo (UD)

Marche: Rifondazione e Associazione Antigone visitano carceri

 

Comunicato stampa, 17 maggio 2007

 

Rifondazione Comunista e Antigone, associazione impegnata ogni anno a redigere un rapporto sulle 205 carceri italiane hanno sollecitato, con la campagna nazionale "Il carcere dopo l’indulto", l’attenzione del paese sulle condizioni di vita all’indomani del provvedimento di clemenza applicato dal governo Prodi nell’estate 2006.

Anche nelle Marche, a partire dall’11 maggio, delegazioni di parlamentari, consiglieri regionali e osservatori di Antigone, visiteranno le 7 case circondariali e di reclusione, per monitorare di quanto siano cambiate le condizioni di vita di tutti i presenti (detenuti e personale) dopo il rilascio di 26.000 persone avvenuto l’estate scorsa.

È convinzione di Rifondazione e Antigone che il provvedimento sia stato necessario a impedire il collasso del sistema penitenziario, gravato dalla presenza di 60.000 detenuti in luogo dei 44.000 reputati idonei per le strutture, ma che ora si debba far luogo ai provvedimenti trattamentali, sanitari e di inclusione nel territorio che dovrebbero essere operativi da anni. Il primo aspetto che sarà esaminato dalle delegazioni è la legge 230 del 1999 che regolamenta il passaggio della sanità dall’amministrazione penitenziaria al SSN, che finora è stata applicata in poche regioni.

In sintonia con quanto accade negli ambiti sociali che insistono sui penitenziari, occorre, sempre per gli organizzatori della campagna, rendere possibili le attività che collegano il carcere al mondo circostante, per combattere l’isolamento che conduce all’ignoranza e riduce tutti i problemi connessi al reato all’interno di logiche securitarie. Altra problematicità deriva dalla presenza di cittadini stranieri, oltre il 35%, spesso legato alla microcriminalità ed alla legge Bossi-Fini. Al termine delle visite le prime osservazioni saranno presentate in una assemblea pubblica a Fano il 21 maggio, che sarà organizzata con un nutrito gruppo di operatori del settore.

 

Gruppo regionale PRC-SE Marche

Civitavecchia: Mastella va in visita al carcere e al tribunale

 

www.civonline.it, 17 maggio 2007

 

Il Ministro della Giustizia Clemente Mastella si è impegnato per la risoluzione dei problemi dei Tribunale. Numerose le questioni poste al titolare del dicastero: "Civitavecchia riveste un ruolo strategico, le carenze vanno colmate al più presto". Visita anche al carcere di Aurelia.

Visita ufficiale questa mattina del Ministro della Giustizia Clemente Mastella che, per la prima volta, si è recato al supercarcere di Borgata Aurelia e al Palazzo di Giustizia di via Terme di Traiano. Ad attenderlo nel piazzale del penitenziario cittadino le autorità civili, militari e religiose, tra cui il direttore del nuovo complesso penitenziario Giuseppe Tressanti insieme alla direttrice della casa circondariale di via Tarquinia Silvana Sergi, il commissario straordinario del Pincio Giovanna Iurato ed il vescovo mons. Carlo Chenis.

Il Ministro ha visitato il braccio femminile del carcere prima di intrattenersi all’interno del teatro per una breve conferenza nel corso della quale, avendo recepito le problematiche della struttura, ha ringraziato gli agenti di Polizia Penitenziaria e quanti vi lavorano con dedizione, nonostante il trend di crescita costante della popolazione detenuta.

"Bisogna garantire le condizioni di vivibilità - ha spiegato l’on. Mastella - sia per i detenuti che per il personale che opera nella struttura". La seconda tappa è stata poi in Tribunale dove il neo presidente Mario Almerighi, il Procuratore Capo Consolato Labate ed il presidente dell’Ordine degli Avvocati Vincenzo Cacciaglia, a nome di tutti gli operatori della giustizia locale, hanno evidenziato quelle che sono le carenze del Palazzo di Giustizia, soprattutto in termini di carenza di personale.

"Basti considerare - ha spiegato il dott. Almerighi - che il rapporto tra personale di cancelleria e giudici è attestato, a livello nazionale, al 3,6%, mentre qui si sfiora il 2,7%". Avendo dunque censito in parte i bisogni delle strutture giudiziarie locali, l’appuntamento è per il prossimo mese di giugno. "In quella data - ha spiegato il Ministro - ci ritroveremo per vedere insieme come potremo risolvere i problemi descritti. D’altronde Civitavecchia, per la mole di lavoro che gli arriva anche e soprattutto dal porto locale e dall’aeroporto di Fiumicino riveste un ruolo strategico ed importante".

Vibo Valentia: nel carcere apre un laboratorio informatico

 

Quotidiano di Calabria, 17 maggio 2007

 

Giovedì mattina, l’assessore provinciale di Vibo Valentia alla Formazione professionale e al Mercato del Lavoro, Lidio Vallone, ha inaugurato nel nuovo complesso penitenziario di Vibo Valentia il laboratorio d’informatica realizzato dalla Provincia. Provvisto di una decina postazioni informatiche complete, consentirà ai detenuti, ammessi alla frequenza di un apposito corso, di conseguire la Patente europea del computer.

L’assessore Vallone è stato ricevuto, insieme ai suoi collaboratori, dal direttore della struttura, Rachele Catalano, presenti il comandante della polizia penitenziaria vibonese Antonio Lopardo e il suo vice Nazzareno Iannello. Con il direttore Catalano, l’assessore Vallone ha delineato altre possibili iniziative che la Provincia sta studiando a favore dei reclusi.

"Abbiamo accolto molto favorevolmente questa iniziativa, proposta dalla Provincia tramite l’assessore Vallone - ha affermato Catalano - perché ci consente di ampliare il numero dei corsi di formazione attivi nella nostra struttura, migliorando ulteriormente il livello culturale dei detenuti del settore media sicurezza che si trovano qui ristretti. È questo un ulteriore tassello che va ad aggiungersi ad altre iniziative dello stesso tenore, convinti come siamo che la cultura e la formazione possano incidere positivamente sulla rieducazione dei detenuti e sul loro reinserimento nella società.

Da noi tutti, quindi, un sentito apprezzamento all’Amministrazione provinciale, nelle persone del presidente Bruni e dell’assessore Vallone, per la loro costante attenzione e sensibilità. Devo sottolineare, infatti, che finora da parte dell’Ente abbiamo sempre riscontrato la massima disponibilità, cosa che ci fa ben sperare anche per il futuro". L’assessore Vallone, dal canto suo, ringraziando la dottoressa Catalano per l’intelligente azione di proposta e stimolo evidenziata fin dall’inizio del suo incarico, e sottolineando l’importanza del laboratorio d’informatica inaugurato giovedì, ha annunciato anche che la Provincia ha già adottato una delibera, perfezionata nell’ambito del bilancio 2006, per quattro borse lavoro da assegnare a detenuti del nuovo complesso penitenziario di Vibo.

"Con il direttore Catalano - ha aggiunto - abbiamo perfezionato nei giorni scorsi un accordo che prevede l’attivazione nella struttura di altri corsi formativi nei settori informatico, metalmeccanico e della ceramica, per una spesa complessiva di oltre un milione di euro. Tutto ciò discende dalla grande attenzione che la Provincia, col presidente Bruni in testa, riserva da sempre alle fasce di disagio sociale, tra le quali rientra indubbiamente quella dei detenuti intenzionati a riscattarsi e verso i quali la società non deve restare sorda o disattenta.

Abbiamo tutti il dovere di favorire la risocializzazione di queste persone, agevolando anche un loro possibile inserimento nel mondo del lavoro, una volta scontata la pena. Va in questa direzione, appunto, anche il laboratorio informatico allestito dalla Provincia". La spesa affrontata dall’Amministrazione per la realizzazione del laboratorio è stata di circa 20mila euro. I corsi d’informatica, che saranno tenuti da due professionisti formatori esterni, partiranno nei prossimi giorni, non appena concluse le ultime procedure burocratiche.

Viterbo: in scena "15 passi", storie di vita quotidiana in cella

 

Comunicato stampa, 17 maggio 2007

 

"15 passi", storie brevi di vita quotidiana in cella, firmate dall’Associazione Culturale "Teatro del Sole". Lo spettacolo realizzato con il patrocinio del Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni.

Si intitola "15 passi" lo spettacolo di musica, danza e teatro che l’Associazione Culturale "Teatro del Sole" di Umberto Canino metterà in scena il 18 maggio alle ore 14.00, all’interno del carcere Mammagialla di Viterbo.

Lo spettacolo - che nasce dalla collaborazione fra il cantautore Umberto Canino e Luigi Giannelli, ispettore capo del carcere di Rebibbia, regista della piece e autore di testi letterali e teatrali - è stato allestito con il patrocinio del Garante regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni e vedrà la partecipazione, oltre agli stessi Canino e Giannelli di Alessandra Ponti, Antonio Brancati, Ivan Lindiner, Romina Vinciguerra, Salvatore Di Stefano e Nunzio Perricone. "15 passi" - che prende spunto da una lettera scritta da Giannelli durante il periodo di detenzione di Pino Pelosi, condannato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini - è già stato rappresentato, nei mesi scorsi, nel carcere di Velletri e si propone con un’alternanza di canti, danze, recitazioni, documenti video e immagini reali di vita quotidiana da un carcere di trasportare il pubblico a riflettere sul mondo dei penitenziari e su chi vi vive.

Fondatore del "Teatro del Sole", Canino è artista che da anni coniuga musica e teatro, affrontando temi di grande spessore sociale. Dopo aver lavorato in Rai e con Renato Zero, nel 2006 ha fondato il "Teatro del Sole". In questo periodo lo spettacolo "15 passi" sta girando nei carceri italiani. "Ho patrocinato questo spettacolo perché mi sembra nobile e interessante il tentativo di esprimere con il canto, la danza e la recitazione ciò che un detenuto vorrebbe dire al mondo - ha detto il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni - È importante che la società civile conosca la realtà del carcere, quella del poliziotto che vi opera e del detenuto che vi risiede, e comprenda che il questo non è un mondo a parte, ma una realtà parte di questo mondo". "Lo spettacolo è un tentativo per dire basta all’emarginazione dei detenuti - ha aggiunto Umberto Canino - ma soprattutto vuol far capire che se si continua a vedere il carcere come discarica sociale si rischia di farlo diventare un monumento al fallimento e alla vergogna umana".

Senza dimora: Venezia; sono 240 le persone accolte nel 2006

 

Redattore Sociale, 17 maggio 2007

 

240 persone hanno trovato ricovero nelle strutture di accoglienza notturna. Il tavolo di coordinamento per i senza dimora tira le somme di un anno di attività. Positiva l’esperienza degli avvocati di strada.

Il servizio di assistenza e accoglienza dei senza dimora a Venezia tira le somme di un anno di attività. Comune di Venezia, cooperativa Caracol e Gea, Caritas, Ulss 12, Provincia e Regione insieme a diversi altri soggetti riuniti nel "Tavolo di coordinamento" hanno dato vita nel 2006 a diversi servizi: il lavoro di strada per distribuire generi di conforto e coperte, l’accoglienza notturna e diurna, percorsi educativi, avvocato di strada e assistenza sanitaria.

Nel corso del 2006 sono state 430 le persone contattate in strada dagli operatori (296 in terraferma e 134 a Venezia nel centro storico), per un totale di 4.005 contatti. 240 persone hanno trovato ricovero nelle strutture di accoglienza notturna della Caracol e della Casa dell’ospitalità che in inverno mettono a disposizione all’incirca 50 posti letto.

Nei mesi invernali a cavallo tra il 2006 e il 2007 le persone prese in carico sono state invece 264. Considerando che ogni persona poteva tornare più volte a godere dell’ospitalità delle strutture, il totale delle accoglienze ha superato quota 5mila. Il servizio di accompagnamento e orientamento alle strutture comunali, inoltre, è stato richiesto da 112 persone, mentre in 165 si sono rivolte allo sportello di ascolto della Caritas. 456 le prestazioni sanitarie erogate dai volontari della Croce Verde, mentre 37 sono state le richieste di accedere al servizio degli avvocati di strada. Il lavoro di strada degli operatori ha permesso di distribuire 386 coperte e oltre 4mila generi di ristoro (bibite, merendine).

"Per quanto riguarda la tipologia dell’utenza si è assistito in questi ultimi anni a un complessivo aumento delle persone che vivono in strada - spiega Dario Mannite, del Progetto Senza Dimora per il Comune di Venezia -. In particolare c’è una preponderanza di persone tra i 20 e i 65 anni (49% tra i 21 e i 40 e un 47% tra i 41 e i 65 anni)". E aggiunge: "La maggior parte delle persone è europea (35% italiani e 53% dall’Est Europa). Il 78% sono maschi ma è in crescita la presenza di donne, in aumento del 3%.

Grande la soddisfazione dell’assessore comunale alle Politiche sociali, Delia Murer, che ha sottolineato: "Quest’anno la grande novità è stata che gli stessi ospiti di queste strutture si sono rese conto della necessità di fare spazio ad altre persone in difficoltà, sono state loro a volerle accogliere qui". L’assessore manifesta però una forte preoccupazione per il dato di donne senza dimora in crescita: "È un problema che va affrontato e al quale va data massima attenzione".

La presentazione si è svolta all’interno della Casa dell’ospitalità di Mestre, che proprio in questo momento sta perseguendo il sogno di diventare una "Fondazione di partecipazione". "Questo per noi sarebbe un traguardo importantissimo - spiega il presidente della Casa dell’Ospitalità, Giovanni Benzoni - perché è lo strumento giuridico che permette di non disperdere quanto finora costruito e avviare un processo di più largo sostegno a questo progetto". "Oltre alla necessità di rispondere all’emergenza bisognerebbe lavorare per ridurre i dati relativi ai senza dimora" conclude il direttore della Casa dell’Ospitalità, Nerio Comisso.

Droghe: 15enne muore a scuola, aveva fumato uno spinello

 

La Repubblica, 17 maggio 2007

 

Poco prima aveva fumato uno spinello nel corridoio della scuola il 15enne morto questa mattina, nell’istituto tecnico sperimentale Gadda di Paderno Mugnano. Il pm Tiziana Siciliano ha disposto l’autopsia e gli esami tossicologici per capire se il decesso del ragazzo, che giocava a calcio e non aveva mai avuto problemi di salute, sia avvenuto per causa naturale oppure in seguito all’utilizzo di sostanze stupefacenti.

La preoccupazione del magistrato è che all’interno dello spinello, oltre a marijuana o hashish, vi fossero sostanze ancor più pericolose. Il giovane ha perso coscienza subito dopo essere entrato in classe, al termine dell’intervallo, il professore di Diritto stava scrivendo alcune cose sulla lavagna quando il ragazzo è crollato a terra.

Nonostante un lungo massaggio cardiaco praticato dal medico del 118, lo studente è morto poco dopo in ospedale. Due compagni di scuola lo hanno visto fumare lo spinello insieme ad altri giovani. Accompagnati nell’ufficio del procuratore dai genitori, i due ragazzi hanno ammesso che nella scuola si spacciavano sostanze stupefacenti tanto che in un numero del giornalino scolastico si era parlato proprio del problema della cessione e dell’utilizzo di droghe nel corridoio dell’istituto.

Sul diario del ragazzo morto sono stati trovati trascritti alcuni versi di una canzone di un rapper italiano che invita allo spinello libero: "Ho il vizio di rompere e ricomporre sigarette, ma a metà trattamento aggiungo nuovo componente, metto l’ingrediente, me ne fotto della gente, di chi dice che è sostanza stupefacente".

"Era sano come un pesce", dicono i famigliari. Il ragazzo aveva due fratelli. Da anni giocava come difensore nel Real Dugnano. Lunedì aveva disputato la sua ultima partita in trasferta. "Era in perfetta forma - dicono i dirigenti della squadra di calcio - un ragazzo modello, tranquillissimo, molto affiatato con i suoi compagni". L’inchiesta resta per ora, "a modello 45" come si usa dire in gergo giudiziario, cioè senza notizia di reato e senza indagati. Solo l’autopsia e gli esami tossicologici chiariranno le ragioni del decesso.

Droghe: Turco; la mia parola d’ordine è "consumo zero"

 

Notiziario Aduc, 17 maggio 2007

 

"La proposta di fornire i genitori dei ragazzi milanesi di un kit anti-droga è molto interessante. Su questo argomento la mia parola d’ordine è: consumo zero". Ad affermarlo è il ministro della Salute Livia Turco, a margine della conferenza stampa "Basta sigaretta" organizzata dalla Lilt (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori), commentando l’idea del sindaco di Milano, Letizia Moratti, di dotare i genitori milanesi di un kit anti-droga per accertare l’eventuale uso di sostanze stupefacenti da parte dei figli.

E sul caso del ragazzo quindicenne morto in classe a Milano la Turco è chiara: "questi fatti non avvengono in un Paese dove c’è una legge liberalizzatrice, ma in uno dove c’è una legislazione repressiva nei confronti di chi consuma uno spinello". Il ministro ritiene quindi che non serva alcuna repressione. "Ci vuole educazione e formazione - aggiunge la Turco - non le leggi penali come la Fini-Giovanardi. Riflettano in tal senso coloro che sostengono questa legge. Lo stesso faccia l’opinione pubblica". Il fatto di Milano, termina il ministro, "dimostra come la repressione non serva, e che si debba puntare sull’educazione dei giovani".

 

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